Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio, marzo 2013, speciale XVI, Ventiquattr'ore con lo scienziato pazzo
* Campionato pri-est 2013, 2 di 12

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 15/3/2013, 15:29
Avatar

Advanced Member

Group:
Member
Posts:
1,111

Status:


Io forse ne conosco uno!!! ;)
 
Top
Sol Weintraub
view post Posted on 15/3/2013, 16:00




Ce la faccio. Forse ce la faccio.
 
Top
anark2000
view post Posted on 15/3/2013, 16:02




Vedrai che forti energie positive ti raggiungeranno presto... e la forza sarà con te! Sol!
 
Top
cristiano r.
view post Posted on 15/3/2013, 16:18




Stavo pensando cosa ci possa essere scritto nell'avatar del Weintraub, quando mi è tornata in mente la scena de Il silenzio degli innocenti nella quale il pazzoide si guarda allo specchio mentre si trucca e si agghinda da donna.
Forse dovrei cercare uno psicologo sulle yellow pages di Glesga...
:wacko: :alienff: :shifty:
 
Top
Sol Weintraub
view post Posted on 15/3/2013, 18:37




EUREKA!!! Rileggo e posto.
 
Top
Miksi
view post Posted on 15/3/2013, 19:29




Eeeee… tciù! Niente rivelazioni geniali per me, al massimo uno starnuto!
Ma comunque buono speciale a tutti!


Non tutti i pazzi sono scienziati



"Sarebbe come tentare di creare un linguaggio nuovo senza sapere chi lo debba utilizzare. Vedete, io non sono un esperto in quel campo, ma provate a immaginare cosa vorrebbe dire insegnare una lingua diversa agli Inuit, piuttosto che a una tribù Ainu dell'Hokkaido. Sono i parametri che fanno la differenza, ragazzi, non dimenticatevelo."
Il Professor Gabil controlló l'orologio con uno scatto del polso: le lancette dello Swatch colorato segnavano le 15 e 50.
Sorrise alla classe in segno di congedo e poi si voltó per cancellare i grafici disegnati sull'enorme lavagna bianca. Sentì che, alle sue spalle, gli studenti avevano in fretta e furia cominciato a sistemare le proprie cose, approfittando del tacito permesso concesso loro.
"Signor Drole?", esclamó d'un tratto l'insegnante che, preso da un pensiero improvviso, tornó a scrutare l'aula in movimento. "C'è il signor Drole?"
Dagli ultimi banchi un ragazzino pallido si guardó attorno, nervoso. Avrebbe voluto nascondersi ma non poté fare a meno di incrociare lo sguardo inquietante che lo cercava da dietro la cattedra.
Il professore non era vecchio, non troppo, almeno, ma pareva che nei suoi occhi di ghiaccio fosse incastonata la conoscenza di milioni di anni.

Tra i ragazzi circolava la voce che fosse un vampiro, uno della prima stirpe, per l'esattezza, o, magari, che fosse arrivato sulla Terra da un altro pianeta, il che avrebbe, se non altro, spiegato la minuziosa perizia con cui l'uomo illustrava ai suoi studenti i misteri della nascita del cosmo e il linguaggio in cui ogni cosa era scritta.
"Presente!", fu costretto a rispondere Theodore Drole, con la mano alzata a malapena a mezz'aria. Non aveva ancora finito di riporre tutto il materiale nella borsa di cuoio.
La prossima volta dovró essere più svelto, pensó.
Un compagno gli diede una pacca sulla spalla e si diresse verso l'uscita. Theodore lo guardó con un vago senso di abbandono, coronato da una punta di disprezzo.
Vigliacco.

"Bene!", disse il professore, mordendosi il labbro, "le dispiacerebbe fermarsi un attimo per discutere di quella questione?"
Il ragazzo si lasció scappare un mezzo sospiro, ma le sopracciglia aggrottate di Gabil lo folgorarono a tal punto da costringerlo a sfoderare un sorriso luminoso, per quanto il piccolo Drole potesse sforzarsi di brillare.
"Ma certo! Nessun problema, Professore, anzi, avevo giusto intenzione di scriverle per… "
Non trovó le parole giuste che completassero la frase, ma fece qualche passo avanti nella speranza di trasmettere iniziativa. Nemmeno portó con sé la borsa.
"Mi risparmi i convenevoli, signor Drole. Si vede benissimo che mi evita da settimane: non risponde alle comunicazioni, è sempre l'ultimo ad arrivare e il primo ad andarsene, si siede in fondo all'aula come se lì non potessi raggiungerla"
Parlava con calma, fredda come le sue iridi. Pronunciava parole taglienti senza, tuttavia, esprimere alcun rimprovero apparente.
Il ragazzo avvertì comunque il senso di colpa.
"Mi rendo conto che, io, chiedo scusa, ho avuto molto da fare di questi tempi, sa, tutti i corsi del semestre, i progetti, posso essere stato distratto, ecco."

Theodore non fece pause tra una parola e l'altra, buttó fuori tutto d'un fiato, senza sapere neanche cosa dire.
D'altronde, non aveva a disposizione scuse più plausibili e meno generiche di quelle.
Avrebbe voluto spiegarlo coi numeri, allora sì che sarebbe riuscito a convincere un babbuino di essere il diretto discendente di Gengis Khan. Avrebbe potuto persino insegnargli a vestirsi come lui, utilizzando i numeri.
Per tutti era fonte di curiosità e, spesso, scherno il fatto che lui non fosse in grado di intavolare discorsi sensati, oltre una certa lunghezza.
Puntuale, arrivava sempre un momento in cui, a suo giudizio, risultava ovvio inserire delle espressioni, delle funzioni, dei radicali e degli integrali. In quei segni, Theodore vedeva le spiegazioni che cercava.
Chiare come le reazioni solari.

"Si calmi", la voce di Gabil era come un sottile filo tagliente, "non volevo agitarla. Ero solo, incuriosito da questo… atteggiamento. Mi spieghi, mi spieghi con calma e sincerità, cos'è accaduto?"
Drole restó in silenzio e lanció uno sguardo alla finestra. Oltre le sbarre, si vedeva il cortile illuminato dal sole.
Perché ci sono le sbarre?
Deglutì. Un paio di volte, per essere sicuri. Con uno sguardo circospetto si assicuró che nessuno fosse rimasto in aula.
Poi prese fiato e cominció.
"C'è stata quella presentazione, si ricorda? Metà della classe tratteneva a stento le risate, l'altra metà nemmeno si sforzava."
L'uomo annuì.
Theodore parlava a occhi bassi. Spezzava le parole, chinava il capo a destra.
Si vergognava dell'accaduto, pur essendo davvero convinto di aver finalmente trovato, dopo esserne stato ossessionato fin da piccolo, un codice universale che potesse essere compreso da qualsiasi essere vivente, a prescindere dalla razza, o dalla specie. Un linguaggio trasversale che potesse essere valido per l'intero regno animale.
"Insomma, anche lei rideva, professore", sbirció di sotto in su i capelli sale e pepe dell'insegnante
"Quindi sei arrabbiato con me, Theodore?"
La voce si era alzata di tono e il ragazzo fu preso alla sprovvista anche dal cambio repentino di appellativo.
"No, non arrabbiato, io...", farfuglió per difendersi.
"Arrabbiato, adirato, furente, incollerito, questo sei!", urló Gabil, battendo un pugno sulla cattedra. Il volto gli si deformó in un sorriso meschino.
"No!", insistette il giovane. Si portó le mani alle orecchie e fece un passo indietro.
"Non conosci queste parole, signor Drole, o ti spaventa usarle?" Gabil lo incalzó sempre più, "come speri di tradurle, nel tuo linguaggio universale? Quanti impulsi magnetici ti serviranno per creare l'idea di astio?".
Il tono canzonatorio mise Theodore in estremo disagio.
"Non sono arrabbiato, professore!" Il ragazzo indietreggió fino alla prima fila di sedie. "D'accordo, dimentichiamo questa storia. La presentazione, il codice, non ne sentirà più parlare. È stata una scemenza, me ne rendo conto."
"Per niente!", si accanì l'uomo, quasi digrignando i denti "tu non ti rendi conto di niente! Non ti rendi conto di quello che hai fatto, di quello che potresti fare!"
Una luce malsana illuminava i suoi occhi chiari. Theodore lanciava occhiate regolari verso la porta, nella speranza che qualcuno entrasse. Le gambe non rispondevano ad altro comando se non quello di tremare.
Teneva le mani serrate sullo schienale di una seggiola, tanto da sentire qualche scheggia pungergli i polpastrelli.

Il professore parve calmarsi. Si schiarì la voce e si appoggió alla cattedra.
Theodore tentó di ritrovare un minimo di contegno: rizzó il busto e aspettó.
Gabil prese in mano il microfono che, a causa della voce stentorea, non era mai costretto a utilizzare per farsi sentire. Giocherelló col cavo, se lo arrotoló sulla mano più volte, poi tiró con forza, strappandolo.
"Dico davvero, signor Drole, gran bella idea. Peccato che sia io quello ad averci lavorato per tanti anni. Peccato che sia stato io a non essere giunto a una conclusione come la tua. Peccato che sia tu, a doverne fare le spese, ora"
Theodore guardó il professore con la stessa curiosità suscitata da un insetto che si fabbrica il nido. L'uomo gli si avvicinó.
"Ora capirai, il prezzo del progresso, Theodore.", sussurró, scattando per cingere il cavo attorno al collo del giovane.
Scavalcó il banco e si avventó sul ragazzo, in preda a urla frenetiche.
Theodore, d'istinto, sollevó la sedia, che ancora non aveva lasciato, e la brandì a casaccio davanti a sé, nella speranza di tenere alla larga l'uomo.
Al quarto colpo una delle gambe colpì qualcosa di duro: Theodore udì un urlo diverso dagli altri e poi un tonfo.
Quando si decise a guardare, vide Gabil riverso a terra, un rivolo di sangue che gli colava da poco sopra la tempia destra, imbrattando la camicia a quadri.
Theodore lasció andare la sedia e si precipitó verso la propria borsa.
"Eureka!" sussurró agli occhi vitrei del suo professore, prima di fuggire in preda al panico.

Autorizzo jackie all'eventuale pubblicazione

Edited by Miksi - 15/3/2013, 19:40
 
Top
Sol Weintraub
view post Posted on 15/3/2013, 19:32




Nota dell'autore:
Le somiglianze tra questo racconto e il mio precedente, Il cimitero degli elefanti, sono dovute al fatto che, almeno idealmente, il protagonista è lo stesso.
Le note sono solo le fonti delle citazioni, quindi non spezzate la lettura andando a cercarle. ^_^


GIENAH
Requiem in Mi Minore per la morte di un cigno



L'uomo che non ha musica nel cuore ed è insensibile ai melodiosi accordi è adatto a tradimenti, inganni e rapine.
I moti del suo animo sono spenti come la notte, e i suoi appetiti sono tenebrosi come l'Erebo.
Non fidarti di lui. Ascolta musica.
[William Shakespeare, Il Mercante di Venezia]



La fredda luce di Gienah giocava tra le colonne del portico, accarezzando gli archi con dita pallide.
Il ponte secondario della Lužin non si limitava a riprendere l'architettura della fiorentina Loggia dei Lanzi: l'edificio originale era stato prelevato pezzo per pezzo dalla Vecchia Terra, per poi essere riassemblato sulla fregata sotto la supervisione dell'Arca delle Arti.
Seduto al suo Steinway, gli occhi chiusi, Mathias ascoltava il cuore della stella pulsare.
La musica era un Presto in mi minore, ripetuto in cicli brevi e suadenti. Il battito d'ala del Cigno.
Introduzione in fortissimo con sestine cromatiche. L'attrazione eccentrica della sua compagna invisibile.
Figure in pianissimo. Scale ascendenti. La rapidità del moto proprio.
Coda in prestissimo. Il fondersi dell'elio in ossigeno e carbonio.
Chiusura in Mi minore.
Leoni di marmo vegliavano la sua estasi mentre dava vita a quella partitura cosmica.

Percepì l'arrivo di Polissena ben prima che gli fosse accanto. Il suo passo delicato suonava in Re bemolle, triste e nobile come un preludio di Chopin.
Terminò il passaggio prolungando l'ultima nota e si voltò a guardarla. Lei sorrise appena, i capelli umidi a incorniciare il viso arrossato dal gel della criostasi. Sembrava una naufraga scampata alla tempesta e non una delle donne più potenti della Coalizione.
Mathias la trovò bellissima.
- Ben svegliata, Proconsole - disse, senza alzarsi ma continuando a sfiorare distrattamente i tasti in una melodia soffusa. - Non era necessario raggiungermi con questa urgenza.
Lei sembrò non ascoltarlo, lo sguardo fisso sulla sfera incandescente.
- È questa dunque? - la sua voce era poco più di un sussurro.
L'uomo annuì, pur capendo la retorica della domanda.
Si alzò, affiancandola. Le posò una mano sull'avambraccio nudo, poteva sentire le sue vibrazioni attraverso la pelle accordarsi ai moti violenti dell'animo.
La donna gli afferrò il polso, lo strinse senza mollare la presa.
- Ora parlate.
Lui esitò. - È stato un lungo viaggio, forse dovreste...
- Vi prego - la presa divenne una carezza mentre le loro dita si intrecciavano. - Vi prego Mathias, ho bisogno di sapere.
Poteva sentire il suo dolore, la dolcezza e la disperazione.
Kierkegaard scrisse che l'animo dell'uomo è una casa a più piani, ma nessuno sale fino a quelli nobili. Avrebbe dovuto essere lì, Kierkegaard, nel crepuscolo di quel sole morente.
- D'accordo.
Accanto a loro Patroclo moriva, intrappolato nel marmo.

- - -



Al loro primo incontro Lucius gli sembrò tutto, fuorché uno scienziato.
Nella penombra della cappella, suonava il Mater Innocentiae con trasporto carnale. Gli scherzi cromatici delle vetrate trasformavano il suo viso scarno, travolto dalla passione, in una grottesca maschera bucolica.
Mathias rimase ad ascoltarlo rapito e al termine dell'esecuzione lui gli sedette accanto.
Non si presentò, né si voltò a guardarlo. - Sì dentro ai lumi sante creature, volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure - declamò, senza staccare lo sguardo dall'Adorazione dei Magi. - Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l’un di questi segni, un poco s’arrestavano e taciensi.¹
- Dante - rispose Mathias, riconoscendo la musicalità della terzina prima delle parole.
L'uomo sorrise. - Le anime cantano regolando il proprio volo. Chiarore e armonia, un melos che manifesta la vera Luce.
- E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa².
In quell'istante, senza neppure conoscersi per nome, capirono, dopo infinite vite, di essersi trovati.


- - -



Quando smise di parlare, Mathias si accorse di tenerle ancora la mano.
Per tutto il racconto Polissena non aveva distolto lo sguardo da Gienah. Era rimasta immobile, sfidandola a trafiggerla con i suoi strali.
- Non mi aveva mai parlato di questo vostro primo incontro - la sua voce vibrava ora in Sol. Malinconia, gelosia forse.
- Eravamo giovani allora.
- Lo ero anch'io quando lo incontrai. Giovane e stupida - ribatté amara. Poi si voltò e iniziò ad avviarsi verso il fondo del portico. - Vado in cabina a cambiarmi.
Mathias accarezzò il coperchio del pianoforte, senza staccare gli occhi dalla Proconsole. - Alla fine è voi che ha scelto.
- Siete un pessimo bugiardo - le volte inghiottirono l'eco dei suoi passi.

Pranzarono nella serra-giardino, sotto una tenda di glicini.
Polissena indossava un semplice prendisole acquamarina, secondo la moda estiva di Nuova Rinascimento. Lo chiffon sbocciava lasciando libere le spalle e la morbida curva del seno.
Mathias le sedeva di fronte, avvolto nelle severe vesti purpuree dell'Accademia Ambrosiana.
Servitori meccanici si muovevano silenziosi e agili tra i tulipani in fiore, i volti coperti da baute dorate.
- Lucius mi raccontò che fu un vostro concerto a ispirarlo, a dargli uno scopo - disse Polissena, alzando il calice di vino per contemplarne il colore.
Sul tavolo tartufi e funghi profumavano l'aria.

- - -



Si rividero otto anni dopo, su Barnard.
Mathias sedeva sotto le volte affrescate, ancora scosso dall'esecuzione del Capriccio di Stravinskij. Aveva suonato su un Bechstein appartenuto allo stesso maestro, soffrendo a ogni accordo per la dolorosa pienezza delle note.
Lucius gli sedette accanto, come se nulla fosse, come se il tempo si fosse fermato a quel pomeriggio nella Cappella degli Scrovegni, sulla Vecchia Terra. Come se si conoscessero da sempre.
- La musica rende ogni ascoltatore un poeta - sospirò in una nuvola di fumo. La sottile pipa di morta gli dava un'aria vagamente bohemien. - Ha un potere che non rivela nulla, se non la dicibilità dell'indicibile.
- La musica è il solo dominio in cui l'uomo realizza il presente - rispose Mathias, stando al gioco. - Ci libera dall'imperfezione della temporalità. Solo nel tempo possono aver luogo il peccato, l'errore, il fallimento. Solo nel tempo la significazione diventa non solo possibile, ma addirittura necessaria - poi si alzò per tornare in scena.

Quella notte si amarono sotto le coltri purpuree dell'aurora gassosa.
Fu un atto dolce e violento, la variazione di Odile.
Più tardi, nell'enorme vasca di marmo, Lucius gli disse il suo nome.
- Quindi sei uno scienziato? - chiese Mathias, giocando con le gocce sul suo ventre glabro.
Lui aveva diluito del sapone tra le mani per soffiare nell'aria bolle arcobaleno.
- Sono un ascoltatore, come te.
Mathias gli salì a cavalcioni, spingendolo fino al collo nell'acqua tiepida. - E cosa ascolti? - disse cercando le sue labbra, mentre udiva l'eccitazione salire in un Crescendo di fiati.
- La voce dell'universo.
- E cosa ti dice?
Lui l'aveva attirato a sé. - Suona una musica. E vorrei che tu mi insegnassi a tradurla.


- - -



Il sorbetto al lampone si scioglieva nelle coppe di cristallo.
- Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti - pensò Mathias.
Il sole artificiale avvolgeva la serra in un tepore pomeridiano.
- Quindi eravate con lui su Medina, a progettare Genauer? - chiese Polissena. Si era tolta le carpe e camminava a piedi nudi tra i fiori.
- Odiava quel nome - Mathias rise al ricordo. - Lui lo chiamava “la mia perla”.
La donna prese un un soffione tra le dita e liberò nell'aria in candidi semi.
- Chiamava così anche me.

- - -



Königsberg scrisse che le sensazioni sonore sono belle sole se pure, per questo riescono a rendere intuibile la forma nella maniera più precisa3.
Passarono quattro anni a lavorare sul programma, traducendo la sinestesia di Mathias in formule e schemi.
Lucius non volle un laboratorio vero e proprio, scelse una grande tenuta da hidalgo sulle scogliere di Safìa. La mattina si vegliavano presto ma la sera, al tramonto, abbandonavano i codici e i macchinari per scendere in spiaggia a vedere i soli inabissarsi all'orizzonte. Spesso rimanevano lì fino a notte fonda, abbracciati sul bagnasciuga, il vento caldo del Kidr a scompigliare i capelli.
Ogni mese Lucius raggiungeva il teleporter per Nuova Rinascimento dove si tratteneva il tempo necessario a riferire ai finanziatori lo stato del progetto.


- - -



- Tornava a casa - sussurrò Polissena. - Tornava da me.

- - -



Al suo ritorno Lucius portava a Mathias dei piccoli regali, di solito spartiti o libri cartacei di autori dimenticati. La sera, prima di coricarsi, leggevano poesie alla luce spettrale dei globi falena.

“Tutto quello che nasce di nascita mortale
deve essere consumato con la terra
per levarsi dalla generazione libero:
allora che cosa ho a che fare con te?

I sessi sono sorti da vergogna e orgoglio,
soffiati al mattino, sono morti la sera;
ma la pietà ha cambiato la morte in sonno
e i sessi si sono alzati per lavorare e piangere.”4


Mathias chiudeva gli occhi ascoltando la melodia dei loro cuori, un Notturno che lo cullava sulle onde dei sogni.

Una mattina d'autunno venne svegliato da una nota grave, il La di un fagotto. Dopo un istante il suono si ripeté un'ottava più alto.
Nel salone Lucius ballava con le mani alzate mentre dalle grandi casse Genauer traduceva in musica la pulsazione del nucleo di Medina.
- Eppur si muove! - gridò, prendendo Mathias tra le braccia. - Eureka!
Caddero a terra ridendo e piangendo. Attorno a loro un andante d'archi raccontava storie millenarie racchiuse nella memoria del pianeta.
- È la sua voce - singhiozzò Lucius, nascondendo il viso tra le mani. - È la sua voce.

Iniziarono a viaggiare oltre i confini della Coalizione, sondando i pianeti della Nebulosa de Mairan, oltre la Spada di Orione.
Ascoltavano le storie di quei giganti ancestrali, memorie di eoni custodite tra atomi in esplosione.
Per Dante musica e Logos si fondevano in un elemento unico, “quell'uno e due e tre che sempre vive, e regna sempre 'n tre 'n due e 'n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive”4. Un movimento che non si risolve, perché ogni volta è già tornato al proprio irrisolvibile inizio e quindi capace di dire lo stesso orizzonte intrascendibile dell'esistere.
Stavano ascoltando la voce di Dio attraverso la sua creazione.


- - -



- Non avrei saputo dire quando accadde - disse Mathias in tono cupo. Camminava, tenendo Polissena per mano, sotto il pergolato. - Una notte mi svegliai e lui era lì, seduto alla tastiera dello Steinway, collegato a Genauer. Suonava l'intermezzo del Rach 3 e lui, il pianeta, gli rispondeva. Allora capii che eravamo andati oltre.
Lei si fermò. Raccolse un grappolo d'uva e si voltò a sfiorargli le labbra con un acino scuro.
- Quando te ne andasti tornò da me - per la prima volta smise il tono formale, imposto dalle rispettive cariche. - Ma era troppo tardi.
Mathias schiuse le labbra, mordendole con delicatezza le dita. Il frutto era aspro, come la sua pelle. - Non ho più avuto sue notizie per vent'anni.

- - -



Quando Lucius tornò a casa Polissena capì di averlo perso per sempre.
Qualsiasi cosa fosse stato suo marito era rimasto da qualche parte, tra quelle stelle che ormai considerava le uniche degne della sua parola.
Passava giorni interi nel pantheon che aveva fatto costruire per contenere Genaur, contornato da enormi antenne puntate verso l'infinito.
Senza mangiare né dormire suonava melodie sconosciute e inquietanti, poetiche di mondi lontani.
Lei aveva cercato di blandirlo con dolcezza, di aggredirlo con rabbia o di sedurlo. Inutilmente.
Alla fine si era arresa.
Lo osservava scomparire oltre un velo invisibile, mano a mano che quelle conoscenze intrasmissibili con la parola o l'intelletto rodevano la sua mente.
Poi, un giorno, senza preavviso lui scomparve.
Solo una frase, scarabocchiata in fretta su un pezzo di carta, a testimoniarne l'esistenza.
“Eterni, allegro sento il vostro richiamo. Dettate veloci alate parole e non temete di rivelare le vostre cupe visioni di tormento”5.


- - -



- Quanto gli resta ancora? - chiese Polissena. La sua voce era ora triste come un lieder di Mahler.
Erano tornati nella Loggia, tra i grandi leoni.
Mathias osservò la stella. - Non saprei, ma credo che stia per superare il limite di Chandrasekhar. Potrebbero volerci centinaia di anni, o forse millenni. Cos'è il nostro infinito se non la scansione di un respiro di Dio.
Le prese il viso tra le mani e le baciò le lacrime. Lei sorrise, strofinando la guancia sul suo palmo.
Mathias riprese. - Dal nostro addio non l'ho più rivisto. Mi ha inviato solo una registrazione prima di lasciare il sistema di Deneb. La voce del nucleo di Gienah tradotta da Genauer: tre sole note.
Polissena si rannicchiò tra le sue braccia come una bambina. - E cosa dicevano?
- Non da solo. Non voglio morire da solo.

[Autorizzo Jackie De Ripper all'eventuale pubblicazione su Skan Magazine]

Note:
1: Dante Alighieri, Paradiso, Canto XVIII
2: Dante Alighieri, Paradiso, Canto XIV
3: "Più preciso", in tedesco appunto Genauer
4: William Blake, A Tirzah
5: William Blake, Preludio al libro di Urizen


Edited by Sol Weintraub - 15/3/2013, 21:35
 
Top
kaipirissima
view post Posted on 15/3/2013, 20:17




Bravissimi! :) per un momento temetti non partisse.
La prossima volta partecipo anche io!
Non ho mai fatto uno speciale!
 
Top
Sol Weintraub
view post Posted on 15/3/2013, 20:51




Guarda Kaipi, ho pensato di non farcela fino all'ultimo e, ti dirò la verità, non volevo neppure partecipare. Ma un plutocrate occulto mi ha spronato e convinto.
 
Top
anark2000
view post Posted on 15/3/2013, 21:47




Ho apportato ancora qualche piccola correzione...e già che c'ero modifica, al mio racconto: per chi lo avesse già letto e preparato i commenti (vedi Sol) lancio il mio invito a una attenta rilettura :)
 
Top
view post Posted on 15/3/2013, 23:33

Alto Sacerdote di Grumbar

Group:
Moderatori
Posts:
2,582

Status:


Gli alchimisti hanno sempre creduto che esistesse una sorta di schema, una legge universale che governasse il tutto e che, conoscendola, nulla sarebbe stato loro precluso.
La famosa pietra filosofale era l’incarnazione di questa legge universale, ne avrai di sicuro sentito parlare. Si narra che potesse qualunque cosa: trasformare il piombo in oro, donare la vita eterna.
Ma la nostra storia non parla di alchimisti, quindi il silenzio è di piombo e la vita… beh, la vita è tutt’altro che eterna.

Nestor Casagrande



Oh Black Betty…


«Sono le undici e trentaquattro a El Paso, è sabato mattina e il sole è alto nel cielo. Avete appena ascoltato il country blues di Kentucky Bill Johnson con la sua Sativa red carpet, direttamente dagli anni d’oro in cui il secondo emendamento ancora rendeva sicure le strade della nostra gloriosa nazione.»
La voce profonda del dj risuonò metallica dagli altoparlanti del 57 Cakes Inn, cingendo nel suo abbraccio rassicurante le caviglie doloranti delle cameriere che, in linea con le politiche aziendali, ancheggiavano da ore nelle loro minigonne arancioni, come a voler scoprire centimetri di cosce arrossate dal sudore e dagli sguardi lascivi.
Fugaci sorrisi ebeti si stampavano a intervalli regolari sui grugni degli alcolisti abituali che occupavano la sala, a dimostrazione del fatto che solo la prospettiva di un po’di sesso senza sentimento riusciva a distrarli dalla redenzione che, ancora dopo anni, si ostinavano a cercare sul fondo vuoto dei loro bicchieri.
Randy lo sfregiato non apriva bocca da ormai svariati minuti, teneva la mano sinistra ferma sotto la giacca e lo sguardo nervoso fisso oltre la spalla di Jimmy lo spaccone, troppo impegnato a pontificare per accorgersi dello stato d’animo del compagno.
«Capisci? La verità è che non gliene frega un cazzo a nessuno di te, della tua pistola del cazzo o del perché te ne vai in giro a puntare quella tua cazzo di pistola del cazzo su qualsiasi figlio di puttana negro, ebreo o messicano del cazzo che ti trovi davanti.»
Jimmy lo spaccone levò gli occhi al cielo. Le iridi azzurre si nascosero dietro le palpebre tremanti, segno tangibile di una storia d’amore mai veramente finita con una bianca signora vestita in polietilene. Gettò teatrale il cucchiaino nel piatto, abbattendo l’unico pezzo di torta alla crema sopravvissuto allo spuntino di mezza mattinata, poi riprese a sproloquiare:
«Te lo dico io cosa devi fare, devi indirizzare le tue energie verso qualcosa di più produttivo dell’odio razziale. Per esempio, per esempio, perché adesso, invece che andare a cercare un figlio di puttana a cui sparare in faccia solo perché è nato dalla parte sbagliata del Rio Grande, perché non tiri fuori la tua 44 e non la usi per fare una rapina? Una bella rapina, cazzo! Sì, una bella rapina del cazzo! Tanto chi cazzo vuoi che te lo impedisca? Guardati attorno, qui non gliene frega un cazzo a nessuno. Pensi che quella cameriera muoia dalla voglia di farsi fare una presa d’aria addizionale al cervello solo per impedirti di rapinare quel maiale obeso del suo capo? Per me quella lo odia pure il suo capo. Ti dirò una cosa, tutte le cameriere del cazzo odiano il loro capo. Per me sarebbe persino contenta se tu rapinassi questo posto ora, le faresti addirittura un favore.»
L’unico segno di una presunta attività cerebrale dello sfregiato era il suo continuo muovere la mandibola a destra e sinistra, come fosse un frantoio. Lo sguardo sempre fisso oltre la spalla dello spaccone.


Il vecchio canuto si afflosciò sulla sedia all’angolo del locale e, in preda allo sconforto, batté il pugno sul tavolo schiacciando un rimasuglio di panna montata lasciato in ricordo da qualche avventore precedente.
Lo sguardo furioso indugiò per qualche istante sui fogli sparsi davanti a lui, indeciso se lasciarsi andare al dolce abbraccio dell’ira o sforzarsi di recuperare la lucidità.
Le formule scritte fitte sugli appunti lo fissavano con disappunto: gli zeri parevano sguardi inquisitori, le radici quadrate canini appuntiti che digrignavano sorrisi di scherno. Si portò le mani alle tempie e chiuse gli occhi per non vedere, sentiva che stava per perdere il controllo.
«Professor Cohen, mi dispiace che si sia sporcato. Le do una mano io a pulirsi, solo un secondo.»
La coscienza del matematico si sentì strattonare con violenza da quella voce suadente e ritrovò in un istante tutta la lucidità di cui era capace.
Riaprì gli occhi e si ritrovò davanti Tina, la nuova cameriera in prova, china su di lui che brandiva un tovagliolo di carta.
Non portava nulla sotto la maglietta: i capezzoli turgidi spingevano sul cotone di infima qualità con un’arroganza adolescenziale che lo conturbava, la pelle lievemente ambrata dei suoi seni, attraverso i bottoni aperti della scollatura, era una visione celestiale che risvegliava in lui istinti infernali.
Vorrei tanto infilartelo tutto in gola, così in fondo da vederne la forma sotto la tua bella pelle vellutata.
«Su, professore, mi faccia vedere.»
Certo che ti faccio vedere, sgualdrina, ti faccio vedere io.
La ragazza, nel tentativo di avvicinare il tovagliolo alla macchia, gli sfiorò appena il polso. Il contatto con la pelle fresca diede un brivido al vecchio che, per la seconda volta in pochi istanti, si trovò ritrascinato di forza alla realtà. Pieno di vergogna , ritrasse di scatto la mano e si affrettò ad asciugarla su un lembo del lungo camice bianco mentre, facendo appello alle poche briciole di pudore rimastegli, si obbligava a tenere lo sguardo lontano da quella tentazione ambulante che erano i seni acerbi della giovane.
«No, no. Non fa nulla, non è niente. Ecco, vedi? È già tutto a posto.»
«Ma cosa dice? Non è a posto niente, adesso si è sporcato tutto il camice.»
Tina si chinò ancora di più sul vecchio, demolendone la già provata moralità con un candore disarmante.
Un altro contatto: solo un soffio di stoffa separava l’avambraccio del professore da quei capezzoli così invitanti.
Dio onnipotente, ti prego, fa’ che io possa leccarle il s…
Un lampo abbagliò la mente del matematico che, in un istante, comprese.
«Il seno! Ho bisogno del seno!»
Abbassò lo sguardo sui fogli di appunti e lì, in un angolo del tavolo, la funzione cosinusoidale lo fissava terrorizzata, sapeva che i suoi giorni erano finiti.
Il vecchio alzò di nuovo gli occhi e urlò tutta la sua gioia al mondo intero:
«Eureka, brutto coseno di merda.»
Nessuno nel locale lo degnò di uno sguardo, tranne un uomo, dal volto sfregiato, che lo stava fissando nervoso da ormai diversi minuti.


«Ecco, lo vedi? Non hai le palle! Sempre con quella pistola del cazzo in mano ma poi, quando arriva il momento, te la fai sotto. Allora diciamolo: Randy lo sfregiato è uno che se la fa sotto, che non ha le palle. Non so neanche perché cazzo sto qui a perdere il mio tempo del cazzo con te. Come se avessi del tempo del cazzo da perdere. Neanche avessi scritto in fronte “ehi, guardate tutti, qui c’è un figlio di puttana timorato di Dio che ha da perdere un sacco di tempo del cazzo”. Ne ho piene le palle di perdere tutto il mio tempo del cazzo! Ho bisogno di una sigaretta.»
Jimmy lo spaccone infilò la mano nella tasca interna della giacca alla ricerca delle Lucky Strike quando, da dietro le sue spalle, sentì una voce sovrastare il brusio sommesso della sala:
«Eureka, brutto coseno di merda.»
Non fece a tempo a trovare il pacchetto di sigarette che, con la coda dell’occhio, vide Randy scattare veloce come un serpente a sonagli. Estrasse la mano sinistra da sotto la giacca e con il pollice armò il cane della 44 magnum nero satinato. Appena un istante per tendere il braccio oltre la spalla di Jimmy e un boato squarciò l’aria.
Il proiettile rivestito di teflon si avvitò nell’aria correndo all’impazzata e, prima che chiunque potesse reagire, si schiantò contro il cranio dello scienziato che esplose in una pioggia di schegge d’osso, sangue e cervella, congelando il tempo all’interno della tavola calda.
«Gesù Cristo, Randy,» Jimmy lo spaccone si teneva l’orecchio a pochi centimetri dal quale il compagno aveva appena fatto fuoco, «ma che cazzo fai?»
Randy non rispose, si limitò a osservarlo con il suo solito sguardo assassino imperscrutabile, la 44 ancora puntata verso il vecchio ormai morto.
«Ti ho chiesto che cosa cazzo ti passa per quella cazzo di testa?» Jimmy urlava.
Con un altro movimento fulmineo, lo sfregiato spostò la canna della pistola verso l’amico e gliela infilò in bocca con violenza: il metallo aprì un taglio sul labbro che cominciò a gocciolare sangue su ciò che rimaneva della torta alla crema.
«Ora ascoltami bene, Jimmy, se ti sento dire ancora una volta la parola cazzo, se te la sento pronunciare anche solo un'altra misera fottuta volta, Black Betty sarà fiera di farti esplodere quella faccia di merda che ti ritrovi. Ora, io non voglio fare il rompipalle, tu lo sai che sono una persona ragionevole, sai che ti voglio bene, ma tu prova a dire solo un’altra volta la parola cazzo e, quanto è vero Iddio, io ti faccio esplodere la faccia. Mi hai capito bene? Perché non lo ripeterò.»
Jimmy lo spaccone si fece d’un tratto meno spavaldo e scosse la testa in cenno d’assenso, il sapore del sangue e della polvere da sparo gli si insinuava acre tra i denti.
«No, devi dirlo, dimmelo che hai capito! Dimmi “Si, Randy, ho capito che non devo più dire quella parola che tu non vuoi che io dica, altrimenti mi farai esplodere questa faccia di merda che mi ritrovo”. Dimmelo, Jimmy!»
«Fi Andy, ho fafito he on evo chiù ire quella arola che fu on fuoi he io ica.»
«Altrimenti mi farai esplodere questa faccia di merda che mi ritrovo.» insistette lo sfregiato tirando nuovamente il cane di Betty.
«Fì, fì, lo ico.» Jimmy stava per piangere, «Alfrienti i farai esfloere esfa faffia i erfa he i itrofo.»
Randy tolse la canna dalla bocca dell’amico e gli sorrise.
«Ecco, vedi? È così facile andare d’accordo, basta spiegarsi.» Indicò con un cenno del capo il cadavere del professore: «Quel figlio di puttana aveva la faccia da ebreo, avevo deciso di non ucciderlo per rispetto verso di te, Jimmy, perché so che ti avrebbe dato fastidio. Poi però lui mi ha guardato negli occhi e mi ha detto “crepa, messicano di merda”. E tu lo sai, Jimmy, quanto io odii essere chiamato “messicano di merda”. Questo perché, Jimmy, io non sono un “messicano di merda”. Io li odio i “messicani di merda”. Quindi ho dovuto fargli esplodere la faccia. È una questione di giustizia, Jimmy, è il karma.»
«C-certo, R-Randy, capisco, hai fatto benissimo, davvero, non era mia intenzione criticarti, a-anzi, se l’avessi sentito l’avrei fatto io al posto tuo.»
«Ora, per equilibrare il karma negativo dell’averti infilato in bocca la mia Betty, da buoni amici e senza urlare, rapiniamo questo posto. Proprio come volevi tu.»
I due si alzarono che il locale era completamente deserto, fatta eccezione per Tina, in ginocchio sul pavimento, immobile, tutta imbrattata di sangue e cervella.
«Forza Jimmy, va’ a svuotare la cassa! E tu, cocca, alzati in piedi, visto che sei stata così cortese da rimanere a farci compagnia, ti porteremo con noi.»


Randy salì sulla chevelle, al posto di guida. Aveva ancora in mano la 44, accarezzava lei e il volante come a volerli rassicurare.
Jimmy, galvanizzato per il colpo, era tornato lo spaccone, sbatté il baule e salì al posto del passeggero.
«Yehaw, Randy, siamo stati grandi. La puttana è chiusa dietro, abbiamo i soldi, mettiamo più miglia possibili tra noi e questo posto del cazzo dimenticato da Dio prima che arrivino gli sbirri.»
Randy carezzò un’ultima volta Betty, poi si voltò verso l’amico stampandosi in volto il sorriso meno minaccioso del proprio repertorio.
«Siamo stati grandi sì, Jimmy, e io, come ben sai, sono un uomo di parola.»
Piegò la mano sinistra verso l’amico e, senza smettere di sorridere, premette il grilletto.
Il proiettile colpì al centro della fronte, riducendo la macchina a un mattatoio all’orario di chiusura. Randy lo sfregiato si asciugò gli occhi dal sangue con la manica della giacca, poi mise in moto e partì sgommando, lasciandosi alle spalle null’altro che una nuvola di polvere.
«Io te l’avevo detto, Jimmy.»


Autorizzo Jackie a pubblicare questo racconto su Skan Magazine.
 
Web  Top
Sol Weintraub
view post Posted on 16/3/2013, 01:05




CITAZIONE (cristiano r. @ 15/3/2013, 16:18) 
Stavo pensando cosa ci possa essere scritto nell'avatar del Weintraub, quando mi è tornata in mente la scena de Il silenzio degli innocenti nella quale il pazzoide si guarda allo specchio mentre si trucca e si agghinda da donna.

Grazie dell'accostamento Cristiano, sei delizioso. :lol:
Comunque il mio avatar dice: "Oh! Oh! Oooh! Le giovani dei giorni nostri ce l'hanno belle grosse".
Ovviamente è riferito alle capacità di scrittrici delle signorine del forum. :shifty:

CITAZIONE (anark2000 @ 15/3/2013, 21:47) 
per chi lo avesse già letto e preparato i commenti (vedi Sol)

Stavolta la rapidità di Sol sarà, ahimé, inficiata dagli impegni di questa settimana ingrata.
 
Top
cristiano r.
view post Posted on 16/3/2013, 09:34




CITAZIONE (Sol Weintraub @ 16/3/2013, 01:05) 
CITAZIONE (cristiano r. @ 15/3/2013, 16:18) 
Stavo pensando cosa ci possa essere scritto nell'avatar del Weintraub, quando mi è tornata in mente la scena de Il silenzio degli innocenti nella quale il pazzoide si guarda allo specchio mentre si trucca e si agghinda da donna.

Grazie dell'accostamento Cristiano, sei delizioso. :lol:
Comunque il mio avatar dice: "Oh! Oh! Oooh! Le giovani dei giorni nostri ce l'hanno belle grosse".
Ovviamente è riferito alle capacità di scrittrici delle signorine del forum. :shifty:

Ovviamente... ;) :alienff: :P

Anche a me comunque piacciono le donne con un bel...cervello! :wub:
 
Top
view post Posted on 16/3/2013, 10:07

il gattaro

Group:
Member
Posts:
635

Status:


anch'io amo le donne che hanno due emisferi ben sviluppati e distinti...
 
Top
kaipirissima
view post Posted on 16/3/2013, 10:09




Che scemi che siete! :lol:
 
Top
118 replies since 12/3/2013, 16:29   2148 views
  Share