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Skannatoio, luglio 2014, edizione XXXI, fate vobis

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shanda0612
view post Posted on 2/7/2014, 19:26




NOTTE AL PORTO
Di Alexandra Fischer
Il sentiero si snodava ripido lungo le viuzze strette, mentre il rumore del mare si avvicinava sempre più.
Rojo strisciò rasente i muri per come gli permettevano le sue povere ossa.
Anche se mancava dalle navi da diverso tempo, sapeva ancora dove si trovava la scorciatoia per arrivare al Molo 5 del porto di Holzstern.
Lo doveva ad anni di esperienza e anche all’urgenza del carico.
Non capitava tutti i giorni che arrivasse un Dulcêolurz.
Erano bestie selvatiche, quelle, ma a saperle prendere, guarivano da mali impensati: dalla Pelle d’Argento alle Ossa di Fuori.
E lui chiedeva soltanto di poter avere ancora un po’ di salute prima di morire, per poi lasciarsi dietro una spoglia dignitosa.
Quando arrivò al molo, capì di aver fatto appena in tempo: gli ispettori navali non erano ancora arrivati a verificare il carico dell’ultimo viaggio.
Diversamente, dovendo scegliere fra lui e il facoltoso di turno, non avrebbero esitato.
I servigi dei Dulcêolurz costavano.
E l’ultimo arrivato, più di tutti.
Il suo amico Nullüger gli aveva spiegato che si trattava di un esemplare autentico.
Non di quelli che venivano smentiti dalla prova della Testa di Vetro.
Lo aspettava con trepidazione, visto che il suo male lo stava facendo dannare.
Nullüger lo stava aspettando accanto alla passerella della nave.
A differenza di lui, non aveva alcun segno del morbo su di sé.
Istintivamente, Rojo si passò la mano sulla guancia incavata, sì, ma non ancora ridotta a solo ossa e niente pelle.
E mai lo sarebbe stata.
C’era la sua salvezza, nella stiva della nave.
Quando si avvicinò al suo amico, si concesse di guardare meglio la nave.
Capì di doverlo fare, malgrado i cattivi ricordi del suo ultimo viaggio.
La odiava.
Ne aveva persino dimenticato il nome, tanto l’esperienza lo aveva segnato: di più, gli aveva tolto la carne di dosso.
Il profilo della nave, messo in risalto dalle luci crude del porto, lo colmò di odio tanto da fargli tremare le ossa sotto la tunica e i pantaloni lunghi.
Aveva persino messo gli stivali con il rivestimento impermeabile, pur di sembrare meno malridotto di quanto fosse in realtà.
Temeva che anche il suo amico si spaventasse, a quel punto.
- Rojo – esordì invece questi, dandogli una pacca sulla spalla – finalmente, ti sei deciso a venire.
- Mi prendi in giro? Nel tuo ultimo messaggio parlavi di una parte del carico per me – replicò l’ex-marinaio.
L’altro alzò per un millesimo di secondo la palpebra inferiore e Rojo non fu del tutto certo di aver riconosciuto l’avvertimento: “ Non qui ” del loro codice segreto.
Lo stava dimenticando, si rammaricò Rojo, ben sapendo che quei brevissimi ammiccamenti avevano salvato la vita di entrambi a Inselpuder.
Per tutta risposta, si pulì la manica della giacca: “ D’accordo, scegli tu il posto “.
L’altro alzò la voce:- Sì, sì, andiamo pure nella stiva. Presto, sono sicuro che rimedieremo presto al mio errore.
Una figura estranea, infatti, si era materializzata dietro a Nullüger.
- Capitano – lo salutò quest’ultimo, scostandosi appena per lasciarlo passare.
- Nostromo – rispose lui, con la voce di chi sta per soffocare.
E in effetti, la sua faccia era avvolta nelle tipiche garze colorate di Inselpuder.
Il malessere che lo tormentava, tuttavia, non gli aveva fatto perdere la voglia di fare tutto da solo.
Aveva qualcosa sotto il braccio.
Sulle prime, Rojo lo aveva scambiato per il Diario di Bordo, ma non aveva osato indagare oltre.
Il naso brevemente arricciato di Nullüger lo aveva dissuaso dal guardare ancora.
Sapeva cosa significava quel gesto: “ Ho fretta. Seguimi ”.
Guardò il capitano allontanarsi per un tratto e poi posare l’oggetto a terra in tutta fretta.
Non era un grosso quaderno, allora, ma un recipiente speciale.
Il capitano diede di stomaco nella scatola.
L’odore della poltiglia che stava rimettendo ricordava quello delle violette selvatiche dell’isola che aveva fatto del male a Rojo.
Fu peggio che se il capitano avesse riempito la scatola con il rancio maldigerito.
Almeno, non gli avrebbe fatto ricordare quei maledetti fiori verdastri che sbucavano dalle pietre calcaree dell’isola, con i loro profili carnosi di vecchie.
Venne poi il tocco finale.
Alla poltiglia grigia e profumata, seguì un fiotto d’argento liquido.
- Sì, sì – lo anticipò Nullüger – è proprio quello che vedi. Che dire, non sarà stato un capitano d’oro, ma quelli della Commissione Navale si accontentano anche dei fondi di magazzino.
Poi aggiunse: - A proposito. Andiamo a vedere cosa è rimasto per te.
Rojo gli domandò: - Ma non c’era un altro luogo in cui nasconderlo?
- Vuoi dire nel mio alloggio? Macché, è stata una traversata peggiore del solito. A Inselpuder si sono resi conto che qualcuno stava diventando troppo avido. E così, hai visto anche tu che bel regalo hanno fatto al capitano.
- E degli ufficiali, che mi dici?
Rojo ricordava a malapena quello medico, ma si rese conto che interessarsi dell’equipaggio lo rassicurava, facendogli sentire meno il dolore delle ossa che spingevano contro la pelle scarnificata.
- Tutta gente che ormai non rivedremo più nei prossimi ruolini. Te lo immagini? Da nostromo sono stato promosso a primo ufficiale.
Nullüger, al pensiero scosse la testa ricciuta, dalla quale caddero alcuni trucioli argentati e a Rojo vennero i brividi.
Doveva aver scaraventato i cadaveri in mare quasi senza aiuto.
La Pelle d’Argento li aveva trasformati in manichini dalle articolazioni contorte e dal luccichio di statue da reggia.
Lui mancava dalle navi da tanto tempo, ma non dimenticava la perdita subita dall’altro equipaggio.
Strano, che fossero rimasti in così pochi.
Nella sua ignoranza, non sapeva che il nostromo potesse far applicare la legge marittima anche sui superiori ammutinati sull’isola.
Che diritto aveva di giudicarlo, lui?
Nullüger gli aveva permesso di sopravvivere e lo avrebbe aiutato a recuperare un po’ di salute.
Quando entrò nel magazzino, gli si presentò lo sfavillio di ossa argentate, sospese sulle travi di legno come moniti alla disciplina di bordo impossibili da fraintendere.
In fondo al magazzino, c’era una parete nuda sulla quale spiccava un ovale di vetro sorretto da mani argentee.
Davanti a esso, c’era una cassa di legno grande abbastanza da contenere un uomo.
E proprio un essere umano fu quello che Rojo vide.
Indossava i brandelli di quella che doveva essere stata una tunica di garza colorata dai ricami di filo argenteo.
Il nostromo raggiunse la gabbia a passi sicuri e vi batté sopra, dicendo: - Eh, la gente di Inselpuder. Crede di prevenire il male portandoselo addosso, ma non è giocando con le apparenze che si può uscire dai guai.
Rojo lo aveva seguito, speranzoso.
Fin troppo.
Tanto che aveva deciso di guardarsi intorno per fingersi ancora il marinaio avventuroso che non era più.
Voleva soltanto lasciarsi dietro una spoglia in stato accettabile per il cimitero che si trovava al di là del porto.
Già si immaginava di finire in una delle fosse che si trovavano laggiù.
Le sepolture si riconoscevano per i paletti di legno con sopra stelle marine, conchiglie, avanzi di naufragi portati sulle rive dalla risacca.
E lui a casa sua, aveva pur tenuto qualcosa di adatto alla tomba.
L’individuo nella gabbia si agitò.
Rojo ne vide il riflesso nell’ovale traslucido e diede di gomito al nostromo: - Forse dovresti liberarlo e gettarlo in mare. Può tornare all’isola senza alcun danno per noi.
- Ma cosa dici? Non hai visto come ha conciato il capitano?
- Mi ricordo di più come lui ha ridotto loro. Hai ragione a dire che è proprio un uomo d’argento. Credo che gli circolasse al posto del sangue già allora.
Le ossa gli sfregavano contro la pelle in modo insopportabile.
Forse era per quello se si era lasciato sfuggire di bocca parole che non gli spettavano di diritto.
- Scusa – tentò di rimediare – è solo che lui me lo ricordo. Ci ha aiutati a scappare.
- Dopo averti ridotto come sei ora – osservò Nullüger con una punta di freddezza nella voce.
- Se è per Ossa di Fuori, non devi avere paura. Non è contagioso, si può guarire sai, ci vuole soltanto il riflesso di un Dulcêolurz.
- Sai quanto costa? – gli domandò il nostromo.
- Sicuro, però a me non resta comunque molto da vivere. Avresti la mia casa e quello che ho radunato in anni di navigazione. Sai, io non ho mai sprecato nulla. Soprattutto da allora.
Nullüger si toccò istintivamente il mento, rivolto allo specchio.
Le sue dita si mossero fugaci, ma bastarono a far appiattire il prigioniero nella cassa.
Era aperta sul davanti e munita di sbarre.
Un genere di divertimento che non era da lui, pensò Rojo.
La prigionia a Inselpuder doveva averlo davvero sconvolto, se si permetteva di trattare così uno dei loro alleati.
Lo compativa.
L’ovale di vetro davanti al quale si trovava, non era uno specchio qualsiasi, bensì la famigerata Testa di Vetro, così chiamata perché in grado di ovviare a una spiacevole mancanza degli abitanti dell’isola: la testa, appunto.
Non che si presentassero agli equipaggi conciati come cadaveri senza testa, ma portavano copricapi fatti di vetro, che riflettevano le fattezze dell’osservatore di turno.
Come facessero a vederci e a parlare, era un mistero che soltanto il nostromo aveva risolto, rubando lo specchio che aveva ribattezzato così lui stesso e che aveva mostrato a Rojo soltanto un paio di volte.
La prima era stata quando si erano ritrovati prigionieri nel cerchio dei Dulcêolurz.
Rojo ne ricordava ancora gli aliti tiepidi che uscivano dalle bocche verticali e anche il contatto con i corpi scagliosi coperti da fili argentei dai colori dell’iride.
Musi baffuti e teste ricoperte da corna mollicce incrostate di conchiglie gli avevano tolto il sonno per molto tempo.
E il nostromo aveva socchiuso di poco le palpebre, per avvertirlo: “ Zitto, ho trovato qualcosa accanto al mucchio di alghe dove ci danno da mangiare e da bere ”.
La seconda?
Dopo la liberazione, sulla nave.
Aveva appoggiato lui lo specchio, facendolo reggere dalle mani del cuoco di bordo.
Era stata una scena indimenticabile, quella.
Tanto che Rojo, pur sentendosi ormai troppo vicino alla meta per fare lo schizzinoso, gli domandò: - Senti, ho capito che il nostro equipaggio di prima, capitano a parte, non esiste più. Allora, sapresti dirmi chi è salpato di nuovo dalla nave la volta scorsa e ne è tornato oggi?
- Ho fatto di necessità virtù. Se hai buona memoria, avrai sentito dire che siamo stati parte di uno scambio di prigionieri.
- Non ho visto nessuno di loro – iniziò a dire Rojo, pentendosi di essere stato troppo curioso.
Le sue dita si allungarono bramose verso la Testa di Vetro.
- Fai bene – approvò il nostromo – appoggiale pure.
- Sì, ma non vedo il Dulcêolurz.
Il nostromo scosse la gabbia: - Un po’ di pazienza, amico mio.
E il prigioniero si scosse negli stracci lasciando cadere, insieme a essi, il travestimento da falso abitante umano dell’isola.
Ne comparve la creatura che Rojo aveva tanto desiderato vedere.
Appoggiò le dita sul vetro, sperando di riavere un po’ di carne.
- Eccoti servito – farfugliò il Dulcêolurz – ma sappi che io non faccio parte della fauna dell’isola. No, quella assomiglia a te.
Rojo non gli rispose.
Si era inginocchiato davanti allo specchio, sentendosi riarso da una febbre sconosciuta.
Ripensò a casa sua.
Non aveva chiuso la porta, mentre scendeva lungo le viuzze strette che conducevano al molo.
Sulle case non c’erano numeri civici.
No, in alto, sulla destra delle porte di ingresso, c’era una stella marina o una conchiglia, oppure avanzi di naufragi.
Proprio come nel luogo che desiderava raggiungere più di tutto in quel momento, quando avrebbe avuto di nuovo carne e tendini per alzarsi e camminare con molta meno fatica rispetto a prima.
- E a me – intervenne Nullüger.
- Per poco – lo avvertì la creatura – avevi ragione, i miei servigi costano, ma non è ributtandomi in mare dopo avermi spremuto che ti sarai sdebitato. Tu e il tuo compare capitano siete stati avidi, nello sfruttare i nostri cimiteri per gli animali.
- Ma cosa dici? Quelli erano esseri umani, anche se non so come facessero a vivere, con quei copricapi a specchio.
Il Dulcêolurz ridacchiò:- Come vuoi. Apri la gabbia, ora.
- No – replicò il nostromo, sentendosi prudere la pelle come mai gli era capitato prima.
- Sì che lo farai.
Rojo si rialzò.
Aveva un luccicore insolito, sotto gli abiti.
Nullüger indietreggiò.
Non sembrava argento?
Gli vennero in mente gli scheletri fatti di quel metallo.
Ossa depredate e rivendute fino al giorno in cui il capitano aveva fatto parlare il Dulcêolurz più anziano.
Lo aveva fatto alla sua maniera, ignorando di trovarsi davanti al vero capo dell’esercito di Acefali dal copricapo a specchio.
Quanti elmi si erano staccati, mostrando soltanto poca polvere grigiastra?
- Obbedisci – gli disse Rojo – ne ho abbastanza anch’io.
- Lo ributterai in mare, prima di tornare a casa? – gli domandò il nostromo con voce supplichevole.
- Sì, sì.
- Un’ ultima cosa – disse Nullüger alla creatura – manterrai la tua promessa di non farmi nulla, una volta fuori?
- Per forza – replicò questa – avanti, ho parecchio da nuotare prima di arrivare all’isola.
Il nostromo si fidò.
La creatura trascinò il corpo sinuoso fino all’oblò e lo aprì.
- Visto che ti ho fatto da equipaggio finora, questo è il minimo che mi dovevi. Ma io ho deciso di ripagarti.
- Avevi detto che non mi avresti fatto nulla – si spaventò Nullüger.
- Ti farò ricco. Più del tuo capitano.
Il Dulcêolurz si accomodò sotto l’oblò, intiepidendo l’aria con il suo alito, godendosi poco alla volta la visione del nostromo che si trasformava in uno scheletro d’argento per poi cadere a terra.
Rojo si rialzò, di nuovo in forze come ai tempi della prigionia, ma con un grande vuoto dentro.
Sapeva cosa ci voleva per colmarlo.
Salutò la creatura con un breve cenno del capo.
Uscì dalla nave, nella notte che perdurava.
Per poco, non incespicò nel cadavere del capitano, soffocato dal suo stesso vomito d’argento liquido.
Rojo proseguì lungo la strada laterale che conduceva al cimitero.
Era in salita e costeggiava il porto.
Le viuzze erano strette anche in quei paraggi, ma le case diminuivano poco a poco.
Vide la nave che tanto aveva odiato salpare per l’ultima volta e provò un senso di pace, quando trovò una fossa aperta tutta per lui.
Vi si distese, quando sentì qualcosa incepparglisi dentro per sempre.
Non gli importava, si sarebbe lasciato dietro una spoglia dignitosa.

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine
 
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view post Posted on 2/7/2014, 19:59
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Shanda.... avevi detto che ti saresti presa un po' più di tempo!!! :D :lol:
 
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view post Posted on 2/7/2014, 20:40
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Facciamoci ispirare un po'
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Selina Pasquero
view post Posted on 3/7/2014, 18:20




Io vorrei provare a partecipare, ma sarebbe la mia prima volta quindi se riesco a buttare giù qualcosa di decente aspettatevi una marea di domande su come devo agire perché son pena di perplessità :1392239553.gif:
 
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shanda0612
view post Posted on 3/7/2014, 18:25




Ciao Reiuky,
per me, questo è già un po' più di tempo (almeno secondo i miei canoni). A ogni buon conto, vedrò di rallentare ancora un po' (nel caso in cui anche stavolta sia venuto fuori qualcosa di troppo pesante) Speriamo di no.
Bellissimo disegno. Ispira davvero. E' una tua opera?


Salve, Cattivo Tenente, grazie per l'augurio.
Spero che tuti i tuoi impegni vadano a buon fine e di rileggerti presto.
 
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view post Posted on 3/7/2014, 18:39

Alto Sacerdote di Grumbar

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CITAZIONE (Selina Pasquero @ 3/7/2014, 19:20) 
Io vorrei provare a partecipare, ma sarebbe la mia prima volta quindi se riesco a buttare giù qualcosa di decente aspettatevi una marea di domande su come devo agire perché son pena di perplessità :1392239553.gif:

Benapprodata tra i banchi d'acciaio e i sezionatori dello skannatoio, Selina, ti aspettavo! ;)

Riguardo le domande, chiedi pure tutto ciò di cui hai bisogno, io e/o qualche volenteroso utente ti risponderemo volentieri ;)
 
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view post Posted on 3/7/2014, 18:55
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Benvenuta Selina, io sono alla seconda partecipazione... Se riuscirò a partecipare... Qui sono tutti molto pazienti e affabili, ti risponderanno con piacere. Auguri e buona permanenza!
 
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view post Posted on 3/7/2014, 19:16
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CITAZIONE (shanda0612 @ 3/7/2014, 19:25) 
Ciao Reiuky,
per me, questo è già un po' più di tempo (almeno secondo i miei canoni). A ogni buon conto, vedrò di rallentare ancora un po' (nel caso in cui anche stavolta sia venuto fuori qualcosa di troppo pesante) Speriamo di no.
Bellissimo disegno. Ispira davvero. E' una tua opera?

Purtroppo no. L'ho trovato su internet e mi è piaciuto un sacco.

Comunque, io sto cominciando a prendere esempio da te: ho finito ieri sera la prima bozza del racconto e adesso sto riscrivendo. Se la sorte mi assiste, potrei riuscire a pubblicarlo molto presto.

CITAZIONE (Selina Pasquero @ 3/7/2014, 19:20) 
Io vorrei provare a partecipare, ma sarebbe la mia prima volta quindi se riesco a buttare giù qualcosa di decente aspettatevi una marea di domande su come devo agire perché son pena di perplessità :1392239553.gif:

Poni tutte le domande che servono e partecipa :) :D
 
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view post Posted on 3/7/2014, 21:34
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Affabili? Bloody ma con chi hai parlato?! :lol:
 
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view post Posted on 3/7/2014, 21:36

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CITAZIONE (Polly Russell @ 3/7/2014, 22:34) 
Affabili? Bloody ma con chi hai parlato?! :lol:

ssshhhhhh!!!!
All'inizio tutto sembra bello, pensa alla casetta di marzapane, al paese dei balocchi, poi... :P
 
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icon6  view post Posted on 3/7/2014, 22:01
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In effetti... forse è stato solo un sogno e presto mi sveglierò.


Buonanotte scrittori!!
 
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view post Posted on 4/7/2014, 06:43
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CITAZIONE (Polly Russell @ 3/7/2014, 22:34) 
Affabili? Bloody ma con chi hai parlato?! :lol:

Adesso che ci siamo io e Bloody... :P
 
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view post Posted on 5/7/2014, 12:36
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Non pensavo proprio di farcela stavolta, ma alla fine qualcosa è venuto fuori...

Lo specchio insanguinato

Riflesse nel pesante specchio sul muro, le fiammelle delle candele nere sembravano trovarsi in un'altra dimensione.
Volute di fumo acre serpeggiavano nell'aria, seguendo a tratti i contorni di una figura che appariva come poco più di un'ombra mentre cantilenava in una lingua incomprensibile ai più, tracciando simboli arcani nella notte con la punta delle dita.
La lama di un coltello ricurvo tagliò l'oscurità per un istante, quindi guizzò lungo il palmo di chi la impugnava, lasciando che il sangue fluisse.
Le dita, ora intinte nel rosso fluido vitale, ripresero la loro danza, ma questa volta a contatto con la superficie dello specchio, tracciandovi rune e lettere dai contorni incerti.
I simboli ristettero sul vetro per non più di qualche istante prima di iniziare ad affievolirsi e divenire indistinti. Come assorbiti dalla fredda superficie sottostante, scomparvero in fretta senza lasciare altro di sé che un riflesso.

Piegato sulle ginocchia, sul molo del porticciolo proprio al di sotto del ponte est, il dottor Melkor osservava il cadavere insanguinato con l'occhio esperto di chi trascorre più tempo della sua vita con i morti che con i vivi. Sul grosso muso taurino, le sue narici fremevano come inquiete mentre inalavano l'aria, fragrante di pioggia trattenuta.
«Scoperto qualcosa?», domandò una voce alle sue spalle.
Il minotauro si voltò quanto gli era possibile senza mettere a rischio il suo già precario equilibrio. Nonostante la posizione, si ritrovò a fissare il suo interlocutore dall'alto in basso.
«Sa,» esordì, «a questo punto il detective Delmenar avrebbe già fatto un commento acido sul mio annusare un cadavere.»
«È un peccato che non sia qui, allora», commentò di rimando il nano. «Sono certo che avrei apprezzato la sua risposta».
Melkor tornò a voltarsi. «È tutto molto simile ai due delitti precedenti...»
«Mi perdoni,» lo interruppe il nano, «mi sono stati consegnati i fascicoli del caso solo poco prima di lasciare la centrale, e non ho ancora avuto modo di approfondire. Leggere in volo mi annoda lo stomaco. Mi farebbe un riassunto?»
Il dottore si rimise in piedi, lisciandosi i pantaloni sopra gli zoccoli. «È presto detto: ferite superficiali al volto e gola squarciata, il tutto causato da artigli di qualche genere. Gli esami sui corpi precedenti hanno rilevato che i segni non coincidono con nulla che sia originario di questo piano dell'esistenza, e le tracce magiche residue sui corpi confermerebbero che si tratti di qualcosa evocato da altrove».
«Che è il motivo per cui il caso è stato trasferito dalla omicidi al dipartimento di controllo della magia.»
«Sì, lo immaginavo. A parte quello, finora non è stato possibile capire a cosa appartengano di preciso le tracce, e in tutti e tre i casi ho rilevato questo odore residuo, come di... di... argenteria appena lucidata.»
«Immagino lo sappia che questa descrizione non mi è di molto aiuto.»
Il minotauro sospirò, anche se il suo parve più uno sbuffo. «Lo so, descrivere un odore a chi ha un olfatto meno sviluppato è un po’ come cercare di spiegare un colore a un cieco».
«Comunque cosa potrebbe voler dire? Che le vittime sono state uccise con una forchetta ben pulita?»
«No, non credo, le ferite... ah, presumo fosse una battuta.»
«Più o meno... Ma ha detto che è tutto molto simile, non uguale. Dov’è la differenza?»
Melkor si guardò intorno. «Innanzitutto, nella scena. Non è il mio campo, certo, ma le altre vittime sono morte a casa loro, e dubito che questa donna abitasse qui in strada».
«No, ma ci passava parecchio del suo tempo», asserì il detective con convinzione.
Il medico legale sgranò gli occhi. «Come lo sa? La conosceva?»
«No,» continuò il nano, passandosi una pietra bianca e liscia tra le mani, attivando così la protezione che gli avrebbe impedito di contaminare le prove, «ma ognuno ha le sue cose da esaminare». Si piegò e indicò all’altro una borsetta il cui contenuto era sparso tutto intorno. Ignorò i vari oggetti da toeletta e raccolse con due dita un rettangolino rigido delle dimensioni di una carta da gioco, sollevandolo perché il dottore potesse vederlo bene.
«Una dama di Fashia», commentò questi, chinandosi per osservare meglio il documento di identità. «Ha senso, del resto chi altri si aggirerebbe di notte in quest’area se non spacciatori e prostitute?»
«E dovunque ci siano prostitute, le dame di Fashia non mancano mai», concluse il nano. «Peccato che questo non ci aiuti a capire come e perché sia morta. Forse però potrebbe aiutarci a trovare un collegamento con le altre vittime».
Melkor mugghiò sommessamente. «Ho visto dove vivevano le altre vittime. Non credo fossero tipi da frequentare dame di Fashia».
«Forse però erano tipi da frequentare prostitute», obiettò il nano. «Ne saprò di più appena avrò letto gli incartamenti, lei mi tenga informato su qualunque...»
«Un secondo, detective Stonehand, non ho finito. C’è qualcos’altro di diverso rispetto ai primi due casi». Il nano gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Le altre vittime presentavano ferite da difesa alle braccia e alle mani, che in questa sono assenti. Quelle al volto e alla gola sono dello stesso tipo, ma in scala molto ridotta».
«Quindi abbiamo due creature simili ma di taglia diversa?»
«O, gli dei non vogliano, ne abbiamo una che si sta riproducendo.»

Shim Stonehand varcò l’entrata della centrale di polizia con la testa invasa dai pensieri e il volto immerso nei fascicoli del caso che gli era stato assegnato. Aveva tentato di iniziare a studiarli sul tappeto volante col quale era rientrato ma, nonostante ci fosse un agente a pensare alla guida, il fatto stesso di essere per aria gli impediva di concentrarsi, e ogni parola sembrava scendergli giù per le viscere anziché salirgli al cervello.
Salutò l’agente di guardia all’ingresso con una specie di grugnito, ed era già quasi a metà strada verso il suo ufficio quando si rese conto che questi stava tentando di dirgli qualcosa. Si voltò, senza tornare indietro, e alzò lo sguardo in silenzio.
«Detective, la stanno attendendo in sala riunioni», spiegò il giovane, avvicinandosi come se lo credesse sordo.
«Chi e perché?» domando lui in tono asciutto, ricacciando dentro di sé la sensazione che avrebbe dovuto saperlo.
«Tutti i capi sezione, per l’incontro preliminare con l’esperto di tecniche di interrogatorio», sciorinò l’agente come se avesse imparato la lezione a memoria.
Shim inarcò un sopracciglio. Sì, avrebbe dovuto saperlo, ma l’aveva del tutto dimenticato. Altrimenti avrebbe evitato di tornare in ufficio ancora per qualche un po’. C’erano panchine comodissime al parco dove mettersi a leggere un fascicolo o due. Alzò lo sguardo verso la camicia dell’agente.
«Dorn. Nuovo?» chiese.
«Fresco di accademia.»
«E se ti dicessi che non sono qui?» azzardò.
«In che senso?» chiese l’altro con aria confusa.
«Nel senso che non ci sono, non mi hai visto».
«Ma le sto parlando, quindi deve esserci».
Il nano sospirò. «Giusto. Ottimo spirito d’osservazione, farai carriera».
Il volto del poliziotto si illuminò. «Davvero?»
«Certo», confermò il detective, voltandosi e riprendendo il cammino, «resta solo da capire dove», aggiunse tra sé.
«Detective?»
Shim si voltò nuovamente.
«La sala riunioni è dall’altro lato».
Il nano si batté il palmo di una mano sulla fronte con aria teatrale. «Giusto, l’avevo dimenticato!» esclamò con più enfasi di quanta fosse nanescamente possibile, e, grugnendo, invertì il senso di marcia.
Quando entrò nella sala riunioni scoprì, senza troppa sorpresa, di essere buon ultimo. Tutti i capi sezione erano già seduti in giro per la sala ad ascoltare un uomo dalla faccia tonda e dai radi capelli rossicci. Celendlinis Delmenar, della omicidi, era come sempre in prima fila, probabilmente a domandarsi perché non fosse ancora più avanti, a parlare lui stesso ai presenti, mentre Miwar, capo della sezione furti e rapine, si era accomodato sul tavolo e si stava leccando ostentatamente una zampa, riservando al relatore la stessa attenzione che riservava al muro della stanza. O forse meno.
«Oh, abbiamo un ritardatario!» esclamò di botto l’ometto, come se la cosa, oltre che eccezionale, fosse motivo di giubilo. «Lei è?»
«Shim Stonehand, dipartimento di controllo della magia».
«Bene, bene. Stavo giusto chiedendo ai suoi colleghi se ci fosse un volontario per una dimostrazione, penso di averlo trovato.»
«Sì? E chi è?» domandò il nano, impassibile.
«Lei, naturalmente, visto che è già in piedi. Non abbia timore, si avvicini.»
«Non abbia timore, mi avvicino», commentò Shim, con l’aria di intendere l’esatto opposto, almeno per quanto riguardava la prima parte dell’affermazione. L’uomo lo guardò con un’espressione confusa sul volto, ma non reagì in alcun modo.
«Ora,» proseguì dopo essersi schiarito la gola, «le farò alcune domande. Si senta libero di mentire quando vuole».
Il nano si strinse nelle spalle. Il relatore iniziò. «Come si chiama?»
«Shim Stonehand.»
«Quanti anni ha?»
«Duecentotre.»
«Che lavoro fa?»
«Trapezista in un circo.» L’uomo inarcò un sopracciglio.
«È sposato?»
«No. Ma se è una proposta non mi interessa.»
«Ha figli?»
«Otto.»
Qualcuno in fondo alla sala tossì. L’esperto si voltò nella direzione del suono, scosse la testa, tornò a guardare il nano.
«Ha mai ucciso qualcuno?»
«Ci sto pensando.»
L’uomo si terse la fronte con la manica della camicia.
«Ma... lei sta bene?» domandò, sbattendo nervosamente le palpebre. «Ha, non so... una paresi?»
«Sto benissimo, glielo garantisco. Lei, piuttosto?»
«Io? Io cosa?»
«È sicuro di star bene? Ha una faccia. Dovrebbe guar... cavolo!»
«Cosa? Che succede?» domandò l’uomo, preoccupato.
«Niente, devo andare», ribatté Shim facendo un rapido dietrofront. «Grazie della dimostrazione, molto istruttiva, addio», e scomparve oltre la porta.

Il cadavere del porto era stato trasferito all’obitorio della centrale, e il dottor Melkor si stava apprestando a compiere l’autopsia, anche se era convinto che non avrebbe aggiunto molto a ciò che già sapeva.
Aveva già esaminato il corpo in quanto tale sulla scena del crimine e ora, prima di iniziare gli esami più approfonditi, lo stava osservando in quanto essere vivente, o che tale un tempo era stato.
Era un’umana di mezza età, così gli pareva si definissero intorno ai cinquant’anni, e di bell’aspetto, per i loro canoni. Lunghi capelli castani, occhi scuri, aspetto curato. Anche nella morte aveva la tipica aria di alterigia delle dame di Fashia, paladine delle prostitute che esse lo volessero o meno. Al minotauro non era mai stato troppo chiaro se volessero portare via le ragazze dalla strada o insegnar loro a starci meglio.
Prima che potesse tentare di darsi una risposta, la porta si spalancò di botto e Shim Stonehand irruppe nella stanza, tenendo entrambe le mani dietro la schiena.
«Chiuda gli occhi e si chini!» gli intimò il nano.
Melkor lo guardò incuriosito. «Detective, non siamo così intimi».
«Mi accontenti, le spiegherò dopo, promesso», insistette il nano. «È importante».
Il minotauro si strinse nelle spalle e abbassò le palpebre. Fare a meno della vista per un po’ non era un grosso sforzo per lui, non si trattava comunque del senso principale con cui affrontava il mondo, contrariamente agli umani e, per quel che ne sapeva, ai nani.
«Annusi», si sentì dire, e dallo spostamento d’aria capì che il detective gli stava mettendo qualcosa davanti al muso. In quanto all’odore, però, sentiva solo quello di Stonehand stesso, oltre al normale odore di fondo dell’obitorio.
«Cosa dovrei sentire?» domandò.
«Niente, ora annusi di nuovo.»
Un altro spostamento d’aria e qualcosa gli colpì le narici, metaforicamente parlando. «Somiglia all’odore sulle scene del crimine!» esclamò. «Non è proprio identico, ma è molto simile».
«Può anche riaprire gli occhi, ora.»
«Giusto», commentò il minotauro eseguendo. Il detective aveva un rettangolo piatto in una mano e un pezzo di vetro nell’altra. «Cosa mi ha fatto annusare?»
Il nano sollevò i due oggetti in successione, enunciando: «Uno specchio, e uno specchio rotto».
«Uno specchio?» Melkor rifletté un istante. «Ma certo! La base riflettente contiene argento, ma non ricordo specchi rotti sulle scene del crimine».
«Perché non c’erano, ma forse la creatura si è portata dietro l’odore venendo fuori da uno integro.»
«Questo spiegherebbe parecchie cose, in effetti», assentì il dottore. «La creatura che ha assalito la terza vittima era più piccola...»
«... perché è uscita da uno specchio da borsetta, probabilmente mentre la donna si stava pettinando o sistemando il trucco», finì Shim per lui.
«Per cui non ha potuto usare le mani per difendersi. Ma quindi... con cosa avremmo a che fare?»
«Bella domanda», sospirò Shim. «La magia degli specchi è prerogativa delle streghe, ma questo è un genere di stregoneria che non ho mai visto».
«Almeno sa qualcosa in più rispetto a prima», osservò il medico legale.
«Già. Immagino sia meglio che ricevere un calcio nei denti», commentò Shim, lasciando la stanza.

Shim mise da parte il fascicolo relativo alla prima vittima, dal quale non aveva ricavato nessuna informazione utile, e aprì quello della seconda. Si trattava di una donna, che dimostrava sui quarant’anni sebbene la scheda dicesse che ne aveva cinquantasei. Il detective diede una scorsa al resto dei dati anagrafici, poi si bloccò quando lesse la professione. Saltò giù dalla sedia, si lanciò fuori dall’ufficio e nella sala comune. «Rayman!»
Un agente alto e massiccio dai corti capelli biondi lo raggiunse un attimo dopo. «Detective?»
«Prendi un tappeto e raggiungimi sul tetto», gli ordinò il nano mentre già si avviava verso l’ingresso, «andiamo al Piaceri Per Tutti».
«Ma, detective!» obiettò Dorn dal bancone della reception. «Durante il servizio?»

Nonostante il nome, che troneggiava in caratteri rosa e svolazzanti sul vetro satinato della porta, la sede del Piaceri Per Tutti si sarebbe potuta tranquillamente scambiare per quella di un’azienda che vendeva artefatti magici o qualcos’altro di non meno serio e morigerato. Shim aveva l’impressione che le cose sarebbero cambiate se avesse superato l’ingresso e si fosse inoltrato nel resto dell’edificio, ma non aveva alcuna intenzione di farlo.
«Detective Stonehand», si presentò all’impiegata dietro il bancone, mostrandole il distintivo, «devo parlare con il direttore».
«Ma... abbiamo passato l’ispezione di legge la scorsa settimana...»
«Non sono qui per un’ispezione, sono del DCM, sto indagando sull’omicidio di Viena Mar».
«Di nuovo?» si stupì la donna.
«Di nuovo?» le fece eco il nano.
«Volevo dire... mi scusi, le chiamo il direttore», farfugliò lei, sfiorando una semisfera di cristallo incastonata nel piano che aveva davanti. Shim avrebbe davvero voluto poter ascoltare la conversazione, ma dovette accontentarsi di attendere che fosse terminata.
«Perché di nuovo?» chiese infine.
«È già stato qui un suo collega la scorsa settimana, il detective Dem... Dlen... Dlendlon?»
«Celendlinis Delmenar?»
«Può essere.»
«Già, può essere», constatò Shim, che non aveva trovato traccia di un simile interrogatorio nel fascicolo. Inutile protestare col collega, poteva già immaginarsi la risposta: «Il caso mi è stato tolto senza preavviso, non ho avuto tempo di compilare il rapporto», o qualcosa di molto simile.
Le sue riflessioni furono interrotte dall’arrivo di un uomo in completo elegante. Umano almeno in apparenza, molto giovane, capelli corti e tirati all’indietro, sembrava il prototipo del manager in carriera.
«Aram Wain», si presentò il nuovo arrivato, tendendogli una mano che Shim finse di non notare, «come posso aiutarla?»
«La signora Viena Mar lavorava qui?»
«Certo», rispose l’uomo senza esitazione, «era una delle nostre selezionatrici».
«Ovvero?»
«Selezionava il personale femminile che aspirava al ruolo di intrattenitrice. Era una delle migliori».
«Quindi non era una... intrattenitrice.»
«Non più, ma lo era stata in passato. Prima del mio arrivo qui, in effetti.»
«Aveva dei nemici che lei sapesse?»
«Forse qualche ragazza che aveva scartato, ma non saprei come indicargliele, non ne teniamo traccia.»
«Capita spesso che vengano scartate delle ragazze?»
«Più di quanto possa immaginare.»
Il nano lo guardò, accigliandosi. In effetti non riusciva proprio a immaginarsi delle ragazze che facessero la fila per diventare prostitute di classe, a prescindere da come si facessero chiamare, e potessero anche risentirsi per non essere state accettate.
Con una scrollata di spalle, estrasse due immagini dal taschino della giacca.
«Conosce queste persone?»
Il direttore le osservò attentamente. «No, non mi dicono nulla».
«Non le ha mai viste prima? Neppure la signora?»
«Non che io ricordi, dovrei?»
«Era una dama di Fashia.»
«Ah, non ne vediamo spesso da queste parti. Si occupano più delle ragazze di strada che delle professioniste.»

Eppure un legame doveva esserci, pensava Shim mentre vuotava tasche e cintura d’ordinanza sul tavolino dell’ingresso di casa sua. Aveva fatto tardi in ufficio studiando ogni minima sfumatura del caso, senza trovare nulla, ma sapeva che doveva esserci qualcosa. Attacchi del genere non erano casuali, qualcuno doveva averli scatenati di proposito. Il problema era capire chi e perché.
Si tolse la giacca, poi andò in bagno, si lavò le mani e si sciacquò il viso. Alzò lo sguardo verso lo specchio giusto in tempo per notare una smorfia inattesa sul suo volto riflesso, e vedere due mani artigliate afferrare la cornice dal lato opposto.
Scattò all’indietro mentre la creatura emergeva dall’altra parte. Sembrava una versione distorta di Shim stesso, con la pelle secca e squamata e gli occhi iniettati di sangue. Prima che potesse saltargli addosso, lui era già in corridoio, diretto verso la porta.
Non si voltò prima di aver estratto la bacchetta dalla cintura, e quando lo fece era già pronto al fuoco. Tre dardi luminosi partirono in rapida successione verso il bersaglio. Uno lo mancò; i due che lo colpirono vennero riflessi come da uno specchio e si dispersero nel soffitto. La creatura non se ne diede peso e continuò ad avanzare, fendendo l’aria con gli artigli.
Il nano valutò la situazione. Non avrebbe fatto in tempo a prendere le chiavi e aprire la porta, doveva trovare il modo di proteggersi intanto che pensava a una linea d’azione.
In mancanza di alternative migliori, scartò di lato e si lanciò oltre lo schienale del divano, atterrando sui cuscini e da lì rotolando sul pavimento giusto in tempo per vedere il suo povero sofà lacerato da un unico colpo del mostro, che sparse imbottitura e frammenti di tessuto tutto intorno. Probabilmente la sua non era stata una grande idea.
Da lì poteva dirigersi solo in cucina, indifendibile. Tra lui e il resto della casa c’era il suo doppio malvagio e non aveva modo di evitarlo, salvo tornare verso l’ingresso, ma a che scopo? Salvo riuscire a cacciarlo nello specchio di fianco alla porta, non vedeva che utilità avrebbe avuto tornare sui suoi passi.
A meno che...
L’idea era azzardata, ma avrebbe potuto funzionare.
Mentre il mostro continuava a farsi strada tra molle e piume, il nano si mosse di lato, un passo alla volta, tenendo sempre il divano tra sé e lui. Solo all’ultimo secondo si lanciò in una capriola che lo riportò al punto di partenza, spalle alla porta.
La creatura si voltò immediatamente. Ora si trattava di fare bene i conti.
Puntò la bacchetta e sparò una raffica di colpi, variando di pochissimo l’angolazione tra uno e l’altro. I dardi di luce colpirono la superficie dello specchio e rimbalzarono verso il salotto, per lo più finendo contro mobili e pareti senza causare danno alcuno. Un paio però presero la giusta traiettoria, e quando impattarono con la creatura non vennero respinti, questa volta.
L’essere aprì la bocca come per dire qualcosa, mostrando una chiostra di denti aguzzi, ma non emise alcun suono. Si abbatté in silenzio sul pavimento e prese a mutare.
Dapprima scomparvero zanne e artigli, rendendolo una copia quasi perfetta di Shim. Poi cambiò del tutto, assumendo le fattezze di una ragazza sconosciuta.
Il nano si chinò su di lei giusto in tempo per vederla svanire nel nulla, e rimase a lungo a fissare il punto in cui era stato il suo viso. Sapeva di non averlo mai visto prima, eppure gli ricordava qualcuno.
Tornò all’ingresso e prese il suo cristallo di comunicazione.
“Dottor Melkor, mi sente?” trasmise.
Dovette attendere un po’, ma poi i pensieri del minotauro si udirono chiari nella sua mente: “Mi dica detective, la ascolto”.
“Bene, dovrebbe farmi un favore. Le invio un’immagine...”

Il mattino dopo, entrando alla centrale, Shim ammirò l’espressione del tutto neutra sul volto dell’agente all’ingresso.
«Sorpreso di vedermi, Dorn?» chiese.
«Io? No, perché dovrei esserlo, detective?»
«Forse perché hai mandato lo spirito di tua sorella, o dovrei dire sorellastra?, a uccidermi.»
L’agente impallidì. Peccato, proprio ora che stava per consigliargli una carriera come attore. «Come l’ha capito? Non c’era arrivato nessuno finora.»
«Non avevano scavato abbastanza a fondo, ma l’indagine era ancora aperta, prima o poi sarebbe venuto fuori. Ora vorresti spiegarmi perché?»
«Vendetta, detective, che altro? È stato quell’uomo a ucciderla. Era un pervertito fuori controllo. Lo sa che è riuscita a contattarmi poco prima di morire? Ma era troppo tardi.»
«E le altre vittime? Che c’entravano loro?»
«Non erano da meno. Avrebbe almeno lavorato in sicurezza se non l’avessero scartata da quell’agenzia, e quella donna, la dama di Fashia... era lei a metterla in contatto coi clienti facoltosi. Lei mi raccontava tutto.»
«Capisco... ma non capisco perché fare questo. Sei un poliziotto, avresti potuto seguire i canali ufficiali invece di impelagarti nella negromanzia.»
«Non è negromanzia, le streghe sono brave a imitare le altre forme di magia, non lo sapeva?»
«Fa differenza?»
«Immagino di no, ho comunque avuto quello che volevo. Se avessi tentato di denunciarlo, quell’uomo sarebbe stato libero in pochi giorni, e le altre due poi...»
«Se è questo che credi... temo avrai molto tempo per rifletterci su, scusa il gioco di parole. Ti dichiaro in arresto.»
«Non credo proprio!» esclamò l’agente afferrando qualcosa da sotto il bancone. «Non so come sia sopravvissuto ieri, ma non devo necessariamente aspettare la notte per evocare la vendetta».
Shim rimase impassibile. «Forse no, ma ti sei reso conto di dove sei?» rispose, abbracciando con lo sguardo il locale. Diversi agenti erano accorsi e stavano in piedi attorno al bancone, alcuni già con le bacchette spianate. E pensare che per un po’ aveva pensato che, dopo tutto, Dorn fosse parecchio più intelligente di come appariva. Se non altro, dimostrò di non esserlo molto meno quando poggiò davanti a sé l’oggetto che aveva in mano.
Shim scoprì senza alcuna sorpresa che si trattava di uno specchio.
Mentre ammanettava l’agente, dopo averlo fatto voltare, casualmente si ritrovò a guardarne la superficie, e per un istante gli parve di vedervi comparire il volto della ragazza che aveva visto la notte prima. In quella fugace visione, credette di vederla sorridere.
 
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shanda0612
view post Posted on 5/7/2014, 20:03




Ciao Reiuky,
buon lavoro. Accidenti. Prendere esempio da me? Che onore (ma io sono un caso a parte. Sai, traduco molto, adesso ho accettato di preparare qualche capitolo della biografia del leader dei Clash Joe Strummer, libro di Chris Salewicz) per un mio amico regista, per cui lì devi essere veloce e poi mi piacciono scrittori come Clark Ashton Smith che non perdevano tempo (e si vede nel bene come nel male): di quest'ultimo è bella l'immagine del mago dall'ombra di Verme che si corruga strisciando. Posseduto dal lombrico cattivo, ohibò.
 
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Selina Pasquero
view post Posted on 6/7/2014, 15:25




TU NON SEI ME

Il riverbero del sole sul mare mi acceca. Il molo bianco scompare un istante divorato dalla luce, lasciando solo l’odore di salsedine e carburante.
Doveva essere una splendida vacanza. Si è rivelato essere il solito incubo.
Continuando a marciare spedita verso la nave strizzo le palpebre nel tentativo di vedere, vorrei ripararmi gli occhi con le mani ma non oso tirarle fuori dalle tasche. Non sono riuscita a pulirle come avrei voluto.
Il calore mi soffoca. Sento gocce di sudore colare sulla mia schiena, sulla mia fronte, sul mio petto. Mi sento un’idiota a tenere la cerniera della felpa chiusa fino al collo con questo caldo, per fortuna il molo è praticamente deserto altrimenti attirerei l’attenzione di tutti ed è l’ultima cosa di cui ho bisogno. L’unica consolazione è la consapevolezza che senza felpa darei molto più nell’occhio.
Il sole viene improvvisamente oscurato dal grattacielo galleggiante. Alzo lo sguardo per ammirarla, da quando ho cominciato la crociera non sono mai stata così contenta di vedere la nave.
Poco, mi manca solo così poco.
La passerella scricchiola in maniera inquietante sotto il peso dei miei passi. Per un momento ho la sensazione che voglia dissolversi e lasciarmi sprofondare nell’abisso di acqua salata. Tutto sommato potrebbe anche essere una buona soluzione.
-è tornata presto, la nave salpa tra un’ora-
La voce mi paralizza. Se non mi avesse parlato avrei travolto il ragazzo in uniforme.
Alzo lo sguardo su di lui e lo abbasso praticamente nello stesso istante. Non posso farmi vedere negli occhi, capirebbe. I miei occhi mi tradiscono sempre.
Devo dire qualcosa -fa troppo caldo in città-.
Nella tasca stringo nervosamente la tessera magnetica, devo dargliela per forza per procedere con l’imbarco. Questo vuol dire che mi vedrà la mano.
-Si sente bene?-
-Benissimo- non ho mai detto una bugia più grande e meno credibile. So di avere un aspetto orrendo.
Dovrei continuare a parlare in modo che quando gli porgerò la tessera sia distratto e non noti la mano, eppure non lo faccio: se apro ancora una volta le labbra va a finire che gli vomito addosso. Quel sapore nauseante incollato al fondo della mia gola continua a ricordarmi quanto abbia bisogno di un bagno.
Con riluttanza tiro fuori ma nano dalla tasca gli lascio la tessera lanciandogli uno sguardo furtivo. Devo sapere se capisce.
È bravo, ha imparato bene a conservare la sua espressione amabile. Eppure alla vista dello sporco incrostato sotto le mie unghie compare per un attimo il bianco immacolato dei suoi denti e il labbro superiore si alza verso il naso.
Bene. Il disgusto è meglio della paura. Se avesse capito cos’è quella sporcizia avrebbe spalancato gli occhi dall’orrore.
-Prego, entri pure- la sua voce è di nuovo gentile e accogliente mentre esibisce un largo sorriso.
Mi limito a un cenno del capo e proseguo alla maggiore velocità che riesco a tenere senza correre.
La nave è deserta. La maggior parte dei passeggeri si sta ancora godendo lo sbarco. Bene, così posso arrivare alla mia cabina passando inosservata.
Le mani mi tremano, non riesco ad aprire la porta.
Ancora poco, devo resistere ancora così poco.
Mi precipito nella cabina e sbatto la porta alle mie spalle. Il rumore sordo dello schianto ancora rimbomba tra le pareti mentre rapida mi slaccio la felpa e me la sfilo.
Mi muovo come se i miei vestiti fossero in fiamme, non ne sopporto più l’odore. Non sopporto più quella sensazione di viscido e appiccicoso alla mia pelle.
Quando sarò di nuovo lucida dovrò pensare a come liberarmi della canottiera, per ora mi limito a lanciarla lontano da me. Questa si affloscia in un angolo, schiacciata dal peso del sudore e del sangue. Sfortunatamente solo il primo dei due è mio.
Crollo in ginocchio davanti al water. Mi infilo due dita in gola, non la voglio questa schifezza dentro di me.
Sono colta da spasmi irrefrenabili. Lo stomaco di contrae, la gola si dilata facendo lo stesso rumore di un lavandino quando viene improvvisamente stasato.
Nient’altro che aria e saliva escono dalla mia bocca. È troppo tardi.
Lacrima calde mi bruciano il viso. Non capisco se sono di rabbia o disperazione.
È successo di nuovo, eppure sono stata così attenta.
Quindici mesi, quindici lunghi e splendidi mesi senza l’ombra di una crisi e adesso questo?
Cerco di ricordare, di capire dove ho sbagliato.
Inutile, vuoto totale.
Rammento la voce della guida turistica e il calore soffocante dei raggi del sole che mi impedivano di prestarle attenzione… dopo c’è solo il retro di un locale in cui non ricordo di essere entrata. Sangue sulle pareti, il suo odore intriso nell’aria e il suo sapore incastrato nella mia gola.
Sono colta da un altro vuoto conato. Nonostante sia successo tante volte il ricordo di quei viscidi resti di fronte a me continua sempre a impressionarmi. Questa volta erano anche ridotti peggio del solito, se non fosse stato per i brandelli insanguinati di una maglietta avrei potuto credere che non fossero nemmeno appartenuti a un essere umano.
-Ho visto tossici in condizioni migliori delle tue- la voce infrange il silenzio della cabina e il caos nella mia mente. Un suono orrendo, una maschera dietro cui si intravedono le risate folli di un assassino, il pianto di mille bambini e i rantoli di un uomo morente.
Lentamente mi volto verso la fonte di quella voce. Lo specchio sopra il lavandino è esattamente come l’ho lasciato questa mattina. Coperto dalla plastica nera di un sacco dell’immondizia sigillata sui bordi con abbondanti quantità di nastro adesivo.
Vorrei alzarmi e prenderlo a pugni fino a ridurlo a un cumulo di lucide schegge, invece rimango dove sono, in ginocchio sul freddo pavimento. Ho infranto troppi specchi nella mia vita per poter sperare che basti questo a liberarmi di lei.
-Si può sapere che cosa è successo?- lo chiede con disinvoltura accompagnata da una nota di quella che sembra reale curiosità.
-Come fai ad avere il coraggio di chiedermi una cosa del genere? Sei stata tu-
-A fare che cosa?-
Mi sta prendendo in giro? Non ho proprio voglia di scherzare.
-Almeno sai chi era? Sai chi hai divorato questa volta?- la mia voce è un ringhio, tengo i denti stretti per non urlare.
-Divorato? No, aspetta un attimo. Sono quindici mesi che non mi lasci uscire, qualunque cosa sia successa non sono stata io-
Lancio uno sguardo carico d’odio alla plastica nera, porta invalicabile che separa il mio mondo dal suo; la mia coscienza dalla sua.
-Hai detto lo stesso anche dopo aver ucciso mamma e papà-
-Vero, ma quella volta mentivo-
Io ancora piango quando la notte mi sveglio ripensando hai loro corpi senza vita e al loro sangue sulle mie mani. Invece nella voce del riflesso non c’è la minima traccia di rimorso, infondo perché dovrebbe? Loro erano i miei genitori, non i suoi.
-Dico sul serio, sono sempre rimasta da questo lato dello specchio, non sono venuta dalla tua parte-
È brava, per un breve istante quasi le credo.
-Quindi è stato l’uomo nero delle favole?-
-Non essere ridicola, l’uomo nero attacca soltanto i bambini. Io preferisco anime che siano un po’ più invecchiate, la loro paura lascia un retrogusto migliore-
Se fosse una persona reale le darei uno schiaffo –Sei disgustosa-
-Grazie, è la prima volta che mi fai un complimento-
-Brucia all’inferno-
Scoppia a ridere, un suono osceno che strazia l’aria nella quale si espande.
-Siamo già all’inferno, splendidamente nascosto dietro la maschera dell’umana virtù ma sempre inferno rimane. Prova a fare attenzione, riuscirai a sentire il tanfo di putrefazione delle loro bugie e i gemiti strazianti delle loro promesse violentate. Togli questo stupido telo dallo specchio e guarda il vero volto del mondo, poi potrai dirmi se sei ancora convinta che io non stia già bruciando-
Sto tremando, non vorrei tremare ma lo sto facendo.
-Mi credi davvero tanto stupida, non ti lascerò uscire una seconda volta nello stesso giorno- sarebbe un disastro. Un conto è che arrivi da questo lato affamata e priva di forze, tutt’altra cosa sarebbe se arrivasse in un corpo carico del pasto di anime e sangue. Impiegherei giorni interi per farla tornare dall’altro lato dello specchio e riprendere il controllo del mio corpo.
-Te lo ripeto per la centesima volta: non sono stata io. Pensaci bene, come avrei potuto uscire senza che tu ti specchiassi?-
Odio ammetterlo ma ha ragione. Non può venire in questo lato a meno che io non fissi i suoi occhi.
Rimango in silenzio, cercando disperatamente di ricordare tutti i dettagli dei luoghi in cui sono stata oggi. Pensando a dove avrei potuto incontrare il suo sguardo.
-Hai parso la lingua? Come mai hai smesso di lanciarmi insulti?-
-Sta zitta, sto cercando di ricordare- scatto innervosita più dal fatto di non riuscire a capire come ho potuto prendere il controllo piuttosto che dalle sue parole.
Il silenzio si allunga interminabile.
-Allora? C’erano specchi?- chiede alla fine spazientita.
-No- sono costretta ad ammettere –Che cosa è successo? Se non sei stata tu chi è stato?-
-Te l’ho già detto, dal mio lato ci sono soggetti ben peggiori di me. Tenermi troppo a lungo rinchiusa lascia un enorme e allettante posto libero per tutti coloro che non hanno un riflesso nel tuo lato-
-Guarda che tra noi due il riflesso sei tu-
-Questione di punti di vista-
Non mi metto a discutere, non è questo il momento per farlo.
-Vuoi dire che qualcun altro potrebbe prendere il tuo posto?-
Non so se la cosa mi spaventa o mi da sollievo. È da quando sono nata che il riflesso mi perseguita e la speranza di potermi liberare di lei mi riempie gioia, ma se qualcun altro prendesse il suo posto non sono sicura ne varrebbe la pena.
-Dovrebbero uccidermi mentre sono nel mio lato per separarmi da te, e sono poche le ombre in grado di farlo-
La sua voce non è più spavalda e arrogante, me ne rendo conto con sorpresa. C’è una strana sfumatura che non ho mai sentito prima.
-Che ti prende, ora non mi deridi più?-
Per una volta tocca a me ridicolizzarla.
-Fa freddo-
-Non essere ridicola, ho acceso l’aria condizionata al massimo solo per poter rendere l’ambiente sopportabile-
-Ti dico che fa freddo, ma non lo senti?-
Sta battendo i denti. Vent’anni che mi perseguita ed è la prima volta che la sento tremare.
C’è qualcosa che non va.
Mi alzo in piedi e comincio lentamente ad avvicinarmi allo specchio.
-Lo hai sentito?-
-Sentito cosa- dal mio lato non c’è niente.
-Credo siano dei passi-
È spaventata, sembra veramente spaventata.
Rimango in silenzio, il viso a pochi centimetri dallo specchio per cercare di capire se dall’altro lato ci sono dei rumori che qui mancano.
Il mondo pare essersi pietrificato, mi sembra quasi di riuscire a vedere attraverso la plastica nera il riflesso teso e spaventato nel tentativo di cogliere ciò che sta arrivando.
Urla.
Faccio un balzo all’indietro, assordata da qual grido.
-No! Lasciami!-
La sua voce è acutissima, frantuma l’aria. Mi stupisce che non frantumi anche i vetri dello specchio.
Nella mia stanza c’è solo silenzio, eppure dell’altro lato dello specchio è un susseguirsi di rumori confusi. Rumori di una lotta.
-Hei che cosa succede?!-
Il cuore batte talmente forte contro le mie costole da farmi male. Se lei muore io sentirò dolore?
Il portasapone appoggiato contro il lavandino cade a terra, spinto da una forza che non appartiene a questo mondo.
Faccio un passo indietro. Questa è una cosa che succede molto raramente e non è mai un buon segno.
Ora un unico rumore arriva dal mondo al di la dello specchio, un rantolo sordo. Il respiro agonizzante di polmoni che disperatamente cercano di nutrirsi d’aria. Sta soffocando.
Le luci nella stanza tremolano come fiammelle colpite da un vento impetuoso, anche loro in preda all’agonia.
Devo sapere cosa sta succedendo.
Con cautela comincio a rimuovere il nastro adesivo dal margine inferiore del telo nero.
Il respiro è spezzato, come se i suoi cocci sparsi sul terreno venissero calpestati dai piedi di un gigante.
Alzo con cautela la plastica nera, quel tanto che basta per scoprire pochi centimetri dello specchio. Sbircio dall’alto verso il basso, in modo da non correre il rischio di incontrare il suo sguardo nel caso si trattasse di un inganno.
Vedo un ombelico, il mio ombelico, insieme a una sottile striscia del ventre ancora sporco del sangue che aveva intriso la canottiera. Mentre io sono calma e immobile i muscoli del riflesso si contraggono disperatamente.
Le dita della sua mano grattano la superficie dello specchio dall’altro lato, un gesto disperato. Ultimo vano tentativo di strappare ossigeno.
Il braccio del riflesso si affloscia lungo il suo corpo. Il ventre smette di contrasi. Il respiro strozzato cessa di graffiare l’aria.
Rimane solo il silenzio.
Passano secondi, minuti, giorni, anni. Non so per quanto tempo rimango immobile a osservare il riflesso aspettando che riprenda a muoversi, che cominci a ridere divertita dalla mia falsa speranza.
Non succede.
Appoggio le dita sulla liscia superficie riflettente. L’immagine dall’altro lato fa altrettanto.
In venti anni, venti lunghi anni, il riflesso non ha mai seguito i miei movimenti.
Faccio un passo indietro, la figura dall’altra parte dello specchio fa altrettanto.
Provo piccoli gesti, quasi impercettibili. Il mio riflesso li ripete con me, senza ritardare di un istante, senza sbagliare di un millimetro.
Mi sono davvero liberata di lei.
Faccio un altro passo verso lo specchio, le mie mani tremano appena dall’emozione. È da quando ho undici anni che non vedo il mio viso, non so nemmeno che aspetto ho.
Con le unghie sollevo il nastro adesivo incollato alle piastrelle.
Esito un istante.
Tolgo lo scudo di plastica nera.

La mia risata esplode fragorosa. Gioia, pura, selvaggia, irrefrenabile gioia.
Sono libera.
Quando riesco a calmare lo scoppio di ilarità lancio uno sguardo al mio riflesso. Una semplice, comune giovane donna; ma nella sua espressione non c’è nulla di comune. Le labbra arcuate, appena aperte perché si sono dimenticate come allargarsi per urlare. Gli occhi spalancati, le palpebre talmente alzate da fondersi con le sopracciglia sollevate.
La perfetta immagine del terrore.
Quando sono da questo lato ho il suo aspetto, ma per fortuna non le sue espressioni.
Sorrido –Piaciuto lo spettacolo? Sono stata brava a uccidermi?-
Non mi risponde, è troppo sconvolta.
-Andiamo non guardarmi così, dovevo trovare un modo per convincerti a farmi uscire. Non potevo permettere che sprecassi lo splendido antipasto che abbiamo fatto oggi in città, tutta quella forza vitale buttata via sarebbe stato un insulto-
-Sei stata tu-
-Elementare wotzon. Tanto per darti un buon suggerimento: la prossima volta che un ragazzo cerca di rimorchiarti assicurati che non porti degli occhiali a specchio. Lo dico per il suo bene, come avrai notato il dongiovanni di oggi non ha fatto una bella fine-
Mi godo ancora per un istante la sua espressione sconfitta per assaporare tutto il gusto della vittoria.
-Ti lascio ai tuoi pensieri- non la trovo già più interessante –Vado a prepararmi per la serata, voglio fare una bella impressione sulla mia cena-
Esco dal bagno e osservo con soddisfazione la cabina. Un posto di lusso, con un’ampia vetrata che mi concede una splendida vista sul porto. Sono riuscita a uscire giusto in tempo per la partenza, non sento l’immensa nave muoversi ma lentamente una striscia di mare compare tra me e il molo. La città si allarga mentre le navi ormeggiate nel porto si fanno sempre più piccole. Sempre più lontane.
Chiudo gli occhi, mi concedo un istante per ascoltare il brulicare della vita intorno a me.
Tutte quelle anime intrappolate dallo splendido abisso d’acqua nel quale la nave ci sta inesorabilmente trascinando. Sarà davvero una splendida vacanza.

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine
 
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