Il tabù della storia riguarda il divieto di mancare di rispetto alle opere d'arte, sia toccandole sia sollevando il velo su un mistero troppo grande. Per la storia, ho rimasticato letture tipo: le fiabe siriane e turche, le Mille e una Notte, il romanzo di Costantinopoli; mi sono ispirata alla finestra di Allah dell'architettura mozaraba, segno di umiltà dell'uomo davanti a Dio e caratteristica dell'architettura mozaraba. Un esempio si trova nell'Alcàzar di Siviglia. Poi, un'ulteriore fonte di ispirazione mi è venuta da un incubo claustrofobico di stamattina, anche se in quel caso le torri non c'entravano, ma il senso di oppressione sì.
PROIBITO TOCCARE
Di Alexandra Fischer
La torre svettava in tutta la magnificenza della pietra azzurra.
Le sue mattonelle invetriate, color cielo di aprile, avevano ammaliato parecchi visitatori venuti dalla terra occidentale.
E il suo, era un fascino mortale, come provava la macchia di sangue sul marciapiede del lato occidentale; poco lontano da una macchia, c’era un carretto con sopra un tappeto intriso quasi completamente dello stesso fluido vitale.
Un osservatore attento avrebbe anche notato che un angolo della trama era intatto e mostrava il disegno di una creatura a sei zampe coperta di piume metalliche blu notte e dal muso tondo, incorniciato da una raggiera di peluria simile a una corona di fiammelle.
Gli occhi dell’essere raffigurato nell’angolo del tappeto erano stravolti in un’espressione demente e sembravano irridere alla tragedia avvenuta poche ore prima.
Se l’osservatore in questione avesse superato il disgusto e si fosse avvicinato al carretto, avrebbe notato il rigonfiamento del tappeto e avrebbe visto anche sbucare una mano carbonizzata attraverso le frange.
E se fosse stato uno del posto, avrebbe capito subito quel che era successo e avrebbe sospirato, stupendosi di come la gente fosse tarda a imparare il rispetto per la Nicchia Velata che si trovava in cima alla torre.
Possibile che nelle guide turistiche non lo specificassero?
L’addetto al trasporto funebre arrivò con la solita indolenza che riservava ai casi come quello.
Con lui, come aiutante, c’era il custode della torre.
- L’ennesimo imbecille? – gli domandò il necroforo.
- No, a tutta prima non lo avrei detto. Sapeva che il bello della torre non è l’esterno, bensì l’interno, con le pitture su sabbia vetrificata.
- Ah, quelle che profetizzano l’avvenire della nostra città e di quanti vi soggiornano. Se era tanto furbo, come mai non ha evitato la sua morte?
Il suo compagno di lavoro allargò le braccia, apparendo ascetico nella tunica bianca che lo faceva sembrare più cadaverico del carico sul carretto.
- Non saprei dirtelo – balbettò, confuso.
Nel mentre, dalla sommità della torre planò una tortora, la quale svolazzò intorno al carretto, planando poi sul tappeto.
L’addetto al trasporto funebre fece un salto all’indietro.
- Accidenti ! – esclamò – ora neppure gli animali stanno più al loro posto.
La tortora tubò, mentre grosse lacrime le scendevano dagli occhi color ebano.
- Ma dimmi tu, anche questa mi tocca vedere –si lamentò il necroforo, un omone grande e grosso che portava una lunga casacca grigio scura con pantaloni abbinati rovinati dall’usura e dal lavoro nel cimitero.
Avrebbe voluto allontanare la prefica piumata, ma non ci riuscì.
Doveva pur salvare le apparenze davanti al custode della torre, così agitò debolmente la mano e biascicando un debole: - Sciò, sciò – all’indirizzo della tortora, la quale rimase sul tappeto ancora un po’, almeno finché le restarono lacrime da versare.
Infine, con un frullare di ali, tornò alla sommità della torre.
- Perché? – chiese il necroforo al custode.
- Le ha salvato la vita. Avvenne il primo giorno di visita. Lui la trovò con un’ala rotta e la portò dal miglior veterinario della città.
- Dunque, non era un turista qualsiasi.
- No, uno studioso, semmai e anche un amante degli animali. Quella povera bestia veniva sempre a salutarlo, tubando dalla finestra più alta della torre.
L’addetto al trasporto funebre prese il carretto.
- Ti aiuto – si offrì il custode della torre.
- Ma non hai gente che vuole visitarla?
- Figurati, con quello che è appena successo. Andiamo, ti aiuterò con la fossa e tutto il resto.
- Macché fossa, per casi come questo, basta e avanza la sabbia del deserto, altrimenti sarei scemo a usare questo vecchiume.
Era giusto, pensò il guardiano della torre.
Quel poveretto, senza volerlo, aveva infranto il tabù della Nicchia Velata e questo, malgrado i cartelli che all’entrata, riportavano in almeno trenta lingue: PROIBITO TOCCARE.
E non erano così facili da ignorare, visto che erano giganteschi.
L’altro elemento dissuasorio era costituito dalle scale.
A partire dalla prima rampa, si avvertiva una lievissima scarica elettrica, mano a mano che vi si saliva, l’elettricità aumentava, fino a diventare mortale in corrispondenza della Nicchia Velata.
A dire il vero, il congegno non era molto in uso.
Serviva più che altro come minaccia per i turisti maleducati, i quali tendevano spesso ad allungare le mani verso le pitture.
Li incuriosiva il fatto che tendessero a cambiare colore e sfondi.
Allora, il custode dapprima li minacciava e poi, azionava il meccanismo delle scariche elettriche lungo le rampe.
Qualche volta era accaduta una tragedia simile a quella che stava vivendo in quel momento; quando il velo che occultava la nicchia veniva sollevato, lui abbassava gli occhi.
Era tradizione che fosse così: il costruttore della torre aveva anche realizzato le pitture profetiche e aveva realizzato un’ultima opera, collocandola poi nella nicchia, con il divieto assoluto di toccarla oltre che di guardarla.
In caso contrario, la torre, oltre a crollare, si sarebbe trasformata in qualcos’altro.
Di più non aveva detto, ma a Kalsydha le autorità avevano dato disposizioni severissime ad attenersi al tabù.
A ogni tragedia, venivano strane creature, dal deserto vicino e berciavano nella notte, lasciandosi dietro le ossa bianche degli incauti che si erano attardati.
I pochi sopravvissuti avevano testimoniato ricordando i volti tondi dall’espressione demente di quegli esseri.
Ce n’era abbastanza da dissuadere le Mani Lunghe di turno, anche se la torre meritava di figurare fra le meraviglie da mostrare al mondo.
Era un comportamento degno della città di Kalsydha dalle molte contraddizioni, dove l’apparenza cambiava spesso.
Difatti, anche l’addetto al servizio funebre, arrivato in prossimità delle sabbie, aveva alzato gli occhi al cielo vedendo la tortora assumere una tinta cilestrina e planare sull’unico albero che delimitava il deserto blu azulene.
Il volatile si era posato sui rami pietrificati color perla e aveva osservato la scena piangendo lacrime a non finire.
- Eh – osservò il custode della torre, aiutando il necroforo a spostare il cadavere verso le sabbie – ricordo come lo accompagnava nelle sue visite, sembrava quasi volerlo tenere sull’avviso. Purtroppo, era diventato molto curioso. Si era figurato che le storie riguardassero lui e di essere sul punto di scoprire il mistero della Nicchia Velata, come se ce ne fosse uno.
- Appunto, secondo me non c’è niente da vedere, sotto quel tessuto. Può darsi che il grande artista sia rimasto a corto di idee oppure abbia voluto fare una professione di umiltà lasciando il vuoto e coprendolo con un tessuto.
- Tu cosa ne sai? Da quando sei uno studioso?
- Dimentichi che frequento la setta degli Indagatori del Mistero Supremo. Questo tappeto, ce l’avevo in custodia per le cerimonie sacre.
- E lo hai trattato così?
- Beh, per purificare la torre da un sacrilego, è andato più che bene – gli rispose.
Infine, aggiunse, trasportando il cadavere verso le sabbie.
- Tu resta qui. Siamo fortunati ad avere questo tappeto e del fatto che io sia del mestiere.
Mentre adagiava il corpo, l’uomo salmodiò delle parole a bassa voce e fece il gesto di coprire qualcosa con un velo, facendo di sì tre volte con la testa.
Infine, tornò sui suoi passi.
- Non credo che ti farà piacere restare.
- No, in effetti – ammise il custode.
Si allontanarono, mentre dietro di loro la sabbia cominciò ad agitarsi, come un liquido mescolato da un gigantesco cucchiaio.
Ne uscirono alcuni esseri dal volto tondo.
Il custode della torre ebbe la curiosità di guardarsi alle spalle e ne vide un paio affiorare fra i vorticilli.
La visione di quegli occhi dementi non lo lasciò mai più.
La tortora rimase.
Aveva visto una luce dorata, uscire dal tappeto e sapeva cos’era.
Lo spirito dello studioso stava cercando di sottrarsi alle creature fameliche e lei lo aiutò, non potendo salvarne il corpo.
Lo fece a modo suo, mandando agli esseri folli la visione di una camera inondata di luce mattutina e di una mano che riempiva una coppa di vetro di chicchi di frutta multicolore e becchime.
E poi, quella di un dito che si posava delicato su una testolina piumata.
Una volta compiuta quell’ultima opera di amicizia, la tortora riprese il suo colore originario e tornò a posarsi sulla torre, dove aveva nidificato.
Qualche volta, entrava attraverso le aperture e svolazzava contemplando i disegni; le piacevano, perché raffiguravano stormi di volatili della sua specie e anche di altre.
Le sembrava di udirne i richiami e spesso, la Nicchia Velata la tentava, mettendole nella mente la curiosità di sapere se c’era un cielo più grande effigiato sotto il velo e quali tipi di uccelli vi volassero.
Era socievole e amava la compagnia, ma non avrebbe mai osato alzare quel tessuto.
Sapeva, a modo suo, che era tabù.
E avrebbe tanto voluto saper parlare per avvertire il suo amico studioso di non andare oltre, ma l’uomo, testardo, non si era accontentato del finale alternativo mostratogli dall’ultima pittura: il ritorno in albergo, a prendere i disegni che il custode gli aveva permesso di copiare.
Lei sapeva che li aveva dimenticati sul davanzale mentre le dava da mangiare e da bere e che la pioggia, ben presto, ne avrebbe sciolta la china.
Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine