| UN BUON VICINATO di Nitroneus
Anno 2041 Un fischio acuto e insopportabile riempì l'aria. Adrien strinse i denti e serrò le palpebre in una smorfia di dolore. Quando quel rumore cessò, l'uomo trasse un respiro affannato e spalancò gli occhi spaventati: non era sicuro di essere ancora vivo. "Va tutto bene, signor Masson?" chiese la donna che gli stava accanto, una signora raffinata ed elegante che in quel momento cercava di reggerlo. "Sì, tutto a posto," cercò di tranquillizzarla il tizio in abito da sera, sfregandosi la nuca con la mano. "E' il mio impianto neurale: da qualche giorno fa delle brutte interferenze. Ma domani me lo faccio sistemare". "Oh," sorrise la signora, "se è solo questo, le raccomando di fare attenzione a scendere le scale". Adrien si voltò e guardò i pochi gradini che lo separavano dalla sua auto nera; lì lo aspettavano l'autista e le guardie del corpo. "Non si preoccupi, signora Renard," disse, "Sarò da lei già domani. E ben riparato". Mentre la donna nascondeva con la mano bianca le labbra piegate in un lieve sorriso, Masson si chiuse nella berlina tra i suoi gorilla. "Prendi per Place Charles de Gaulle," comandò all'uomo al volante. "Louis mi ha avvisato che ieri due dei suoi corrieri sono stati trovati morti sull'Avenue de New York". L'autista annuì e spostò in avanti la leva del cambio; l'auto nera s'allontanò dalla villa e prese a ronzare per le pericolose strade della Parigi notturna. Il veicolo si mosse con rapidità tra i vecchi palazzi novecenteschi e si immise su un largo boulevard a quattro corsie. Masson rimaneva in silenzio e rifletteva su tutto il lavoro d’amministrazione che avrebbe dovuto ancora fare il giorno dopo: Louis, il figlio della signora Renard, aveva ormai vent’anni, ma era ancora troppo irresponsabile per prendersi cura degli affari lasciatigli in eredità dal padre, assassinato quasi quindici anni prima. Ma Adrien si era stancato di dirigere gli affari della famiglia Leclerq, sia quelli alla luce del sole che quelli tra i vicoli più sudici delle banlieue parigine. Che la signora Renard lo volesse o no, era giunta l’ora che Louis prendesse le redini del comando. Un scoppio distante ed il tintinnare di vetro infranto spezzarono i pensieri dell'uomo. L'auto prese a sbandare e Adrien, ancorandosi ai sedili anteriori, sollevò il capo: c'era un buco nel parabrezza, un foro circondato da una ragnatela di crepe! La testa dell'autista penzolava su una spalla, mentre la sua camicia, da bianca che era, sembrava essere diventata uno straccio lordo di sangue. "Ma quest'area non era nostra?" sbraitò la guardia del corpo di fianco al cadavere, mentre afferrava il volante e cercava di tenere l'auto in strada. "Sì!" gridò Adrien, mentre i suoi lo calcavano in basso, al riparo dai proiettili. "Doveva essere nostra!" L'auto da cui era partito il colpo letale uscì allo scoperto: una sportiva gialla, a poche decine di metri da loro, dal cui finestrino spuntava un fucile con tanto di mirino telescopico. Gli attentatori, prima fermi in una piazzola di sosta, si lanciarono all'inseguimento dell'auto nera che, sbandando, sfrecciò loro davanti. Gli scagnozzi di Masson levarono la sicura alle pistole e presero a esplodere colpi su colpi verso la vettura gialla. Ma il cecchino era attento e lucido: con precisione letale, traforò l'avambraccio del gorilla seduto alla sinistra di Masson; questo perse la presa sulla pistola e si rannicchiò strillando dentro l'abitacolo. Ma, nella pioggia di piombo che sorvolava il boulevard, un proiettile raggiunse quasi per caso la testa dello sgherro col fucile. La portiera della sportiva s'imbrattò di sangue e lo schioppo rimbalzò sull'asfalto. L'auto gialla era ora tanto vicina che Adrien riuscì a distinguere i tratti del bastardo alla guida: era Guerric Braccio d'Acciaio, il violento assassino mezzo bionico al servizio di Louis. "Figlio di..." ringhiò Adrien, prima che il nerboruto mercenario impugnasse una mitraglietta leggera e tendesse il braccio verso la berlina. Il tutore del giovane Leclerq si gettò di nuovo tra i sedili e gridò: "Louis ci ha traditi!" Il piombo sforacchiò l'intero fianco dell'auto e la guardia a destra di Masson venne crivellata. L'intero veicolo fu poi urtato con violenza: Braccio d'Acciaio li aveva speronati! L'auto nera, ridotta a un colabrodo e lanciata ancora ad alta velocità nonostante l'assenza di un piede vivo sul pedale, sbandò e le sue ruote stridettero sull'asfalto. Il mezzo andò in testacoda per sbattere poi contro il new jersey di cemento e ribaltarsi lungo il boulevard. Quando quell'inferno finì, Adrien si ritrovò accartocciato sul tettuccio rovesciato e chiazzato dal sangue delle sue guardie. Rantolò soltanto per qualche secondo: il suo respiro si estinse nel ronzio acuto che l'impianto neurale aveva ricominciato a emettere.
***
Anno 2056 Il suono sintetico di una campanella risuonò attraverso gli altoparlanti per i corridoi della scuola, richiamando in classe gli alunni. Era una giornata calda e assolata, come sempre nel piccolo paese di Greenville. Fabian, ripose nel proprio zaino la piccola console portatile con cui si stava intrattenendo ed entrò nella grande stanza dove i banchi erano sistemati in un ordine perfetto. Quando tutti i ragazzi furono seduti al proprio posto, entrò in aula la professoressa di matematica, una zitella scheletrica dai capelli a caschetto. “Buongiorno,” disse con una vocina acuta e stridula. “Su, non perdiamo altro tempo. Oggi interroghiamo: c’è qualche volontario?” Come prevedibile, l’intera classe si sforzò di non incrociare gli occhi della terribile mietitrice. Tutti ad eccezione di uno: Fabian alzò, come sempre faceva ad ogni nuovo giro d’interrogazioni, la mano destra e disse: “Io.” “Bene, Masson,” sorrise la professoressa, “vieni alla lavagna” Il ragazzo, con aria di sufficienza, si alzò dal banco e raggiunse l’ampio schermo bianco appeso alla parete a lato della cattedra. Quindi preparò le dita sul tastierino integrato e prese a digitare la lunga equazione che la sadica professoressa aveva scelto come arma per abbattere il condannato. Al termine della dettatura, mentre i compagni di classe – chi più, chi meno – ricopiavano l’esercizio apparso sulla lavagna elettronica, la donna distese le labbra in un ghigno grottesco e disse: “Bene, fammi vedere come si risolve”. Senza mostrare il minimo segno di tensione, Fabian arretrò di qualche passo e scrutò l’equazione nel suo insieme. La concentrazione era al massimo, la sua attenzione inattaccabile: i numeri entrarono nella sua mente e interagirono con rapidità, mentre attorno tutti i suoni giungevano come lontani e gravi alle sue orecchie, dai pesanti tocchi degli alunni sulle tastiere dei loro portatili alle ultime sillabe di “risolve” dette dalla professoressa, il cui timbro sembrava ora grave, espanso nel tempo. Le cifre si succedevano rapide e secondo le inequivocabili logiche della matematica, mentre il mondo attorno risultava quasi immobile. Fu un solo attimo: Fabian ritornò al tastierino e digitò il risultato dell’esercizio, senza nemmeno riportare i passaggi intermedi. Come era sempre avvenuto dal primo anno di scuola ad allora, anche di fronte ad un tale fenomeno di calcolo nessuno si stupì, nessuno ammutolì, non un complimento. Gli altri ragazzi continuavano a cercare la soluzione con la loro consueta lentezza, mentre la professoressa, come se tutto fosse normale, “Bene,” diceva, “Ti posso dare una A. Torna pure al posto”. E Fabian raggiungeva il proprio banco e, appoggiandovisi annoiato, assisteva alle difficoltà di calcolo a cui, invece, andavano incontro gli alunni interrogati dopo di lui.
“Ehi, Fabian,” chiamò un ragazzo dal campetto di basket. “Ti va di fare due tiri con noi?” Era una proposta che arrivava puntuale ormai da anni. Il giovane genio della matematica, appena uscito da scuola, decise come ogni giorno di fermarsi. Posò lo zaino al bordo del campo e disse, sempre senza troppo entusiasmo. “Avanti, cominciamo”. Fatte le squadre, la partita tra amici si avviò. Ma nemmeno qui ci fu competizione. Appena la palla fu lanciata verso l’alto, la percezione di Fabian si fece di nuovo accelerata: il mondo era per lui l’insieme delle leggi fisiche che lo governavano, un complesso disegno di vettori e forze che attraversavano le tre dimensioni dello spazio e, interagendo tra loro, gli permettevano di prevedere sulla quarta dimensione del tempo come gli oggetti in gioco si sarebbero mossi. Il tutto nell’attimo di un pensiero: le sue membra non erano più rapide, forti o scattanti, sapevano solo dove dovevano andare; bastava che la sua mente ricevesse l’input perché giungesse all’output con una velocità di calcolo impressionante. La palla fu nelle sue mani per gran parte della breve competizione e la sua squadra trionfò con un netto divario. Proprio come era accaduto il giorno prima e come sarebbe accaduto anche quello successivo. Ma anche in quest’occasione le reazioni degli altri ragazzi parvero inadeguate: nessun segno di frustrazione da parte dei perdenti, soltanto qualche sereno gesto di rassegnazione; nessuna particolare reazione da parte dei compagni di squadra, come se la partita non fosse stata giocata e vinta da lui soltanto. Sembrava quasi non si accorgessero di quella sua qualità. Fabian salutò con la solita noia, si rimise lo zaino in spalla e prese la via di casa.
“Auguri!” La voce gioiosa della madre di Fabian risuonò nel salotto, mentre il ragazzo chiudeva la porta d’ingresso. I tratti aristocratici della donna dalla pelle di porcellana mal si addicevano al buffo cappello a punta che indossava e al fischietto allungabile dentro cui ora soffiava. “Mamma,” la chiamò il figlio, mentre lei continuava a esultare per il suo quindicesimo compleanno. “Vorrei che mi parlassi di mio padre”. La madre si arrestò e si sfilò di bocca quel ridicolo fischietto. “Cosa vuoi che ti dica?” chiese con un velo di tristezza. “E’ morto in un incidente quando ti stavo ancora aspettando”. “No, non quello,” protestò Fabian, mostrando ora almeno un filo di emozione. “Di lui so solo che si chiamava Adrien e che è morto in un incidente. Ma chi era? Cosa faceva prima di conoscerti? Come ha fatto a trasmettermi il mio potere?” “Io,” lo sguardo della donna oscillava confuso lungo il pavimento. “Io questo non lo so. Lui era semplicemente Adrien.” Il giovane era esasperato: da lei non avrebbe ottenuto nulla, come sempre. “Dimmi almeno il nome dell'uomo con cui si è scontrato papà! Avevi detto che me l’avresti rivelato quando avrei compiuto quindici anni. Beh, ora li ho compiuti e vorrei sapere chi sia. Qui in paese sembra che tutti facciate finta di niente!” La madre rimase in silenzio per qualche istante. Poi, tirando un lungo respiro, si sforzò di dire: “Si chiama Guerric”. Il ragazzo fremette al pensiero di quell’uomo: l’aveva intravisto, qualche volta, fuori dalla scuola a prendere il figlio con la propria auto gialla. Non lo conosceva di persona, ma il solo incrociare quello sguardo truce e poggiare gli occhi sul suo arto bionico lo facevano rabbrividire. “Grazie,” mormorò dopo un lungo silenzio, quindi s’affrettò a lasciare casa senza nemmeno salutare.
Guerric era seduto sul divano, impegnato a leggere il giornale su un piccolo schermo portatile connesso alla rete, quando bussarono alla porta. “Louis,” chiamò, senza nemmeno alzare gli occhi dalla pagina, “vai ad aprire tu”. Un giovane sui vent’anni scese le scale con degli auricolari affondati nelle orecchie e spalancò la porta. In piedi sullo zerbino c’era un ragazzino. “Sono Fabian Masson,” si presentò quello. Poi rimase immobile con le labbra schiuse a fissare il tizio che gli aveva aperto. “Beh?” lo incalzò quest’ultimo con tono irriverente. “Che ti serve?” Riscuotendosi, Fabian balbettò: “Vorrei parlare con il signor Guerric.” “Papà, è per te,” gridò il giovane, prima di ritirarsi a grandi balzi su per le scale. “Entra, entra pure,” lo invitò la voce roca dell’uomo seduto sul divano. Il ragazzo si fece avanti e si accomodò su una poltrona alla destra del padrone di casa. “Ci conosciamo?” chiese quello, sollevando lo sguardo dal giornale elettronico ed esaminando il volto imberbe dell’ospite. “Effettivamente no,” esordì Fabian, cercando le parole giuste per giungere alla questione. “Io sono il figlio di Adrien Masson, l’uomo che,” la voce tremò, “l’uomo che morì in un incidente con lei.” “Ah,” disse Guerric, portando lo sguardo lontano, fuori dalla finestra. “Mi dispiace per quella volta. Tuo padre non si fermò allo stop e mi venne addosso. E’ un miracolo che io stesso abbia perso solo il braccio”. “No, non sono qui per accusarla,” lo interruppe il giovane. “Voglio solo sapere se lei avesse mai avuto a che fare con mio padre, prima di…” La frase s’interruppe per non citare ancora la tragedia. “Sapeva cosa facesse nella vita? Sapeva di qualche sua particolare dote?” Lo sguardo attento dei piccoli occhi del padrone di casa imprigionò quello di Fabian. Le iridi, le une riflessive e la altre speranzose, rimasero incollate per diversi secondi. “No,” disse infine Guerric. “Non ho mai conosciuto tuo padre”.
Il ragazzo sconsolato si trascinava triste lungo la strada di casa. Anche quella ricerca, come le precedenti, si era rivelata un vicolo cieco: sembrava che a Greenville, un pugno di case immerse nel verde di una pacifica baia marittima dove tutti sapevano tutto di tutti, nessuno avesse mai sentito parlare di Adrien Masson. Nemmeno sua madre! Non un indizio, non un ricordo: quel fantomatico padre sembrava essere giunto lì, aver messo incinta una donna ed essersi poi schiantato contro un auto gialla. “Adrien,” chiamò una voce dietro di lui. Fabian si voltò di scatto al nome del genitore e vide un uomo alto, sulla trentina, dal fisico atletico. “Adrien, ti ricordi di me?” ripetè l’uomo, sorridendo affabile e venendo incontro al ragazzo. Questi arretrò colto alla sprovvista e mormorò: “No, non sono io”. “Mi sembrava di averti sentito mormorare quel nome, poco fa. Lo consoci?” “Adrien Masson,” spiegò agitato il ragazzo, “era mio padre”. Lo sconosciuto lo scrutò con aria perplessa. Quindi si allontanò rapido, annunciando: “Ascolta, tornerò da te tra poco tempo, lasciami almeno un giorno. So che stai cercando delle risposte: forse potrò dartele”. “No, aspetta!” si oppose Fabian, ma l’uomo correva a gran velocità lungo la via e gridava ancora: “Ero un amico di tuo padre. Non preoccuparti, tornerò!”
Era passato solo un giorno dalla comparsa dello sconosciuto, ma tutto era già tornato alla normalità: né la madre di Fabian né Guerric sembravano dare troppa importanza a ciò che era successo. Anzi, pareva proprio non fosse accaduto nulla. Anche oggi il giovane uscì da scuola come era solito fare e si intrattenne con la consueta partita di basket dall’esito scontato. Ma quando lasciò il campetto, riconobbe in mezzo alle auto parcheggiate lungo la via l’uomo misterioso. Questi gli fece un cenno con la mano e, quando il ragazzo gli fu più vicino, lo salutò: “Fabian. Ti chiami così, giusto?” Il ragazzo annuì con uno sguardo pieno di sospetto e la mente colma di curiosità. “Salta su,” lo invitò l’uomo, indicando una lussuosa auto dalla scocca nera e lucida. “Voglio parlarti di Adrien”. Al nome del padre, Fabian non riuscì a resistere. Balzò senza alcuna cautela sul sedile anteriore del mezzo; solo quando fu chiuso nell’abitacolo in compagnia dello sconosciuto fu colto da una forte sensazione di deja vu. L’uomo mise in moto il motore elettrico dell’auto e si allontanò dalla scuola, imboccando a velocità sostenuta una via che attraversava i campi color smeraldo di Greenville. “Io sono Andrè Gerard,” esordì, dopo un lungo silenzio, l’uomo alla guida, “e, anche se non ti ricordi di me, non ci conosciamo da molto tempo”. Il ragazzo alla sua destra affondò le unghie nell’imbottitura interna della portiera: era talmente confuso e agitato che non sapeva nemmeno cosa dire. Rimase zitto e guardò Andrè, in attesa di ulteriori spiegazioni. “Cosa sai di tuo padre?” chiese quello infine. Fabian si sentì come se quell’uomo fosse in grado di pizzicare le corde della sua anima, che da tempo infinito rimanevano immobili e mute. Nessuno in quindici anni aveva mai accennato a suo padre se non per citare il suo mortale incidente. Questo signor Gerard era un completo estraneo, non sembrava nemmeno di Greenville, ma il giovane decise comunque che, per quanto rischioso, era l’unica persona da cui avrebbe potuto sapere qualcosa di nuovo. “So solo che è morto in un incidente prima che io nascessi. Qui in paese sembra che nessuna l’abbia mai conosciuto realmente. Nemmeno mia madre. A volte dubito perfino della sua esistenza”. L’uomo alla guida sorrise. Quindi la sua mano destra scivolò con furtività verso il fianco sinistro. I rumori si fecero gravi e dilatati nelle orecchie di Fabian, che poteva distinguere le vibrazioni del motore attraversare l’aria, mescolate a quelle prodotte dall’attrito tra i copertoni e l’asfalto. Il ragazzo abbassò allarmato lo sguardo sulla mano di Andrè che vide affondare con furtività sotto il lembo della giacca grigia che indossava. Osservò i suoi nervi contrarsi: aveva afferrato qualcosa ed ora l’arto stava riscivolando indietro, con il gomito chiuso. I vettori del movimento in atto si tracciarono nell’aria ed il giovane orfano potè prevedere la linea curva che l’avambraccio dell’uomo stava per tracciare al fine di protendersi verso di lui: stava senza dubbio per puntargli una pistola in faccia! D’istinto Fabian sollevò il braccio sinistro e con un movimento secco intercettò quello del suo attentatore che per l’urto finì contro il poggiatesta del sedile. La realtà tornò al suo consueto ritmo d’avanzamento e il ragazzo, con il cuore a sbattere con furia dentro il petto, guardò costernato lo sconosciuto. La sua mano reggeva soltanto una caramella. “Non esistono le pistole, nel Buon Vicinato,” disse quest’ultimo, ridendo e sistemandosi i lunghi capelli che gli erano caduti sul volto. “Ti ho osservato, lungo questo flusso di dati che tu chiami ‘giorni’, e ho notato la tua capacità di calcolare gli eventi fisici. Come se per te la realtà fosse solo un insieme di numeri e variabili”. Fabian era ancora scosso dall’attentato inscenato poco prima, ma era intenzionato a sapere qualcosa di più su quello che lui chiamava il suo dono. Andrè proseguì.: “Questo perché il luogo in cui vivi non è reale. E’ davvero soltanto un insieme di informazioni numeriche”. Il ragazzo sentì mancarsi la saliva in bocca. Portò lo sguardo sui prati piatti e uniformi di Greenville e sulle sue casette lontane, colorate e incantevoli come sempre. “E com’è che io posso ‘calcolare’ gli eventi e gli altri no?” “Perché gli altri non hanno intelligenza, sono burattini che recitano la loro parte. Anche loro sono numeri”. Fabian sentì un forte calore risalirgli dalla nuca a fargli avvampare le orecchie. Cosa stava succedendo? Sua madre, i compagni di scuola, Guerric: erano tutti dei falsi? “Allora,” mormorò corrugando la fronte, “anche mio padre non è mai esistito”. “Oh, no,” rispose Andrè, agitando il capo, “lui esiste eccome. Sei tu che non esisti.” La testa del ragazzo si piegò di scatto per interrogare lo sguardo quasi divertito dell’uomo alla guida dell’auto. “Perdonami,” disse questi con un tono tra il dispiaciuto e il rassicurante, “ma devo farlo: spiegartelo qui sarebbe impossibile.” Detto questo, le sue dita si strinsero attorno al volante e sterzarono con brutalità. Fabian afferrò con entrambe le mani lo schienale del proprio sedile ed il suo sguardo corse all’esterno. Ancora il mondo rallentò e vide tutte le forze in gioco: lo spostamento inerziale dell’auto composto con il movimento determinato dalle ruote motrici, l’attrito di asfalto e aria, la rotazione che l’intero veicolo stava per avviare attorno al proprio asse. Riuscì a prevedere l’uscita di strada ed il successivo rovinoso ribaltamento. Ma questa volta non poteva fare nulla per evitarlo. L’auto nera perse aderenza, uscì dalla carreggiata e si ribaltò nel prato che affiancava la lunga via. Fabian visse ogni istante come se fosse un secolo, fu avvolto dal dolore immenso provocato dai ripetuti urti della sua testa contro lo sportello ed il tettuccio. L’auto s’arrestò, infine, a testa in giù, con gli airbag ormai sgonfi. Il giovane, stordito dal tremendo incidente e intrappolato dalla cintura di sicurezza, si voltò a fatica e vide la testa insanguinata di Andrè, ribaltata e inerme. All’improvviso si generò nella sua mente una specie di ricordo: aveva già vissuto quel momento, quell’incidente, ma non rammentava né come né quando. Un fischio insopportabile riempì l’abitacolo e il dolore infine ebbe la meglio: respirando con affanno sempre maggiore, Fabian cedette alla necessità delle sue palpebre di chiudersi.
***
Anno 2041 Il fischio cessò. Fabian riaprì gli occhi. Quando poté distinguere l'ambiente circostante, si vide in una stanzetta disordinata e illuminata soltanto da qualche barra al neon. Seduti di fronte a lui, due uomini sulla trentina lo fissavano e sorridevano di gioia sincera. Lui era sdraiato su un seggiolone dallo schienale reclinato, i suoi muscoli erano intorpiditi e sembravano non volersi muovere. Alla sua destra uno scranno simile, da cui si stava alzando Andrè. "Tu!" lo aggredì subito Fabian, ma il fiato gli si arrestò in gola: il timbro della sua voce era divenuto grave e roco. "Calma," gli fece il tizio che l'aveva coinvolto nell'incidente, "ora ti spiegheremo tutto". Ma Fabian era ancora sconvolto dalla propria voce. Si portò le mani alla gola e il suo sguardo si piantò su quei dorsi ruvidi e contornati sul polso da una peluria grigia. Gli inviti alla tranquillità dei tre presenti non servivano a nulla. Il ragazzo si sollevò con gran sforzo, barcollò per la stanza con dei lunghi cavi elettrici ancora fissati agli spinotti dei suoi avambracci e s'avvicinò a uno specchio. Nel riflesso vide un uomo sulla sessantina, con un paio di baffi ingrigiti e il volto deturpato da diversi cerotti e punti di sutura. Nello specchio comparve anche Andrè: "Ben tornato, Adrien".
"Perciò sarei rimasto in coma 'informatico' per due giorni?" Fabian era confuso, una spiegazione del genere non era credibile. Come poteva essere che quindici anni della sua vita si concentrassero in un'illusione lunga appena due giorni? Ma i tre uomini davanti a lui annuivano. Il non-più-ragazzo si si calcò la mano sul volto, come se l'eccesso di informazioni potesse riempirgli la testa fino a farla esplodere. "Rispiegatemi con ordine, per piacere". "Sei stato coinvolto in un incidente," ripetè Andrè. "Non vedendoti tornare a casa, Edgard," e il tizio grassoccio alla sua sinistra sorrise, "ti ha cercato, ti ha trovato e ti ha nascosto qui. Insomma, ti ha salvato la vita". "E perchè mi avete collegato a quell'affare?" Fabian indicò il seggiolone, i cui cavi, ora scollegati, penzolavano dai braccioli. "Perchè il tuo sonno era troppo agitato," spiegò Edgard, un uomo pingue e dal volto bonario. "La tua temperatura corporea era alle stelle, mentre per riprenderti avresti dovuto riposare. Non avendo in casa nulla con cui indurti a un coma farmacologico, ecco arrivare la tecnologia! Ti ho mandato nella realtà virtuale con cui si rilassano gli uomini di mondo stressati dal lavoro: Greenville, meglio conosciuta come il Buon Vicinato". "Il tutto," intervenne Andrè con un tono di rimprovero, "non valutando la pericolosità di spedire un uomo reduce da un incidente stradale in un mondo alternativo per due giorni interi: i manager stressati al più ci passano un paio d'ore!" Fabian ripensò ancora alla sua vita, la sua falsa vita. "Eri confuso," proseguì Andrè, "e la tua mente, avendo perso ogni riferimento, deve aver generato dei rapporti alternativi per giustificare l'apparenza che ti circondava. Non hai vissuto quindici anni lì dentro, ma solo i due giorni di cui hai memoria. Hai perso a tal punto il rapporto con la tua persona reale che il tuo corpo rifiutava di scollegarsi secondo la procedura standard: per questo mi sono dovuto interfacciare e strapparti di lì. Ti sei inventato il tuo passato e, rielaborando la tua morte per incidente stradale, ti sei identificato in un tuo figlio che nemmeno esiste. Tu sei Adrien, sei tuo padre". Fabian teneva gli occhi chiusi e scuoteva la testa: non ricordava nulla della sua vita reale. "E perchè non mi avete portato in un ospedale?" Ed ecco intervenire anche il terzo individuo, un uomo imponente dalla pelle nera: "Dovevamo nasconderti o Guerric sarebbe tornato a farti la pelle". A quel nome Fabian trasalì: "Guerric? Il padre di Louis?" I tre uomini corrugarono perplessi la fronte. "No," fece Andrè, "Guerric è solo lo scagnozzo do Louis, fa per lui il lavoro sporco". "Ma a Greenville era il padre di Louis, un ragazzo che frequentava la mia scuola!" "Questo perchè," spiegò Edgard, "il Buon Vicinato, per disporre di un'ampia gamma di oggetti senza risultare troppo pesante, pesca direttamente dai ricordi dell'ospite tramite l'interfaccia neurale, ma decontestualizzandoli. Usando il cervello umano come library, dispone di un repertorio di oggetti praticamente infinito!" "Ditemi di Guerric," mormorò Fabian. Il nero, con un tono rude e profondo, spiegò: "Quando Edgard ti ha soccorso, anche una delle tue guardie del corpo era viva. E cosciente. Prima di crepare per il troppo sangue perso, ci ha detto che è stato Guerric ad attaccarvi. E se Guerric si muove significa che Louis ha ordinato: il ragazzino ti vuole morto". "Basta spiegazioni per oggi," lo interruppe Andrè. Poi, rivolgendosi all'uomo riemerso dal confuso sogno virtuale: "Adrien. O Fabian, se preferisci. Tu non te lo ricordi, ma dieci anni fa ci salvasti dalle banlieue e ci trasformasti da piccoli spacciatori a vassalli del traffico di droga della famiglia Leclerq per la periferia parigina. Ora ti abbiamo salvato dalle grinfie di Louis, perciò avremmo pareggiato i conti. Ma in questo momento sei l'unico che può aiutarci, perciò dobbiamo chiederti ancora un favore". "Dimmi," mormorò il ragazzo-non-ragazzo, sfregandosi sempre più confuso la fronte. "Louis ci ha convocato tutti e tre, domani sera, alla sua villa. Il pretesto è la riorganizzazione del lavoro ora che il suo tutore è scomparso. Ma sappiamo bene quali siano le sue vere intenzioni". Fabian interrogò l'uomo con lo sguardo. "Adrien," concluse quello, porgendogli una pistola, "le sue guardie si fidano di te. Tu ci devi salvare".
La sera seguente tra auto nere oltrepassarono i cancelli della villa dei Leclerq e si disposero con ordine nel cortile. Dalle portiere aperte uscirono Andrè, Edgard e il nero, accompagnati da una decina di scagnozzi in giacca e cravatta. Mentre le automobili venivano portate al box sotterraneo ricavato sotto le antiche mura, il trio raggiunse l'ingresso principale, in cima a una breve scalinata. Lì, oltre al maggiordomo, li attendeva una guardia armata che li perquisì come da prassi. In silenzio e senza scorta, i tre varcarono i portoni e seguirono il maggiordomo fino allo studio privato di Louis. Qui entrarono con passi cauti, mentre nella piccola stanza arredata con lusso li attendeva il giovane Leclerq. "Buonasera," sorrise con un'espressione trasudante la più viscida delle falsità. "Sono contento che siate venuti tutti e tre".
Tra le ricche automobili posteggiate sotto il palazzo della grande famiglia, faceva la solita noiosa ronda un vecchio guardiano. La monotonia del luogo fu però interrotta da un paio di tonfi sordi. Lo sgherro si mise in allerta e sfilò la pistola che teneva al fianco, facendone scattare la sicura. "Chi va là?" Seguendo i tonfi successivi, il guardiano si avvicinò alla parte posteriore di uno dei tre veicoli che erano giunti in serata: i rumori arrivavano da quel baule. Con un scatto notevole per la sua età, l'uomo si procurò le chiavi dell'auto appese nel box dell'usciere e fece scattare la serratura con il radiocomando. Quindi, con un movimento rapido, sollevò il baule della berlina e puntò la pistola nel vano buio. Dentro vi scorse un uomo legato e imbavagliato. Era il signor Masson. Rinfoderando il ferro, il guardiano soccorse il vecchio conoscente. "Come è finito qui dentro?" gli chiese, strappandogli il nastro dalle labbra. "Non dare l'allarme!" sibilò subito Adrien. "Gli uomini che mi hanno rapito ora si trovano da soli con Louis Leclerq. Se capiscono che sono stati scoperti potrebbero reagire male!" "Ehi," gracchiò la ricetrasmittente del guardiano, "Che succede lì?" "Nulla," rispose quello, facendo un cenno alla telecamera di sorveglianza. "Vieni qui sotto, da solo. Devi vedere una cosa". "Dovete portarmi da Louis," sussurrò ancora Adrien. "E non avvisate altre guardie: eviterò che questa faccenda finisca nel sangue".
"Signori," esordì Louis, facendo accomodare gli ospiti ed offrendo loro dello champagne. "Volevo solo informarvi che ho già messo in movimento tutte le squadre di ricerca per rintracciare il signor Masson. La cattiva notizia è che non lo abbiamo ancora trovato; quella buona è che non abbiamo trovato nemmeno il suo cadavere". I tre fissavano disgustati il giovane dall'aria falsa e spavalda. "Per ora," aggiunse quello, "essendo scomparso l'unico tramite tra me e voi ragazzi delle banlieue, vi rendo noto che, finchè il signor Masson non sarà di nuovo tra noi, mi sentirò libero di prendere qualsiasi decisione sui vostri quartieri, anche senza avervi prima consultato". I colli degli ospiti s'irrigidirono e gli angoli delle loro bocche si piegarono in un'espressione feroce. "Non fraintendetemi," ridacchiò, sempre più viscido, il giovane, "credo che vi consulterò comunque, se lo riterrò necessario, ma questo non significa che vi darò retta". I tre scattarono in piedi e i loro pugni vibranti già bramavano di spaccare la faccia a quell'impudente. Ma le porte dello studiolo si spalancarono: sulla soglia si stagliò la figura di Adrien, terribile nel suo abito elegante lordo di sangue secco e la faccia attraversata da suture ancora fresche. Dietro di lui soltanto un paio di guardie della villa. Tutti gli altri passaggi erano chiusi. Louis rimase congelato sul posto, mentre i tre ospiti si sciolsero in un risolino sadico. Adrien avanzò all'interno della stanza e si fermò di fronte al giovane Leclerq. Questo non aveva più quell'espressione da menefreghista che tanto lo rendeva insopportabile a Greenville. "Signor Masson, lei..." biascicò Louis, ma fu interrotto da Adrien che, divorato dal rancore, dichiarò: "Louis, tu hai fatto uccidere mio padre". Il giovane lo fissò perplesso. "Suo padre? Ma ero solo un bambino quando è morto, nemmeno me lo ricordo!" "Tu," riprese Adrien, come un attore che ripete una battuta sbagliata, "mi hai fatto uccidere da Guerric". "Ma cosa dice?" si difese il ragazzo. "Non lo vedevo da almeno due settimane! L'ho richiamato giusto ieri per sorvegliare la villa, dopo che lei era scomparso!" "Tu hai cancellato la mia vita!" ringhiò Adrien, sfilando da sotto la giacca una pistola e piantandola ad un centimetro dalla fronte del giovinastro. Proprio come accadeva a Greenville, il mondo attorno rallentò in maniera vertiginosa. Il precettore del giovane Leclerq rimase per un attimo a bocca aperta di fronte a quell'inaspettato sviluppo. Ma quando percepì, tra i suoni gravi e soffocati, lo scarrellare delle armi dietro di lui, capì che non c'era tempo da perdere. Roteò su se stesso e poté vedere i tre amici delle banlieue lanciarsi al pavimento per mettersi al riparo; gli scagnozzi nell'anticamera stavano sollevando le canne verso di lui. Ammirò dipingersi nell'aria i movimenti che i loro arti stavano per compiere e calcolò l'ipotetica traiettoria dei proiettili che sarebbero stati sparati nella sua direzione. Scartò di lato e corse attraverso la stanza, levandosi da quelle spietate linee tratteggiate che poco dopo furono percorse dal piombo. Sbattendo contro la parete, lo spaventato Adrien, mente da ragazzino in un corpo da sessantenne, sollevò la pistola verso la porta spalancata. Di nuovo videe le linee cinetiche dei due guardiani che scartavano di lato per mettersi al riparo: poté prevedere con precisione dove sarebbero stati di lì a un secondo. Si fece coraggio e premette per due volte il grilletto: i proiettili attraversarono l’addome dei due che, con il respiro spezzato, si afflosciarono lenti sul pavimento. Ancora tremante, Adrien rivolse il ferro verso Louis che, terrorizzato, si era rannicchiato come un ratto messo alle strette nell'angolo più lontano della stanza. Nessun vettore indicava che si sarebbe mosso di lì, Adrien percepiva soltanto le vibrazioni del suo corpo scosso dai tremiti. Puntò la canna verso la sua testa. "No!" Il grido di protesta arrivò grave e vibrato come tutti gli altri suoni, ma terminò al suo corretto tono acuto, riscattando Adrien dal suo stato di calcolo della realtà. L'uomo si voltò: nell'anticamera c'era una donna dalla pelle di porcellana con le lacrime agli occhi. "Mamma?" chiese il non-più-ragazzo, non riuscendo a tenere a freno l'emozione. Ma la signora Renard era troppo sconvolta per prestare attenzione all’uscita di quello che credeva essere lo stesso Masson di tre giorni prima. “Ti prego,” lo implorò, “risparmia mio figlio”. "Mamma," singhiozzò quasi Adrien, come se l'apparizione gli avesse fatto dimenticare tutte le spiegazioni ricevute dai suoi salvatori. "Ma sono io tuo figlio". Lo scoppio secco e senza eco di uno sparo interruppe il dialogo. Adrien si portò una mano al petto e le sue dita furono da subito coperte di sangue. Un fischio acuto cominciò a riempirgli le orecchie, coprendo i rumori del luogo. Ferito, l'uomo si voltò verso Louis: sapeva che non avrebbe fatto a tempo ad evitare il secondo colpo. Ma, quando lo vide, era ancora là nell'angolo, disarmato e codardo, a farsi scudo con le sole braccia. Il botto sordo di un nuovo sparo risuonò tra le quattro mura e anche il ventre di Louis si bagnò di sangue. In ginocchio e senza più fiato, Adrien lasciò cadere la pistola e si torse quanto bastò per scoprire Andrè sdraiato al fianco di una guardia morta, con il fucile di quella stretto tra le mani. La canna ora era sollevata verso la donna che il ragazzo di Greenville ancora credeva sua madre: nemmeno sentì il colpo, questa volta. Mentre il fischio acuto strideva con violenza, distinse appena la donna crollare a terra. Attraverso i sensi ormai avvolti da una fitta nebbia, intravide Guerric accorrere nella stanza insieme a un folto gruppo di guardie messe in allarme dalla sparatoria. Non ne fu sicuro, ma gli parve che Andrè, mentre lo additava come l'assassino che aveva appena sterminato i Leclerq, scambiasse con l'omone dal braccio meccanico un furtivo sguardo d'intesa. Infine il nulla.
***
Anno 2056 “Ah, dannazione!” sbottò Guerric, arrivando nel braccio di rieducazione del carcere di Parigi. All’interno vi trovò Andrè, il carceriere che copriva il turno prima del suo, piegato sulle apparecchiature elettroniche che gestivano e monitoravano la realtà virtuale in cui erano calati i detenuti all’interno dello stanzone. La sua attenzione sembrava rivolta a un uomo sui trent’anni, affondato in una grande poltrona e collegato ad essa con alcuni cavi infilati negli spinotti cutanei dei suoi avambracci. Questo stava vibrando con violenza e schiumava dalla bocca. Andrè ridacchiava in maniera sadica, gettando di tanto in tanto un’occhiata ad uno degli schermi del sistema informatico, sul quale si vedeva l’immagine sfocata di una donna che crollava a terra. “Lo hai collegato di nuovo a Mafia!” protestò Guerric, scostando il secondino e mettendosi al lavoro sul software di connessione neurale per salvare la mente del poveretto. “Come vuoi riuscire a rieducarli se li infili ogni giorno in un simulatore di crimine?” “Quel programma di rieducazione, Greenville, è una noia mortale,” rispose il primo carceriere. “Otto ore a controllare che trascorrano una vita pacifica in un paesino americano. Che tristezza! E’ troppo divertente vedere come ci rielaborano ogni volta dentro a Mafia! Pensa che tu questa volta eri un assassino con un braccio meccanico!” Anche Guerric si lasciò scappare un sorriso, pensando a quanto le decontestualizzazioni di quei potenti software potessero talvolta risultare divertenti. “Si è verificata ancora quell’accelerazione digitale del pensiero?” “Sì,” rispose l’altro. “E sempre più spesso. Non vorrei trovarmi nei panni di uno sbirro quando i primi esperimenti di rieducazione saranno terminati: entrano che sono feccia ed escono che sono dei cyborg psicotici!” Guerric terminò la procedura di scollegamento e levò gli spinotti dal braccio del galeotto. Questi sbarrò gli occhi e, con tutto il mento ricoperto di schiuma bianca, trasse un rumoroso respiro, come se non avesse inalato aria da diversi minuti. Si guardò spaesato attorno e vide alla sua sinistra un uomo massiccio dalla pelle nera, immerso nel sonno indotto dalle macchine della realtà virtuale. Alla sua destra altri due seggioloni con un paio di detenuti dormienti, dei quali poteva leggere il nome sui cartellini infilati nelle tute da carcerati: del più lontano, un uomo grassoccio, distingueva soltanto il nome, “Edgard”; del ragazzo che giaceva accanto a lui poteva leggere per intero la stampa, “Louis Leclerq”. “Lascialo perdere,” sospirò Guerric, controllando che catetere, padella e flebo del detenuto fossero al loro posto. “E’ solo un piccolo stupratore bastardo. Ma quando uscirà di qui, sarà una persona nuova. Sempre ammesso che qualcuno non lo infili in un simulatore di crimine.” “Dove sono?” chiese il detenuto confuso ai secondini. “Ah,” sospirò annoiato Andrè, “ce lo chiedi ogni volta e ogni volta ti dimentichi. Benvenuto nel programma di rieducazione mentale per i criminali dell’Ile-de-France!” “Succede questo,” continuò Guerric, mentre già lo ripuliva dalla bava e gli ricollegava i cavi agli spinotti, “a chi ammazza papà e mamma per una stupida questione di soldi e droga”. Il prigioniero si irrigidì e l’immagine di sua madre colpita a morte da un proiettile gli si palesò in tutta la sua tragica e travolgente emozione. Guerric riavviò il sistema di gestione della realtà virtuale, mentre Andrè, facendo sobbalzare sulla mano aperta il chip del suo simulatore di crimine, lasciava la stanza, sussurrando al detenuto dalla pelle nera: “Domani tocca a te”. “Buonanotte, Fabian Masson” augurò il secondino rimasto al condannato appena risvegliato ma già obbligato a riaddormentarsi. “Spero che a Greenville tu possa godere della risanante compagnia di un Buon Vicinato”.
Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'
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