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Skannatoio, edizione IV, Militare degradato usa impropriamente arma propria
I mini-campionato, 1 di 6

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alaine
view post Posted on 5/7/2011, 15:31




io sono veramente... contrito, per il fatto che dubito fortemente di poter postare qualcosa di leggibile.
mi sono iscritto (prima volta) con entusiasmo e ferma volontà di partecipare, tanto che avrei anche un primo abbozzo scritto, ma la quotidianità di lavoro e casa mi sta impedendo di portare avanti la cosa come vorrei.
che fare quindi? postare qualcosa tanto per fare? ma non mi sembra nello spirito dell'iniziativa né rispettoso verso di voi. allora mi sa che dovrò rinunciare, piuttosto che mandare una cosa che non soddisfa me per primo (spero senza drammi, polemiche o giudizi, come ha scritto il big boss).
detto tutto ciò, poi può anche essere che sta sera sia abbastanza lucido da finire e postare, ma se vi scrivo è perché sono abbastanza sicuro di far tardi in ufficio e arrivare a casa "brasato"; pertanto chiedo scusa in anticipo per aver bruciato un posto... (prima fra tutti Polissena che mi ha invitato)
 
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Alessanto
view post Posted on 5/7/2011, 15:34




CITAZIONE (alaine @ 5/7/2011, 16:31) 
io sono veramente... contrito, per il fatto che dubito fortemente di poter postare qualcosa di leggibile.
mi sono iscritto (prima volta) con entusiasmo e ferma volontà di partecipare, tanto che avrei anche un primo abbozzo scritto, ma la quotidianità di lavoro e casa mi sta impedendo di portare avanti la cosa come vorrei.
che fare quindi? postare qualcosa tanto per fare? ma non mi sembra nello spirito dell'iniziativa né rispettoso verso di voi. allora mi sa che dovrò rinunciare, piuttosto che mandare una cosa che non soddisfa me per primo (spero senza drammi, polemiche o giudizi, come ha scritto il big boss).
detto tutto ciò, poi può anche essere che sta sera sia abbastanza lucido da finire e postare, ma se vi scrivo è perché sono abbastanza sicuro di far tardi in ufficio e arrivare a casa "brasato"; pertanto chiedo scusa in anticipo per aver bruciato un posto... (prima fra tutti Polissena che mi ha invitato)

Per quanto mi riguarda puoi postare tranquillamente. Io non mi offendo. :)
 
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view post Posted on 5/7/2011, 16:15
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Arrotolatrice di boa

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Matteo, sarebbe bello se postassi qualcos che non riteni all'aaltezza e noi ce ne innamorassimo! :)
tu fai quel che ti senti, tanto se non ho capito male, in caso di ritiro, subentra il sedicesimo no? Quindi non hai rubato il posto a nessuno!
 
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alaine
view post Posted on 5/7/2011, 16:38




"sarebbe bello se postassi qualcos che non riteni all'aaltezza e noi ce ne innamorassimo!"
:lol: queste "subdole" lusinghe... :lol:
pensa invece che tristezza vedersi bocciare racconti in cui ci metti tutto te stesso e promuovere quelli scritti di fretta... :lol:
 
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view post Posted on 5/7/2011, 16:47
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Arrotolatrice di boa

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ho capito, com'è sto bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
 
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alaine
view post Posted on 5/7/2011, 16:53




diciamo che vorrei un bicchierre da mojito a bordo piscina, invece mi ritrovo con dell'acqua naturale presa alla macchinetta dell'ufficio... ;)
 
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view post Posted on 5/7/2011, 16:56
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Arrotolatrice di boa

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CITAZIONE (alaine @ 5/7/2011, 17:53) 
diciamo che vorrei un bicchierre da mojito a bordo piscina, invece mi ritrovo con dell'acqua naturale presa alla macchinetta dell'ufficio... ;)

c'è sempre di peggio, io quella della macchinetta l'ho finita, prima in un attaco di arsura mi sono avventata contro la doccetta della vasca del lavaggio cani!
tra un pò inizio ad uggiolare!
...certo che un mojito... anche senza bordo piscina, non guasterebbe!
 
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gian_74
view post Posted on 5/7/2011, 17:04




Giustizia materiale

La battaglia prese una brutta piega. I nemici guadagnarono parecchio terreno grazie al fuoco incrociato dei mortai e noi fummo costretti a ripiegare sul versante nord della montagna, disperdendoci in squadre di cinque o sei persone per spostarci più velocemente. Io capitai sotto gli ordini del Sergente Maggiore Schinca, conosciuto come una delle più grandi teste di cazzo del regio esercito. Insieme a noi c'erano il Caporale scelto Colombo e i soldati semplici Tassi e Gargano. Con il mio grado di sottotenente medico del Corpo Sanità, ero il secondo in grado di comando e sapevo benissimo che Schinca non mi avrebbe reso la vita facile, considerando soprattutto la sua manifesta antipatia verso i corpi di supporto, come il mio.
"Quando un soldato non riesce a reggersi sulle proprie gambe, dovrebbe essere abbattuto, altro che giocare alle crocerossine con le bende e i cerotti!" E ancora: "Voi finocchietti," diceva indicando nella mia direzione, "dovreste imparare a sparare, invece di perdere tempo con i cadaveri." Una situazione tutt'altro che invidiabile la mia. La risalita divenne oltremodo faticosa, quasi più per le bordate del sottufficiale che per i colpi di mortaio, i cui proiettili facevano fischiare le orecchie e, sovente, colpivano nelle vicinanze, insozzandoci di terra e colpendoci con frammenti di roccia appuntita.
Arrivati nelle vicinanze di un anfratto nella roccia, il Sergente decise che quello poteva essere un buon posto per piazzarsi e cercare di procurare un qualche danno all'esercito nemico. A me parve da subito un'idea malsana perché, per quanto protetto, quel posto non avrebbe permesso una fuga repentina in caso di bisogno; si correva il rischio di finire in trappola come conigli. Mentre cercavo un modo elegante e poco doloroso di obiettare a quella scelta, un proiettile di mortaio atterrò a una decina di metri da noi, deflagrando con un boato spaventoso che ci indusse a correre il più velocemente possibile verso il discutibile e, apparentemente unico, riparo. Provai un dolore acuto alle orecchie a causa dell’esplosione e ci vollero alcuni minuti per ristabilirmi. La testa mi girava e avevo le mani e le braccia imbrattate di sangue; si trattava perlopiù di piccole ferite dovute alle schegge di pietra schizzate per l’onda d’urto. Mi guardai attorno, nel tentativo di capire quale fosse la situazione dei miei compagni di squadra. Vidi il Sergente e il Caporale, praticamente illesi, che si stavano rassettando, mezzi storditi per la botta, ma non trovai traccia degli altri due soldati. Allora, riparato da una roccia, mi sporsi per guardare nella direzione da cui eravamo arrivati. Oltre al rumore impietoso delle bombe, ora s’iniziavano a udire gli spari dei fucili. Il nemico si stava inesorabilmente avvicinando e la possibilità che i cecchini arrivassero a tiro di Garand, iniziava a diventare spaventosamente concreta. Tassi era decisamente più a valle della sua posizione precedente, l'esplosione doveva averlo sbalzato lontano e ora il suo corpo senza vita era ridotto a brandelli. Aveva perso entrambe le gambe ed era completamente imbrattato di sangue. Posso affermare con una certa sicurezza che era morto sul colpo. Gargano era a una ventina di passi da me. Stava urlando dal dolore, e dalla posizione innaturale e scomposta del piede si capiva chiaramente che aveva una brutta frattura alla tibia destra. Era sdraiato bocconi e cercava di trascinarsi con le braccia ma non riusciva a muoversi di un millimetro. Dalla mia posizione era impossibile capire se avesse qualche altra ferita grave, decisi comunque di agire velocemente.
"Sergente, dobbiamo recuperare Gargano e portarlo in salvo, è ancora vivo, lo sente?"
"Lo sento sì, cazzo. Non sono mica sordo." Schinca si avvicinò alla roccia, scostò il capo e nell'attimo in cui si rese conto della triste situazione di Gargano, sentì il sibilo delle pallottole squarciare l'aria per andarsi a scagliare contro la parete della montagna. "Cristo santo," disse mentre si riparava buttandosi a terra, "non vorrai mica andare a prendere quel mezzo cadavere e rischiare di buscarti una pallottola in fronte?"
"Sergente, è il nostro dovere..."
"Tu non ti muovi da qui, brutta testa di cazzo. Non voglio perdere un altro uomo, per quanto stupido possa essere. Questo, se non l'avessi capito, è un ordine!"
Guardai il mio superiore con occhi intrisi di disprezzo e, quasi istintivamente, mi gettai contro di lui nel tentativo di sbatterlo a terra e superarlo per raggiungere Gargano. Il tentativo fallì miseramente naufragando nell'esperienza del sottufficiale, che, sfruttando il mio peso, ribaltò la situazione a proprio favore facendo perno con una gamba e sbattendomi malamente a terra. La manovra evasiva trovò però l'inaspettato ostacolo del caporale Colombo che, accorso per intervenire, si ritrovò sgambettato dal mio corpo alla mercé del famigerato Sergente, rovinandogli addosso e liberandomi, di fatto, dalla presa. Mi ritrovai quindi proiettato verso Gargano che nel frattempo aveva smesso di urlare o, forse, non riuscii più a sentire le sue grida perché coperte dalle bestemmie dei due compagni di sventura e dal rumore dei proiettili sempre più minacciosi. Quando mi accostai al corpo, il suo respiro era ridotto al minimo e provando a girarlo sulla schiena mi ritrovai con le sue budella in mano; mi resi conto che era definitivamente spacciato.
Ora i mortai avevano cessato di colpire la nostra zona e si erano spostati molto più in alto, segno che le truppe di terra erano sempre più vicine; a conferma di ciò il fuoco dell'artiglieria era diventato più intenso e in più di un’occasione mi sentii sfiorato dai proiettili. Non potevo far altro che ritornare al rifugio di fortuna e affrontare i due militari. Quando arrivai nell'anfratto, io ero in lacrime, spossato dal dolore per non aver potuto aiutare i miei compagni caduti. Come mi aspettavo, fui immediatamente aggredito e sbattuto a terra, e mentre Colombo m’immobilizzava, Schinca inveiva dall'alto verso di me, sputandomi addosso e apostrofando me e la mia famiglia con i peggiori epiteti del proprio repertorio. Finiti gli sproloqui, si gettò su di me e mi strappò le mostrine del Corpo Sanità per le truppe di montagna.
"Ma bene, abbiamo un disubbidiente qui, un disertore. Ora sei degradato, da sottotenente a Femminuccia, sei contento, Finocchietto?" Digrignò i denti come un Dobermann rabbioso. "E la corte marziale non te la toglie nessuno!". Mi sputò un grosso catarro in faccia, poi prese il mio kit da medico e lo scaraventò giù dal dirupo. "Questo non ti serve più, femminuccia." Fece un cenno con il capo a Colombo che capì al volo la consegna riempiendomi di pugni al volto e calci al costato. Per finire il lavoretto mi spaccò entrambe le mani a suon di pedate, una vecchia usanza di noi militari quando vogliamo essere sicuri che qualcuno non faccia un uso indesiderato della pistola.
"Ora alzati alla svelta..." Mentre il sergente disse ciò, un proiettile lo colpì in pieno sotto la mandibola, mandandogli in brandelli la lingua e uscendo dalla guancia opposta, come se fosse trafitto da una saetta di luce divina.
Lo guardai accasciarsi a terra, terrorizzato, a sputare fiotti di sangue dalla bocca. Colombo trattenne a stento un urlo di disperazione, gettandosi di corsa sul corpo del malcapitato e cercando di sorreggergli la testa un po' di lato per non farlo soffocare nel sangue. Mentre lo sguardo atterrito di Schinca cercava avidamente di implorarmi aiuto, io non riuscii a trattenere le risate e iniziai a sbellicarmi in un verso quasi satanico.
"Che cazzo ridi coglione? Dammi una mano, salvalo. Sei un medico no?" disse Colombo in preda al panico.
"Bisognerebbe fare una tracheotomia." Dissi biascicando sangue e saliva. "Ah, se solo avessi con me il mio kit medico..." Risi forzatamente per rincarare la dose.
"Non ridere ti ho detto, brutto stronzo." Colombo estrasse la pistola dalla fondina e, disperato, me la puntò addosso. "Trova un modo, ci sarà un modo..."
"Ecco," lo interruppi, "un modo ci sarebbe a pensarci bene..."
"Parla, muoviti!"
"La pistola. Devi fare solo un piccolo buchino nella trachea, cosa c'è di meglio di una pistola? Basta colpirlo di striscio."
"Ma cosa? Ma che cazzo dici, mi prendi per il culo? Io non farò mai una cosa del genere. Semmai, ecco, fallo tu!"
"Dimentichi forse del lavoretto che avete fatto alle mie mani?" Gli mostrai le mani violacee e doloranti. "Devi farlo tu Colombo, non c'è alternativa, e se non ti sbrighi... guarda, sta morendo"
Colombo guardò il sergente maggiore e capì di non avere alternative. Appoggiò la canna della sua Glisenti 9mm sulla trachea.
"Così?" disse piangendo come un bambino.
"Dall'altra parte, e appena più inclinata. Ecco, sì. Così..."
Il proiettile attraversò la gola del Sergente e, meglio di quanto sperassi, provocò una devastazione di vene e arterie d’importanza vitale, causandone la morte praticamente immediata.
"Oops... mi spiace, è andata male.” Iniziai a ridergli in faccia, senza riuscire a smettere. “In effetti non è molto funzionale come metodo."

Ricordo che i nemici arrivarono in quel frangente e ci presero in consegna sequestrando le armi, stupiti di trovarmi in quello stato e in preda a convulsioni di riso.
Finii gli anni di guerra nella pace di un campo di prigionia militare, mentre Colombo iniziò a dare seriamente di matto e fu rinchiuso in una qualche struttura d’igiene mentale. Lo rividi due anni dopo, quando testimoniai contro di lui davanti alla Corte Marziale per l'accusa di omicidio del Sergente Maggiore Schinca. Ovviamente negai di essere io il principale responsabile della fine del Sergente e nessuno volle credere alle assurdità del pazzo. Il caporale fu condannato alla fucilazione, con trasformazione della pena nella detenzione a vita presso un manicomio militare. Venni a sapere della sua morte qualche anno dopo il processo.

In mio onore posso dire che davanti alla corte marziale riconobbi di fatto la degradazione e rifiutai di essere riabilitato per mia volontà di abbandonare l'esercito e di dedicarmi alla medicina come missione di vita. Scelta che mi ha donato una magnifica carriera, costellata di successi.

In punto di morte vi lascio queste memorie per far luce, com'è giusto che sia, sui fatti realmente accaduti intorno alla vicenda, sicuro e onorato comunque, di aver fatto una scelta responsabile e saggia. Talvolta la giustizia ordinaria non è sufficiente a dar ragione alla rettitudine morale e all’onestà d'animo. Non credendo in quella divina, ho dovuto preferire la giustizia materiale.
In fede,
Dott. Martino Campana.
 
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Fini Tocchi Alati
view post Posted on 5/7/2011, 19:06




GRIZZLY


di Attilio Facchini (Fini Tocchi Alati)
19.999k, secondo il buon counter











Capitolo uno



Wyoming, Stati Uniti d'America
25 luglio 1935


Un colpo di fucile esplose nella foresta, il riverbero si trasformò in starnazzi e fruscii.
«Lo hai mancato, cazzo», disse Dave allargando sconsolato le braccia. Era un uomo sulla quarantina, di altezza media, piuttosto in carne, quasi grasso. Portava indumenti da caccia nuovi di zecca e un berretto verde che nascondeva l'incipiente calvizie.
Il grosso alce emise uno straziante bramito e fuggì tra gli alberi.
«Non dire stronzate», fece Cristopher ridendo. «Non senti come strilla il piccolino?» Cristopher era più alto e robusto di Dave che superava di almeno tutta le testa, non molto più giovane, ma si manteneva meglio.
«Non perdiamo tempo», disse Marvin. «Seguiamolo». Si passò la mano tra i folti capelli biondo cenere. Marvin MacCoy portava vestiti dello stesso tipo di quelli indossati da Dave, solo che i suoi erano vecchi, lisi e strappati. Si rivolse a Matthew, il figlio di appena quindici anni: «Stammi sempre vicino, capito Mat?»
Il bambino aveva gli stessi occhi azzurri del padre, sarebbe cresciuto bello e forte come lui. Annuì e Marvin gli scompigliò affettuosamente i capelli. Non era la prima volta che Matthew assisteva a una battuta di caccia del papà. I fucili, gli appostamenti, la natura selvaggia: tutto era terribilmente eccitante per lui.
«Da questa parte», gridò Dave. Raccolse da terra un pugno di aghi di pino, che formavano un tappeto giallo ai piedi dell'albero; vide le dita sporche di sangue, sbuffò: «Quel fottuto bastardo! L'ha preso davvero».
«E che ti aspettavi?», disse Cristopher sopraggiungendo. «Il mio bambino è infallibile». Accarezzò ridendo il fucile che portava sulla spalla destra.
«Su», disse Marvin, «non deve essere andato molto lontano. Circondiamolo».
«D'accordo», fece Dave. «Io e Cristopher lo prendiamo ai fianchi, tu stagli dietro».
«L'animaletto è mio», disse Cristopher sorridendo tra i denti. «Non azzardatevi a farlo secco al posto mio».
«Per me va bene», disse Dave. «Marvin?»
«Ok», fece quest'ultimo.
Non appena Cristopher e Dave si allontanarono, la foresta sembrò zittirsi. Gli alti larici, che poco più a nord prendevano il posto dei pini e degli abeti, oscillavano lievemente sotto le folate dei freddi venti provenienti dalle Montagne Rocciose. Marvin si alzò il collo della giacca impermeabile, si tolse i guanti e scaldò le mani con l'alito caldo. Guardò il cielo limpido: ancora qualche settimana e la neve sarebbe tornata a coprire quelle regioni.
«Sai, Mat? È stata una vera fortuna trovare un alce in questo periodo dell'anno». Si voltò, ma il bambino non c'era.
«Mat?» Marvin si guardò attorno credendo che il figlio si fosse nascosto dietro un albero per giocare: «Mat dove sei?»
D'un tratto sentì la sua voce.
«Matthew?», chiamò ancora mentre cercava di capire dove fosse.
Man mano che si avvicinava, Marvin sentiva il bambino ridere e si tranquillizzò un poco: doveva aver visto un castoro o uno scoiattolo. Lo intravide in una piccola radura dietro un abete e sorrise sollevato. I raggi del sole filtravano attraverso l'intrico di rami e macchiavano di luce il sottobosco.
«Mat, andiamo, vieni fuori. Se ci facciamo scappare l'alce, chi lo vuole sentire Cristopher?»
Il sorriso si trasformò però in una smorfia di attonito terrore quando vide che Matthew stava giocando con un piccolo orso. L'animale doveva avere non più di qualche mese, era ricoperto da un folto pelo grigio e una grossa macchia rossiccia a forma di cuore si estendeva sul muso per quasi tutta la sua lunghezza. Di scatto Marvin cominciò a guardarsi attorno, gli occhi ansiosi: non aveva certo paura di un cucciolo. Ma sapeva benissimo che, dove c'era un piccolo d'orso, lì nei dintorni doveva esserci anche la madre. Rapidamente si avvicinò a Matthew.
«Matthew», sussurrò. «Matthew, vieni via».
«Papà!», esclamò il ragazzo quando lo vide. «Hai visto? Vuole giocare».
«Vieni via ti ho detto, è perico...»
Non fece in tempo a finire la frase che da dietro un grosso pino spuntò la mamma del cucciolo: era un orso giovane, di quattro o cinque anni, sul muso aveva la stessa macchia rossiccia a forma di cuore. Era un esemplare gigantesco.
«Un grizzly!», esclamò Marvin. «Com'è possibile? Non si sono mai spinti fin qui».
L'animale iniziò ad avvicinarsi a passo lento, il suo sbuffare si faceva sempre più forte e minaccioso.
«Oh mio Dio, Matthew!» gridò Marvin scattando in direzione del figlio.
Il grizzly avvertì l'urlo dell'uomo come una minaccia per il suo cucciolo ed emise un bramito pauroso. Un attimo dopo caracollava verso Matthew. Marvin mirò con il fucile e sparò. Colpì l'orso all'occhio destro che ora perdeva sangue e materia bianca. Il grizzly, accecato e furioso per il dolore, iniziò a mulinare le zampe e finì per colpire Matthew scaraventandolo a terra. Per tutta la foresta risuonò il suo ruglio, simile al ruggito di un leone, quindi si alzò sulle possenti zampe posteriori.
«No-non può essere...», disse Marvin. L'animale raggiungeva quasi i tre metri di altezza ed era in grado di oscurare la luce del sole.
«Matthew», urlò ancora, «via di lì!» Il bambino però non si muoveva, la giacca squarciata, sulla schiena macchie di sangue.
Finalmente Marvin lo raggiunse, lo prese in braccio. In quel momento l'ombra dell'orso lo ricoprì tutto. Con uno strattone gettò il corpo del figlio il più lontano possibile, ma non fece in tempo a caricare di nuovo il fucile e fu travolto dall'animale, le gambe e il bacino schiacciati, dalla bocca un fiotto di sangue.
«Pa-papà?»
Matthew riprese i sensi e vide l'orso con un occhio solo e la macchia a forma di cuore scaraventarsi addosso al padre, azzannargli il collo. Sentì le ossa scricchiolare sotto la morsa tremenda della mandibola. Non riusciva a urlare, non riusciva a scappare: era paralizzato.
Il corpo dell'uomo fu sballottato di qua e di là come un pupazzo e ricadde poco lontano, inerme. Quando ebbe finito col padre, l'orso volse l'unico occhio rimastogli ancora carico di rabbia verso Matthew. In quella, altri proiettili sibilarono nell'aria e lo raggiunsero: Dave e Cristopher erano tornati indietro, sparavano un colpo dopo l'altro. Nonostante fosse stato colpito più volte, l'orso riuscì a fuggire, seguito dal suo cucciolo.
«Marvin! Marvin!»
Le voci dei due cacciatori giunsero alle orecchie di Matthew ovattate, come se provenissero da molto lontano. Il bambino sentì gridare anche il suo nome, poi il buio.

Capitolo due



Cassino, Italia
19 maggio 1944


«Mat! Matthew!»
Matthew aprì gli occhi e si guardò attorno.
«Tutto bene, Tenente?», gli chiese Dominic. «Meglio rimanere svegli se si vuole portare a casa la pelle», rise.
Nonostante fosse ancora buio, già infuriava la battaglia: da una parte la Linea Gustav dell'esercito tedesco, dall'altra il Secondo Battaglione della Forza Speciale Usa – Canada, sotto il comando del Capitano Abraham Smith.
«Come procede?», domandò Matthew.
«Gli Inglesi hanno iniziato il bombardamento su Montecassino», disse Dominic riportando una notizia appena appresa dalla radio.
«Bene», disse Matthew. «Di' agli uomini che si tengano pronti: entriamo in città».
«Signorsì, Tenente».

Era il 18 maggio del 1944 e dopo settimane di assedio anche la città di Cassino venne finalmente liberata. Quella stessa sera, il Secondo Battaglione al completo si riunì per festeggiare in una locanda di Alvito, un paese che si trovava sulla strada per Sora. La trattoria era rimasta miracolosamente in piedi e ora si sentivano risate e musica.
«Alla salute», disse Dominic. I bicchieri tintinnarono e Matthew ingollò in un sorso una pinta di birra. Si pulì la bocca con la manica della giacca.
«Che farai dopo la guerra?», chiese a Dominic.
«Tornerò a casa», rispose questi. «Mio padre ha un piccolo ranch. Niente di che, ma sufficiente per garantirmi una pensione discreta. E tu, Tenente?»
«Non so», rispose Matthew. Rimase sovrappensiero, gli occhi azzurri che fissavano il liquido giallo. Nella mente le grida della battaglia appena conclusa erano quelle di suo padre, le esplosioni il ruglio, cupo e terribile, del grizzly. Erano passati quasi dieci anni e, nonostante la guerra, non c'era giorno che non gli ritornassero in mente quelle immagini, quei suoni.
«Mat, mi ascolti?»
Matthew sembrò destarsi dallo stato di trance in cui era caduto: «Sì, certo».
«Beh, devi assolutamente venire a trovarmi. Magari puoi darmi una mano con il ranch».
«Perché no?», disse Matthew. I bicchieri tintinnarono di nuovo. «Davvero buona questa polenta».
«Sai, ci sono molte cose da fare in un ranch», continuò Dominic mentre addentava un cucchiaio di polenta. «Le mandrie», anzitutto. «Ci serve qualcuno che le tenga a bada...»
Dominic continuava a parlare del suo ranch e dei progetti per il futuro, Matthew non lo ascoltava più. Ora però il padre non c'entrava niente: tutta la sua attenzione era stata catturata da una ragazza che stava servendo da bere a un tavolo. Aveva i capelli castani ondulati sulle spalle, raccolti da un foulard beige, e un'ampia gonna marrone che lasciava intravedere solo le caviglie sottili. Per un attimo, la ragazza si voltò verso di lui e gli sorrise. Matthew ricambiò il sorriso.
«Ma mi stai ascoltando o no?», fece Dominic.
«Eh? Ah, sì», disse Matthew. «Scusami, torno subito».
Si alzò e andò incontro alla ragazza che nel frattempo stava tornando in cucina.
«Ciao», le disse Matthew in un buon italiano.
«Ciao, soldato», disse la ragazza, spigliata.
«Io mi chiamo Matthew, tu?»
Lei lo guardò e sorrise, un pallido rossore le colorò il viso.
«Laura, piacere».
«Piacere mio, Laura», disse Matthew. «Davvero un bel nome».
«Scommetto che lo dici a tutte le ragazze che corteggi».
«Mai corteggiato una ragazza in vita mia», disse Matthew alzando le mani. «Solo soldati», aggiunse sbuffando.
Laura rise e alla sua risata si aggiunse quella dell'uomo. La ragazza aveva due grandi occhi scuri e un sorriso molto dolce.
«Però c'è sempre una prima volta, no?», disse Matthew.
«Vero», rispose Laura.
«Posso offrirti qualcosa?»
«Mi spiace, come dite voi? Ah: sono in servizio!», e si mise sull'attenti.
«A che ora stacchi?»
«Quando ve ne andate».
«Bene», disse Matthew. «Aspetterò».
Dominic intanto gli si era fatto vicino.
«Tenente», disse con voce impastata che tradiva uno stato di ebbrezza piuttosto avanzato. «Ma dove ti sei cacciato? Ti devo parlare del ranch».
«Arrivo», disse Matthew. Poi, a Laura: «Lui è uno dei miei fidanzati: è ubriaco d'amore per me».
Laura rise ancora.
«Ci vediamo dopo», disse Matthew e la ragazza si mise di nuovo sull'attenti.

Era quasi mezzanotte, la compagnia doveva rientrare alla base dove era attesa dal Capitano Smith, famoso per la sua severità e per la scarsa tolleranza nei confronti dei ritardatari.
«Portate Dominic a dormire», disse Matthew a un paio di soldati.
«Tu sei un bravo mandriano», disse Dominic, ormai completamente ubriaco. Poi si rivolse ai suoi due compagni: «Anche voi lo siete, tutti possiamo essere eccellenti mandriani».
«Lei non viene, Tenente?», domandò uno dei soldati.
«Ho ancora da fare qui», rispose Matthew lanciando un'occhiata a Laura che stava sparecchiando.

Quando Matthew rientrò in base, era quasi l'alba. Nella camera che si doveva attraversare per accedere al dormitorio, lo attendeva il Capitano. Questi gli dava la schiena, era seduto con il viso rivolto alla finestra e sembrava interessato al sorgere del sole. Smith era un uomo rozzo e insulso, quasi calvo e con un paio di baffetti ispidi e biondastri che davano sempre l'impressione di irridere il suo interlocutore.
«Tenente MacCoy», disse Smith. «Spero abbia una buona ragione per giustificare il suo ritardo».
Matthew stava fermo sull'attenti, senza rispondere.
«È diventato sordo o cosa?»
«Nossignore».
«Allora?»
Matthew si immaginava ancora tra le braccia di Laura e sentiva il suo profumo di rosa. E non aveva alcuna intenzione di profanare quella dolce sensazione parlandone con il Capitano.
«Va bene», disse Smith. «Come vuole. Domattina l'aspetto in ufficio».
Detto questo, se ne andò. A Matthew venne l'acquolina in bocca ripensando alla gustosa polenta che aveva mangiato quella sera in trattoria.

Capitolo tre



Alvito, Italia
27 aprile 1947


«È pronta la polenta, Mat?»
Laura si affacciò in cucina. Sul fuoco cuoceva un catino di polenta fumante. Matthew di tanto in tanto girava l'impasto con un lungo cucchiaio di legno. Ne prese un po' e l'assaggiò.
«Pronta», disse.
Gli affari alla “Locanda del Sottotenente” andavano piuttosto bene. Finita la guerra, dopo la discussione con Smith, gli avevano tolto i gradi, e Matthew aveva deciso di non fare ritorno a casa. Aveva sposato Laura e aveva avuto un figlio, Matteo. Si era specializzato nel cucinare la polenta, divenuta il piatto forte del locale.
«Ma che bravo», disse Laura abbracciandolo.
«Guarda che in queste condizioni io non riesco a lavorare mica».
«Perché?», fece Laura.
«Perché mi sento provocato», disse Matthew.
«Ah, sì?» Laura si sbottonò il primo bottone della camicetta.
«Sì, e se mi sento provocato...», disse Matthew che cominciò a baciarla alzandole la veste.
«Allora questa polenta?»
Irruppe in cucina la voce roca del padre di Laura, il proprietario della trattoria. Matthew si scostò dalla moglie che ridendo riabbottonò la camicia.
«Arriva, arriva», disse l'uomo.

Laura entrò in camera da letto che era già notte fonda.
«Dorme?», chiese Matthew.
«Sì», disse Laura. «Finalmente si è addormentato».
Si infilò sotto le coperte e si accucciò accanto al marito. Matthew aveva le mani incrociate sotto la testa e fissava pensieroso il soffitto.
«Che c'è?», gli chiese Laura.
«Cosa?»
«Hai sempre quell'aria seria. Sembri quasi triste».
«Ma che dici?», disse Matthew dandole un bacio tra i capelli.
«Pensi alla tua terra?»
«Ogni tanto, mi capita, sì».
Laura iniziò ad accarezzargli il viso. Poi, la mano si spostò sulla schiena e scese verso il basso, seguendo la linea della profonda cicatrice.
«Perché non mi dici di questa?», domandò Laura carezzando la cicatrice.
Matthew non rispose. Ogni volta che lei tentava di affrontare il discorso, l'uomo si chiudeva a riccio, come se volesse evitare di riaprire una vecchia ferita.
«D'accordo», disse Laura. «Me ne parlerai quando ne avrai voglia».
Iniziò a baciarlo, prima sulla bocca, poi si spostò sul petto. Matthew le si distese sopra e le accarezzò i seni, baciandole i capezzoli. Quindi le mani passarono a sfiorarle le natiche. Lei strinse l'uomo con le gambe in una morsa e lui la penetrò. Le mani di Matthew continuavano ad accarezzarle i seni e tutto il corpo, lei chiamava il suo nome, sussurrandolo, mormorandolo:
«Matthew! Matthew!»
D'improvviso, Matthew si ritrovò bambino e sentì la voce del padre che lo chiamava: Matthew, diceva, vieni via. È pericoloso.
Ecco allora spuntare il grizzly, Matthew vide l'animale scagliarsi contro il padre e con le zampe stringergli la gola.
L'uomo continuava a ripetere il nome del figlio: Matthew, hai visto? Per causa tua, mi sta strangolando.
E lui era lì, ancora bambino, e continuava a guardare la scena, con l'orso che strangolava il padre.
«Mi... mi stai facendo male».
Ancora una voce. Questa volta però non apparteneva al padre.
«Ma-Matthew, ti prego, mi stai soffocando».
Matthew riaprì gli occhi e ora davanti a sé c'era Laura. Era lei che lo stava chiamando, lo stava implorando. Vide le sue mani stringere la gola di lei. Se ne staccò di colpo e Laura iniziò a tossire.

Capitolo quattro



Wyoming, Stati Uniti d'America
5 luglio 1947


Matthew camminava lentamente, lo sguardo fisso davanti a sé. Sotto i suoi piedi scricchiolavano gli aghi di pino e le foglie rosse e gialle che formavano il variopinto sottobosco. C'erano odori familiari e rumori che non sentiva più da tempo. I larici, gli abeti, i pini formavano un muro compatto dando vita a un silenzio ovattato nel quale ogni più piccolo suono riverberava. Di tanto in tanto, tra gli alberi si aprivano squarci di luce che permettevano di vedere, lontanissime, le montagne con le cime perennemente innevate: lì dietro sarebbe andato presto a spegnersi il sole.
Secondo gli abitanti del posto, era passato un anno dall'ultima volta che il grizzly era stato avvistato in quella foresta; alcuni cacciatori gli avevano riferito di aver visto un orso gigantesco con una profonda cicatrice sull'occhio destro e una macchia rossiccia sul muso. Era lui, non c'erano dubbi.
Matthew si era inoltrato nella foresta e la stava perlustrando a fondo. Si era accampato nella radura in cui era stato ucciso il padre, aveva scavato profonde fosse e preparato altre trappole che, all'occorrenza, avrebbero potuto servirgli.
Ancora qualche settimana e avrebbe cominciato a nevicare. Del grizzly nessuna traccia. In quel momento vide un alce brucare poco lontano: non era molto grosso, doveva essere una femmina. Gli venne in mente il modo di attirare il grizzly.
Dopo aver ucciso l'alce lo trascinò nella radura dove si era accampato. Sporcò tutto intorno di sangue, squarciò il ventre dell'animale e sparse le sue viscere, quindi si appostò sopra un albero, in attesa.
Non passò molto tempo. Ci fu dapprima un frusciare insistito di foglie. Poi, Matthew vide da lontano avanzare un cucciolo di orso attratto dalla puzza di carogna: aveva una macchia rossiccia a forma di cuore sul muso.
Esplose un colpo di fucile che fece volar via gli uccelli dall'albero. Il cucciolo, ferito a una zampa, si accasciò: il dolore gli faceva lanciare terrificanti latrati. Ora non rimaneva altro che aspettare.
Passarono pochi minuti e finalmente Matthew lo vide. Il gigantesco grizzly da un occhio solo si avvicinò lentamente al cucciolo e cominciò a leccargli la ferita. Nonostante fosse molto vecchio, il pelo quasi scolorito, incuteva ancora timore. Di tanto in tanto alzava il muso e fiutava l'aria, come se avesse già avvertito la presenza di Matthew.
L'uomo decise di scendere dall'albero e si avvicinò di una decina di metri. Sapeva di avere un solo colpo a disposizione e non voleva sbagliare. Levò il pesante fucile dritto davanti a sé, strinse forte l'occhio sinistro e col destro prese la mira. Sparò.
In quel momento l'orso lo notò e lanciò un terribile ruglio. Il proiettile colpì l'animale sulla gobba, il grizzly, furioso, iniziò a galoppare verso Matthew, la bava che univa le due file di denti. L'uomo non perse la calma, prese un'altra pallottola dalla cartucciera e ricaricò il fucile.
«Dài», mormorò tra sé. «Vieni avanti, ti aspetto».
A una decina di metri di distanza l'orso si fermò. Fiutò ancora l'aria e decise di scartare verso la sua destra, aggirando la fossa che Matthew aveva scavato.
«Cazzo!», imprecò l'uomo.
Si voltò di scatto e sparò un altro colpo. Prese ancora una volta il grizzly che stava caricando ora sulla sua sinistra. Tuttavia non riuscì a fermarlo. L'orso, nonostante le ferite, si alzò sulle zampe posteriori, Matthew cercò di caricare ancora il fucile, ma non fece in tempo: una tremenda zampata lo scaraventò addosso a un albero. Tentò di alzarsi, ma si accorse che qualcosa non andava. Si guardò la gamba e la vide piegata in modo innaturale, con l'osso del femore spezzato che aveva squarciato la carne e fuoriusciva frastagliato dal pantalone. Provò a urlare, ma la bocca emise solo un fiotto di sangue. Il grizzly stava di nuovo caricando. Era ormai a pochi metri, Matthew si era alzato tra fitte atroci e si reggeva in piedi addosso all'albero. L'orso mugghiò trionfante un attimo prima di azzannare la preda. Matthew allora afferrò una corda nascosta nel fogliame e la tirò con forza. Tre grossi pali appuntiti simili a frecce scattarono come molle e si conficcarono nell'orso.
L'animale era lì, a terra, agonizzante. Matthew lo fissò negli occhi e provò pena per quell'essere bellissimo e terrificante che in punto di morte non si lamentava e sembrava accettare placidamente il suo destino.
Il cucciolo zoppicando si avvicinò alla madre e le leccò il muso. Guaì, come se capisse che ormai non c'era più nulla da fare.
«Tra qualche anno», disse Matthew, «quando sarai cresciuto, tornerò, e tu avrai la possibilità di vendicarti».
Prese il fucile che era stato del padre. Lo legò stretto alla gamba per immobilizzarla. Ricavò un robusto bastone da un ramo e si incamminò. Prima che fosse notte, si sarebbe lasciato la foresta alle spalle.




 
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Jackie de Ripper
view post Posted on 5/7/2011, 19:31




Molto bene! Mancano meno di tre ore e mezza e i racconti sono già saliti a sei.
Ne mancano solo nove. Ma non rimarrò qui al terminale ad aspettarli tutti.
Al contrario di voi scrittori alle prese con una scadenza incombente,
questa sera uscirò, come sono solita fare al tramonto del sole.
Però vi prometto che per le tre, massimo le quattro, avrò
già conteggiato i caratteri e avrò pubblicato la lista
dei racconti in concorso. Buon lavoro ai NOVE.
 
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simolimo
view post Posted on 5/7/2011, 19:54




IL SILENZIO DELLA LIBERTÀ

in revisione ^_^

Edited by simolimo - 3/1/2012, 09:58
 
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kaipirissima
view post Posted on 5/7/2011, 20:15




8172

RELAZIONI



Era il loro gioco preferito.
Si trovavano in strada alle tre di ogni pomeriggio, puntuali, per giocare alla guerra.
A Christine non piaceva quel gioco però ci si adattava perché le bambine con cui andava a scuola non l’avevano in simpatia. Aveva provato a starsene seduta a fingere di prendere il tè con le bambole imitando le conversazioni degli adulti, ma diceva sempre la cosa sbagliata. Le altre ragazzine la guardavano con sufficienza, compatendola un po’ per quella sua selvatichezza.
Un giorno le aveva sentite mentre, insieme alle bambole, parlavano di lei, alle sue spalle, criticando il modo in cui si sedeva o teneva la tazzina.
«Oh signora Lily gradisce una tazza di tè?»
«Oh che splendida giornata vero signora Violet?»
Tutte avevano un nome di fiore, come le loro bambole.
«La signora Marguerite oggi non c’è» alla notizia le ragazzine ridacchiarono. «Sarà andata a lezioni di buone maniere» altre risate. «Certo bisogna perdonarla, crescere senza la mamma, sola con il papà.»
Com’erano perfidi quei fiori seduti sul pavimento, Christine avrebbe voluto entrare e difendere suo padre, ma il senso di colpa l’aveva assalita a tradimento inchiodandola sulla porta.
Il giorno dopo aveva chiesto ai ragazzi che giocavano nel quartiere se poteva unirsi a loro. All’inizio le avevano detto no, ma poi Daniel era intervenuto in suo favore e così anche gli altri erano stati costretti ad accettarla.
Giocare con i maschi era tutta un’altra cosa. Si poteva urlare, correre e Christine si divertiva, perché le sembrava che i giochi dei ragazzi non si adattassero al mondo degli adulti, come quelle leziose ragazzine, che ripetevano a pappagallo ciò che le madri nei loro salotti di merletti cinguettavano senza mai prendere fiato.
Questo fino al giorno in cui Daniel decise che avrebbero giocato alla guerra.
«Le ragazze non vanno in guerra!» esclamò Paul indicando Christine. Da tempo cercava di estrometterla dai loro giochi. In casa aveva due sorelle prepotenti e l’idea di trovarsi anche fuori con una ragazza non gli piaceva per niente.
«Tutti possono combattere, purché abbiano un’arma» disse Daniel. «Domani ci troveremo puntuali nel nostro covo e lì organizzeremo il reggimento.»
Tornata a casa Christine aveva cercato inutilmente un oggetto che potesse fungere da arma, poi però si era ricordata che suo padre un’arma vera ce l’aveva. I ragazzi non avrebbero sollevato più dubbi. Aspettò che suo padre uscisse e si diresse nello studio. Sorrise quando la vide appesa al muro, come fosse un dipinto. L’avrebbe presa, portata al covo, guadagnato il rispetto dei suoi compagni e poi, prima che suo padre facesse ritorno, l’avrebbe riposta dove l’aveva presa. Avvicinò una sedia al muro e, alzandosi sulle punte, staccò la pistola dal muro.
Fu un vero successo la sua apparizione, i ragazzi le si erano chiusi in cerchio e le avevano chiesto se potevano prenderla. Anche Daniel era ammirato e decise che il suo grado non sarebbe stato quello di semplice soldato ma di Ufficiale delle guardie. Christine guardò la pistola felice, soprattutto quando s’accorse che Paul con la sua fionda era solo una guardia.
Alla fine, il gioco della guerra si rivelò piuttosto ripetitivo, la fantasia era scomparsa da tempo, fagocitata da noiose guardie al fortino e scontri nel greto del torrente appena fuori del paese.
La cosa più divertente era la missione esplorativa. Grazie a questi incarichi Christine aveva cominciato a conoscere il quartiere nel quale viveva da appena un anno.
Osservare le persone che vi vivevano, lavoravano sedute sulle sedie accanto alla porta dei loro piccoli negozi o laboratori. Christine le guardava lavorare con maestria il cuoio, sorrideva di fronte al droghiere che chiacchierava di tessuti con le clienti, ascoltava le donne che si chiamavano a gran vece da un lato all’altro della strada. Com’era diverso questo quartiere da quello residenziale grigio e triste in cui abitava prima che suo padre venisse a prenderla. Quando i nonni le avevano detto che sarebbe andata a vivere con suo papà, all’inizio aveva avuto paura. Non sapeva chi fosse, per lei era una visita veloce che aveva il sapore di un dovere imposto più che desiderato. Le portava in regalo delle bambole vestite con strani abiti, le chiedeva come stava, ma non la toccava mai, solo un bacio all’arrivo e prima di andarsene. Sapeva che era ufficiale nell’esercito inglese, così come sapeva che combatteva in paesi lontani ed esotici. In India, in Africa luoghi lontani e misteriosi popolati da uomini dalla pelle scura e animali strani e pericolosi.
Pur essendo un soldato l’aveva visto una volta sola in divisa, quell’inverno in cui la macchina l’aveva aspettato in strada perché doveva partire per una nuova missione. Immediatamente aveva associato l’immagine di suo padre a quella foto sopra il tavolino in salotto: i suoi genitori nel giorno delle nozze, sorridenti e felici. Era l’unica immagine che aveva di sua madre, morta pochi giorni dopo la sua nascita, ed era anche l'unico sorriso che aveva visto sul viso di suo padre in quei sette anni.
Quando l’aveva voluta con sé, i nonni non si erano opposti, seppur contrariati dalla scelta del figlio di abbandonare l’esercito. Qualcosa, nell’ultima missione, doveva essergli accaduta, poiché la decisione di tenerla e la rinuncia al grado nell’esercito erano state concomitanti.
Lei e suo padre avevano cominciato da zero la loro vita in comune, in una nuova città, in un quartiere popolare, colorato e vivace.
Lì tutti conoscevano suo padre, l’avvocato, lo rispettavano, soprattutto da quando aveva aiutato il papà di Daniel in quella brutta faccenda con la polizia. Era un uomo colto, ricco ma non guardava dall’alto le persone, anzi era sempre affabile e disponibile anche con i più miserevoli.
«Christine!» la chiamò appena la sentì entrare quel pomeriggio. «Dove sei stata?» le chiese.
«A giocare con i ragazzi giù al fiume» rispose cercando di capire il perché dello strano tono nella voce del padre.
«Credo che questo pomeriggio si sia introdotto in casa un ladro. Ha rubato la pistola del nonno che tenevo appesa sul muro.»
L’immagine della pistola dimenticata al covo l’assalì a tradimento facendole assumere un espressione spaventata che non sfuggì a suo padre.
«Christine… ne sai qualcosa?»
Senza voce e intimorita dal quel tono incalzante riuscì solo ad annuire con il capo.
«Cosa…»
«L’ho dimenticata.»
«Dove?»
«Al campo.»
«Quale campo?»
«Quello in cui giochiamo.»
«Christine, sii più precisa, è una cosa grave. Le pistole non sono giocattoli, sono pericolose. Prendi la giacca, dobbiamo uscire.»
Per tutta la strada suo padre non parlò. Camminava veloce, preoccupato, arrabbiato.
Arrivati al covo Christine si accorse che c’erano ancora dei ragazzi, l’avrebbero certo considerata una traditrice perché vi aveva condotto un adulto. Si guardò attorno e dal fondo della baracca uscì Daniel tenendo la pistola.
Vedendo l’espressione di sollievo di suo papà Christine abbassò lo sguardo vergognandosi di ciò che aveva fatto.
Suo padre si rivolse ai ragazzi dicendo loro che le pistole non erano giocattoli ed erano stati tutti fortunati a non essersi fatti male. Lui stesso aveva sbagliato, ammise, a considerala un oggetto da appendere al muro come un quadro, ma si augurava, disse concludendo, che tutti loro avessero imparato qualcosa di utile da quella circostanza.
Il giorno dopo Christine si fece coraggio e si presentò dai suoi amici che l’accolsero dicendole che era stata sollevata dall'incarico e degradata a semplice soldato. Nessuno però, nemmeno Paul, l’accusò di aver tradito la squadra.
Tornata a casa suo padre l’attendeva nello studio, quel giorno aveva deciso di prendersi una piccola vacanza. Le chiese dove fosse stata e perché fosse rientrata così presto.
«Sono andata a salutare i miei amici. Credo che per un po’ non li vedrò.»
«Come mai? Ti hanno cacciata?» le chiese.
«No, non è questo» disse alzando lo sguardo «è che non mi piace giocare alla guerra.»
Il padre sorrise e guardando la bambina pensò che gli assomigliava più di quanto avesse creduto. Era stato uno sciocco a trascurarla così a lungo, avrebbe approfittato dell’occasione per conoscere sua figlia, prima che quei ragazzini crescessero e gliela portassero via.

 
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Peter7413
view post Posted on 5/7/2011, 21:23




Il piccolo Re

Rostagno posò la fotografia sul tavolo, contrariato.
- Non posso dire di essere soddisfatto, Barbero – disse fissando negli occhi l’uomo di fronte a sé.
Barbero ricambiò lo sguardo, ma non rispose.
- Voi eravate stato scelto con l'unico scopo di proteggere Pesenti e il fatto che siate tornato solo e per di più che abbiate perso l'uso della parola mi contraria molto.
Barbero allargò le braccia, si indicò la bocca, coperta dalla lunga barba nera, e scosse il capo.
- Cosa avete visto di così spaventoso al campo da farvi perdere la parola? Questa - e nel dirlo Rostagno alzò la fotografia che stava studiando fino a un momento prima - non dice nulla. Troppo mossa, troppo buio. Cos'è questo? Sembra un occhio. E questa? Una zampa di animale? Forse un lupo? Un cane?
Barbero assentì con il capo.
- Ma sembrerebbe attaccata a un arto umano…
Barbero fece un gesto vago, non lo sapeva neppure lui.
- Se fosse potrebbe tornarmi utile. Ma mi servirebbe un resoconto, anche scritto. Avessi saputo che eravate analfabeta non avrei acconsentito al vostro ingaggio, ma Pesenti era convinto che foste l’uomo giusto, voi, vecchio margaro delle alpi piemontesi che lo avete seguito in tutte le sue imprese. E io, folle, ho accettato senza fare domande fidandomi di quel pazzo incosciente. Ora mi siete completamente inutile!
Barbero assentì, mesto.
Rostagno si lasciò andare sullo schienale della sedia, le mani sulle tempie, quasi esasperato, e così rimase per lunghi istanti.
- Bene - si riscosse infine - proviamo a capirci qualcosa. Partiamo dall'inizio.
Barbero assentì.

- Lei è Feltrin?
- Sono io.
- Sono Pesenti dell'Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore del Regio Esercito e lui è Barbero, la mia guida alpina.
- Era ora.
- Ci serve il suo aiuto, dobbiamo salire al borgo, scattare fotografie che comprovino quello che lei ha scritto nelle sue lettere, ci deve accompagnare.
- Vi accompagnerò.
- Bene. Ma mi permetta la curiosità: perché non ha più fatto ritorno a Torino? Lei è a conoscenza che a seguito di questa sua decisione è stato degradato?
- Dovevo rimanere a guardia del presidio.
- Scusi?
- Loro sono lassù, vicini, dovevo rimanere a guardia del presidio.


Rostagno riprese in mano la fotografia, la guardò ancora a lungo e infine iniziò l'interrogatorio.
- Siete arrivati al confine senza problemi? (Barbero assentì) Bene. E Feltrin? L'avete trovato al villaggio, quello sotto il borgo maledetto? Ha accettato di accompagnarvi? Vi è apparso strano? Pazzo forse?
Barbero assentì a ogni domanda.
- Feltrin era stato inviato con una squadra di uomini scelti per scoprire le cause dietro le morti di alcuni abitanti di quel borgo in seguito a attacchi di cani neri particolarmente feroci e alla fine ci inviò il resoconto di una strage che aveva risparmiato lui solo, ma non fece mai ritorno. La vostra missione era di documentare con fotografie che mostrassero chiaramente quello che era accaduto. Di questo ne era conscio, Barbero?
Barbero assentì .
- E infatti lei è riuscito a riportarci la macchina fotografica Pettazzi da cui abbiamo ricavato questa foto e la ringrazio. Ma continuiamo. Siete saliti al borgo e vi siete entrati subito? (Barbero negò) No? Vi siete appostati al margine del bosco? Per quanto tempo? Un giorno? Va bene. E in tutto questo tempo Pesenti non ha scattato neanche una fotografia? No? Nel borgo c'era qualcuno? Nessuno? Sembrava disabitato? Sì? E Feltrin? Cosa? Cosa intende? È una croce quella che sta tracciando? Sì? E che vuol dire? Chiesa? No? Cimitero? Sì? Feltrin è stato al cimitero? Zappava? Scavava? Cosa? Dissotterava i morti? Sì? No? Non c’erano corpi? Tutti spariti? Il cimitero era vuoto?

- C’erano. Li avevo disseppelliti io stesso. Le prime tre vittime erano qui, in questa terra ora vuota. C’erano. E adesso anche le tombe più antiche sono vuote. Tutti, si è preso tutti.
- Questo in effetti è strano, un cimitero vuoto non l’avevo visto mai neanch’io, ma ora basta, Feltrin. Posi il fucile, non va usato come vanga. Mi appare provato. Venga, beva un goccio, si disseti. E poi entriamo, andiamo a vedere se è rimasto qualcosa nel borgo. Sembra non esserci nessuno e neppure abbiamo incontrato i cani neri che descriveva nelle sue lettere. Barbero è già andato in avanscoperta.
- Grazie, mi riempia questa ciotola e me la riporti. Berrò, ma voglio scavare ancora.


La luce della lampada ebbe un sussulto, Rostagno si alzò in piedi e cominciò a camminare per lo studio. - Nelle sue lettere Feltrin accennava a corpi disseppelliti da lui stesso, quelli delle prime vittime, per capire se erano affetti da malattie infettive. - disse fra sé - Però poi li ricollocò. Un cimitero vuoto è affare strano. Perché Pesenti non ha documentato con una fotografia?
Un rumore dalla finestra attirò la sua attenzione, un uccello, un corvo, gracchiava forte dall’esterno. Si avvicinò, rifletté ancora e infine tornò a sedersi.
- Entraste nel borgo? - domandò nuovamente a Barbero, che assentì - E trovaste qualcuno? No? Neanche dei corpi? No? Sangue? Assi divelte? Sì? Immagini di un assedio terminato con successo? Sì? E nessun corpo.
S’interruppe. Aprì un cassetto del mobile alle sue spalle e ne estrasse un plico di lettere. - Lettere di Feltrin - spiegò. Le posò sul tavolo, cominciò a passarle in rassegna, ne prese una.
- La scena si presentava come quella di un maniero assediato. Un maniero che un piccolo Re dei tempi antichi intendeva riconquistare. Un Re di cui le leggende narrano l’interesse per le arti arcane. Un Re che ora tornava dall’aldilà alla guida di un esercito maledetto. Animali cuciti fra loro, uomini ad animali, cani, corvi, ratti. Una maledizione antica si era insediata in quel borgo sperduto, dimenticato, attaccato dallo spirito di un Re di cui pochi hanno conservato memoria. - lesse - E va avanti così a descrivere di come alla fine il piccolo Re avesse riconquistato il suo maniero e di come avesse catturato anche lui e gli avesse fatto provare il terrore dello stare al suo fianco e infine l’avesse rifiutato, lasciandolo andare, lui solo, e si fosse tenuto tutti gli abitanti di quel borgo maledetto. Parole che pensavo di un pazzo, parole che spettava a voi confutare o meno - guardò Barbero, ma questo non batté ciglio. - Lei ha visto queste creature?
Barbero assentì, poco convinto.
- Ha visto uomini e animali uniti insieme? (Barbero negò) No? E cosa allora? Solo animali? Cani? Cani neri? Sì? Solo cani neri insomma.
Barbero assentì.
- Tabacco? - gli offrì Rostagno. No grazie, con un cenno silenzioso - Va bene, riprendiamo da dove eravamo arrivati. Entraste nel borgo e non trovaste nulla, giusto? Bene. Feltrin vi condusse alla Bottega del Pane, la taverna intorno alla quale la comunità intera si raccolse durante l’assedio? Sì? Entraste e trovaste qualcosa? No? Corpi? Animali? Niente? Decideste di fermarvi lì per la notte? Sì? E poi accadde qualcosa, giusto? Arrivò qualcosa? Cosa arrivo? I cani? I cani neri? Sì?

- Sono loro, sono venuti per noi.
- Chi?
- I cani, il suo esercito, il piccolo re.
- Barbero, fuori ci sono dei cani, sembra abbiano la rabbia, chiudi la porta, barricala. Io preparo la macchina per la fotografia, sbrigati!
- Entreranno.
- Sono solo cani Feltrin!
- Entreranno.


- I cani circondarono la Bottega del Pane? Sì? E voi? Vi barricaste? Fu in quell’occasione che Pesenti preparò la macchina per la fotografia? Sì? Gli ci volle un po’, probabilmente voleva scattarla dalla finestra della locanda? Sì? E poi cosa successe? I cani attaccarono? Ma lei aveva barricato le porte, giusto? E entrarono ugualmente?

- Ma come fanno? La porta sta per cedere! Feltrin, cosa sta facendo? Si muova! Prenda l’arma! Ma cosa fa? Si siede? Chiude gli occhi? Cosa aspetta? Barbero carica il fucile e tieniti pronto! Sono solo cani, solo cani!

- E cosa successe? Attaccarono? Feltrin fu attaccato? Sopravvisse?
Barbero fece no con il capo.
- E Pesenti? Lo difese? Continuò a manovrare la macchina mentre lo attaccavano? Che gli successe?

- Barbero, la macchina! Prendila e scappa! Corri! Corri senza fermarti, senza voltarti! La lastra è impressa! Devono vedere! Devono vedere tutti!

- Gli diede ordine di scappare con la macchina fotografica? Sì? E lei lo eseguì senza battere ciglio? Lo lasciò morire dilaniato dai cani? Perché? Era suo amico, perché lo lasciò?
Barbero si strinse nelle spalle e, come per giustificarsi, indicò la fotografia sul tavolo.
I due uomini si guardarono a lungo, in silenzio.
- Direi che la situazione è abbastanza chiara adesso - riprese infine Rostagno - La zona è infestata da un branco di cani neri affetti da rabbia. Trasmetterò le informazioni ai miei superiori e sarà predisposto al più presto un battaglione che verrà inviato per la bonifica del territorio.
Barbero si rilassò sulla sedia.
- Le sue informazioni, alla fine, si sono rivelate molto utili e il sacrificio di Pesenti non sarà vano. Le follie di Feltrin sono smascherate, a parte alcuni particolari che oserei definire curiosi non ci sono elementi per pensare al soprannaturale. Il cimitero poteva essere vuoto perché saccheggiato dai cani stessi. La porta della Bottega del Pane può aver ceduto perché mal tenuta. La fotografia con questo strano arto di animale può essere il risultato di un'errata durata dell'esposizione dovuta ai tempi accelerati dall'attacco dei cani. Si spiega tutto. Solo non mi spiego come lei possa essere sopravvissuto, Barbero. - e nel dirlo si sporse in avanti verso di lui.
Barbero alzò le spalle come a significare che non lo sapesse neanche lui e sostenne lo sguardo di Rostagno.
- Ma probabilmente anche questo può essere spiegato con la rabbia che aveva contagiato i cani. Presi dal fervore del sangue di Feltrin e di Pesenti, l'hanno lasciata fuggire. Lei è un uomo fortunato, Barbero. Il Regio Esercito le è grato per il servizio, ma si vergogni per avere abbandonato così impunemente un suo amico alla mercè del suo destino.
Il suono delle campane della città intonò la mezzanotte, il corvo continuava a gracchiare fuori dalla finestra.
- Direi che è tutto, la congedo. Vada a riposarsi, ne ha bisogno.
I due uomini si alzarono e si diressero verso la porta dello studio. Sull'uscio si strinsero la mano.
- Un'ultima cosa, se mi permette - disse ancora Rostagno.
Barbero assentì con il capo.
- Ha visto, per caso, nella Bottega del Pane, dei libri? Uno in particolare mi interessa, un libro che Feltrin diceva appartenere al piccolo Re e che aveva ritrovato e poi abbandonato nel borgo quando era dovuto fuggire: dovrebbe intitolarsi Libro del Comando.
Barbero lo guardò con aria interrogativa.
- Ah già, non sa leggere, come potrebbe averlo notato. Niente libri, dunque?
Cenno negativo.
- Come immaginavo. Buonanotte Barbero.
Si congedarono.

- Barbero, che fai? Scappa! Scappa! Cos'hai sulla spalla? Un corvo? Perché i cani non ti attaccano? Cos'è quel ratto che ti cammina sul braccio. Barbero guardami! I tuoi occhi, non sei più tu! Chi sei? Ahhh, i cani, mi uccidono! Ma non sono cani! Uomini, uomini uniti a cani! Corvi! Che creature sono? Mi uccidono! Aiuto! Barbero!

Uscito dal palazzo del Regio Esercito, Barbero si inoltrò in una via laterale. Un corvo venne a posarsi sulla sua spalla. Un ratto uscì dalla sua giacca. Un cane nero lo aspettava nell'ombra.
Portami, risuonò nella sua testa, nella sua mente, in tutto se stesso.
Portami, la voce che più non lo aveva abbandonato dal suo primo ingresso nel borgo, quando ancora Feltrin e Pesenti erano nascosti nel bosco.
Portami, la voce che aveva annullato il suo essere e l'aveva trasformato in un suddito.
Estrasse dalla tasca un libro, Libro del Comando scritto in rilievo sulla prima pagina. Lo aprì, erano disegnate istruzioni dettagliate su come cucire ratti, corvi, cani, uomini… Istruzioni su come richiamare un Dio, istruzioni su come creare un esercito di mostri a Torino e condurre il piccolo Re alla conquista del Regno.

FINE
 
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alaine
view post Posted on 5/7/2011, 21:28




Ebbene, che skannatoio sia...

PANDORA



Il carabiniere scelto Ferrante aprì il ventre della donna che ancora urlava e scalciava con foga.
Per farlo usò un mattone sbeccato; fu faticoso e uscì moltissimo sangue. Dopo il primo affondo venne investito da una zaffata terribile, da togliere il fiato, ma la ignorò e allargò la ferita scavando con le unghie nella carne. In breve si ritrovò insozzato.
Quando ci fu abbastanza spazio per affondare il volto, usò la pistola di ordinanza di traverso sullo squarcio, come un divaricatore, e morse la prima cosa molle che trovò sotto i denti.
Aveva molta fame, una fame assolutamente folle.
Il ventre della donna era caldo, lei si dimenava e urlava disperata, ma inutilmente: non c’erano orecchie disposte ad ascoltare, ma una moltitudine di braccia e bocche che la bramavano.
Altre teste putride premevano contro la sua per mangiare dal ventro aperto, teste voraci, soverchiate da una fame cieca, priva di ogni coscienza.
In breve la donna smise di urlare, ma non di contorcersi: stava agonizzando, il sistema nervoso non smetteva di mandare segnali ai muscoli, ma le convulsioni andarono via via diminuendo di intensità, fino a sparire.
Ferrante non alzò mai la testa, sarebbe stato un errore fatale, ma immaginò tutta la scena: l’orda che si avventava sulla faccia, denti piantati sul cranio, morsi a strapparle le guance, la lingua, le corde vocali, morsi in tutto il resto del corpo.
L’aveva visto molte volte e ci aveva quasi fatto l’abitudine: in pochi, lunghissimi e penosi minuti la donna morì, accompagnata da quel poco di compassione che era ancora in grado di provare e dal brusio dell’orda famelica.
La donna era stata sorpresa dentro una vecchia stazione della metropolitana.
Molti sopravvissuti cercavano rifugio sottoterra, ma per tutti si rivelava una trappola: al primo sentore di voci mormoranti o di passi strascicati nel buio, i rifugiati si spaventavano e scappavano all’esterno, ignari del fatto che raramente l’orda scendeva fin nei meandri dei tunnel. Restando in superficie, lenta e letale, aggirava invece la sua preda e ne faceva scempio.
E Ferrante con loro, ma con una grossa differenza: lui era ancora vivo.
Non sapeva più dire quanto tempo fosse trascorso: settimane, mesi o anni… o magari pochi giorni, la sua mente allucinata non ricordava quasi più nulla della sua vita precedente.
All’inizio aveva tentato di rifugiarsi e vivere in solitudine, aggrappato ad alcuni ricordi della sua vita; aveva a lungo ringraziato la sua incoscienza e il rigore del brigadiere che l’aveva degradato a carabiniere scelto, grazie ai quali era ancora vivo. Se non si fosse ubriacato e non avesse fatto a botte per futili motivi, se il suo superiore non l’avesse mandato in punizione nei magazzini di approvvigionamento, non si sarebbe mai salvato dall’attacco chimico alla sua stazione.
Non scoprì mai chi fosse il nemico né quale tipo di arma avesse utilizzato, perché in breve il nemico era ovunque.
Rimase a lungo chiuso in quel magazzino, ma realizzò che non avrebbe avuto scampo comunque: prima o poi sarebbe stato costretto a uscire a cercare cibo, e allora l’avrebbero trovato. L’idea di quella morte semplicemente lo ripugnava.
Finché un giorno perso nella sua memoria senza tempo, si ritrovò fuori a cercare cibo e l’orda lo trovò.
Assediato e disperatamente intenzionato a vivere, fu in preda al terrore che ebbe l’idea più assurda: mescolarsi a loro.
Non ricordava più nulla Ferrante di quell’episodio, riprese coscienza che era già in movimento in mezzo al branco e scoprì che sopravvivere era possibile, bastavano piccoli accorgimenti: muoversi molto lentamente, non fissare mai nessuno, immergersi nel proprio mondo interiore e spostarsi senza badare alla direzione. Non lavarsi mai e poi mai, perché i vivi sanno odore di cibo.
Il carabiniere scelto Ferrante finì per arruolarsi in un esercito immondo e perdersi in esso col corpo e con l’anima.
La sua mente era perduta, impazzita nel sapore atroce della carne umana, nel terrore quotidiano di sentire decine di mandibole chiudersi sul suo corpo, nell’ossessione routinaria della ricerca di un rifugio dove riposare, di qualcosa da mangiare che non fosse un altro essere umano o di un proiettile con cui caricare la sua pistola, per morire in modo dignitoso, senza risvegliare l’attenzione letale di uno di loro.
Eppure aveva scoperto che era possibile sopravvivere, alternando pochi istanti di lucidità a lunghe giornate di catatonica follia priva di memoria, e diventare uno di loro anche senza venire infettato.
Si alzò lentamente, ai suoi piedi restavano le spoglie irriconoscibili di una giovane donna sbranata viva. Riprese la marcia, lenta, lo sguardo fisso a terra cercando di trattenere un pianto disperato e cancellare quella nuova immagine di morte, per arrivare a sera. Ma, lui lo sapeva, non c'era più spazio per la speranza: era solo questione di tempo, il suo domani non aveva alcun futuro.
 
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kendalen
view post Posted on 5/7/2011, 21:36




Grande Matteo! Così ti vogliamo, combattivo e pugnace!
 
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655 replies since 23/6/2011, 16:37   12500 views
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