Specifiche:
Ambientazione natalizia
Temi tipici
Degradazione di una stirpe
Orrori ignoti
Culti malvagi
Bonus
Show don't tell (forse!)
Maledetto Shakespeare!
di Roberto Masini
Prologo. Mi chiamo Cesare Barolo. Secondo voi, con un nome così, che cosa potevo fare? Anticipo la vostra ovvia risposta: sì, mi occupo di vini, export, soprattutto nei paesi asiatici, o, meglio, mi occupavo. Mio padre ha voluto che mi laureassi in Lingue Orientali e fino a ieri giravo l’est del mondo, proponendo ogni tipo di vino di qualunque colore della mia regione, il Piemonte. Prima di cominciare a raccontarvi questa incredibile storia voglio però rassicurarvi che non sono un alcolizzato. Lo dico perché è questa è una delle accuse che mi ha rivolto la polizia quando ho raccontato la mia storia. Le altre: che sono un pluriomicida e una spia al servizio dell’Occidente. Sono detenuto nella colonia penale lavorativa di Yodok, in Corea del Nord. Vedo tutti i giorni l’ambasciatore svedese che funge da tramite con lo Stato italiano perché l’Italia non ha l‘ambasciata a Pyongyang. Non mi dà molte speranze e mi spinge a confessare i miei delitti ma io non ho commesso alcun omicidio nel senso che non ho ammazzato alcun essere umano.
Uno strano segnalibro. Esattamente un anno fa, era la vigilia di Natale e mi trovavo a Parigi. Mai come in quel tardo pomeriggio il soprannome di ville lumiere mi sembrava azzeccato; stavo bighellonando sulla rive gauche cercando l’ispirazione per il regalo da fare a Melissa, la mia ragazza, quando, intirizzito dal freddo e privo di un ombrello, decisi di ripararmi da un’improvvisa nevicata. Mi rifugiai nel primo negozio che vidi davanti a me e solo dopo essere entrato mi accorsi che mi trovavo nella famosa Shakespeare and Company, una storica libreria situata nel V arrondissement di Parigi. La mia storia incomincia proprio qui. Mi addentrai per quei corridoi che emanavano austera vetustà; risalii antiche scale e mi ritrovai in un piccolo ambiente pieno di libri di ogni genere: rosa, avventura, giallo, thriller e horror. Fui attratto da un libretto giallo che riportava, in lettere gotiche e strane miniature, questo titolo: Biografia di uno scrittore da quattro soldi di H.P. Lovecraft. Proprio il giorno prima, il mio amico Alfred, grande amante dell’horror, mi aveva parlato per un’ora di questo autore, il suo preferito, che lui chiamava il solitario di Providence. Mi aveva molto annoiato perché io detesto l’horror: preferisco i gialli. Su di me quindi agì la seduzione del colore della copertina: l’afferrai, l’aprii e cadde un biglietto. Era scritto in coreano, lingua che conosco poco: maneggio meglio il cinese e il giapponese. Riposi nuovamente il biglietto nel libretto, non prima di averne fatto una foto. Mi ripromettevo di farlo tradurre da qualcuno. E invece me ne dimenticai completamente.
Me ne ricordai di nuovo quando, dopo quasi un anno, ritornai a Parigi per affari. Di lì a poco dovevo ripartire e quindi inviai al mio amico Cho Jun-yong, sudcoreano, naturalizzato francese, docente alla Sorbona di antropologia culturale una mail con il messaggio allegato per ottenere un’esauriente traduzione.
* * *
Dalla finestra del decimo piano dell’hotel Shangri-la di Singapore contemplavo l’enorme piscina sottostante. Salutai con la mano la ragazza texana che avevo conosciuto la sera prima e che mi accingevo a conoscere più nel profondo a fine serata, quando dal mio portatile acceso giunse la notifica di una mail. Era il mio amico Cho che mi avvertiva, prima di leggere l’allegato, che secondo lui si trattava di una bufala. Non ci badai e aprii il file:
“Vostra Grazia Sin Min-ho vogliate prestarmi orecchio! Mi chiamo An Young-Mu vivo a Shunti-mon, un piccolo porto nell’estremo Nord della Corea. Io vengo da Orang e sono laureato in storia delle religioni. Sentii dire di pesche eccezionali e di uomini strani e decisi di andare là per indagare. Il giorno in cui partii il mio amico Zaal Dok-len cercò di dissuadermi. Mi disse che il luogo aveva una cattiva fama; diceva che gli abitanti erano persone schive, che non sopportavano gli stranieri e che quindi non valeva la pena di sprecare là il mio tempo.
Voglio dire in queste righe che li ho visti! Forse morirò per questo. Avevano la pelle rugosa e verdastra, un’andatura saltellante e gli occhi grandi, sporgenti, inespressivi e non sicuramente a mandorla come tutti noi. Ho saputo (anche se risulta assurdo credervi!) che alcuni di loro praticano un rito misterioso in una caverna ai margini del paese, verso l’interno. Ho cercato di partecipare a una loro cerimonia ma sono stato scoperto. Perciò, anche se ancora non mi è successo nulla, so di essere in pericolo. Di notte qualcuno raspa alla porta e si sente un orrendo fetore di pesce.
Anche se diffidate, prego Vostra Grazia Sin Min-ho, quale ambasciatore sudcoreano a Parigi, di voler convincere le Autorità a mandare osservatori ONU a Shunti-mon, prima che sia troppo tardi!
Devo ancora dirvi che”
A me sembrava una storia molto interessante e ne scrissi a Cho che mi rispose che non era più il caso di occuparsene in quanto quel biglietto era puro esercizio letterario: non esiste né la città di Shunti-mon né tantomeno a Parigi l’ambasciatore sudcoreano Sin Min-ho.
Shunti-mon. La perentoria risposta del mio amico professore aveva completamente spento le mie aspirazioni di detective, anche se ogni tanto pensavo che sarebbe stato avvincente indagare sul nome di quella città, poiché di lì a poco sarei andato a Pyongyang per trattare una partita di cento bottiglie di barbaresco.
Purtroppo il lavoro mi aveva costretto ad accettare di andare nella Corea del Nord proprio durante le feste natalizie. Lo comunicai con estrema riluttanza alla mia ragazza.
«Tu non pensi più a me. Tu sei uno stronzo!» mi aveva redarguito Melissa con le sue espressioni pacate e raffinate. E aveva continuato «Solo una merda come te può lasciarmi sola alla vigilia di Natale. Tu e i tuoi sporchi affari! E chi mi dice che non festeggerai là il Natale con le tue puttane coreane?»
Mentre ancora urlava, strattonandomi, risposi:
«Per me è un’occasione unica di fare affari in Corea. Sarei il primo italiano che esporta lì vini piemontesi. Non posso rinunciarvi. Ti ho già chiesto scusa. Al mio ritorno faremo un bel viaggio alle Maldive. come volevi tu!»
«In culo te, la Corea e le Maldive!»
«Cara, guarda che io non andrò a divertirmi. Te l’ho già spiegato. In tutto il mondo il 24 dicembre è la vigilia di Natale. Tranne in Corea del Nord. Per nascondere l’evento della nascita di Gesù Cristo il regime comunista ha riempito di ricorrenze, tutte a sfondo nazionalistico, le date che precedono e seguono il fatidico 25 dicembre. Quando arriverò, resterò in albergo ad aspettare il mio cliente, mentre i coreani celebrano la nascita di Kim Jong-suk, nonna dell’attuale dittatore Kim Jong-un, il “Grande successore”, e madre del “Caro leader” Kim Jong-il, andando in pellegrinaggio nella città di Hoeryong, dove la donna è nata. Non lasciamoci così. Abbracciami!»
Per tutta risposta ricevetti un pugno nello stomaco e la promessa che non l’avrei più rivista al mio ritorno. Ero sicuro mentisse.
Scusate la divagazione sulle mie beghe familiari ma serve a farvi comprendere con che spirito partii.
Giunto nella capitale nordcoreana, dopo aver concluso l’affare con Kan Dung, un grasso commerciante in prodotti ittici, avevo accettato d’incontrarlo, dopo qualche giorno, a cena, nella sua villa sul mare di Unggi, al confine con la Russia. Mi aveva messo a disposizione un’Audi R8 ma io avevo rifiutato: volevo visitare da solo un po’ della Corea, prima d’incontrarlo, e così decisi, proprio il giorno di Natale, di prendere uno scassatissimo treno che risaliva tutta la costa nord orientale, toccando città favolose quali Hamheung, Sinch’ang, Tanch’on e Ch’ongjin. Un vento gelido sferzava la carrozza ma la giornata era soleggiata e si potevano ammirare pittoreschi paesaggi lontani.
Fu proprio quasi alla fine del viaggio, dopo aver visitato Tanch’on, uno dei maggiori porti della costa est della penisola coreana che, risalendo sul treno, incontrai uno strano individuo. Sembrava un anziano monaco con lunghi capelli bianchi annodati dietro in una treccia e con baffi lunghissimi e bianchi. Fino a quel giorno avevo incontrato pochi monaci buddisti completamente rasati.
Mi sedetti vicino a lui e rimasi in silenzio perché il vecchio stava dormendo; quando riaprì gli occhi, mi guardò fisso e mi domandò, parlando in cinese:
«Straniero, dove state andando?»
«A Unggi.» risposi. «E lei?»
«A Shunti-mon.»
«Prego? Dove sta andando?»
«A Shunti-mon!» ripeté il vecchio con un’espressione stupefatta.
«Vorrebbe dire che esiste veramente una città con questo nome, qui, in Corea. Lei non può immaginare ma di questa fantomatica città ne ho parlato proprio alcune settimane fa con il mio amico Cho Jun-yong che mi ha assicurato che non esiste!»
«Il vostro amico si è sbagliato: la prossima fermata è proprio Shunti-mon, che non è una grande città: è solo un paesino. Se ho capito bene voi, vorreste visitarlo. Ve lo sconsiglio: non c’è nulla d’interessante a Shunti-mon e gli stranieri sono malvisti!»
«Lei perché ci va, allora?» chiesi, incuriosito ancor di più per i tentativi del canuto coreano di tenermi lontano.
«Perché io lì sono nato!»
«E… dove abita, se posso chiederlo?»
«Non abito più lì dal 1970!»
«Ah… Scusi, non mi sono presentato: mi chiamo Cesare Barolo, commerciante di vino.»
Il vecchio s’inchinò e, congiungendo le mani, rispose, proiettandomi di colpo in quella libreria francese:
«Il mio nome è Zaal Dok-len.»
Il treno stava rallentando ed io non potevo lasciarmi scappare l’occasione di risolvere il mistero del messaggio. Il vecchio si alzò e mi pregò di non seguirlo ma io gli dissi semplicemente:
«An Young-Mu!»
Lo aiutai a scendere.
Seduti su una panchina della stazione, che Zaal mi disse essere molto distante dal paese, gli raccontai la storia del biglietto.
Il vecchio mi ascoltò con gli occhi chiusi e poi disse:
«Barolo, voi, stando con me, correte un grande rischio perché io devo salvare il mio amico e avrò contro l’intero paese!»
«Che cosa è successo al vostro amico?»
«Non lo so esattamente ma vi devo parlare di Shunti-mon, anche se voi non crederete una sola parola di quello che vi dirò!»
Lo spronai a parlare, rassicurandolo che lo avrei ritenuto un testimone attendibile.
«Bene. Dovete sapere che una volta, tanti anni fa, Shunti-mon era un porto importante di questa parte di costa. Il commercio dei crostacei ne aveva fatto una città fiorente. Nel paese era sorta una fabbrica di produzione e vendita di calamari. Nel giugno del 1950, con l’inizio della guerra, il mio paese rimase sempre più isolato e colpito da una crisi economica senza precedenti che danneggiò ogni tipo d‘industria a cui si aggiunse una strana moria di pesci che ridusse il pescato.
Kim Tu-bong, il padrone della fabbrica stava per chiuderla, quando il figlio Kim Do-yun, che aveva studiato antropologia e mitologia orientale in America, all’Università di Miskatonic, lo convinse ad aprire una strana chiesa all’interno di una vecchia caverna ai margini del paese, in onore di Hluc Hut, un dio dell’acqua che gli avrebbe procurato nuovamente il pesce. Noi siamo una nazione atea ma qui le autorità da tempo non controllano più nulla perché il paese si è spopolato e non aveva alcuna importanza strategica. Non so quali stranì riti si compissero in quella chiesa; sta di fatto che pesci e molluschi tornarono a frotte nel tratto antistante al vecchio porto di Shunti-mon. Questo avvenimento convinse buona parte degli abitanti a partecipare ai riti in onore di Hluc Hut. Poi cominciarono le stranezze. Nacquero bambini un po’ diversi dalla maggior parte della popolazione; avevano gli occhi grandi non a mandorla e quando raggiungevano l’età di vent’anni, la loro pelle diventava rugosa e verdastra. Camminavano con andatura strascicata come se avessero problemi alle articolazioni. Nessun medico li visitò mai.
Trent’anni fa venne a visitarmi An Chin, il padre di An Young-Mu, che era scappato da Shunti-mon. Mi disse che aveva preso questa decisione, dopo aver raccolto la confessione di un ragazzo morente dagli occhi sporgenti che officiava strani riti nella grotta ai margini del paese. Il ragazzo che si chiamava Han Moon-bae mi disse che Kim Do-yun li aveva convinti che i demoni al servizio di Hluc Hut non si accontentavano più dei sacrifici umani e che volevano accoppiarsi con le donne del nostro villaggio; ne sarebbero nati dei figli con un aspetto umano che via via si sarebbe trasformato come il corpo dei demoni, ma sarebbero diventati immortali. Chi si oppose a questi voleri fu sacrificato! An Young-Mu si era laureato in storia delle religioni all’Università di Pechino e un giorno suo padre si lasciò sfuggire una parte della storia. Lui venne da me perché mi considerava la memoria storica di quei tempi passati ma io non volevo avere più niente a che fare con quei degenerati e non gli rivelai quasi nulla. Nonostante gli scarsi indizi e il mio tentativo di distoglierlo da un’indagine pericolosa, minimizzando la terribile storia che riguardava Shunti-mon, egli decise ugualmente di svolgere ricerche mitologiche proprio là. E là deve aver scoperto quanto vi ho rivelato e chissà quali altri orrori ancora! Deve aver trovato qualcuno a cui affidare quel biglietto ma le mani erano sbagliate e nessuno ha saputo più niente di lui. Io l’avevo scongiurato che, se avesse deciso di raggiungere Shunti-mon, almeno avrebbe dovuto avvisarmi circa le sue eventuali scoperte mitologiche. Cosa che non è avvenuta e per questo, nonostante la mia età, per la fraterna amicizia che mi legava a suo padre, avevo deciso di andarlo a cercare, nutrendo però poche speranze di trovarlo vivo!»
Sopraggiunse un altro treno, sferragliando, che proseguì la sua corsa senza fermarsi. Quel rumore interruppe la conversazione e mi fece capire che avevo davanti un vecchio rimbambito che, anziché parlarmi di anomalie genetiche, tirava in ballo demoni e mostri. Avevo fatto male a trastullarmi con l’idea che avrei scoperto chissà che da quel messaggio e ora mi trovavo in un posto sconosciuto a dover gestire un pazzo. Non c’erano treni che proseguivano per Unggi fino al giorno seguente e così decisi che avrei cercato un albergo per trascorrere la notte. Natale era ormai trascorso ma nulla intorno me lo faceva ricordare, se non il datario del mio orologio! Il vecchio Zaal mi pregò inutilmente di andare a dormire nella sua catapecchia dove più nessuno aveva messo piede da quando se n’era andato. Fui irremovibile e, dopo aver appreso che non esistevano taxi, lo trascinai a piedi fino al centro del paese che distava alcuni chilometri.
Tutto quello che aveva detto il vecchio non era vero: incontrai in verità poche persone ma tutte avevano gli occhi a mandorla. Solo un giovane, che avvicinai per un’informazione, nonostante il disappunto di Zaal, aveva gli occhi straordinariamente grandi e acquosi. Rispose in un cinese stentato pieno di strani gorgoglii che non c’erano alberghi a Shunti-mon. Se ne andò con un’andatura strascicata; la cosa non mi preoccupò: maggiori preoccupazioni destava in me l’eventualità di trascorrere la notte nella casa di Zaal.
* * *
La catapecchia fatiscente ci accolse alla periferia del paese; l’unica cosa in buono stato sembrava proprio il robusto portone di pino che si apriva su un cortile che in un lontano passato aveva visto cachi, ciliegi, albicocchi, cornioli, orchidee, crisantemi, fiori di loto e bambù. Zaal si guardò intorno con aria circospetta, mentre infilava la chiave nella toppa. Ma nessuno degli abitanti di Shunti-mon ci aveva in realtà degnato di uno sguardo.
Mi propose dei turni di guardia che io finsi di accettare per calmare la sua crescente inquietudine che gli stava procurando un tremore incontrollabile alle mani. Dopo mezzanotte si addormentò e subito dopo anch’io caddi in un sonno profondo.
Mi svegliai verso le due: sentivo suoni gorgoglianti provenire da portone. Mi alzai; la pancia di Zaal si sollevava e abbassava ritmicamente e dalla bocca spalancata usciva una specie di rantolo. Uscii in cortile; una luna piena rischiarava ogni cosa. Mi avvicinai al portone; udivo sciabordii e suoni gorgoglianti come se dall’altra parte ci fosse una barca che remava nell’acqua e ci fossero rane gracidanti. Un fetore di pesce mi costrinse a premere un fazzoletto sul naso. Da una piccola fessura nel legno riuscii a guardare fuori. Vicino al portone, in una zona non rischiarata dalla luna, si erano radunate non creature mostruose ma persone; mi sembrava di scorgerne le facce, le braccia e le gambe ma c’era qualcosa di sbagliato che non riuscivo a capire. Forse era il modo ciondolante con cui si muovevano, forse era il loro strano linguaggio che non assomigliava nemmeno lontanamente al coreano. In mezzo a tante perplessità si palesò una certezza: avevano cattive intenzioni. E infatti cominciarono a premere tutti insieme il portone e poi cominciarono a tempestarlo di colpi con una specie di bastone ricurvo di cui ognuno era munito.
Tornai sui miei passi.
«Zaal, Zaal, si svegli!» sussurrai. «Mi sembra che qualcuno voglia penetrare in casa. C’è la possibilità di uscire di qui senza passare dal portone?»
«Mi credete, ora?» domandò e poi aggiunse, «Seguitemi!»
Mi condusse in un’altra stanza che sembrava una cucina, e poi un’altra quasi sgombra di mobili. Lì aprì la finestra e la scavalcò. Eravamo al piano terra; non dovetti nemmeno saltare. Scoprimmo che l’orda di figure ciondolanti stava per circondare l’edificio, per cui ci lanciammo dall’unica parte che ancora non avevano raggiunto. Percorremmo una strada parzialmente lastricata e poi udimmo un grido, terrificante, abietto, che ci raggelò le vene.
«Hanno scoperto che siamo scappati!» mormorò Zaal.
Dopo poco li scorgemmo e incominciammo a correre e capimmo in un lampo che con quelle andature non ci avrebbero mai raggiunto. Le case si stavano diradando; eravamo ormai alla periferia del paese. Imboccammo un sentiero e continuammo a correre sotto la splendente luce della luna. Non vedevamo più gli inseguitori ma decidemmo di continuare. Arrivammo in prossimità di una grotta che sembrava buia e deserta. Ricordammo tutt’e due le parole di An Young-Mu sulla cerimonia segreta. Zaal Dok-len m’intimò il silenzio con l’indice sulla bocca: aveva percepito un rumore. Non fece in tempo a dirmi di tornare indietro che, dal nulla, comparve una decina di uomini armati di pistole che ci catturarono. Avevano gli occhi globulari e la pelle sembrava verdastra al chiarore della luna.
Ci condussero all’interno della grotta, tutta disseminata di statue di fattezze orripilanti. C’era un rospo alato con tentacoli al posto del volto, un colossale verme tentacolato, un gigantesco granchio, dotato di proboscide e infine un pesce-rana con piedi palmati le cui fattezze erano simili a quelle dei nostri aguzzini.
In fondo alla grotta, illuminato da una luce verdastra, stava in piedi un uomo di statura superiore ai due metri. Indossava un ampio mantello giallo che lo ricopriva interamente, lasciando scoperta solo la testa.
«Kim Do-yun!» esclamò Zaal Do-tek.
«Mi riconosci dunque!» rispose l’uomo con una voce assurda, liquida e singhiozzante. «Ti avevo detto che non saresti dovuto tornare. Il tuo odio nei confronti di Hlut Huc è grande e quindi il dio ti manda a dire attraverso me che il tempo per te è finito, come è finito il tempo del tuo accompagnatore!»
L’uomo si scostò e comparve, alle sue spalle, una statua ancor più abominevole delle altre: su un corpo umanoide spiccava una testa orribile di calamaro con antenne e tentacoli; s’intravedevano ali membranose sulla schiena.
«Prostratevi davanti a Hluc Hut ed egli aprirà per voi i cancelli delle delizie e dei desideri più sfrenati!»
Nessuno di noi due si prostrò; fummo colpiti alla nuca.
Epilogo. Quando ci svegliammo, eravamo in riva al mare. Nevicava. Onde altissime colpivano la spiaggia. Il vecchio Zaal Do-tek venne preso e gettato in mare, per sacrificarlo a Hluc Hut. Ora toccava a me.
Kim Do-yun mi chiese se volessi abbracciare il culto del dio. Rifiutai.
E allora il gigante sollevò il mantello per dare il segnale ai suoi accoliti. Sollevò il mantello e apparvero due enormi tentacoli con le ventose pulsanti. Inorridito ma deciso a lottare, prima di morire, afferrai la pistola della creatura vicino a me e cominciai a sparare e correre, correre e sparare.
* * *
Mi si accusa di aver ucciso molti uomini nel porto di Shunti-mon, tra cui il famoso commerciante di calamari Kim Do-yun. I corpi non sono stati ritrovati, dicono gli inquirenti, ma c’era sangue dappertutto sul molo.
Io continuo a negare di aver ammazzato un solo essere umano: ho invece eliminato dei mostri.
Ma forse non li ho eliminati tutti. Varrebbe la pena che qualcuno andasse a controllare!