Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio, gennaio 2013, edizione XIV, Arduo da vedere il Lato Oscuro è
* Campionato aut-inv 2012, 9 di 12

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Cattivotenente
view post Posted on 31/12/2012, 17:04




CITAZIONE (Sol Weintraub @ 31/12/2012, 14:08) 
CITAZIONE (Cattivotenente @ 31/12/2012, 12:43) 
Sarà già un miracolo scrivere qualcosa per questa, visti i miei attuali impegni e il lavoro che mi accingo a fare per la catena...

Questo è interessante. ^_^

Ogni promessa é debito, Sol. Come preannunciato a Livio, dal 3 gennaio tornerò nella mia fucina letteraria per dar vita a un capolavoro fanta/fantasy/science/weird/steam fiction!
Ho detto.
 
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view post Posted on 31/12/2012, 17:35
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E vabbè... Mettiamoci al lavoro, tanto io ho la febbre, le piccole la tosse e il raffreddore, c'è poco da veglionare. :(
Certo se il mio maritino rimanesse a casa con le bimbe e io mi prendessi un paio di oki...
Se vedete il mio racconto domani vuol dire che mi è andata male! Intanto buon fine anno a tutti! :) non vi ubriacate troppo! :)
 
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view post Posted on 31/12/2012, 18:21
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@polly

Mmm... qui febbre ci cova!!!
Sembra fatto a posta per rimanere a casa a scrivere!!!!
 
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view post Posted on 1/1/2013, 01:14
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Febbroso anche tu Rov?
 
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view post Posted on 1/1/2013, 08:14
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No, no... Sono solo il papà di un topolino che alle 10 meno un quarto si è addormentato e si è svegliato due minuti fa dicendo: "Tetta?"

Tanti auguri a tutti
 
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view post Posted on 1/1/2013, 10:08
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Eheheh! Picchietto!
:)
Comunque nonostante bimbe e febbre non ho scritto nulla lo stesso, invasione di amici all'ultimo momento...


Buon anno ragnacci!
 
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Nitroneus
view post Posted on 1/1/2013, 23:06




UN BUON VICINATO
di Nitroneus

Anno 2041
Un fischio acuto e insopportabile riempì l'aria.
Adrien strinse i denti e serrò le palpebre in una smorfia di dolore. Quando quel rumore cessò, l'uomo trasse un respiro affannato e spalancò gli occhi spaventati: non era sicuro di essere ancora vivo.
"Va tutto bene, signor Masson?" chiese la donna che gli stava accanto, una signora raffinata ed elegante che in quel momento cercava di reggerlo.
"Sì, tutto a posto," cercò di tranquillizzarla il tizio in abito da sera, sfregandosi la nuca con la mano. "E' il mio impianto neurale: da qualche giorno fa delle brutte interferenze. Ma domani me lo faccio sistemare".
"Oh," sorrise la signora, "se è solo questo, le raccomando di fare attenzione a scendere le scale".
Adrien si voltò e guardò i pochi gradini che lo separavano dalla sua auto nera; lì lo aspettavano l'autista e le guardie del corpo. "Non si preoccupi, signora Renard," disse, "Sarò da lei già domani. E ben riparato".
Mentre la donna nascondeva con la mano bianca le labbra piegate in un lieve sorriso, Masson si chiuse nella berlina tra i suoi gorilla. "Prendi per Place Charles de Gaulle," comandò all'uomo al volante. "Louis mi ha avvisato che ieri due dei suoi corrieri sono stati trovati morti sull'Avenue de New York". L'autista annuì e spostò in avanti la leva del cambio; l'auto nera s'allontanò dalla villa e prese a ronzare per le pericolose strade della Parigi notturna.
Il veicolo si mosse con rapidità tra i vecchi palazzi novecenteschi e si immise su un largo boulevard a quattro corsie. Masson rimaneva in silenzio e rifletteva su tutto il lavoro d’amministrazione che avrebbe dovuto ancora fare il giorno dopo: Louis, il figlio della signora Renard, aveva ormai vent’anni, ma era ancora troppo irresponsabile per prendersi cura degli affari lasciatigli in eredità dal padre, assassinato quasi quindici anni prima. Ma Adrien si era stancato di dirigere gli affari della famiglia Leclerq, sia quelli alla luce del sole che quelli tra i vicoli più sudici delle banlieue parigine. Che la signora Renard lo volesse o no, era giunta l’ora che Louis prendesse le redini del comando.
Un scoppio distante ed il tintinnare di vetro infranto spezzarono i pensieri dell'uomo. L'auto prese a sbandare e Adrien, ancorandosi ai sedili anteriori, sollevò il capo: c'era un buco nel parabrezza, un foro circondato da una ragnatela di crepe! La testa dell'autista penzolava su una spalla, mentre la sua camicia, da bianca che era, sembrava essere diventata uno straccio lordo di sangue.
"Ma quest'area non era nostra?" sbraitò la guardia del corpo di fianco al cadavere, mentre afferrava il volante e cercava di tenere l'auto in strada.
"Sì!" gridò Adrien, mentre i suoi lo calcavano in basso, al riparo dai proiettili. "Doveva essere nostra!"
L'auto da cui era partito il colpo letale uscì allo scoperto: una sportiva gialla, a poche decine di metri da loro, dal cui finestrino spuntava un fucile con tanto di mirino telescopico. Gli attentatori, prima fermi in una piazzola di sosta, si lanciarono all'inseguimento dell'auto nera che, sbandando, sfrecciò loro davanti.
Gli scagnozzi di Masson levarono la sicura alle pistole e presero a esplodere colpi su colpi verso la vettura gialla. Ma il cecchino era attento e lucido: con precisione letale, traforò l'avambraccio del gorilla seduto alla sinistra di Masson; questo perse la presa sulla pistola e si rannicchiò strillando dentro l'abitacolo. Ma, nella pioggia di piombo che sorvolava il boulevard, un proiettile raggiunse quasi per caso la testa dello sgherro col fucile. La portiera della sportiva s'imbrattò di sangue e lo schioppo rimbalzò sull'asfalto.
L'auto gialla era ora tanto vicina che Adrien riuscì a distinguere i tratti del bastardo alla guida: era Guerric Braccio d'Acciaio, il violento assassino mezzo bionico al servizio di Louis.
"Figlio di..." ringhiò Adrien, prima che il nerboruto mercenario impugnasse una mitraglietta leggera e tendesse il braccio verso la berlina. Il tutore del giovane Leclerq si gettò di nuovo tra i sedili e gridò: "Louis ci ha traditi!"
Il piombo sforacchiò l'intero fianco dell'auto e la guardia a destra di Masson venne crivellata. L'intero veicolo fu poi urtato con violenza: Braccio d'Acciaio li aveva speronati! L'auto nera, ridotta a un colabrodo e lanciata ancora ad alta velocità nonostante l'assenza di un piede vivo sul pedale, sbandò e le sue ruote stridettero sull'asfalto. Il mezzo andò in testacoda per sbattere poi contro il new jersey di cemento e ribaltarsi lungo il boulevard. Quando quell'inferno finì, Adrien si ritrovò accartocciato sul tettuccio rovesciato e chiazzato dal sangue delle sue guardie. Rantolò soltanto per qualche secondo: il suo respiro si estinse nel ronzio acuto che l'impianto neurale aveva ricominciato a emettere.

***

Anno 2056
Il suono sintetico di una campanella risuonò attraverso gli altoparlanti per i corridoi della scuola, richiamando in classe gli alunni. Era una giornata calda e assolata, come sempre nel piccolo paese di Greenville. Fabian, ripose nel proprio zaino la piccola console portatile con cui si stava intrattenendo ed entrò nella grande stanza dove i banchi erano sistemati in un ordine perfetto.
Quando tutti i ragazzi furono seduti al proprio posto, entrò in aula la professoressa di matematica, una zitella scheletrica dai capelli a caschetto. “Buongiorno,” disse con una vocina acuta e stridula. “Su, non perdiamo altro tempo. Oggi interroghiamo: c’è qualche volontario?”
Come prevedibile, l’intera classe si sforzò di non incrociare gli occhi della terribile mietitrice. Tutti ad eccezione di uno: Fabian alzò, come sempre faceva ad ogni nuovo giro d’interrogazioni, la mano destra e disse: “Io.”
“Bene, Masson,” sorrise la professoressa, “vieni alla lavagna”
Il ragazzo, con aria di sufficienza, si alzò dal banco e raggiunse l’ampio schermo bianco appeso alla parete a lato della cattedra. Quindi preparò le dita sul tastierino integrato e prese a digitare la lunga equazione che la sadica professoressa aveva scelto come arma per abbattere il condannato.
Al termine della dettatura, mentre i compagni di classe – chi più, chi meno – ricopiavano l’esercizio apparso sulla lavagna elettronica, la donna distese le labbra in un ghigno grottesco e disse: “Bene, fammi vedere come si risolve”.
Senza mostrare il minimo segno di tensione, Fabian arretrò di qualche passo e scrutò l’equazione nel suo insieme. La concentrazione era al massimo, la sua attenzione inattaccabile: i numeri entrarono nella sua mente e interagirono con rapidità, mentre attorno tutti i suoni giungevano come lontani e gravi alle sue orecchie, dai pesanti tocchi degli alunni sulle tastiere dei loro portatili alle ultime sillabe di “risolve” dette dalla professoressa, il cui timbro sembrava ora grave, espanso nel tempo. Le cifre si succedevano rapide e secondo le inequivocabili logiche della matematica, mentre il mondo attorno risultava quasi immobile.
Fu un solo attimo: Fabian ritornò al tastierino e digitò il risultato dell’esercizio, senza nemmeno riportare i passaggi intermedi.
Come era sempre avvenuto dal primo anno di scuola ad allora, anche di fronte ad un tale fenomeno di calcolo nessuno si stupì, nessuno ammutolì, non un complimento. Gli altri ragazzi continuavano a cercare la soluzione con la loro consueta lentezza, mentre la professoressa, come se tutto fosse normale, “Bene,” diceva, “Ti posso dare una A. Torna pure al posto”.
E Fabian raggiungeva il proprio banco e, appoggiandovisi annoiato, assisteva alle difficoltà di calcolo a cui, invece, andavano incontro gli alunni interrogati dopo di lui.

“Ehi, Fabian,” chiamò un ragazzo dal campetto di basket. “Ti va di fare due tiri con noi?”
Era una proposta che arrivava puntuale ormai da anni. Il giovane genio della matematica, appena uscito da scuola, decise come ogni giorno di fermarsi. Posò lo zaino al bordo del campo e disse, sempre senza troppo entusiasmo. “Avanti, cominciamo”.
Fatte le squadre, la partita tra amici si avviò. Ma nemmeno qui ci fu competizione. Appena la palla fu lanciata verso l’alto, la percezione di Fabian si fece di nuovo accelerata: il mondo era per lui l’insieme delle leggi fisiche che lo governavano, un complesso disegno di vettori e forze che attraversavano le tre dimensioni dello spazio e, interagendo tra loro, gli permettevano di prevedere sulla quarta dimensione del tempo come gli oggetti in gioco si sarebbero mossi. Il tutto nell’attimo di un pensiero: le sue membra non erano più rapide, forti o scattanti, sapevano solo dove dovevano andare; bastava che la sua mente ricevesse l’input perché giungesse all’output con una velocità di calcolo impressionante. La palla fu nelle sue mani per gran parte della breve competizione e la sua squadra trionfò con un netto divario. Proprio come era accaduto il giorno prima e come sarebbe accaduto anche quello successivo.
Ma anche in quest’occasione le reazioni degli altri ragazzi parvero inadeguate: nessun segno di frustrazione da parte dei perdenti, soltanto qualche sereno gesto di rassegnazione; nessuna particolare reazione da parte dei compagni di squadra, come se la partita non fosse stata giocata e vinta da lui soltanto. Sembrava quasi non si accorgessero di quella sua qualità.
Fabian salutò con la solita noia, si rimise lo zaino in spalla e prese la via di casa.

“Auguri!” La voce gioiosa della madre di Fabian risuonò nel salotto, mentre il ragazzo chiudeva la porta d’ingresso. I tratti aristocratici della donna dalla pelle di porcellana mal si addicevano al buffo cappello a punta che indossava e al fischietto allungabile dentro cui ora soffiava.
“Mamma,” la chiamò il figlio, mentre lei continuava a esultare per il suo quindicesimo compleanno. “Vorrei che mi parlassi di mio padre”.
La madre si arrestò e si sfilò di bocca quel ridicolo fischietto. “Cosa vuoi che ti dica?” chiese con un velo di tristezza. “E’ morto in un incidente quando ti stavo ancora aspettando”.
“No, non quello,” protestò Fabian, mostrando ora almeno un filo di emozione. “Di lui so solo che si chiamava Adrien e che è morto in un incidente. Ma chi era? Cosa faceva prima di conoscerti? Come ha fatto a trasmettermi il mio potere?”
“Io,” lo sguardo della donna oscillava confuso lungo il pavimento. “Io questo non lo so. Lui era semplicemente Adrien.”
Il giovane era esasperato: da lei non avrebbe ottenuto nulla, come sempre. “Dimmi almeno il nome dell'uomo con cui si è scontrato papà! Avevi detto che me l’avresti rivelato quando avrei compiuto quindici anni. Beh, ora li ho compiuti e vorrei sapere chi sia. Qui in paese sembra che tutti facciate finta di niente!”
La madre rimase in silenzio per qualche istante. Poi, tirando un lungo respiro, si sforzò di dire: “Si chiama Guerric”.
Il ragazzo fremette al pensiero di quell’uomo: l’aveva intravisto, qualche volta, fuori dalla scuola a prendere il figlio con la propria auto gialla. Non lo conosceva di persona, ma il solo incrociare quello sguardo truce e poggiare gli occhi sul suo arto bionico lo facevano rabbrividire. “Grazie,” mormorò dopo un lungo silenzio, quindi s’affrettò a lasciare casa senza nemmeno salutare.

Guerric era seduto sul divano, impegnato a leggere il giornale su un piccolo schermo portatile connesso alla rete, quando bussarono alla porta. “Louis,” chiamò, senza nemmeno alzare gli occhi dalla pagina, “vai ad aprire tu”.
Un giovane sui vent’anni scese le scale con degli auricolari affondati nelle orecchie e spalancò la porta. In piedi sullo zerbino c’era un ragazzino.
“Sono Fabian Masson,” si presentò quello. Poi rimase immobile con le labbra schiuse a fissare il tizio che gli aveva aperto.
“Beh?” lo incalzò quest’ultimo con tono irriverente. “Che ti serve?”
Riscuotendosi, Fabian balbettò: “Vorrei parlare con il signor Guerric.”
“Papà, è per te,” gridò il giovane, prima di ritirarsi a grandi balzi su per le scale.
“Entra, entra pure,” lo invitò la voce roca dell’uomo seduto sul divano.
Il ragazzo si fece avanti e si accomodò su una poltrona alla destra del padrone di casa.
“Ci conosciamo?” chiese quello, sollevando lo sguardo dal giornale elettronico ed esaminando il volto imberbe dell’ospite.
“Effettivamente no,” esordì Fabian, cercando le parole giuste per giungere alla questione. “Io sono il figlio di Adrien Masson, l’uomo che,” la voce tremò, “l’uomo che morì in un incidente con lei.”
“Ah,” disse Guerric, portando lo sguardo lontano, fuori dalla finestra. “Mi dispiace per quella volta. Tuo padre non si fermò allo stop e mi venne addosso. E’ un miracolo che io stesso abbia perso solo il braccio”.
“No, non sono qui per accusarla,” lo interruppe il giovane. “Voglio solo sapere se lei avesse mai avuto a che fare con mio padre, prima di…” La frase s’interruppe per non citare ancora la tragedia. “Sapeva cosa facesse nella vita? Sapeva di qualche sua particolare dote?”
Lo sguardo attento dei piccoli occhi del padrone di casa imprigionò quello di Fabian. Le iridi, le une riflessive e la altre speranzose, rimasero incollate per diversi secondi. “No,” disse infine Guerric. “Non ho mai conosciuto tuo padre”.

Il ragazzo sconsolato si trascinava triste lungo la strada di casa. Anche quella ricerca, come le precedenti, si era rivelata un vicolo cieco: sembrava che a Greenville, un pugno di case immerse nel verde di una pacifica baia marittima dove tutti sapevano tutto di tutti, nessuno avesse mai sentito parlare di Adrien Masson. Nemmeno sua madre! Non un indizio, non un ricordo: quel fantomatico padre sembrava essere giunto lì, aver messo incinta una donna ed essersi poi schiantato contro un auto gialla.
“Adrien,” chiamò una voce dietro di lui.
Fabian si voltò di scatto al nome del genitore e vide un uomo alto, sulla trentina, dal fisico atletico.
“Adrien, ti ricordi di me?” ripetè l’uomo, sorridendo affabile e venendo incontro al ragazzo.
Questi arretrò colto alla sprovvista e mormorò: “No, non sono io”.
“Mi sembrava di averti sentito mormorare quel nome, poco fa. Lo consoci?”
“Adrien Masson,” spiegò agitato il ragazzo, “era mio padre”.
Lo sconosciuto lo scrutò con aria perplessa. Quindi si allontanò rapido, annunciando: “Ascolta, tornerò da te tra poco tempo, lasciami almeno un giorno. So che stai cercando delle risposte: forse potrò dartele”.
“No, aspetta!” si oppose Fabian, ma l’uomo correva a gran velocità lungo la via e gridava ancora: “Ero un amico di tuo padre. Non preoccuparti, tornerò!”

Era passato solo un giorno dalla comparsa dello sconosciuto, ma tutto era già tornato alla normalità: né la madre di Fabian né Guerric sembravano dare troppa importanza a ciò che era successo. Anzi, pareva proprio non fosse accaduto nulla.
Anche oggi il giovane uscì da scuola come era solito fare e si intrattenne con la consueta partita di basket dall’esito scontato. Ma quando lasciò il campetto, riconobbe in mezzo alle auto parcheggiate lungo la via l’uomo misterioso. Questi gli fece un cenno con la mano e, quando il ragazzo gli fu più vicino, lo salutò: “Fabian. Ti chiami così, giusto?”
Il ragazzo annuì con uno sguardo pieno di sospetto e la mente colma di curiosità.
“Salta su,” lo invitò l’uomo, indicando una lussuosa auto dalla scocca nera e lucida. “Voglio parlarti di Adrien”.
Al nome del padre, Fabian non riuscì a resistere. Balzò senza alcuna cautela sul sedile anteriore del mezzo; solo quando fu chiuso nell’abitacolo in compagnia dello sconosciuto fu colto da una forte sensazione di deja vu. L’uomo mise in moto il motore elettrico dell’auto e si allontanò dalla scuola, imboccando a velocità sostenuta una via che attraversava i campi color smeraldo di Greenville.
“Io sono Andrè Gerard,” esordì, dopo un lungo silenzio, l’uomo alla guida, “e, anche se non ti ricordi di me, non ci conosciamo da molto tempo”.
Il ragazzo alla sua destra affondò le unghie nell’imbottitura interna della portiera: era talmente confuso e agitato che non sapeva nemmeno cosa dire. Rimase zitto e guardò Andrè, in attesa di ulteriori spiegazioni.
“Cosa sai di tuo padre?” chiese quello infine.
Fabian si sentì come se quell’uomo fosse in grado di pizzicare le corde della sua anima, che da tempo infinito rimanevano immobili e mute. Nessuno in quindici anni aveva mai accennato a suo padre se non per citare il suo mortale incidente. Questo signor Gerard era un completo estraneo, non sembrava nemmeno di Greenville, ma il giovane decise comunque che, per quanto rischioso, era l’unica persona da cui avrebbe potuto sapere qualcosa di nuovo. “So solo che è morto in un incidente prima che io nascessi. Qui in paese sembra che nessuna l’abbia mai conosciuto realmente. Nemmeno mia madre. A volte dubito perfino della sua esistenza”.
L’uomo alla guida sorrise. Quindi la sua mano destra scivolò con furtività verso il fianco sinistro.
I rumori si fecero gravi e dilatati nelle orecchie di Fabian, che poteva distinguere le vibrazioni del motore attraversare l’aria, mescolate a quelle prodotte dall’attrito tra i copertoni e l’asfalto. Il ragazzo abbassò allarmato lo sguardo sulla mano di Andrè che vide affondare con furtività sotto il lembo della giacca grigia che indossava. Osservò i suoi nervi contrarsi: aveva afferrato qualcosa ed ora l’arto stava riscivolando indietro, con il gomito chiuso. I vettori del movimento in atto si tracciarono nell’aria ed il giovane orfano potè prevedere la linea curva che l’avambraccio dell’uomo stava per tracciare al fine di protendersi verso di lui: stava senza dubbio per puntargli una pistola in faccia!
D’istinto Fabian sollevò il braccio sinistro e con un movimento secco intercettò quello del suo attentatore che per l’urto finì contro il poggiatesta del sedile. La realtà tornò al suo consueto ritmo d’avanzamento e il ragazzo, con il cuore a sbattere con furia dentro il petto, guardò costernato lo sconosciuto. La sua mano reggeva soltanto una caramella.
“Non esistono le pistole, nel Buon Vicinato,” disse quest’ultimo, ridendo e sistemandosi i lunghi capelli che gli erano caduti sul volto. “Ti ho osservato, lungo questo flusso di dati che tu chiami ‘giorni’, e ho notato la tua capacità di calcolare gli eventi fisici. Come se per te la realtà fosse solo un insieme di numeri e variabili”. Fabian era ancora scosso dall’attentato inscenato poco prima, ma era intenzionato a sapere qualcosa di più su quello che lui chiamava il suo dono. Andrè proseguì.: “Questo perché il luogo in cui vivi non è reale. E’ davvero soltanto un insieme di informazioni numeriche”.
Il ragazzo sentì mancarsi la saliva in bocca. Portò lo sguardo sui prati piatti e uniformi di Greenville e sulle sue casette lontane, colorate e incantevoli come sempre. “E com’è che io posso ‘calcolare’ gli eventi e gli altri no?”
“Perché gli altri non hanno intelligenza, sono burattini che recitano la loro parte. Anche loro sono numeri”.
Fabian sentì un forte calore risalirgli dalla nuca a fargli avvampare le orecchie. Cosa stava succedendo? Sua madre, i compagni di scuola, Guerric: erano tutti dei falsi? “Allora,” mormorò corrugando la fronte, “anche mio padre non è mai esistito”.
“Oh, no,” rispose Andrè, agitando il capo, “lui esiste eccome. Sei tu che non esisti.”
La testa del ragazzo si piegò di scatto per interrogare lo sguardo quasi divertito dell’uomo alla guida dell’auto. “Perdonami,” disse questi con un tono tra il dispiaciuto e il rassicurante, “ma devo farlo: spiegartelo qui sarebbe impossibile.”
Detto questo, le sue dita si strinsero attorno al volante e sterzarono con brutalità. Fabian afferrò con entrambe le mani lo schienale del proprio sedile ed il suo sguardo corse all’esterno. Ancora il mondo rallentò e vide tutte le forze in gioco: lo spostamento inerziale dell’auto composto con il movimento determinato dalle ruote motrici, l’attrito di asfalto e aria, la rotazione che l’intero veicolo stava per avviare attorno al proprio asse. Riuscì a prevedere l’uscita di strada ed il successivo rovinoso ribaltamento. Ma questa volta non poteva fare nulla per evitarlo.
L’auto nera perse aderenza, uscì dalla carreggiata e si ribaltò nel prato che affiancava la lunga via. Fabian visse ogni istante come se fosse un secolo, fu avvolto dal dolore immenso provocato dai ripetuti urti della sua testa contro lo sportello ed il tettuccio.
L’auto s’arrestò, infine, a testa in giù, con gli airbag ormai sgonfi. Il giovane, stordito dal tremendo incidente e intrappolato dalla cintura di sicurezza, si voltò a fatica e vide la testa insanguinata di Andrè, ribaltata e inerme. All’improvviso si generò nella sua mente una specie di ricordo: aveva già vissuto quel momento, quell’incidente, ma non rammentava né come né quando. Un fischio insopportabile riempì l’abitacolo e il dolore infine ebbe la meglio: respirando con affanno sempre maggiore, Fabian cedette alla necessità delle sue palpebre di chiudersi.

***

Anno 2041
Il fischio cessò.
Fabian riaprì gli occhi. Quando poté distinguere l'ambiente circostante, si vide in una stanzetta disordinata e illuminata soltanto da qualche barra al neon. Seduti di fronte a lui, due uomini sulla trentina lo fissavano e sorridevano di gioia sincera.
Lui era sdraiato su un seggiolone dallo schienale reclinato, i suoi muscoli erano intorpiditi e sembravano non volersi muovere. Alla sua destra uno scranno simile, da cui si stava alzando Andrè.
"Tu!" lo aggredì subito Fabian, ma il fiato gli si arrestò in gola: il timbro della sua voce era divenuto grave e roco.
"Calma," gli fece il tizio che l'aveva coinvolto nell'incidente, "ora ti spiegheremo tutto".
Ma Fabian era ancora sconvolto dalla propria voce. Si portò le mani alla gola e il suo sguardo si piantò su quei dorsi ruvidi e contornati sul polso da una peluria grigia.
Gli inviti alla tranquillità dei tre presenti non servivano a nulla. Il ragazzo si sollevò con gran sforzo, barcollò per la stanza con dei lunghi cavi elettrici ancora fissati agli spinotti dei suoi avambracci e s'avvicinò a uno specchio. Nel riflesso vide un uomo sulla sessantina, con un paio di baffi ingrigiti e il volto deturpato da diversi cerotti e punti di sutura.
Nello specchio comparve anche Andrè: "Ben tornato, Adrien".

"Perciò sarei rimasto in coma 'informatico' per due giorni?"
Fabian era confuso, una spiegazione del genere non era credibile. Come poteva essere che quindici anni della sua vita si concentrassero in un'illusione lunga appena due giorni? Ma i tre uomini davanti a lui annuivano.
Il non-più-ragazzo si si calcò la mano sul volto, come se l'eccesso di informazioni potesse riempirgli la testa fino a farla esplodere. "Rispiegatemi con ordine, per piacere".
"Sei stato coinvolto in un incidente," ripetè Andrè. "Non vedendoti tornare a casa, Edgard," e il tizio grassoccio alla sua sinistra sorrise, "ti ha cercato, ti ha trovato e ti ha nascosto qui. Insomma, ti ha salvato la vita".
"E perchè mi avete collegato a quell'affare?" Fabian indicò il seggiolone, i cui cavi, ora scollegati, penzolavano dai braccioli.
"Perchè il tuo sonno era troppo agitato," spiegò Edgard, un uomo pingue e dal volto bonario. "La tua temperatura corporea era alle stelle, mentre per riprenderti avresti dovuto riposare. Non avendo in casa nulla con cui indurti a un coma farmacologico, ecco arrivare la tecnologia! Ti ho mandato nella realtà virtuale con cui si rilassano gli uomini di mondo stressati dal lavoro: Greenville, meglio conosciuta come il Buon Vicinato".
"Il tutto," intervenne Andrè con un tono di rimprovero, "non valutando la pericolosità di spedire un uomo reduce da un incidente stradale in un mondo alternativo per due giorni interi: i manager stressati al più ci passano un paio d'ore!"
Fabian ripensò ancora alla sua vita, la sua falsa vita.
"Eri confuso," proseguì Andrè, "e la tua mente, avendo perso ogni riferimento, deve aver generato dei rapporti alternativi per giustificare l'apparenza che ti circondava. Non hai vissuto quindici anni lì dentro, ma solo i due giorni di cui hai memoria. Hai perso a tal punto il rapporto con la tua persona reale che il tuo corpo rifiutava di scollegarsi secondo la procedura standard: per questo mi sono dovuto interfacciare e strapparti di lì. Ti sei inventato il tuo passato e, rielaborando la tua morte per incidente stradale, ti sei identificato in un tuo figlio che nemmeno esiste. Tu sei Adrien, sei tuo padre".
Fabian teneva gli occhi chiusi e scuoteva la testa: non ricordava nulla della sua vita reale. "E perchè non mi avete portato in un ospedale?"
Ed ecco intervenire anche il terzo individuo, un uomo imponente dalla pelle nera: "Dovevamo nasconderti o Guerric sarebbe tornato a farti la pelle".
A quel nome Fabian trasalì: "Guerric? Il padre di Louis?"
I tre uomini corrugarono perplessi la fronte. "No," fece Andrè, "Guerric è solo lo scagnozzo do Louis, fa per lui il lavoro sporco".
"Ma a Greenville era il padre di Louis, un ragazzo che frequentava la mia scuola!"
"Questo perchè," spiegò Edgard, "il Buon Vicinato, per disporre di un'ampia gamma di oggetti senza risultare troppo pesante, pesca direttamente dai ricordi dell'ospite tramite l'interfaccia neurale, ma decontestualizzandoli. Usando il cervello umano come library, dispone di un repertorio di oggetti praticamente infinito!"
"Ditemi di Guerric," mormorò Fabian.
Il nero, con un tono rude e profondo, spiegò: "Quando Edgard ti ha soccorso, anche una delle tue guardie del corpo era viva. E cosciente. Prima di crepare per il troppo sangue perso, ci ha detto che è stato Guerric ad attaccarvi. E se Guerric si muove significa che Louis ha ordinato: il ragazzino ti vuole morto".
"Basta spiegazioni per oggi," lo interruppe Andrè. Poi, rivolgendosi all'uomo riemerso dal confuso sogno virtuale: "Adrien. O Fabian, se preferisci. Tu non te lo ricordi, ma dieci anni fa ci salvasti dalle banlieue e ci trasformasti da piccoli spacciatori a vassalli del traffico di droga della famiglia Leclerq per la periferia parigina. Ora ti abbiamo salvato dalle grinfie di Louis, perciò avremmo pareggiato i conti. Ma in questo momento sei l'unico che può aiutarci, perciò dobbiamo chiederti ancora un favore".
"Dimmi," mormorò il ragazzo-non-ragazzo, sfregandosi sempre più confuso la fronte.
"Louis ci ha convocato tutti e tre, domani sera, alla sua villa. Il pretesto è la riorganizzazione del lavoro ora che il suo tutore è scomparso. Ma sappiamo bene quali siano le sue vere intenzioni".
Fabian interrogò l'uomo con lo sguardo.
"Adrien," concluse quello, porgendogli una pistola, "le sue guardie si fidano di te. Tu ci devi salvare".

La sera seguente tra auto nere oltrepassarono i cancelli della villa dei Leclerq e si disposero con ordine nel cortile. Dalle portiere aperte uscirono Andrè, Edgard e il nero, accompagnati da una decina di scagnozzi in giacca e cravatta. Mentre le automobili venivano portate al box sotterraneo ricavato sotto le antiche mura, il trio raggiunse l'ingresso principale, in cima a una breve scalinata. Lì, oltre al maggiordomo, li attendeva una guardia armata che li perquisì come da prassi. In silenzio e senza scorta, i tre varcarono i portoni e seguirono il maggiordomo fino allo studio privato di Louis. Qui entrarono con passi cauti, mentre nella piccola stanza arredata con lusso li attendeva il giovane Leclerq. "Buonasera," sorrise con un'espressione trasudante la più viscida delle falsità. "Sono contento che siate venuti tutti e tre".

Tra le ricche automobili posteggiate sotto il palazzo della grande famiglia, faceva la solita noiosa ronda un vecchio guardiano. La monotonia del luogo fu però interrotta da un paio di tonfi sordi.
Lo sgherro si mise in allerta e sfilò la pistola che teneva al fianco, facendone scattare la sicura. "Chi va là?"
Seguendo i tonfi successivi, il guardiano si avvicinò alla parte posteriore di uno dei tre veicoli che erano giunti in serata: i rumori arrivavano da quel baule. Con un scatto notevole per la sua età, l'uomo si procurò le chiavi dell'auto appese nel box dell'usciere e fece scattare la serratura con il radiocomando. Quindi, con un movimento rapido, sollevò il baule della berlina e puntò la pistola nel vano buio.
Dentro vi scorse un uomo legato e imbavagliato. Era il signor Masson.
Rinfoderando il ferro, il guardiano soccorse il vecchio conoscente. "Come è finito qui dentro?" gli chiese, strappandogli il nastro dalle labbra.
"Non dare l'allarme!" sibilò subito Adrien. "Gli uomini che mi hanno rapito ora si trovano da soli con Louis Leclerq. Se capiscono che sono stati scoperti potrebbero reagire male!"
"Ehi," gracchiò la ricetrasmittente del guardiano, "Che succede lì?"
"Nulla," rispose quello, facendo un cenno alla telecamera di sorveglianza. "Vieni qui sotto, da solo. Devi vedere una cosa".
"Dovete portarmi da Louis," sussurrò ancora Adrien. "E non avvisate altre guardie: eviterò che questa faccenda finisca nel sangue".

"Signori," esordì Louis, facendo accomodare gli ospiti ed offrendo loro dello champagne. "Volevo solo informarvi che ho già messo in movimento tutte le squadre di ricerca per rintracciare il signor Masson. La cattiva notizia è che non lo abbiamo ancora trovato; quella buona è che non abbiamo trovato nemmeno il suo cadavere".
I tre fissavano disgustati il giovane dall'aria falsa e spavalda.
"Per ora," aggiunse quello, "essendo scomparso l'unico tramite tra me e voi ragazzi delle banlieue, vi rendo noto che, finchè il signor Masson non sarà di nuovo tra noi, mi sentirò libero di prendere qualsiasi decisione sui vostri quartieri, anche senza avervi prima consultato".
I colli degli ospiti s'irrigidirono e gli angoli delle loro bocche si piegarono in un'espressione feroce.
"Non fraintendetemi," ridacchiò, sempre più viscido, il giovane, "credo che vi consulterò comunque, se lo riterrò necessario, ma questo non significa che vi darò retta".
I tre scattarono in piedi e i loro pugni vibranti già bramavano di spaccare la faccia a quell'impudente. Ma le porte dello studiolo si spalancarono: sulla soglia si stagliò la figura di Adrien, terribile nel suo abito elegante lordo di sangue secco e la faccia attraversata da suture ancora fresche. Dietro di lui soltanto un paio di guardie della villa. Tutti gli altri passaggi erano chiusi.
Louis rimase congelato sul posto, mentre i tre ospiti si sciolsero in un risolino sadico. Adrien avanzò all'interno della stanza e si fermò di fronte al giovane Leclerq. Questo non aveva più quell'espressione da menefreghista che tanto lo rendeva insopportabile a Greenville.
"Signor Masson, lei..." biascicò Louis, ma fu interrotto da Adrien che, divorato dal rancore, dichiarò: "Louis, tu hai fatto uccidere mio padre".
Il giovane lo fissò perplesso. "Suo padre? Ma ero solo un bambino quando è morto, nemmeno me lo ricordo!"
"Tu," riprese Adrien, come un attore che ripete una battuta sbagliata, "mi hai fatto uccidere da Guerric".
"Ma cosa dice?" si difese il ragazzo. "Non lo vedevo da almeno due settimane! L'ho richiamato giusto ieri per sorvegliare la villa, dopo che lei era scomparso!"
"Tu hai cancellato la mia vita!" ringhiò Adrien, sfilando da sotto la giacca una pistola e piantandola ad un centimetro dalla fronte del giovinastro.
Proprio come accadeva a Greenville, il mondo attorno rallentò in maniera vertiginosa. Il precettore del giovane Leclerq rimase per un attimo a bocca aperta di fronte a quell'inaspettato sviluppo. Ma quando percepì, tra i suoni gravi e soffocati, lo scarrellare delle armi dietro di lui, capì che non c'era tempo da perdere.
Roteò su se stesso e poté vedere i tre amici delle banlieue lanciarsi al pavimento per mettersi al riparo; gli scagnozzi nell'anticamera stavano sollevando le canne verso di lui. Ammirò dipingersi nell'aria i movimenti che i loro arti stavano per compiere e calcolò l'ipotetica traiettoria dei proiettili che sarebbero stati sparati nella sua direzione. Scartò di lato e corse attraverso la stanza, levandosi da quelle spietate linee tratteggiate che poco dopo furono percorse dal piombo.
Sbattendo contro la parete, lo spaventato Adrien, mente da ragazzino in un corpo da sessantenne, sollevò la pistola verso la porta spalancata. Di nuovo videe le linee cinetiche dei due guardiani che scartavano di lato per mettersi al riparo: poté prevedere con precisione dove sarebbero stati di lì a un secondo. Si fece coraggio e premette per due volte il grilletto: i proiettili attraversarono l’addome dei due che, con il respiro spezzato, si afflosciarono lenti sul pavimento.
Ancora tremante, Adrien rivolse il ferro verso Louis che, terrorizzato, si era rannicchiato come un ratto messo alle strette nell'angolo più lontano della stanza. Nessun vettore indicava che si sarebbe mosso di lì, Adrien percepiva soltanto le vibrazioni del suo corpo scosso dai tremiti. Puntò la canna verso la sua testa.
"No!"
Il grido di protesta arrivò grave e vibrato come tutti gli altri suoni, ma terminò al suo corretto tono acuto, riscattando Adrien dal suo stato di calcolo della realtà.
L'uomo si voltò: nell'anticamera c'era una donna dalla pelle di porcellana con le lacrime agli occhi.
"Mamma?" chiese il non-più-ragazzo, non riuscendo a tenere a freno l'emozione.
Ma la signora Renard era troppo sconvolta per prestare attenzione all’uscita di quello che credeva essere lo stesso Masson di tre giorni prima. “Ti prego,” lo implorò, “risparmia mio figlio”.
"Mamma," singhiozzò quasi Adrien, come se l'apparizione gli avesse fatto dimenticare tutte le spiegazioni ricevute dai suoi salvatori. "Ma sono io tuo figlio".
Lo scoppio secco e senza eco di uno sparo interruppe il dialogo. Adrien si portò una mano al petto e le sue dita furono da subito coperte di sangue. Un fischio acuto cominciò a riempirgli le orecchie, coprendo i rumori del luogo.
Ferito, l'uomo si voltò verso Louis: sapeva che non avrebbe fatto a tempo ad evitare il secondo colpo. Ma, quando lo vide, era ancora là nell'angolo, disarmato e codardo, a farsi scudo con le sole braccia. Il botto sordo di un nuovo sparo risuonò tra le quattro mura e anche il ventre di Louis si bagnò di sangue.
In ginocchio e senza più fiato, Adrien lasciò cadere la pistola e si torse quanto bastò per scoprire Andrè sdraiato al fianco di una guardia morta, con il fucile di quella stretto tra le mani. La canna ora era sollevata verso la donna che il ragazzo di Greenville ancora credeva sua madre: nemmeno sentì il colpo, questa volta. Mentre il fischio acuto strideva con violenza, distinse appena la donna crollare a terra.
Attraverso i sensi ormai avvolti da una fitta nebbia, intravide Guerric accorrere nella stanza insieme a un folto gruppo di guardie messe in allarme dalla sparatoria. Non ne fu sicuro, ma gli parve che Andrè, mentre lo additava come l'assassino che aveva appena sterminato i Leclerq, scambiasse con l'omone dal braccio meccanico un furtivo sguardo d'intesa.
Infine il nulla.

***

Anno 2056
“Ah, dannazione!” sbottò Guerric, arrivando nel braccio di rieducazione del carcere di Parigi. All’interno vi trovò Andrè, il carceriere che copriva il turno prima del suo, piegato sulle apparecchiature elettroniche che gestivano e monitoravano la realtà virtuale in cui erano calati i detenuti all’interno dello stanzone.
La sua attenzione sembrava rivolta a un uomo sui trent’anni, affondato in una grande poltrona e collegato ad essa con alcuni cavi infilati negli spinotti cutanei dei suoi avambracci. Questo stava vibrando con violenza e schiumava dalla bocca. Andrè ridacchiava in maniera sadica, gettando di tanto in tanto un’occhiata ad uno degli schermi del sistema informatico, sul quale si vedeva l’immagine sfocata di una donna che crollava a terra.
“Lo hai collegato di nuovo a Mafia!” protestò Guerric, scostando il secondino e mettendosi al lavoro sul software di connessione neurale per salvare la mente del poveretto. “Come vuoi riuscire a rieducarli se li infili ogni giorno in un simulatore di crimine?”
“Quel programma di rieducazione, Greenville, è una noia mortale,” rispose il primo carceriere. “Otto ore a controllare che trascorrano una vita pacifica in un paesino americano. Che tristezza! E’ troppo divertente vedere come ci rielaborano ogni volta dentro a Mafia! Pensa che tu questa volta eri un assassino con un braccio meccanico!”
Anche Guerric si lasciò scappare un sorriso, pensando a quanto le decontestualizzazioni di quei potenti software potessero talvolta risultare divertenti. “Si è verificata ancora quell’accelerazione digitale del pensiero?”
“Sì,” rispose l’altro. “E sempre più spesso. Non vorrei trovarmi nei panni di uno sbirro quando i primi esperimenti di rieducazione saranno terminati: entrano che sono feccia ed escono che sono dei cyborg psicotici!”
Guerric terminò la procedura di scollegamento e levò gli spinotti dal braccio del galeotto.
Questi sbarrò gli occhi e, con tutto il mento ricoperto di schiuma bianca, trasse un rumoroso respiro, come se non avesse inalato aria da diversi minuti. Si guardò spaesato attorno e vide alla sua sinistra un uomo massiccio dalla pelle nera, immerso nel sonno indotto dalle macchine della realtà virtuale. Alla sua destra altri due seggioloni con un paio di detenuti dormienti, dei quali poteva leggere il nome sui cartellini infilati nelle tute da carcerati: del più lontano, un uomo grassoccio, distingueva soltanto il nome, “Edgard”; del ragazzo che giaceva accanto a lui poteva leggere per intero la stampa, “Louis Leclerq”.
“Lascialo perdere,” sospirò Guerric, controllando che catetere, padella e flebo del detenuto fossero al loro posto. “E’ solo un piccolo stupratore bastardo. Ma quando uscirà di qui, sarà una persona nuova. Sempre ammesso che qualcuno non lo infili in un simulatore di crimine.”
“Dove sono?” chiese il detenuto confuso ai secondini.
“Ah,” sospirò annoiato Andrè, “ce lo chiedi ogni volta e ogni volta ti dimentichi. Benvenuto nel programma di rieducazione mentale per i criminali dell’Ile-de-France!”
“Succede questo,” continuò Guerric, mentre già lo ripuliva dalla bava e gli ricollegava i cavi agli spinotti, “a chi ammazza papà e mamma per una stupida questione di soldi e droga”.
Il prigioniero si irrigidì e l’immagine di sua madre colpita a morte da un proiettile gli si palesò in tutta la sua tragica e travolgente emozione.
Guerric riavviò il sistema di gestione della realtà virtuale, mentre Andrè, facendo sobbalzare sulla mano aperta il chip del suo simulatore di crimine, lasciava la stanza, sussurrando al detenuto dalla pelle nera: “Domani tocca a te”.
“Buonanotte, Fabian Masson” augurò il secondino rimasto al condannato appena risvegliato ma già obbligato a riaddormentarsi. “Spero che a Greenville tu possa godere della risanante compagnia di un Buon Vicinato”.

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'
 
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view post Posted on 2/1/2013, 00:26
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Jackie de Ripper
view post Posted on 2/1/2013, 08:53




CITAZIONE (Polly Russell @ 31/12/2012, 17:35) 
E vabbè... Mettiamoci al lavoro, tanto io ho la febbre, le piccole la tosse e il raffreddore, c'è poco da veglionare. :(

Comincia col ri-postare il racconto che avevi scritto per l'edizione XIII.
Il tizio con le orecchie a punta può aspettare.


CITAZIONE (Rovignon @ 31/12/2012, 18:21) 
Mmm... qui febbre ci cova!!!
Sembra fatto a posta per rimanere a casa a scrivere!!!!

Idem come sopra.
 
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view post Posted on 2/1/2013, 08:57
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@Polly

mi sa che abbiamo trovato una penna più veloce di te!!!

Bravo Nitro! :D
 
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view post Posted on 2/1/2013, 15:56
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Porca paletta! M'ha fregato, e non sarà il solo, ho,scritto dieci righe e prima di stasera non potrò rimetterci mano... :(
Vabbè, intanto riposto l'altro, almeno faccio finta di aver prodotto! ;)

COME ALO DIVENNE CHOCHOKOI
(il trono sopra le nubi)


Gli occhi si spalancarono scoprendo le iridi nere. Le pupille dilatate si restrinsero in pochi attimi alla luce del fuoco.
Jonas Doppio Sguardo strinse la scodella con entrambe le mani, prima di chiuderli di nuovo.
«Tutto bene?» Il vecchio sciamano gli pose una mano nodosa sulla spalla, gioviale.
«Non lo so. Non riesco a vederlo.»
Jonas sorbì un'altra boccata dalla ciotola. Assaporò la poltiglia amara e grumosa, la schiacciò sotto i denti senza riuscire a mascherare una nota di disgusto. Mandò giù il pejote piegando la testa all'indietro, «è troppo distante.» Sentenziò, passandosi la lingua su denti bianchissimi.
Il vecchio parve soppesare le parole del figlio, diede un paio di ampie boccate dalla pipa rituale prima di parlare di nuovo. «La firma è solo tra due giorni. Come puoi non vederla? Sei il nostro Alo. Lo sei da sempre.»
«La firma la vedo, padre. E vedo che accetterai le condizioni che il bureau impone ma, non riesco a scorgere le conseguenze del gesto. Ho bisogno di più tempo e forse di più pejote.»
Suo fratello, grande due volte lui, gli diede una pacca sulla schiena e gli avvicinò un bicchiere d'acqua. Lo stesso sorriso dolce su un viso dai lineamenti più marcati. «Non puoi prenderne di più, ti sei già spinto troppo. Il saggio Tocho, nostro padre, prenderà comunque la decisione giusta. Forse se gli spiriti non parlano con te, vorrà dire che non ci sono rischi.»
«O forse non sanno nemmeno loro che pesci pigliare.» Lo sussurrò più per se stesso prima di pulirsi le labbra ben delineate, col dorso della mano.
Poggiò la scodella sulla stuoia decorata, proprio accanto al fuoco. Le sue pupille si dilatarono di nuovo. Lo sguardo perso nella danza delle fiamme.
Un rumore sordo da dietro la porta poi l'inconfondibile scricchiolio che ne anticipava la caduta.
Sei uomini a volto coperto irruppero in quella che era poco più di una baracca, le armi strette nei pugni. Si portarono ai lati della stanza gridando e prima ancora che i quattro nativi riuscissero a capire cosa fosse accaduto, li avevano accerchiati.
Il tempo di realizzare e avevano le armi puntate contro. L'uomo che entrò pochi istanti dopo sorrise, la testa bassa ma lo sguardo fisso su di loro. Quello che riconobbero come l'agente indiano della riserva, si avvicinò a passi lenti, li squadrò da capo a piedi soffermandosi su Jonas, più che sugli altri. Gli si avvicinò di un paio di passi, abbastanza da arrivare a pochi centimetri da lui. Sollevò lo sguardo sul ragazzo alto almeno venti centimetri in più e lo osservò con un misto di disprezzo e curiosità.
Prese la scodella da terra e ne annusò il contenuto. Sorrise ancora. «L'uso di mescalina è vietato dalla legge federale, Leone di Montagna. Lo sai vero?» Si voltò verso il vecchio con aria compiaciuta, nel terminare la frase. Un cenno ai suoi uomini mentre si spostava indietro di qualche passo, «ammanettatelo.»
Due dei suoi tirapiedi scattarono, il più vicino sollevò il vecchio Tocho di peso, torcendogli un braccio. Lo trasse a sé facendolo inciampare su un pezzo di legno. Alcune braci sfrigolarono fuori dal braciere, superarono il cerchio di pietre e rotolarono sul pavimento chiaro.
Doppio Sguardo gli saltò addosso. Un istante, solo un istante di orgoglio in cui colpì l'energumeno al viso con una gomitata, facendolo cadere all'indietro. L'uomo mollò la presa e si schiantò al suolo con un tonfo, amplificato dalle tavole sconnesse. Jonas non ebbe il tempo di compiacersene, perché altri tre gli furono sopra quasi subito, lo assalirono colpendolo con i calci dei fucili. Cadde con un rantolo sommesso quando l'ultimo gli centrò lo zigomo.
L'uomo col volto scoperto esplose tre colpi in aria, bloccando la reazione dei nativi, prima ancora che avvenisse.
Jonas era in ginocchio, i polsi stretti sulla sua schiena da un paio di manette e il sangue che colava copioso dalla bocca e dal naso. L'uomo si accovacciò accanto a quello che era poco più che un ragazzo, gli afferrò i capelli e con uno uno strattone lo obbligò a guardarlo, «ecco, bravo. Proprio quello di cui avevo bisogno, un capo di imputazione. Così ti volevo, nelle mie mani. Viaggerai per me ora. O marcirai in galera.»

Jonas poggiò la scodella sulla stuoia decorata, proprio accanto al fuoco. Le sue pupille si dilatarono di nuovo. Lo sguardo perso nella danza delle fiamme.
Si alzò di scatto, i lunghi capelli neri ondeggiarono, quasi privi di consistenza. «Sta arrivando Brosky, ma cerca solo me.»
Raccolse da terra lo zaino di cuoio. Due uomini si alzarono, imitandolo. Il primo che lo raggiunse lo afferrò per le braccia. «Se un fratello ha un problema, lo abbiamo anche noi.»
Doppio Sguardo sorrise, strinse il braccio dell'uomo corpulento che lo aveva afferrato. Una presa salda.
«Non questa volta.» Rovesciò il contenuto della ciotola nel fuoco, per poi buttarci la scodella stessa.
Saltò dalla finestra, un istante prima di sentire il tonfo, che aspettava, dietro la porta.
Mentre saliva nel pick up udì la voce di Brosky urlare il suo nome. Nessuno sparo. Nessun altro grido.
Tolse il freno a mano e lasciò scivolare il mezzo nella valle, prima di accendere il motore.
Arrivò in città poco dopo. Lasciò l'auto in una stradina secondaria e proseguì a piedi. Il cielo dell'Arizona era un manto nero trapuntato di stelle che le fioche luci del paesotto non riuscivano a offuscare. Si infilò nel primo locale aperto, una stazione di servizio frequentata da camionisti che conosceva bene.
«Mi serve un passaggio, Annie.»
La cameriera gli versò tazza di caffè fumante e nell'atto di servirgliela gli strinse la mano, lanciò un'occhiata all'ultimo tavolo. «Oggi è una brutta serata Jonas, bevi il tuo caffè e vattene.»
Tre uomini di mezza età stavano ridendo in modo sguaiato, seduti in fondo, accanto alla porta del bagno. La quantità di lattine di birra vuote che troneggiava davanti a loro lasciava presagire il perché.
«Hanno perso un sacco di soldi al casinò indiano al confine e sono ubriachi fradici. Sono due ore che cercano la lite con chiunque entri, non farti tirare in mezzo.» Gli sussurrò la donna.
Jonas vide uno di loro indicarlo e gli altri due alzarsi un istante dopo. Si avvicinarono con passo mal fermo. Uno gli urlò contro, «ehi pezzente, i tuoi fratelli mi hanno sfilato un sacco di soldi!» Una pistola luccicò da sotto la giacca.
Inutile spiegare.
Inutile discutere.

Batté le palpebre un paio di volte. Stava ancora stringendo la mano di Annie e i tre uomini erano al loro posto. Bevve d'un fiato il caffè, «ti devo un favore.»
Alzò il bavero del giacchetto di jeans e uscì in fretta.
Accelerò il passo per raggiungere la bella ragazza che stava facendo il pieno alla Buick rosso fuoco, nel piazzale.
Alzò le braccia sorridendole mentre si avvicinava a passo svelto, «ho solo bisogno di un passaggio, non sono un maniaco, né un ladro, non sono ubriaco e non mi drogo!»
Sorvolò sull'autenticità dell'ultima affermazione e le si parò davanti, lei scoppiò in una risata, scompigliando appena i capelli rossi. «E dove vai, guerriero?»
Il ragazzo saltò nel sedile del passeggero, «Vegas, signora!»
Lei terminò di mettere la benzina, salì e mise in moto. Gli lanciò uno sguardo di rimprovero, ma a lui parve sensuale, «come cavalleria siamo messi male. Avresti potuto aiutarmi. Comunque io sono Polly.»
Il fuoristrada di Brosky inchiodò a pochi metri da loro, seguito da altri due mezzi dello stesso tipo.
«Saprò farmi perdonare, ma ora partiamo.»
La ragazza gettò un'occhiata al retrovisore, sei uomini entrarono con arroganza nel locale, mentre uno rimase fuori, quasi dovesse controllare il parcheggio.
Partì in fretta e rivolse la parola al suo ospite solo quando ebbero imboccato la superstrada. «Che hai combinato?» allo sguardo interrogativo di lui continuò, «Brosky e i suoi scagnozzi cercavano qualcuno e la prima cosa che mi viene in mente è che stessero cercando te.»
I grandi occhi verdi di lei sembravano scintillare nel buio dell'abitacolo, donandole un'espressione dolce e decisa allo stesso tempo.
Jonas si mise le mani sul viso, poi tirò indietro i capelli, lisci e serici come tessuto, «e tu come fai a conoscere Brosky?»
«Da un paio d'anni vivo parecchio più a sud, ma sono di queste parti, mio padre gestisce l'emporio sulla statale. Qui tutti conoscono Brosky. E sanno anche che non c'è da fidarsi.»
«Mi cerca. Non ho commesso nessun reato, se è questo che temi. Ma si è convinto che i miei servigi gli siano indispensabili. E dato che sa essere parecchio persuasivo, ho pensato di cambiare aria per un po'.»
La strada sembrava non finire mai, una lingua d'asfalto pressoché infinita davanti a loro e lo stesso alle spalle.
Billy Ray Cyrus li accompagnava con le note di Deja Blue dalla vecchia autoradio e in poco tempo Jonas si addormentò.
«Grande capo, sveglia!»
Doppio Sguardo trasalì spalancando quei profondi occhi neri. Sobbalzò sul sedile e arrancò con le braccia, ancora intrappolato nei propri sogni.
Lei sorrise e gli poggiò una mano sulla coscia, «ehi, calma.»
«Scusami. Un incubo, ultimamente ne faccio spesso.»
La macchina era ferma nel parcheggio di un motel. L'insegna sfrigolava e due lettere erano spente. «Devi avergliela fatta grossa a Brosky se arrivi a sognarlo. Lo hai nominato almeno un paio di volte. Io comunque sono arrivata, non ce la faccio a guidare ancora e voglio farmi una doccia. Domani devo essere impeccabile.»
Il ragazzo scese dall'auto e tese le braccia, stirando la schiena all'indietro, Polly non poté evitare di fissare la linea scolpita dei suoi addominali, muoversi sotto la camicia sollevata. «Posso dormire nella tua auto?»
Lei mise una mano fra i capelli, acconciò i riccioli ribelli dietro le orecchie e lo guardò. Sbuffò un paio di volte, anche.
«E va bene, puoi dividere la stanza con me. Ma dormirai per terra.»

L'acqua scrosciava dalla stanza da bagno, appena coperta dal canto di lei. Il ragazzo era rimasto con i jeans e la camicia dello stesso tessuto, si era avvolto in una coperta, trovata rovistando nell'armadio e si era steso sulla moquette.
Cambiò canale diverse volte, senza davvero guardare le immagini che si susseguivano, poi la sua espressione mutò.
Era riverso a terra le labbra spaccate e un forte dolore alla schiena. Uno stivale di cuoio scuro si abbassò sulla sua mano, il suo grido coprì lo scricchiolio delle dita. Cercò di dire qualcosa ma un calcio bene assestato nell'addome lo lasciò senza fiato.
La voce nota di Brosky gli risuonò nelle orecchie, «allora indiano, so che hai un potere. Ti sei fatto notare troppo nei casinò della zona e io ho buoni informatori.»
Lui sorrise, un rivolo di bava e sangue gli colò dalla bocca, «non crederai alle voci di vecchi nostalgici, vero? Scambiano un po' di fortuna per l'intercessione di qualche spirito.»
L'uomo aspirò dal sigaro, si avvicinò al ragazzo ancora a terra e fece spostare quello che gli pestava la destra, si accovacciò e glielo spense sul dorso della mano strappandogli un grido. Lo afferrò per i capelli costringendolo a guardarlo, «no, non ci credo. Ma credo alla puttana con cui ti sei confidato, la testolina di sua figlia tra le mani di Brad mi ha fatto pensare fosse sincera. E credo a quello che vedo. Ti ho visto saltare davanti a un camion prima ancora che sbandasse e salvare un ragazzino.»
Sempre tenendogli la testa indietro gli sferrò un pugno. Si alzò appoggiandosi al proprio ginocchio e fece cenno ai suoi.
Due uomini sollevarono Jonas per i capelli, poi gli bloccarono le mani dietro la schiena. Un terzo si sfilò la cinta e se la arrotolò sul pugno, la grossa fibbia in corrispondenza delle nocche.
«Ora sturati quelle orecchie, stronzo di un indiano, tu verrai a Las Vegas con me e per me giocherai, e vincerai! O io ti farò rompere tutte le ossa.»

La voce di Polly si era fatta più forte, al terzo richiamo stava urlando.
Jonas trasalì e sposto lo sguardo dal televisore alla bella ragazza in accappatoio.
«Ma cosa stavi guardando?»
«Un film dell'orrore.» Balbettò lui.
Lei gli sfiorò il capo con una carezza, poi prese degli spicci dalla borsetta buttata sul letto, «vado al distributore, ti va un caffè?»
Rientrò pochi minuti più tardi, Jonas era sotto la doccia, lei si appoggiò alla porta socchiusa del bagno con le spalle. Entrambe i bicchieri fumanti in mano. Tossì unoaio di volte per farsi notare e lui chiuse l'acqua.
«Scusa se ho approfittato della doccia, ma l'acqua corrente alla riserva è un lusso.»
«Vai a Las Vegas per giocare?»
«Non vado a Las Vegas.»
«Ma tu avevi detto...»
La interruppe mettendole una mano bagnata sulla spalla. Scivolò sul braccio accarezzandola, le sfiorò le dita e prese il bicchiere. Avvertì la pelle di lei sussultare per un brivido. «Vegas era solo la prima città che mi è venuta in mente. Domani torno alla riserva.» Bevve un lungo sorso, «volevo togliermi di torno per qualche ora, questo te lo avevo detto.»
Raccolse i vestiti da terra e socchiuse di nuovo la porta.
Quando uscì la trovò distesa sul letto, il lenzuolo tirato fin sotto agli occhi. Lui spense la luce e riprese il posto che aveva lasciato sul pavimento.
«Perché Brosky vuole te?»
«Non ci crederesti.»
«Prova...»
«Magari domani.»

La sfiorò soltanto e fu sufficiente a farla trasalire. Polly scattò a sedere sul letto, avvolta dal buio.
«Dobbiamo andare via.»
«Ma sei matto? Non è ancora l'alba.» Aveva la voce assonnata, fece per rimettersi giù ma lui le prese il braccio.
«Non ti posso spiegare perché ma dobbiamo andare via. Ora.»
Lo scostò con uno strattone e si tirò di nuovo il lenzuolo sopra, «guarda che andiamo da due parti diverse, vattene tu, se devi.»
Dei passi veloci su per le scale non gli permisero di essere anche galante, la afferrò di nuovo e la tirò giù dal letto, «qualcuno mi ha visto salire sulla tua Buick, il figlio del curato per la precisione, era nel parcheggio con una ragazza.» Chiuse gli occhi un istante e inclinò il capo da un lato, come se dovesse identificare un rumore lontano, «qualcuno che si scuserà con te, tua cugina Francine. Gli ha detto che stavi andando a Las Vegas. Ci hanno seguito e nel parcheggio hanno visto la tua cazzo di macchina.»
Le porse i vestiti, quasi lanciandoglieli, «se Brosky entrerà qui dentro non sarà tanto gentile, né con me, né con te.»
La maniglia girò a vuoto.
«Andiamo via!» Afferrò la borsetta di lei e aprì la finestra invitandola a seguirlo.
Come si fu tirata le tende azzurre dietro alle spalle sentirono il rumore della porta che veniva spallata.
Scesero scalzi le due rampe della scala antincendio e corsero verso la macchina.
Appena voltato l'angolo, il volto di Jonas impattò contro un gomito. Per un istante vide solo flash bianchi e intermittenti e si ritrovò a terra, lei non riuscì a trattenere un urlo.
Brosky era stato previdente questa volta, l'uomo lasciato di guardia alla macchina di Polly diede un calcio al ragazzo, facendolo rotolare poco più in là.
«Ehi! È qui!»
Si rialzò in fretta e lanciò la borsetta alla sua compagna, un istante dopo il suo viso era un impasto di sangue sotto il pugno dell'assalitore. Cadde di nuovo, ancora un calcio mentre il picchiatore indossava un tirapugni.

Doppio Sguardo strinse gli occhi, batté le la palpebre.
«Ehi! É qui!»
Si rialzò in fretta e, scartata la prima ipotesi, si abbassò e caricò il picchiatore come fosse un toro, scaraventandolo contro la portiera. Dopo il primo attimo di incertezza l'uomo prese a colpirlo ai fianchi e come riuscì a scostarlo da se, lo colpì allo stomaco con un ginocchio.

Doppio Sguardo strinse gli occhi, batté le palpebre.
«Ehi! É qui!»
Scartata anche la seconda ipotesi, propendette per la più semplice. Alzò le mani. Continuando a tenerle alte passò la borsa alla ragazza. «Va bene. Vengo con voi, ma mandate via lei. Non sa nemmeno cosa stia accadendo.
La osservò avvicinarsi tremante all'auto. Si passò il dorso della mano sulle labbra, scoprendoselo sporco di sangue. Il picchiatore lo aveva raggiunto e torcendogli il polso dietro la schiena lo fece alzare.
Mentre l'uomo alle sue spalle lo spintonava verso un fuoristrada, intravide Brosky e i suoi scendere a passo svelto dalla scala di metallo, un'occhiata alla ragazza, ormai in macchina.
Quasi lo avesse interpretato, lei aprì il portabagagli e fece scattare in avanti la vettura, quando vide Jonas divincolarsi dalla presa con una gomitata gli inchiodò accanto. Il ragazzo saltò nel vano posteriore aggrappandosi ai poggiatesta.
Il tirapiedi cui era sfuggito esplose un paio di colpi di pistola, che si persero nella fioca luce dell'alba.

«Credi che ci stiano seguendo?» La voce di Polly era rotta dal pianto.
«Non lo so ma tu non fermarti.»
«Dobbiamo andare alla polizia!»
«Io sono un Hopi e Brosky è a capo del Bureau per gli affari indiani. A chi credi daranno ascolto?»
«Non è giusto.»
Jonas chiuse il portellone, scavalcò i sedili e si mise accanto a lei, abbassò il tono di voce che divenne quasi un sussurro, «non lo è stato mai.»
Svoltarono su una strada secondaria, un'altra ancora, si fermarono quando intorno a loro ci fu solo deserto. Un cartello di legno malmesso indicava l'ingresso della riserva Navajo.
«Lasciami qui, il villaggio non è lontano, prima esci da questa storia, meglio è.»
Tirò il freno a mano e si voltò verso di lui. «Come sapevi che sarebbero arrivati?»
«Sono un Alo, una guida spirituale. È questo che faccio nella mia tribù. È per questo che Brosky mi vuole. Posso saltare avanti nel tempo. E vedere le possibili alternative.»
Lei era rimasta in silenzio, lo sguardo fisso e un accenno di sorriso involontario.
«Ho bisogno del pejote per farlo, maggiore è la dose, più lungo è il salto, ma l'effetto di quello che ho mangiato sta per finire. Riesco a vedere solo l'immediato futuro. E nemmeno in modo nitido.»
Il primo pensiero che le passò per la mente, Polly lo reputò una cosa stupida ma lo disse comunque, più imbarazzata dal proprio silenzio, «sei uno di quelli delle leggende Hopi sulla fine del mondo?»
Lui sorrise e le fece una carezza tra i capelli, fino a cingerle il collo, «no, quelle sono favole per far divertire i ragazzi su internet.»
Le diede un bacio sulla fronte e scese.
La ragazza lo seguì con lo sguardo un momento e subito si sporse dal finestrino del passeggero, «ma se torni alla riserva ti troverà!»
«Non penso di avere alternative, anzi lo so.»
Scese anche lei e gli corse dietro afferrandolo per la mano, «hai detto di essere un Hopi.» Gli disse indicando il cartello.
«Il governo ha deciso che Navajo, Hopi e altre tre tribù si dividessero questo ridente fazzoletto di deserto.» Le rispose con una nota di sarcasmo troppo evidente e lei abbasso lo sguardo.
Le rialzò il viso sfiorandole il mento, «non è mica colpa tua.» La abbracciò un istante dopo, «vai a riprenderti tua figlia, il tuo colloquio per l'affidamento andrà bene e io so badare a me stesso.»
La lasciò indietro ancora inebetita, «come sai del colloquio?»
Lo disse a voce bassa, incurante del fatto che l'avesse sentita o meno, tornò alla macchia per girarsi un ultima volta. «Sei scalzo!» Gli urlò.
Lui la saluto con un gesto della mano e fece spallucce, continuando a camminare.

La moto di John Ashkii Dumber gli si fermò davanti sollevando un'onda di sabbia ocra.
«Doppio Sguardo? Brosky e venuto a cercarti anche da noi. Che hai combinato?»
«Aveva un mandato per me?»
«Non che io sappia.»
Montò sulla moto e poggiò i piedi nudi il più possibile lontani dalla grande marmitta cromata, «allora non ho combinato niente, dammi un passaggio.»
Arrivarono al villaggio un quarto d'ora più tardi, John passò rapido nella via principale ignorando il saluto di alcuni uomini seduti davanti agli usci.
Un paio di ragazzini corsero scalzi lungo il pendio, inseguendo la moto del poliziotto della riserva, agitando le mani.
L'agente parcheggiò davanti al portico di casa sua e fece entrare Jonas di corsa.
Quando si chiuse la porta alle spalle, urlò a sua moglie di serrare anche le finestre, poi si sedette allo scarno tavolo della cucina. Prese due tazze di metallo e ci versò del whisky, una la porse a lui.
«Io non lo so perché Brosky ti vuole, ma non ha buone intenzioni. D'istinto mi farei i fatti miei, non sei nemmeno un Navajo!»
Prese tempo e bevve un sorso avido, «ma se non ci fossi stato tu, mio figlio Gaagii sarebbe morto sulla statale, tre mesi fa. Ancora non capisco come hai fatto a veder sbandare quel camion.» Svuotò la tazza e la riempì di nuovo, «ho pensato che Brosky volesse ricattare tuo padre per fargli firmare, domani, la concessione delle terre a sud ma, ho parlato con Tocho e mi ha detto che avrebbe firmato comunque.»
La giovane moglie del poliziotto depositò sul tavolo un piatto di pane fritto e delle crocchette di mais blu, poi si sedette di fianco al marito.
«Mi sono scervellato per venirne a capo, e alla fine, ho concluso che qualunque cosa voglia da te, potrai nasconderti qui. Per quanto tempo vorrai.»
Jonas non aveva ancora assaggiato il suo whisky, poggiò le labbra carnose nel metallo smaltato e si bloccò.
Una bambina dai capelli rossi stava gridando, uno degli uomini di Brosky la teneva in braccio senza alcuna grazia, una pistola puntata contro quella testolina delicata. Cercò il volto di Polly ma la sua vista si appannò e di nuovo stava fissando la tazza colma.
«Chiedere del pejote a un tutore della legge è un reato grave, John?»
«Sarebbe più grave se il tutore della legge te ne desse. Ma io non ne ho, e che io sappia nemmeno gli sciamani. I giorni dei riti sono lontani.»
«Allora devo tornare a casa.»
Le proteste dei coniugi valsero a poco, Jonas si fece prestare un paio di stivali e la moto, lasciò la piccola casa prefabbricata pochi minuti più tardi.
Il villaggio Navajo era solo poco più grande di quello Hopi, e tolte le graziose e tipiche casette all'ingresso, edificate a beneficio dei turisti, era, come il suo; un accozzaglia di lamiere, container e prefabbricati tarlati.
Lo lasciò in uno sbuffo di polvere, per tornare alle sue lamiere, la sua immondizia ai lati delle abitazioni, i suoi container, solo un'ora e mezzo dopo.
Un cane pezzato uggiolò vedendolo arrivare, il sole del pomeriggio rendeva l'aria secca e densi mulinelli di polvere si alzavano dal terreno sabbioso.
Superò un paio di case e qualche bancarella gremita di turisti, gli acchiappasogni sventolavano appesi ai telai. Due ragazze, troppo scollate e troppo bionde, gli lanciarono un'occhiata eloquente che finse di non vedere. La più sfrontata delle due gli fece un cenno con il cappello da cow boy appena comprato.
Parcheggiò poco dopo, con un fischio richiamò l'attenzione di un ragazzo seduto davanti a una baracca fatiscente. Gli lanciò le chiavi della moto non appena l'ebbe a tiro, «fatti passare la sbronza e riportala all'agente Dumber, dai Navajo.»
Tagliò passando da un giardino, ne scavalcò la recinzione fatta con reti di letto e arrivò davanti a casa sua.
Alcune donne si affaccendavano tra il portico e l'interno, suo fratello seduto su una poltrona scucita si teneva un fagotto sulla tempia.
«Ma che diavolo è successo?»
Il fratello, nonostante la mole, scattò in piedi con agilità, non appena lo vide. Le braccia aperte, pronte ad accoglierlo.
«Sono andati via da poco. Non gli abbiamo detto nulla ma loro sapevano già del tuo dono. Gli ci vorrà poco a inventarsi un capo d'imputazione e allora torneranno per prenderti.»
Una delle donne si pulì le mani nel grembiule a righe colorate e si affrettò a servire dell'acqua fresca.
«Tocho come sta?»
Il bicchiere cadde dalle mani della donna, se le portò alla bocca e iniziò a piangere. Jonas scattò in piedi e corse dentro.
Superò la cucina e arrivò nell'unica altra stanza, trovandola vuota. «Kaia dov’è mio padre?»
La donna che lo aveva seguito, piangeva se possibile, più di prima, «lo hanno arrestato, Alo. Lo hanno portato via!»
La ricondusse in cucina cingendole i fianchi abbondanti «ora vai a riposare. Anzi andate tutte, ce ne occupiamo io e Honaw.»
Quando le donne furono uscite Honaw si avvicinò al fratello. Si sedette al tavolo arrotolando un tovagliolo tra le dita grassocce.
Jonas lo guardò fisso, il mento delineato ebbe un tremito leggero.
«Dovevi difenderlo, Grande Orso!» La nota di biasimo fin troppo evidente nel pronunciare il suo nome.
«Tu dovevi prevederlo allora, o rimanere qui a prenderti le tue responsabilità.» Il labbro spaccato di Honaw riprese a sanguinare e solo allora Doppio Sguardo notò la ferita sul sopracciglio.
«Scusami fratello. Quale era il pretesto?»
«L'imputazione è resistenza a pubblico ufficiale. Avevano detto di essere qui per un controllo. Non ha fatto nulla. Leone di Montagna è un uomo riflessivo. Credo che vogliano usarlo per arrivare a te.»
Jonas inspirò profondamente, «va bene, metto fine a questa storia.»
Si alzò piano, pose le mani sulle ampie spalle del fratello e gli baciò il capo, «starà a te firmare il trattato, domani.» Il suo alito gli scaldò la testa un istante, «non farlo.»

L'ufficio dell'agente Brosky era pulito, dalle ampie vetrate lo spettacolo della Monument Valley entrava, quasi prepotente. La moquette rossa dava l'impressione di essere sospesi in mezzo al deserto e l'aria condizionata di esserne lontani.
«Sono contento che alla fine tu abbia deciso di venire di tua spontanea volontà.»
Doppio Sguardo si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico, infilò entrambe le mani nel giubbotto, «facciamola finita Brosky, che diavolo vuoi da me?»
«Che tu mi faccia vincere un sacco di soldi,» si accese un grosso sigaro, mentre tre uomini entravano nell'ufficio, l'ultimo si chiuse la porta alle spalle con un giro di chiave.
«E come?»
Un colpo forte, inaspettato, ai reni lo gettò in ginocchio, Brosky tirò una boccata, spostando i capelli bianchi con una mano, «per essere uno che ha le visioni sei poco previdente!»
Gli assestò un calcio alla mascella, poi di nuovo si ricompose i capelli.
Un cenno ai suoi scagnozzi, il primo si avvicinò e gli schiacciò la destra, le ossa della sua mano scricchiolarono, cercò di dire qualcosa ma un calcio bene assestato nell'addome lo lasciò senza fiato.
«Allora indiano, so che hai un potere. Ti sei fatto notare troppo nei casinò della zona e io ho buoni informatori.»
Lui sorrise, un rivolo di bava e sangue gli colò dalla bocca, «non crederai alle voci di vecchi nostalgici, vero? Scambiano un po' di fortuna per l'intercessione di qualche spirito.»
L'uomo aspirò dal sigaro, si avvicinò al ragazzo ancora a terra e fece spostare quello che gli pestava la destra, si accovacciò e glielo spense sul dorso della mano strappandogli l'ennesimo grido. Lo afferrò per i capelli costringendolo a guardarlo, «no, non ci credo. Ma credo alla puttana con cui ti sei confidato, la testolina di sua figlia tra le mani di Brad mi ha fatto pensare fosse sincera. E credo a quello che vedo. Ti ho visto saltare davanti a un camion prima ancora che sbandasse e salvare un ragazzino.»
Sempre tenendogli la testa indietro gli sferrò un pugno. Si alzò appoggiandosi al proprio ginocchio e fece cenno ai suoi.
Due uomini sollevarono Jonas per i capelli, poi gli bloccarono le mani dietro la schiena. Un terzo si sfilò la cinta e se la arrotolò sul pugno, la grossa fibbia in corrispondenza delle nocche.
«Ora sturati quelle orecchie, stronzo di un indiano, tu verrai a Las Vegas con me e per me giocherai, e vincerai! O io ti farò rompere tutte le ossa.»
Un colpo al viso rafforzò la dichiarazione.
La fibbia aveva prodotto un lungo taglio trasversale sulla guancia del ragazzo che sputò a terra. La macchia scarlatta si confuse con la moquette.
«Allora?»
Jonas ansimava, i densi fiotti di sangue che gli riempivano la bocca, gli impedivano di parlare correttamente, «anche volendo è difficile, c'è un giro di roulette ogni due minuti, sai che sforzo mi stai chiedendo?»
«La rossa ci ha gentilmente concesso la sua collaborazione,» a quella frase Jonas scattò, ritrovandosi bloccato a metà slancio e una ginocchiata nello stomaco lo costrinse di nuovo in ginocchio.
«La signorina, dicevo, ci ha informati sul carburante per le tue visioni. Ho già fatto requisire tutto il pejote delle cinque tribù.»
Estrasse il piccolo cactus dal cassetto della scrivania, lo divise con un tagliacarte e si avvicinò al ragazzo. Gli tirò indietro la testa strattonandolo per i capelli e gliele cacciò in bocca entrambe, forzando sulle labbra martoriate.
«Avanti ragazzo manda giù... Non farmi diventare cattivo!»
Si affrettò a tagliarne un altro e fece la stessa cosa. Jonas ingoiò il secondo cactus con una smorfia, poi iniziò a tossire. Uno degli uomini che lo tratteneva lo lasciò, facendo segno al suo compare di imitarlo. Il ragazzo rotolò a terra tenendosi la gola, un conato di vomito e rovesciò un po' della poltiglia grumosa e sangue sul pavimento.
Tentò di rialzarsi e di nuovo cadde a terra. Si mise in ginocchio, una mano arrancava davanti a se, tastando il vuoto. Brosky girò una sedia tenendola dalla spalliera e gliela pose davanti, un altro lo aiutò a sedersi.
Il capo stringeva un pezzo di cactus nella mano, glielo presentò di nuovo alle labbra. Fu il più vicino dei suoi scagnozzi che lo bloccò. «Signore non stiamo esagerando? Quella roba manda fuori di testa.»
«Meglio essere sicuri.»
Gli forzò la bocca premendo con le dita sulle guance e lo costrinse a mangiare anche quello.
«Va bene, allora ragazzo, voglio andare al casinò indiano alla frontiera col Nevada, per iniziare. Giocherò alla roulette e tu verrai con me. Su che numero devo puntare?»
Doppio Sguardo era confuso, la stanza sembrava vorticargli intorno e la bocca era un impasto di sangue e carne degli dei. Si poggiò le mani sulle tempie, gli occhi socchiusi.
Si vide ben vestito, un completo scuro. Gli occhiali da sole e i capelli sciolti coprivano malamente i lividi e i segni sul viso.
Brosky era accanto a lui con un completo color panna e un cappello vistoso, guardò l'orologio, le tre e dieci del mattino. Puntò sul numero uno.
Uscì il ventisette.
Aveva di nuovo le mani sulle tempie e gli occhi socchiusi. Il suo vestito sporco di sangue addosso. «Il ventisette, alle tre e dieci del mattino.»
Brosky fu pratico, come sempre, «Rod fallo lavare e trovagli un vestito, il ragazzo viene con noi, e tu cerca di non fregarmi o ammazzo te, la tua famiglia e quella della puttanella rossa.»

Nelle quattro ore di viaggio fino al confine Jonas si addormentò, i suoi sogni, portati dal frutto degli antichi, virarono in tutti i toni del viola. Prima fu un coniglio, apprese la corsa e l'arte di nascondersi, dal fondo delle gallerie poteva vedere i suoi nemici, poteva sfuggirgli ma non difendersi. Allora divenne uno sciacallo. Fiero e forte, conobbe la lealtà e conscio della propria forza si senti un pari dei suoi nemici, quindi apprese il tradimento. Divenne mais anche, piegato dal vento e offerto in dono. Sostentamento e merce di scambio.
«Andiamo "Balla coi lupi", sveglia! Vediamo se hai ragione.»
Il casinò "Crazy Horse" sfavillava di centinaia di luci intermittenti. Due totem, che nulla avevano a che fare con le tribù di quella zona, troneggiavano ai lati dell'ingresso principale. Sotto di loro delle carte da gioco giganti si illuminavano alternativamente.
Attesero le tre al bar accanto al tavolo della roulette, i due tirapiedi e il loro capo sorseggiarono dei cocktail dai nomi esotici, lui rimase in silenzio, seduto su una poltroncina damascata. Era stanco, spossato.
Si sentì afferrare per un braccio, «è l'ora della tua puntata.»
Gli misero in mano cinquemila dollari in fiches, barcollò fino al tavolo, riconobbe nel croupier un Navajo, che lo saluto con un cenno e lo sguardo preoccupato.
«Tutto sul ventisette.»
Come aveva previsto la pallina bianca si fermò sulla casella rossa. Fu l'unico a non esultare del suo gruppo. Raccolse le fiches facendone cadere un paio e si voltò verso Brad, gliele rovesciò tra le mani aperte a conca e rovinò a terra.
Lo sollevarono di peso, trasportandolo fuori dal capannello di curiosi, «ragazzo, guarda che abbiamo appena cominciato, tirati su o ti strappo la pelle a cinghiate. Avanti, un altro numero.»
Aveva la vista annebbiata e non riusciva a distinguere i colori, vide se stesso nella medesima condizione, un lungo fischio gli impediva di cogliere altri suoni, si sorresse al bordo del tavolo verde, puntò sull'uno ma si accasciò di nuovo e non vide la pallina fermarsi. Un uomo esultò alla sua destra.
Rivisse gli stessi due minuti almeno una trentina di volte, e trenta volte vide l'uomo accanto a lui esultare, finché due ragazze alle sue spalle non gridarono, sovrastando il fischio, «ancora lui! Ha vinto di nuovo l'indiano!»

«Trentadue.» La voce era ridotta a un rantolo distorto.
Brad lo sollevò per un braccio e lo aiutò ad appoggiarsi su di lui. «Capo questo non ce la fa, ci crepa qua dentro.»
«E va bene! Riportatelo in macchina, io gioco e arrivo.»
Sentirono Brosky esultare un minuto dopo.
Un uomo della sicurezza li avvicinò, aveva l'aria contrariata, «qualche problema signori?»
«Il nostro amico ha alzato troppo il gomito, ce ne stiamo andando.»
Lo trascinarono fuori sollevandolo quasi da terra. Le luci della volta nell'ingresso gli balenavano davanti agli occhi, allungò la mano fasciata per afferrarle. Brad dovette quasi prenderlo in braccio per infilarlo in macchina. Gli chiuse lo sportello dietro e diede quaranta dollari al parcheggiatore, «ci fermiamo qui davanti un momento, le macchie dietro, falle aspettare.»
Partirono solo dieci minuti più tardi, quando anche Brosky li ebbe raggiunti.
«Sei bravo, indiano.»
Non lo stava ascoltando, un rivolo di bava gli scivolò dalle labbra, sul mento.
«Ma che cazzo gli succede?»
Brad gli sfilò gli occhiali, le pupille erano due grossi bottoni neri puntati sul niente.
Lo scosse allora, gli prese il viso con una mano e lo scosse ancora. «Capo, ma é normale?»
L'uomo sfilò una bottiglia d'acqua dal vano porta oggetti e ne intrise la propria poshette, si sporse verso i sedili posteriori e gli umettò le labbra, «'cazzo ne so se é nomale? Dai Rod metti in moto, vai al magazzino ma, vola!»

Arrivarono al magazzino sul Porc River tre ore più tardi, Jonas stava dormendo, almeno questo era parso ai suoi sequestratori. Lo sollevarono di peso e lo trasportarono all'interno.
Nel sogno lui era divenuto un'aquila, finalmente. Con gli occhi del rapace vide se stesso, sollevato per il busto e le gambe. Vide Brad aprire la porta e scomparire all'interno del capannone rettangolare. Osservò il proprio riflesso maestoso sul tetto di lamiera. Era pronto.
Pronto a ghermire, ad aspettare l'occasione. A essere il predatore.
Aprì gli occhi subito dopo, una macchia giallastra nel controsoffitto gli ricordò un'aquila.
«Alla buon'ora.»
Rod gli passò una bottiglia d'acqua.
D'istinto allungò la destra ma se la ritrovò incatenata alla spalliera del letto.
«Se devi pisciare ti accompagno io.»
Scosse la testa e bevve, il sole entrava prepotente dalle finestre e cominciava a fare caldo, «per quanto tempo pensa di tenermi qui, il tuo capo?»
Parlare gli faceva dolere le labbra e la mascella, se la sfiorò scoprendosela gonfia.
«Fin quando non avremo un bel gruzzolo a testa, credo.»
«Dosi come quella di ieri mi ammazzeranno prima che possiate vederlo, il gruzzolo.»
Non gli rispose.
«Ho bisogno di lavarmi la faccia.»
«Ho l'ordine di non farti muovere, tranne che per pisciare. Tra un paio d'ore tornerà il capo e deciderà lui, io ora me ne vado a dormire. Non voglio sentire un fiato.»
L'energumeno biondo si accomodò su una poltrona, poggiò i piedi su un mucchio di fogli impilati e reclinò indietro la testa, due minuti dopo stava russando.

Quando Brosky entrò facendo stridere la grande porta scorrevole doveva essere quasi ora di pranzo.
«Bene, indiano. Vedo che ti sei ripreso.» Gli sollevò i capelli scoprendo un grosso livido sullo zigomo e l'occhio semichiuso. Il bel naso aquilino era gonfio e violaceo. «Per un attimo ho temuto di aver esagerato.» Ridacchiò.
Gli lanciò addosso un sacchetto del Mc Donald.
«Non ho fame.»
«Lo immagino. Dicono che il pejote ti tolga l'appetito per giorni, ma a me servi in forma. Cazzo fai schifo!
Quindi sforzati e mangia. Alle tre c'è la firma del trattato e tu mi accompagnerai, ce la sbrighiamo veloce, veloce e subito dopo andremo a Las Vegas. Quel grosso coglione di tuo fratello è meno accondiscendete di tuo padre, ma non farà problemi se ti vedrà con me.
Comportati bene e stasera rimanderò a casa Leone di Montagna.»
«Se hai me, cosa te ne frega delle terre a sud?»
Girò la chiave nelle manette e gli impose di alzarsi con un gesto, «io sono un uomo previdente.
Vatti a dare una sistemata, non voglio fargli pensare che io abbia estorto i tuoi favori.»
Jonas si guardò nella porzione di specchio rimasta ancora appesa alla parete del bagno, «sarà difficile.»

La sala del consiglio cadde nel silenzio non appena Jonas Doppio Sguardo fece il suo ingresso.
I capelli scesi davanti al viso, occhiali scuri e un cappello ben calato sulla testa. Procedette guardando il pavimento fino al tavolo delle trattative, claudicando appena.
Come ebbe aggirato il lungo tavolo scuro, la platea prese a mormorare, indicando la strana accoppiata, formata da lui e Brosky, che addirittura lo teneva sotto braccio.
Jonas prese posto tra suo fratello e Ashkii Dumber. Brosky gli diede un'affettuosa pacca sulla spalla e si sedette nel posto successivo.
Parlarono per molto tempo, tempo in cui la mente di Jonas era stata ovunque fuorché nella grande sala rettangolare. Le stuoie alle pareti si muovevano appena, sollevate dagli spifferi.
Delle cinque tribù, due votarono si e due negarono il proprio consenso, la scelta era della tribù Hopi, nella persona di Grande Orso, quindi. La folla ammutolì per sentire, in modo distinto, il monosillabo uscire dalle labbra dell'uomo.
«No.»
Brosky bestemmiò battendo entrambi i pugni sul tavolo, la mano di Honaw afferrò la coscia del fratello, desideroso di approvazione. Doppio Sguardo fece scivolare la propria su quella di Grande Orso e la strinse.
Un colpo sulla spalla rammentò a Jonas la propria posizione, si alzò sforzandosi di apparire naturale, quando Brosky gli intimò di seguirlo. Appena si fu alzato il vecchio si voltò verso Grande Orso, le labbra vicine all'orecchio, «pessima idea figliolo. Tuo padre e tuo fratello se ne dispiaceranno. Molto.»
L'uomo si chiuse nella giacca elegante e uscì dalla sala a grandi passi, Jonas lo seguì cercando di tenerne il ritmo.
Appena fuori dalla grande porta intarsiata Brosky afferrò il ragazzo per il bavero della giacca, «tuo fratello non ha capito con chi ha a che fare!» Il rombo di un auto di grossa cilindrata si levò dal fondo del paese. L'uomo gli gridò in faccia una seconda volta, «sono io che comando, qui!» In un moto di rabbia lo spinse in strada.
Jonas cadde all'indietro mentre un pick up attraversava la via principale a velocità sostenuta. L'autista ebbe solo il tempo di sterzare, poi l'impatto.
Il corpo senza vita di Brosky era rimasto in posizione eretta, incastrato tra la vettura e il muro della sala del consiglio, abbracciato dalla lamiera del fuoristrada.

Gli occhi si spalancarono scoprendo le iridi nere. Le pupille dilatate si restrinsero in pochi attimi alla luce del fuoco.
Jonas Doppio Sguardo strinse la scodella con entrambe le mani, prima di chiudere di nuovo gli occhi.
«Tutto bene?» Il vecchio sciamano gli pose una mano nodosa sulla spalla, gioviale.
Jonas sorbì un'altra boccata dalla ciotola. Assaporò la poltiglia amara e grumosa, la schiacciò sotto i denti senza riuscire a mascherare una nota di disgusto. Mandò giù il pejote piegando la testa all'indietro, «si.» Sentenziò, passandosi la lingua sui denti bianchissimi.
«Sta entrando Brosky, ora assecondatemi e dopodomani votate no.»
Un rumore sordo da dietro la porta, un rumore che Jonas aveva già sentito. Poi l'inconfondibile scricchiolio che ne anticipava la caduta.
Sei uomini a volto coperto irruppero con le armi in pugno. Doppio Sguardo alzò le mani prima che potessero puntargli le armi contro e anticipò Brosky sull'uscio, «l'uso di mescalina è vietato, lo so. Ma so anche che non sei qui per questo, quindi andiamo.»
«Allora le voci sono vere. Fantastico, sarai la mia gallina dalle uova d'oro ragazzo.»
«Ho solo una condizione.»
«Spara.»
«Dopodomani alla firma per la cessione verrò con te.»
Brad gli girò le mani dietro la schiena e lo ammanettò. Con uno spintone lo diresse verso l'uscita.
«Certo che verrai ragazzo, sei la mia garanzia, non sia mai tuo padre decidesse di negarmi la concessione.»

Una gran folla si riversò fuori dalla sala del consiglio, l'autista del pickup, un agente del Bureau, era seduto davanti al corpo senza vita del suo capo. «Lo avete visto vero? Non potevo evitarlo, ha spinto il ragazzo in strada... Ho agito d'istinto.»
Lo sguardo disperato si rivolse a Jonas, «tu, tu ragazzo, lo hai visto vero? Ho solo cercato di non investirti.»
Grande Orso sollevò da terra suo fratello, gli aggiustò il giacchetto di jeans sulle spalle e gli prese il viso, pulito, tra le mani.
«Era questo che avevi previsto?»
«Più o meno.»
La polizia della riserva e gli agenti del bureau arrivarono dopo pochi minuti. Raccolsero le deposizioni in strada. Riservandosi la possibilità di riascoltare i testimoni.
Una luna piena chiarissima era appena sorta. Jonas si spostò i capelli dietro le orecchie e abbracciò suo padre.
Il vecchio gli baciò la fronte, «Non so cosa tu abbia fatto, Alo. Ma so che hai agito per il meglio.»
«Ora devo andare, parlerò con la polizia domani, se vorranno sentirmi di nuovo. Ho un appuntamento.»
Suo fratello aveva messo in moto il pick up, «con chi?» gli chiese, sporgendosi dal finestrino.
«Una bellissima rossa che sta tornando da Las Vegas con sua figlia e non ha la più pallida idea di chi io sia.»



Ahhh... Vabbè ma Nitro ha barato come me, è quello della passata edizione! :) allora mi rilasso!
 
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Nitroneus
view post Posted on 3/1/2013, 00:14




Era lì, bell'e che pronto! ^_^
 
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Sol Weintraub
view post Posted on 3/1/2013, 01:54




Quasi 11k e la storia è solo all'inizio. Temo proprio proporrò il pezzo fuori concorso nella speranza che qualche anima generosa abbia la bontà di leggerlo. ^_^
 
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g.f.cassatella
view post Posted on 3/1/2013, 09:51




il mio è stato un parto veloce e doloroso
ora passo alla correzione del testo, poi mi leggo il nuovo regolamento
è la mia prima volta dal cambio, non vorrei fare casini
 
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kaipirissima
view post Posted on 3/1/2013, 10:44




Oggi ci provo anch'io.
Spero di arrivare a 5000 !
Giusto per... Non siamo tutti uguali.

Cassatella ben tornato!
Nuovo regolamento cos'è sta novità?
Sol a quando il libro? Meglio se cominci a pensarci. Poi Rov ti fa la copertina.
 
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338 replies since 29/12/2012, 14:27   5832 views
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