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Skannatoio, edizione IV, Militare degradato usa impropriamente arma propria
I mini-campionato, 1 di 6

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Fini Tocchi Alati
view post Posted on 5/7/2011, 19:06 by: Fini Tocchi Alati




GRIZZLY


di Attilio Facchini (Fini Tocchi Alati)
19.999k, secondo il buon counter











Capitolo uno



Wyoming, Stati Uniti d'America
25 luglio 1935


Un colpo di fucile esplose nella foresta, il riverbero si trasformò in starnazzi e fruscii.
«Lo hai mancato, cazzo», disse Dave allargando sconsolato le braccia. Era un uomo sulla quarantina, di altezza media, piuttosto in carne, quasi grasso. Portava indumenti da caccia nuovi di zecca e un berretto verde che nascondeva l'incipiente calvizie.
Il grosso alce emise uno straziante bramito e fuggì tra gli alberi.
«Non dire stronzate», fece Cristopher ridendo. «Non senti come strilla il piccolino?» Cristopher era più alto e robusto di Dave che superava di almeno tutta le testa, non molto più giovane, ma si manteneva meglio.
«Non perdiamo tempo», disse Marvin. «Seguiamolo». Si passò la mano tra i folti capelli biondo cenere. Marvin MacCoy portava vestiti dello stesso tipo di quelli indossati da Dave, solo che i suoi erano vecchi, lisi e strappati. Si rivolse a Matthew, il figlio di appena quindici anni: «Stammi sempre vicino, capito Mat?»
Il bambino aveva gli stessi occhi azzurri del padre, sarebbe cresciuto bello e forte come lui. Annuì e Marvin gli scompigliò affettuosamente i capelli. Non era la prima volta che Matthew assisteva a una battuta di caccia del papà. I fucili, gli appostamenti, la natura selvaggia: tutto era terribilmente eccitante per lui.
«Da questa parte», gridò Dave. Raccolse da terra un pugno di aghi di pino, che formavano un tappeto giallo ai piedi dell'albero; vide le dita sporche di sangue, sbuffò: «Quel fottuto bastardo! L'ha preso davvero».
«E che ti aspettavi?», disse Cristopher sopraggiungendo. «Il mio bambino è infallibile». Accarezzò ridendo il fucile che portava sulla spalla destra.
«Su», disse Marvin, «non deve essere andato molto lontano. Circondiamolo».
«D'accordo», fece Dave. «Io e Cristopher lo prendiamo ai fianchi, tu stagli dietro».
«L'animaletto è mio», disse Cristopher sorridendo tra i denti. «Non azzardatevi a farlo secco al posto mio».
«Per me va bene», disse Dave. «Marvin?»
«Ok», fece quest'ultimo.
Non appena Cristopher e Dave si allontanarono, la foresta sembrò zittirsi. Gli alti larici, che poco più a nord prendevano il posto dei pini e degli abeti, oscillavano lievemente sotto le folate dei freddi venti provenienti dalle Montagne Rocciose. Marvin si alzò il collo della giacca impermeabile, si tolse i guanti e scaldò le mani con l'alito caldo. Guardò il cielo limpido: ancora qualche settimana e la neve sarebbe tornata a coprire quelle regioni.
«Sai, Mat? È stata una vera fortuna trovare un alce in questo periodo dell'anno». Si voltò, ma il bambino non c'era.
«Mat?» Marvin si guardò attorno credendo che il figlio si fosse nascosto dietro un albero per giocare: «Mat dove sei?»
D'un tratto sentì la sua voce.
«Matthew?», chiamò ancora mentre cercava di capire dove fosse.
Man mano che si avvicinava, Marvin sentiva il bambino ridere e si tranquillizzò un poco: doveva aver visto un castoro o uno scoiattolo. Lo intravide in una piccola radura dietro un abete e sorrise sollevato. I raggi del sole filtravano attraverso l'intrico di rami e macchiavano di luce il sottobosco.
«Mat, andiamo, vieni fuori. Se ci facciamo scappare l'alce, chi lo vuole sentire Cristopher?»
Il sorriso si trasformò però in una smorfia di attonito terrore quando vide che Matthew stava giocando con un piccolo orso. L'animale doveva avere non più di qualche mese, era ricoperto da un folto pelo grigio e una grossa macchia rossiccia a forma di cuore si estendeva sul muso per quasi tutta la sua lunghezza. Di scatto Marvin cominciò a guardarsi attorno, gli occhi ansiosi: non aveva certo paura di un cucciolo. Ma sapeva benissimo che, dove c'era un piccolo d'orso, lì nei dintorni doveva esserci anche la madre. Rapidamente si avvicinò a Matthew.
«Matthew», sussurrò. «Matthew, vieni via».
«Papà!», esclamò il ragazzo quando lo vide. «Hai visto? Vuole giocare».
«Vieni via ti ho detto, è perico...»
Non fece in tempo a finire la frase che da dietro un grosso pino spuntò la mamma del cucciolo: era un orso giovane, di quattro o cinque anni, sul muso aveva la stessa macchia rossiccia a forma di cuore. Era un esemplare gigantesco.
«Un grizzly!», esclamò Marvin. «Com'è possibile? Non si sono mai spinti fin qui».
L'animale iniziò ad avvicinarsi a passo lento, il suo sbuffare si faceva sempre più forte e minaccioso.
«Oh mio Dio, Matthew!» gridò Marvin scattando in direzione del figlio.
Il grizzly avvertì l'urlo dell'uomo come una minaccia per il suo cucciolo ed emise un bramito pauroso. Un attimo dopo caracollava verso Matthew. Marvin mirò con il fucile e sparò. Colpì l'orso all'occhio destro che ora perdeva sangue e materia bianca. Il grizzly, accecato e furioso per il dolore, iniziò a mulinare le zampe e finì per colpire Matthew scaraventandolo a terra. Per tutta la foresta risuonò il suo ruglio, simile al ruggito di un leone, quindi si alzò sulle possenti zampe posteriori.
«No-non può essere...», disse Marvin. L'animale raggiungeva quasi i tre metri di altezza ed era in grado di oscurare la luce del sole.
«Matthew», urlò ancora, «via di lì!» Il bambino però non si muoveva, la giacca squarciata, sulla schiena macchie di sangue.
Finalmente Marvin lo raggiunse, lo prese in braccio. In quel momento l'ombra dell'orso lo ricoprì tutto. Con uno strattone gettò il corpo del figlio il più lontano possibile, ma non fece in tempo a caricare di nuovo il fucile e fu travolto dall'animale, le gambe e il bacino schiacciati, dalla bocca un fiotto di sangue.
«Pa-papà?»
Matthew riprese i sensi e vide l'orso con un occhio solo e la macchia a forma di cuore scaraventarsi addosso al padre, azzannargli il collo. Sentì le ossa scricchiolare sotto la morsa tremenda della mandibola. Non riusciva a urlare, non riusciva a scappare: era paralizzato.
Il corpo dell'uomo fu sballottato di qua e di là come un pupazzo e ricadde poco lontano, inerme. Quando ebbe finito col padre, l'orso volse l'unico occhio rimastogli ancora carico di rabbia verso Matthew. In quella, altri proiettili sibilarono nell'aria e lo raggiunsero: Dave e Cristopher erano tornati indietro, sparavano un colpo dopo l'altro. Nonostante fosse stato colpito più volte, l'orso riuscì a fuggire, seguito dal suo cucciolo.
«Marvin! Marvin!»
Le voci dei due cacciatori giunsero alle orecchie di Matthew ovattate, come se provenissero da molto lontano. Il bambino sentì gridare anche il suo nome, poi il buio.

Capitolo due



Cassino, Italia
19 maggio 1944


«Mat! Matthew!»
Matthew aprì gli occhi e si guardò attorno.
«Tutto bene, Tenente?», gli chiese Dominic. «Meglio rimanere svegli se si vuole portare a casa la pelle», rise.
Nonostante fosse ancora buio, già infuriava la battaglia: da una parte la Linea Gustav dell'esercito tedesco, dall'altra il Secondo Battaglione della Forza Speciale Usa – Canada, sotto il comando del Capitano Abraham Smith.
«Come procede?», domandò Matthew.
«Gli Inglesi hanno iniziato il bombardamento su Montecassino», disse Dominic riportando una notizia appena appresa dalla radio.
«Bene», disse Matthew. «Di' agli uomini che si tengano pronti: entriamo in città».
«Signorsì, Tenente».

Era il 18 maggio del 1944 e dopo settimane di assedio anche la città di Cassino venne finalmente liberata. Quella stessa sera, il Secondo Battaglione al completo si riunì per festeggiare in una locanda di Alvito, un paese che si trovava sulla strada per Sora. La trattoria era rimasta miracolosamente in piedi e ora si sentivano risate e musica.
«Alla salute», disse Dominic. I bicchieri tintinnarono e Matthew ingollò in un sorso una pinta di birra. Si pulì la bocca con la manica della giacca.
«Che farai dopo la guerra?», chiese a Dominic.
«Tornerò a casa», rispose questi. «Mio padre ha un piccolo ranch. Niente di che, ma sufficiente per garantirmi una pensione discreta. E tu, Tenente?»
«Non so», rispose Matthew. Rimase sovrappensiero, gli occhi azzurri che fissavano il liquido giallo. Nella mente le grida della battaglia appena conclusa erano quelle di suo padre, le esplosioni il ruglio, cupo e terribile, del grizzly. Erano passati quasi dieci anni e, nonostante la guerra, non c'era giorno che non gli ritornassero in mente quelle immagini, quei suoni.
«Mat, mi ascolti?»
Matthew sembrò destarsi dallo stato di trance in cui era caduto: «Sì, certo».
«Beh, devi assolutamente venire a trovarmi. Magari puoi darmi una mano con il ranch».
«Perché no?», disse Matthew. I bicchieri tintinnarono di nuovo. «Davvero buona questa polenta».
«Sai, ci sono molte cose da fare in un ranch», continuò Dominic mentre addentava un cucchiaio di polenta. «Le mandrie», anzitutto. «Ci serve qualcuno che le tenga a bada...»
Dominic continuava a parlare del suo ranch e dei progetti per il futuro, Matthew non lo ascoltava più. Ora però il padre non c'entrava niente: tutta la sua attenzione era stata catturata da una ragazza che stava servendo da bere a un tavolo. Aveva i capelli castani ondulati sulle spalle, raccolti da un foulard beige, e un'ampia gonna marrone che lasciava intravedere solo le caviglie sottili. Per un attimo, la ragazza si voltò verso di lui e gli sorrise. Matthew ricambiò il sorriso.
«Ma mi stai ascoltando o no?», fece Dominic.
«Eh? Ah, sì», disse Matthew. «Scusami, torno subito».
Si alzò e andò incontro alla ragazza che nel frattempo stava tornando in cucina.
«Ciao», le disse Matthew in un buon italiano.
«Ciao, soldato», disse la ragazza, spigliata.
«Io mi chiamo Matthew, tu?»
Lei lo guardò e sorrise, un pallido rossore le colorò il viso.
«Laura, piacere».
«Piacere mio, Laura», disse Matthew. «Davvero un bel nome».
«Scommetto che lo dici a tutte le ragazze che corteggi».
«Mai corteggiato una ragazza in vita mia», disse Matthew alzando le mani. «Solo soldati», aggiunse sbuffando.
Laura rise e alla sua risata si aggiunse quella dell'uomo. La ragazza aveva due grandi occhi scuri e un sorriso molto dolce.
«Però c'è sempre una prima volta, no?», disse Matthew.
«Vero», rispose Laura.
«Posso offrirti qualcosa?»
«Mi spiace, come dite voi? Ah: sono in servizio!», e si mise sull'attenti.
«A che ora stacchi?»
«Quando ve ne andate».
«Bene», disse Matthew. «Aspetterò».
Dominic intanto gli si era fatto vicino.
«Tenente», disse con voce impastata che tradiva uno stato di ebbrezza piuttosto avanzato. «Ma dove ti sei cacciato? Ti devo parlare del ranch».
«Arrivo», disse Matthew. Poi, a Laura: «Lui è uno dei miei fidanzati: è ubriaco d'amore per me».
Laura rise ancora.
«Ci vediamo dopo», disse Matthew e la ragazza si mise di nuovo sull'attenti.

Era quasi mezzanotte, la compagnia doveva rientrare alla base dove era attesa dal Capitano Smith, famoso per la sua severità e per la scarsa tolleranza nei confronti dei ritardatari.
«Portate Dominic a dormire», disse Matthew a un paio di soldati.
«Tu sei un bravo mandriano», disse Dominic, ormai completamente ubriaco. Poi si rivolse ai suoi due compagni: «Anche voi lo siete, tutti possiamo essere eccellenti mandriani».
«Lei non viene, Tenente?», domandò uno dei soldati.
«Ho ancora da fare qui», rispose Matthew lanciando un'occhiata a Laura che stava sparecchiando.

Quando Matthew rientrò in base, era quasi l'alba. Nella camera che si doveva attraversare per accedere al dormitorio, lo attendeva il Capitano. Questi gli dava la schiena, era seduto con il viso rivolto alla finestra e sembrava interessato al sorgere del sole. Smith era un uomo rozzo e insulso, quasi calvo e con un paio di baffetti ispidi e biondastri che davano sempre l'impressione di irridere il suo interlocutore.
«Tenente MacCoy», disse Smith. «Spero abbia una buona ragione per giustificare il suo ritardo».
Matthew stava fermo sull'attenti, senza rispondere.
«È diventato sordo o cosa?»
«Nossignore».
«Allora?»
Matthew si immaginava ancora tra le braccia di Laura e sentiva il suo profumo di rosa. E non aveva alcuna intenzione di profanare quella dolce sensazione parlandone con il Capitano.
«Va bene», disse Smith. «Come vuole. Domattina l'aspetto in ufficio».
Detto questo, se ne andò. A Matthew venne l'acquolina in bocca ripensando alla gustosa polenta che aveva mangiato quella sera in trattoria.

Capitolo tre



Alvito, Italia
27 aprile 1947


«È pronta la polenta, Mat?»
Laura si affacciò in cucina. Sul fuoco cuoceva un catino di polenta fumante. Matthew di tanto in tanto girava l'impasto con un lungo cucchiaio di legno. Ne prese un po' e l'assaggiò.
«Pronta», disse.
Gli affari alla “Locanda del Sottotenente” andavano piuttosto bene. Finita la guerra, dopo la discussione con Smith, gli avevano tolto i gradi, e Matthew aveva deciso di non fare ritorno a casa. Aveva sposato Laura e aveva avuto un figlio, Matteo. Si era specializzato nel cucinare la polenta, divenuta il piatto forte del locale.
«Ma che bravo», disse Laura abbracciandolo.
«Guarda che in queste condizioni io non riesco a lavorare mica».
«Perché?», fece Laura.
«Perché mi sento provocato», disse Matthew.
«Ah, sì?» Laura si sbottonò il primo bottone della camicetta.
«Sì, e se mi sento provocato...», disse Matthew che cominciò a baciarla alzandole la veste.
«Allora questa polenta?»
Irruppe in cucina la voce roca del padre di Laura, il proprietario della trattoria. Matthew si scostò dalla moglie che ridendo riabbottonò la camicia.
«Arriva, arriva», disse l'uomo.

Laura entrò in camera da letto che era già notte fonda.
«Dorme?», chiese Matthew.
«Sì», disse Laura. «Finalmente si è addormentato».
Si infilò sotto le coperte e si accucciò accanto al marito. Matthew aveva le mani incrociate sotto la testa e fissava pensieroso il soffitto.
«Che c'è?», gli chiese Laura.
«Cosa?»
«Hai sempre quell'aria seria. Sembri quasi triste».
«Ma che dici?», disse Matthew dandole un bacio tra i capelli.
«Pensi alla tua terra?»
«Ogni tanto, mi capita, sì».
Laura iniziò ad accarezzargli il viso. Poi, la mano si spostò sulla schiena e scese verso il basso, seguendo la linea della profonda cicatrice.
«Perché non mi dici di questa?», domandò Laura carezzando la cicatrice.
Matthew non rispose. Ogni volta che lei tentava di affrontare il discorso, l'uomo si chiudeva a riccio, come se volesse evitare di riaprire una vecchia ferita.
«D'accordo», disse Laura. «Me ne parlerai quando ne avrai voglia».
Iniziò a baciarlo, prima sulla bocca, poi si spostò sul petto. Matthew le si distese sopra e le accarezzò i seni, baciandole i capezzoli. Quindi le mani passarono a sfiorarle le natiche. Lei strinse l'uomo con le gambe in una morsa e lui la penetrò. Le mani di Matthew continuavano ad accarezzarle i seni e tutto il corpo, lei chiamava il suo nome, sussurrandolo, mormorandolo:
«Matthew! Matthew!»
D'improvviso, Matthew si ritrovò bambino e sentì la voce del padre che lo chiamava: Matthew, diceva, vieni via. È pericoloso.
Ecco allora spuntare il grizzly, Matthew vide l'animale scagliarsi contro il padre e con le zampe stringergli la gola.
L'uomo continuava a ripetere il nome del figlio: Matthew, hai visto? Per causa tua, mi sta strangolando.
E lui era lì, ancora bambino, e continuava a guardare la scena, con l'orso che strangolava il padre.
«Mi... mi stai facendo male».
Ancora una voce. Questa volta però non apparteneva al padre.
«Ma-Matthew, ti prego, mi stai soffocando».
Matthew riaprì gli occhi e ora davanti a sé c'era Laura. Era lei che lo stava chiamando, lo stava implorando. Vide le sue mani stringere la gola di lei. Se ne staccò di colpo e Laura iniziò a tossire.

Capitolo quattro



Wyoming, Stati Uniti d'America
5 luglio 1947


Matthew camminava lentamente, lo sguardo fisso davanti a sé. Sotto i suoi piedi scricchiolavano gli aghi di pino e le foglie rosse e gialle che formavano il variopinto sottobosco. C'erano odori familiari e rumori che non sentiva più da tempo. I larici, gli abeti, i pini formavano un muro compatto dando vita a un silenzio ovattato nel quale ogni più piccolo suono riverberava. Di tanto in tanto, tra gli alberi si aprivano squarci di luce che permettevano di vedere, lontanissime, le montagne con le cime perennemente innevate: lì dietro sarebbe andato presto a spegnersi il sole.
Secondo gli abitanti del posto, era passato un anno dall'ultima volta che il grizzly era stato avvistato in quella foresta; alcuni cacciatori gli avevano riferito di aver visto un orso gigantesco con una profonda cicatrice sull'occhio destro e una macchia rossiccia sul muso. Era lui, non c'erano dubbi.
Matthew si era inoltrato nella foresta e la stava perlustrando a fondo. Si era accampato nella radura in cui era stato ucciso il padre, aveva scavato profonde fosse e preparato altre trappole che, all'occorrenza, avrebbero potuto servirgli.
Ancora qualche settimana e avrebbe cominciato a nevicare. Del grizzly nessuna traccia. In quel momento vide un alce brucare poco lontano: non era molto grosso, doveva essere una femmina. Gli venne in mente il modo di attirare il grizzly.
Dopo aver ucciso l'alce lo trascinò nella radura dove si era accampato. Sporcò tutto intorno di sangue, squarciò il ventre dell'animale e sparse le sue viscere, quindi si appostò sopra un albero, in attesa.
Non passò molto tempo. Ci fu dapprima un frusciare insistito di foglie. Poi, Matthew vide da lontano avanzare un cucciolo di orso attratto dalla puzza di carogna: aveva una macchia rossiccia a forma di cuore sul muso.
Esplose un colpo di fucile che fece volar via gli uccelli dall'albero. Il cucciolo, ferito a una zampa, si accasciò: il dolore gli faceva lanciare terrificanti latrati. Ora non rimaneva altro che aspettare.
Passarono pochi minuti e finalmente Matthew lo vide. Il gigantesco grizzly da un occhio solo si avvicinò lentamente al cucciolo e cominciò a leccargli la ferita. Nonostante fosse molto vecchio, il pelo quasi scolorito, incuteva ancora timore. Di tanto in tanto alzava il muso e fiutava l'aria, come se avesse già avvertito la presenza di Matthew.
L'uomo decise di scendere dall'albero e si avvicinò di una decina di metri. Sapeva di avere un solo colpo a disposizione e non voleva sbagliare. Levò il pesante fucile dritto davanti a sé, strinse forte l'occhio sinistro e col destro prese la mira. Sparò.
In quel momento l'orso lo notò e lanciò un terribile ruglio. Il proiettile colpì l'animale sulla gobba, il grizzly, furioso, iniziò a galoppare verso Matthew, la bava che univa le due file di denti. L'uomo non perse la calma, prese un'altra pallottola dalla cartucciera e ricaricò il fucile.
«Dài», mormorò tra sé. «Vieni avanti, ti aspetto».
A una decina di metri di distanza l'orso si fermò. Fiutò ancora l'aria e decise di scartare verso la sua destra, aggirando la fossa che Matthew aveva scavato.
«Cazzo!», imprecò l'uomo.
Si voltò di scatto e sparò un altro colpo. Prese ancora una volta il grizzly che stava caricando ora sulla sua sinistra. Tuttavia non riuscì a fermarlo. L'orso, nonostante le ferite, si alzò sulle zampe posteriori, Matthew cercò di caricare ancora il fucile, ma non fece in tempo: una tremenda zampata lo scaraventò addosso a un albero. Tentò di alzarsi, ma si accorse che qualcosa non andava. Si guardò la gamba e la vide piegata in modo innaturale, con l'osso del femore spezzato che aveva squarciato la carne e fuoriusciva frastagliato dal pantalone. Provò a urlare, ma la bocca emise solo un fiotto di sangue. Il grizzly stava di nuovo caricando. Era ormai a pochi metri, Matthew si era alzato tra fitte atroci e si reggeva in piedi addosso all'albero. L'orso mugghiò trionfante un attimo prima di azzannare la preda. Matthew allora afferrò una corda nascosta nel fogliame e la tirò con forza. Tre grossi pali appuntiti simili a frecce scattarono come molle e si conficcarono nell'orso.
L'animale era lì, a terra, agonizzante. Matthew lo fissò negli occhi e provò pena per quell'essere bellissimo e terrificante che in punto di morte non si lamentava e sembrava accettare placidamente il suo destino.
Il cucciolo zoppicando si avvicinò alla madre e le leccò il muso. Guaì, come se capisse che ormai non c'era più nulla da fare.
«Tra qualche anno», disse Matthew, «quando sarai cresciuto, tornerò, e tu avrai la possibilità di vendicarti».
Prese il fucile che era stato del padre. Lo legò stretto alla gamba per immobilizzarla. Ricavò un robusto bastone da un ramo e si incamminò. Prima che fosse notte, si sarebbe lasciato la foresta alle spalle.




 
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