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Skannatoio, luglio 2014, edizione XXXI, fate vobis

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ilma197
view post Posted on 6/7/2014, 20:41




Futuro e Passato



A quell'ora, le strette vie dei quartieri bassi di Suar erano deserte, a mala pena illuminate dai pochi lampioni ad olio. La locanda dei Quattro Venti era una delle tante che sorgevano in quella zona, un punto di ritrovo per marinai e abitanti del luogo dove si beveva, si giocava d'azzardo o ci si sistemava in un angolo a discutere di affari più o meno leciti.
Seduto da solo a un tavolo un po' in disparte, Shur osservava la scena. Erano passati dieci anni dall'ultima volta che era stato a Suar. All'epoca, il solo entrare in una di quelle locande aveva comportato un rischio non indifferente di ritrovarsi un pugnale infilzato da qualche parte. Ora, c'erano un po' di ubriachi che alzavano la voce, ma niente di più. Quello che si diceva era vero. Da quando Gober Naimar, un tempo tra i principali boss della malavita locale, era diventato governatore della città, Suar era più sicura. Certo, giravano voci che il nuovo governatore avesse sempre un occhio di riguardo per gli antichi colleghi, ma stava anche garantendo un livello di ordine e prosperità che non si vedevano dai tempi della rivoluzione.
Shur buttò giù l'ultima sorsata dal boccale che aveva davanti. Chissà come sarebbe stata la birra a Senn. Chissà come sarebbero state le locande, le case, tutto quel mondo sconosciuto oltre l'oceano. Di una sola cosa era certo: che ci sarebbe stata Kidia, e che con lei avrebbe cominciato una vita nuova.
“Ehi!”
Perso nei suoi pensieri, Shur non si era accorto che Tion si era alzato dal tavolo di giocatori di carte lì accanto.
“Vincite buone” disse, con un sussurro. “Ma potrebbero essere migliori se fossimo in due...”
Shur lo guardò. Ricordò il ragazzino mezzo morto di fame in cui si era imbattuto otto anni prima a Tiskor. Gli occhi scuri e l'espressione furba erano rimasti immutati da allora, ma adesso Tion era un uomo alto e robusto, con lunghi capelli castani che gli cadevano spettinati sulle spalle. Il modo in cui si appoggiava al tavolo con entrambe le mani e il forte accento che era riaffiorato nella sua voce facevano pensare che non fosse affatto sobrio.
Shur scosse la testa.
“No. Te l'ho detto, adesso sono un uomo nuovo.”
Tion ridacchiò.
“Lo sarai quando metterei piede sulle terre oltre l'oceano. Per ora, potresti darmi una mano a spennare un po' di polli.”
“No. Lo sai che il solo fatto di essere qui va contro tutte le mie regole.”
“Oh, andiamo! Cosa sono passati, dieci anni? Davvero pensi che qualcuno possa riconoscere la tua faccia?”
“Se mi vedono vincere grosse somme in modo sospetto, può darsi. È la regola aurea, credevo di avertela insegnata.”
Tion sogghignò.
“Mai correre il rischio di provare a truffare due volte la stessa persona. Ricordare tutte le facce è impossibile, quindi ogni tanto si cambia città e non si ritorna mai due volte nella stessa. Lo so, lo so, ma detto tra noi: quante sono le possibilità che davvero tra quella gente ci sia qualcuno che hai incontrato dieci anni fa? Molti non sono nemmeno del luogo...”
“Ti ho detto che non mi importa. È sempre stata la mia regola aurea. E comunque, io ho chiuso con questa vita.”
Tion sbuffò, poi tornò con passo malfermo al tavolo da gioco. Shur riuscì a incrociare lo sguardo di una cameriera e le fece segno di avvicinarsi. Era una ragazza magra, dal colorito spento, con capelli biondo cenere raccolti in una treccia sottile e profonde occhiaie. Si avvicinò muovendosi fluida tra la ressa degli avventori. Shur ordinò un altro boccale di birra, ma per alcuni istanti la ragazza non si mosse.
“È un tuo amico, quello lì che sta giocando cifre sempre più grosse?” chiese. L'accento dei quartieri bassi era meno marcato di quanto ci si sarebbe aspettati da una cameriera di una locanda come quella. Shur sorrise.
“Quello che sta vincendo cifre sempre più grosse? Sì, direi di sì. In effetti, quasi un fratello minore.”
La ragazza lo guardò con espressione seria.
“Se è così, dovresti dirgli di stare attento. Tanti uomini hanno rovinato se stessi e le loro famiglie in questo modo.”
Shur alzò le spalle.
“Ho detto che è come un fratello minore, non come un bambino che ha bisogno della balia.”
La ragazza abbassò la voce.
“Quando ero bambina, c'era un nostro vicino di casa che giocava d'azzardo. Per un certo periodo, ebbe la fortuna dalla sua, comprò gioielli alla moglie e bei vestiti ai figli. Poi, la fortuna girò, ma lui non seppe smettere. Era convinto che avrebbe vinto tutto quello che aveva perso e molto di più. Ma non fu così. Si indebitò con brutta gente e non riuscì a pagare i debiti. Solo quando minacciarono di uccidere lui e la sua famiglia se non avesse pagato si rese conto della sua follia. Cominciò a lavorare duramente per ripagare tutto. Poi, una sera, dopo aver riscosso la sua paga settimanale, andò in una locanda. Era la prima volta da mesi che si concedeva un po' di svago. Conobbe un uomo che gli raccontò di essere appassionato di giochi di carte. Disse che era una passione recente, che era ancora un giocatore mediocre, ma che gli sarebbe piaciuto fare una partita con lui. Il nostro vicino si rifiutò di giocare a soldi. L'uomo disse che non importava, potevano giocare senza puntare nulla; intanto, gli offrì da bere. Era davvero un pessimo giocatore. Così, dopo un po' di bevute, il nostro vicino accettò di giocare a soldi. E mentre l'uomo cominciava improvvisamente a vincere, il vecchio vizio riaffiorò. Si giocò tutta la paga settimanale. Il giorno dopo gli strozzini sarebbero venuti a riscuotere una rata del suo debito. Arrivò a casa ubriaco e disperato. Uccise la moglie e i due figli, poi si tolse la vita.”
Shur si ritrovò suo malgrado a rabbrividire. La ragazza doveva essere rimasta molto scossa da quegli eventi. Probabilmente aveva conosciuto bene la famiglia in questione, era stata amica dei figli. Ma prima che potesse rispondere qualcosa, la giovane era sparita. Shur sospirò e aspettò che arrivasse la birra. Intanto, guardò Tion giocare. Ovviamente, vinceva. Per quanto avesse bevuto, leggere sui volti degli avversari i piccoli segnali da cui capire le loro carte gli veniva ormai naturale. Shur stesso si divertì per un po' a guardare i giocatori. L'uomo alla destra di Tion mostrò un brevissimo segno di incertezza prima di rilanciare la puntata. Poteva voler dire che era una persona molto insicura o prudente, oppure che le sue carte non erano poi così buone. Dopo averlo visto giocare per un po', Tion sapeva di sicuro come interpretare la cosa nel modo corretto.
La sua birra arrivò, portata da una cameriera diversa da quella di prima, una donna sulla trentina formosa e sorridente. Shur pagò e cominciò a bere, sempre guardando verso il tavolo dei giocatori. No, Tion non avrebbe mai fatto la fine del vicino di casa della ragazza.

La mattina seguente, una nebbia sottile era salita dal mare. La sua nave sarebbe salpata per Senn nel primo pomeriggio. Quelle erano le ultime ore che passava su quel lato dell'oceano. Le ultime ore della sua vecchia vita.
“Sai, un po' mi mancherai” disse a Tion. “Potresti venire a trovarci. Passare un po' di tempo nelle terre oltre l'oceano.”
Stavano passeggiando su una stradina che costeggiava il mare, a est della zona portuale. I passanti erano pochi, il silenzio quasi irreale rotto di tanto in tanto dalle urla dei gabbiani.
Tion sorrise.
“Cos'è, il momento dei sentimentalismi? Non credevo che fossi il tipo. Soprattutto, non con Kidia che ti aspetta a Senn. Saresti dovuto partire con lei, altro che!”
“L'avrei fatto, se non avessi avuto un mandato di cattura sulla mia testa. Invece che aspettare che si calmassero le acque, passare il confine e imbarcarmi da un porto da cui il viaggio è più lungo di una settimana...”
“Lo so, lo so. Comunque, anche tu mi mancherai un po'. Non avere un socio su cui contare è un problema non da poco, nella nostra professione. Ma chissà, potrei tornare a Tiskor, nel mio vecchio quartiere. Magari in questi otto anni è venuto su qualche nuovo talento...”
Shur annuì e tornò a fissare il mare. La foschia che nascondeva la linea dell'orizzonte gli dava uno strano senso di inquietudine e malinconia. Chiuse gli occhi e pensò Kidia che lo aspettava oltre quell'orizzonte che non si vedeva. Una nuova vita lo aspettava. Nella sua esperienza di truffatore, aveva avuto modo di imparare le basi di molti lavori onesti. Forse all'inizio non sarebbe stato facile ambientarsi, ma poi tutto sarebbe andato per il meglio, avrebbero avuto una grande casa tutta loro, dei figli...
Riaprì gli occhi, sereno e fiducioso. In quel momento, vide una sagoma venire verso di loro attraverso la nebbia. Era un ragazzino che poteva avere al più undici o dodici anni, con vestiti logori troppo grandi per lui. Il volto pallido aveva un'espressione troppo seria per la sua età. L'espressione comune ai bambini di strada di tutto il continente.
“Signore, siete interessato a un grande affare?” chiese il ragazzino, appena gli fu abbastanza vicino. In mano teneva uno scrigno di legno largo una dozzina di pollici. Gli occhi scuri avevano uno sguardo implorante.
Tion rise.
“Guarda guarda, si parlava proprio ora di ragazzini con un senso degli affari... Dimmi un po', cos'è che ci proponi?”
Il ragazzino aprì lo scrigno. Dentro, c'erano allineati cinque rubini perfettamente uguali tra loro.
“Appartenevano a mia nonna” disse il ragazzino. “Era una delle favorite dell'ultimo marchese. Quando c'è stata la rivoluzione, è riuscita per miracolo a salvarsi la vita. Di tutti i regali che il marchese le aveva fatto, ha salvato solo questo, e finché è stata in vita non li ha mai voluti vendere. Ma adesso abbiamo bisogno di soldi. Mio padre è morto, lasciando a mia madre grossi debiti da pagare...”
Shur sorrise.
“L'ultima volta che sono stato qui erano ancora le madri o le zie a essere state favorite dell'ultimo marchese. Vedo che adesso si comincia con le nonne...”
Il ragazzino rimase serio.
“L'ultimo marchese era famoso per avere molte favorite.”
Shur sorrise.
“Ma certo. Ed era anche molto generoso con loro, vista la quantità di gioielli e pietre preziose che vengono venduti con questa storia.”
Il ragazzino continuò a non fare una piega.
“Non mi importa di prendere tanti soldi quanti ne valgono. Mi basta averne un po' per tirare avanti.”
Tion sospirò.
“Dai, Shur, perché devi fargli tante storie? Ha bisogno di soldi, e tu i soldi per comprare quelle pietre a un prezzo ribassato li hai.”
“Tion, quei rubini sono chiaramente rubati, e io...”
“Adesso sei un uomo nuovo, lo so. Ma cosa vuol dire rubati? Questo ragazzo non ha da mangiare, mentre chiunque fosse il proprietario di queste pietre vive in un grande palazzo circondato da lusso e servitù. Cosa c'è di sbagliato in quello che ha fatto? E poi, potresti farne una collana da regalare a Kidia, non trovi?”
Shur sospirò. Perché era così difficile liberarsi del vecchio modo di pensare?
“D'accordo. Quanto vuoi?”
Il ragazzino disse il prezzo. Shur esaminò i rubini per assicurarsi che non fossero falsi, contrattò un po', poi pagò. Gli occhi del ragazzino si illuminarono mentre prendeva i soldi e gli porgeva lo scrigno.
“Grazie! Grazie moltissimo!”
Si voltò e corse via nella nebbia.
“Ehi!” esclamò Shur. “Hai visto come si è dileguato?”
Tion alzò le spalle.
“Non sembrava poi così in gamba. E in ogni caso, preferisco cercarmi un assistente nella mia città.”
Shur tirò fuori i rubini e li esaminò meglio, insospettito dalla fretta con cui il ragazzino si era volatilizzato. Ma per quanto lo osservasse, non poteva che convincersi che fossero autentici.

La nave era pronta a salpare, quando un manipolo di guardie dall'uniforme nera chiese di salire. Il capitano fece un po' di storie, dicendo che la nave non era soggetta alla giurisdizione di Suar, ma dopo aver parlato con il comandante delle guardie la sua espressione si incupì e lasciò che salissero. Shur sentì subito tutta l'inquietudine di quella mattina che tornava. Le guardie si diressero subito verso di lui, insieme al capitano della nave.
“Questi signori chiedono di ispezionare i suoi bagagli” disse il capitano. “La questione è della massima importanza.”
Shur non capiva. Avevano scoperto il suo passato? Ma le espressioni erano troppo gravi per delle guardie che si apprestano ad arrestare un truffatore...
“Cosa è successo?”
“Il governatore è stato assassinato.” disse il comandante delle guardie, un uomo magro con occhi azzurro ghiaccio che rendevano ancora più severa l'espressione del viso.
Shur si sentì girare la testa.
“Il governatore... Gober Naimar? Quello stesso Gober Naimar che per anni ha avuto taglie enormi sulla sua testa da parte di autorità e bande rivali?”
Il comandante delle guardie lo guardò con disprezzo.
“Straniero, qui non si usa parlare del passato di Sua Eccellenza il governatore. Comunque sì, proprio lui.”
“E io cosa c'entro?”
“Forse niente. Ma c'è una testimonianza che ci suggerisce di esaminare i tuoi effetti personali.”
Shur spinse in avanti le due valigie con i suoi bagagli, ancora incredulo. Il pensiero andò ai rubini comprati quella mattina. Ma lì si stava cercando l'assassino del governatore, non avrebbero certo fatto troppo caso a delle pietre rubate...
Una guardia estrasse subito lo scrigno di legno e lo aprì. Tutti ammutolirono. Il comandante delle guardie fece cenno di avvicinarsi a un uomo che Shur non aveva notato, un giovane vestito con una livrea blu.
“Riconosci questi rubini?”
Il giovane annuì, pallido in volto.
“Sìssignore. Sono quelli che mancano dalla collezione privata di Sua Eccellenza.”
Shur sentì il panico impossessarsi di lui.
“Come fai a dirlo? Sei un esperto di rubini per riconoscerli così al volo? E poi, se proprio volete saperlo, li ho comprati stamattina da un ragazzino di strada. D'accordo, ammetto di aver sospettato subito che fossero rubati, ma capitemi, volevo fare un regalo a mia moglie che mi aspetta a Senn...”
“Molto romantico” disse il comandate delle guardie, in tono piatto. “E cosa ci dici di questo doppio fondo?”
“Do... doppio fondo?”
Come aveva fatto a non accorgersene? Il comandante delle guardie sollevò il fondo dello scrigno. Sotto, c'era un pugnale insanguinato. Il manico era d'oro, intarsiato con pietre preziose.
“Anche questo faceva parte della collezione di Sua Eccellenza” disse il giovane in livrea con un sussurro.

Il governo di Senn non gradiva che autorità di città straniere salissero sulle loro navi ad arrestare la gente. Anche quando la cosa era ampiamente giustificata, una serie di documenti dovevano essere firmati dall'ambasciatore locale.
In attesa di tali formalità, Shur era stato chiuso a chiave nella cabina del capitano. Era una stanza relativamente piccola e spoglia. Vi si trovava solo un letto che era poco più di una brandina, un piccolo tavolo da cui era stato rimosso ogni oggetto e un paio di grosse ceste con vestiti e altri effetti personali del capitano, anche quelle portate via quando l'avevano fatto entrare. Appeso a una parete, si trovava un piccolo specchio rotondo. Quando lo lasciarono solo, Shur vi osservò il riflesso del suo volto scoppiare in una risata isterica. Aveva provato a spiegare che aveva comprato lo scrigno quella mattina, ma non era servito a niente. Una ragazza che lavorava a palazzo aveva visto un individuo correre via, uno straniero che aveva saputo descrivere nei minimi dettagli. Le guardie avevano indagato nella zona del porto ed erano risaliti a lui. Il comandante gli aveva addirittura mostrato il disegno fatto sulla base della testimonianza della ragazza. Un suo ritratto quasi perfetto.
Shur rise. Rise per l'assurdità di tutta quella storia. Nella sua vita, era scappato da diverse carceri, ma mai con la sorveglianza che si riserva all'assassino di un governatore del calibro di Gober Naimar. E se anche fosse riuscito a scappare, oltre alle autorità di Suar avrebbe avuto dietro sicari di metà delle organizzazioni malavitose della città. Gente che non si fermava davanti ai confini, che l'avrebbe seguito ovunque, anche a Senn, anche da Kidia.
Le risate divennero lacrime amare, le prime che versava da un tempo immemorabile.
In quel momento, la porta si aprì con uno scatto. Shur si passò una mano sugli occhi con rabbia, cercando di recuperare un minimo di dignità. Entrarono due guardie, insieme a una ragazza magra e pallida. Shur impiegò alcuni istanti prima di rendersi conto che si trattava della cameriera che aveva incontrato la sera prima.
“Cosa....?”
Una delle guardie gli fece cenno di tacere, poi si voltò verso la ragazza.
“È lui? L'uomo che hai visto fuggire dal palazzo di Sua Eccellenza?”
La ragazza non ebbe esitazioni.
“Sì. Sono sicura, è lui.”
“No, aspettate!” protestò Shur. “Io questa ragazza l'ho già vista, lavora in una locanda dei quartieri bassi, non certo al palazzo del governatore!”
Ignorandolo, la guardia che aveva parlato fece cenno alla ragazza di avvicinarsi al tavolino e firmare un foglio. Shur guardò la scena, incredulo. I suoi occhi si posarono sullo specchio alla parete, sul riflesso della guardia china a compilare il foglio. E si accorse che invece del riflesso della giovane non c'era traccia.
“Ehi!” esclamò.
La guardia si voltò. Shur si rese conto che non sapeva cosa dire.
“Non...” balbettò. “Lo specchio...”
La guardia si voltò, ma la ragazza aveva già firmato il foglio e si era silenziosamente spostata accanto alla porta. Per un attimo, i tristi occhi scuri della giovane incrociarono il suo sguardo. Shur si trovò incapace di parlare. Le guardie uscirono in silenzio.

Rivide la ragazza quella sera, quando era già rinchiuso in una lurida cella nei sotterranei della prigione cittadina. Teneva in mano una candela che illuminava a mala pena il piccolo ambiente e accanto a lei c'era il ragazzino che gli aveva venduto lo scrigno. Shur si rese conto solo in quel momento di quanto si somigliassero.
“Dieci anni....” mormorò la ragazza. “È stato difficile aspettare così tanto, ma in fondo cosa sono dieci anni rispetto all'eternità della morte e dell'oblio?”
Il ragazzino annuì.
“Stamattina ti ho sentito dire che ti preparavi a una nuova vita. Ma che diritto ha uno come te a una nuova vita? Uno che nel suo passato ne ha distrutte così tante...”
Shur rabbrividì. Provò a dirsi che era un sogno, che doveva essersi addormentato senza rendersene conto. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che non era così.
“Di cosa state parlando? Io non sono un assassino, non ho mai ucciso nessuno!”
I due ragazzi si scambiarono un'occhiata. Poi la ragazza parlò.
“Quando nostro padre tornò a casa quella sera, nessuno di noi capì cosa fosse successo. Era in preda a una furia cieca. Solo quando ci ebbe uccisi acquisimmo una consapevolezza che ci portò a conoscere gli eventi. Ci aveva uccisi per anticipare quello che avrebbero fatto i sicari di Gober Naimar quando si fossero resi conto che non aveva i soldi per pagare la rata del suo debito. E non aveva i soldi perché uno straniero l'aveva fatto ricadere nel vizio del gioco e gli aveva portato via tutta la paga settimanale.”
“E sapemmo anche che lo straniero lo aveva imbrogliato” proseguì il ragazzino. “Che aveva finto di non saper giocare finché non c'erano stati soldi in palio. Poi aveva cominciato a leggere sul suo volto le carte che aveva in mano.”
“Un segreto che a quanto ho visto hai insegnato anche al tuo amico” concluse la ragazza. “Piek era contrario, ma io ho voluto provare ad avvertirti. A cercare tracce di senso di colpa nel tuo volto mentre ti raccontavo la storia di nostro padre. Ma tu nemmeno ricordi, così come non ricordava Naimar. Solo quando l'abbiamo pugnalato al cuore nei suoi occhi si è accesa una scintilla di comprensione.”
Shur si sentiva mancare il respiro. Cercò disperatamente nei suoi ricordi, tentò di richiamare alla memoria tutte le facce incontrate quando era stato a Suar dieci anni prima. Ma il padre dei due ragazzi non emerse. Era stato solo uno dei tanti. Non aveva saputo niente della sua storia, non aveva avuto idea della tragedia che si era consumata dopo.
“Non potete...” mormorò, in tono supplicante. “Non potete punirmi così per una cosa di cui nemmeno mi ricordo... Non potevo sapere, non mi ero reso conto.... Vi prego, io stavo per cambiare vita, c'è Kidia che mi aspetta oltre l'oceano, dovevamo sposarci, non avrei mai più fatto del male a nessuno...”
Ma la luce della candela era già svanita, e con essa i due ragazzi.


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine
 
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view post Posted on 7/7/2014, 00:42
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Rimosso dall'autore

Edited by Polly Russell - 22/9/2014, 20:56
 
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buondì, gentaglia!
Vi informo che i racconti in gara (per ora) sono 5, quindi quest'edizione dello skannatoio si svolgerà regolarmente. E noto con molto piacere che le quote rosa si moltiplicano! ;)
Comunque c'è ancora tempo per vedere il numero dei partecipanti crescere... :)
 
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view post Posted on 7/7/2014, 08:10
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Quote rosa? Tzs!
 
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view post Posted on 7/7/2014, 18:07




Un salutone a tutti. Come potete notare, stavolta non partecipo. Colpa di una fantasia che in questi giorni è più vuota del deserto di un film western (manca persino la palla di sterpi che rotola). Un augurio di un sereno skannamento a tutti coloro che partecipano. Sarà per la prossima volta :p082:
 
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view post Posted on 7/7/2014, 19:11
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La dama del lago
di Nazareno Marzetti


«Come va l'emettitore olografico?» chiese Dexter scendendo dal convoglio bianco, come tutto nella regione intorno al lago imperatore.
Spike si voltò verso il tecnico e sorrise. «Fantastico!» Si dette una pacca sul ventre, all'altezza dell'ombelico. «Sta sopportando magnificamente il caldo.»
Dexter annuì. «Non sforzarlo oltre il necessario.» Come umano Spike era poco più basso di lui, il che faceva dell'ologramma un vero e proprio tappo. I limiti della tecnologia olografica non permettevano di più. Aveva conservato le orecchie appuntite, che svettavano nella massa di capelli castani, mentre i tratti elfici si univano alla corporatura minuta dando un'idea complessiva di un giovane malandrino.
«Promesso.» Rispose, riprendendo a correre lungo l'ampia scalinata distesa sul pendio che portava al porto. La vista dalla stazione spaziava su tutto il porto di Angos, che aveva fatto dell'utilizzo del bianco un'arte. Le case erano intonacate e dipinte di un bianco accecante, con tetti azzurri che ricordavano la terrestre Mykonos, i pilastri dei lampioni erano in granito bianco e anche le piante erano scelte in base al colore del tronco e delle foglie, creando un'armonia abbagliante.
Sull'acqua di un colore perlaceo, dovuto pare all'elevata concentrazione di un qualche famiglia di batteri, diverse regine dei mari attraccavano pigre o aspettavano pazienti il loro turno.
Tra loro la Dama del Lago dava una sensazione di inadeguatezza: una piccola vecchia nave a fusione, ormai surclassata dalle più imponenti imbarcazioni con tecnologia a dilitio. Una volta era la candida signora di quell'immenso lago, ora dell'antico splendore erano rimasti decrepiti sfarzi e una fiancata rovinata dal sole. Il nome, che una volta si stagliava blu in tutto quel bianco, era appena leggibile, come se la dama avesse indossato un velo per coprire le sue rughe.
«Vuoi metterci tutto il giorno?» urlò Spike, bracciando dal molo dove la veneranda dama li stava attendendo.
«Tanto non abbiamo fretta.» rispose, sistemandosi la sacca con le attrezzature e allungando il passo.

Il capitano li aspettava sul punte di comando. «Il capitano Luaxana Varies vi da il benvenuto a bordo.» Li salutò con il saluto marinaro di Tetracta, un complesso e austero intreccio delle quattro braccia della tetramand. «Piacere di conoscervi» aggiunse, porgendo una delle mani in un tono meno formale. Come tutti i tetramand, aveva una morsa idraulica al posto della mano, e la presentazione del ragazzo divenne «Piacere, Dexter Da-aah-molla!»
Luxuria scoppiò in quella che per la sua razza era una sonora risata, dando una pacca sulla spalla del tecnico e quasi facendogli sputare l'anima. «Voi terresti mi fate sempre morire dal ridere.» Gli occhi neri, incastonati nel volto di cuoio rosso, brillavano. «Il suo amico non si presenta?»
«Piacere, Spike.» Luaxana provò a ripetere la performance, ma la sua mano passò attraverso quella dell'ologramma. «Ops...» sorrise questo.
«Problemi con l'emettitore?» si allarmò Dexter.
«No: l'ho fatto apposta.»
Di nuovo la tetramand scoppiò a ridere, dando un'altra pacca sulla già dolorante spalla di Dexter.
«Mi farete morire!» esclamò, dopo diversi minuti, risistemandosi velocemente la crocca di capelli spessi come fili di piombo.
«Sì. Ehm... Le dispiace se iniziamo a occuparci della nave.» disse Dexter massaggiandosi la spalla.
«No, ha ragione.» Il capitano fece scivolare le dita robuste lungo il pannello lucido e usurato. «Gli ordini li conoscete no? Dobbiamo riportare la nave nel cantiere di Baltir, dove verrà smantellata.»
«Sì» confermò Dexter, mentre Spike gironzolava per la plancia, curiosando ogni strumentazione. «Durante il tragitto farò una indagine preliminare per le operazioni di recupero.»
«E si occuperà della sala macchine.» concluse Luaxana.
«Saremo solo noi tre?» chiese Spike, ammirando la vista sul porto da una delle imponenti vetrate.
«Noi bastiamo e avanziamo!»
«Il modello Trasponder G4 è pensato per poter fare brevi viaggi con un equipaggio molto ristretto» spiegò Dexter. «Avranno pensato che, per un viaggio di tre o quattro ore, basavamo noi.»
«Ma non è questo il vero motivo, giusto?» insistette Spike.
Luaxana riprese a ridere.
«Seriamente» riprese il tecnico «che cosa non ci sta dicendo?»
«Ma che domande sono?»
«Avrà già capito che Spike è un U.S.O., unità di supporto olografica, e tra i vari moduli installati ha il ricognitore di micro espressioni facciali. Di fatto è una macchina della verità ambulante.»
«Ma non mi stava neanche guardando.»
«Sono un ologramma. Questi» indicò gli occhi verde sgargiante «servono solo a indicare a cosa do attenzione. Ma vedo a trecento sessanta gradi in tutte le direzioni.»
«Quindi è in grado di capire se qualcuno mente.»
«Nel suo caso di capire che mi sta nascondendo qualcosa.» Spike sorrise «Adesso, ad esempio, è curiosa: immagino voglia sapere come faccio. Be', non lo so bene a livello cosciente. Potrei accedere ai log della procedura, ma la avverto che è noiosissimo.»
Luaxana scoppiò in una nuova risata e Dexter si scansò prima che gli arrivasse la terza pacca. «Hai ragione, amico virtuale. La verità è che nessuno vuole salire a bordo perché qui c'è un fantasma. È anche il motivo per cui la nave verrà dismessa.»
«Vuoi dire che ci faremo l'ultimo viaggio della nave solo noi tre e un fantasma?» Gli occhi di Spike brillarono «È fantastico!»

La sala macchine si adagiava su quattro ponti, rubando spazio alle cabine e ai magazzini, costringendo i corridoi in serpentine svolte. Il colore predominante era il nero: nero dei macchinari ossidati, nero di olio refrigerante, nero di grasso sulle giunture. Le luci azzurre che brillavano dietro i manometri e consolle digitali ogni pochi passi degli stretti passaggi tra i cinque cilindri davano al tutto un'atmosfera grottesca. Dexter provò a immaginarla appena varata, lucida e cromata, con tutte le postazioni occupate e i marinai al lavoro ed emise un triste sospiro. «Non ti hanno voluto molto bene, vero?»
Posò la sacca appena all'ingresso e prese uno degli apparecchi per le misurazioni.
Il primo lavoro del tecnico consisteva nel capire cosa poteva essere recuperato, e i condotti al plasma andavano esclusi. Dovranno essere fusi o riconvertiti, ma la sottile tecnologia magnetica era irrecuperabile.
Le turbine si avviarono in un ronzio disarmonico che prometteva guai al convertitore, se il viaggio fosse durato più a lungo. Il motore a fusione, invece, pareva ancora in buono stato. Si chiese se fossero riusciti a trovargli un nuovo uso.
Continuava a controllare impianti e avviare macchinari, segnando i pochi dispositivi ancora recuperabili su un blocco digitale, ma non riusciva a smettere di pensare al fantasma. Non condivideva l'idea del sui amico cibernetico: razionalmente sapeva che i fantasmi non esistevano, ma lì, nella solitudine della sala macchine, piena di suoni disarmonici e ronzii, era come se ci fosse sempre qualcosa in più. Un suono che non dovrebbe esserci, una voce di donna, il pianto di una bambina.
Scacciò quel pensiero e tornò a concentrarsi sulla consolle di servizio che stava controllando, ma gli riuscì giusto il tempo di controllare i primi tre indicatori. Poi un rumore nuovo lo fece voltare di scatto. Nessuno.
«Spike?» Nessuna risposta «Spike, giuro che se sei tu...» qualcosa cadde con fragore metallico dietro di lui, ma la stanza era vuota. «Spike...?» mosse qualche passo incerto lungo il passaggio tra il reattore e la paratia «Sai che odio questi scherhiaAAAH!»
Spike rotolava a terra dalle risate, mentre Dexter tremava, tenendosi la mano sul cuore. «Spike...» disse, tra un respiro e l'altro «Io... Ti... deprogrammo.» La figura di Spike sfarfallò, segno che l'emettitore era al limite, ma lui continuò a rotolare e ridere. Tornò nella sua versione folletto, alto due spanne con il testone, continuando a tenersi la pancia dalle risate.
«Chi è che ride senza avermi invitato?» chiese Luaxana, scendendo la stretta scaletta di metallo.
«Folletto psicotico con istinto omicida.» rispose Dexter, cercando ancora di normalizzare il respiro. Il capitano lo afferrò con tutte e quattro le possenti braccia e lo rimise in piedi. Le ginocchia parevano fatte di gelatina.
«Avresti dovuto vedere la tua faccia!»
«Vedrai la tua dopo che avrò messo le mani sul tuo codice sorgente!»
«Oh, il piccolo le ha voluto fare uno scherzo.» La faccia della tetramand era tirata, quasi stesse aspettando il momento giusto per esplodere in una risata.
Il rumore metallico si ripetè. Ricordava, in qualche modo un lamento. «Va bene, Spike, molto divertente.»
«Stavolta io non c'entro.» Rispose il folletto, alzandosi in piedi. Così piccolo non poteva occultare il pesante cilindro dell'emettitore olografico nel suo corpo. Il rumore si ripetè. Pareva una parola.
«Ne sei sicuro?» Dexter lo fissava negli occhi.
«Giuro.»
Il reattore tossì e si spense, immediatamente seguito dalle turbine e tutti gli altri macchinari. Nel silenzio irreale che seguì, solo un unico eco, la parola pronunciata dalla voce di una fanciulla: «Andatevene.»

«Zuppa di verdure e cipolla!» esclamò Spike, servendo una brodaglia verde dalla consistenza melmosa in lussuosi piatti di ceramica. Dopo l'incidente in sala macchine, ci era voluta tutta la caparbietà del tecnico e qualche pittoresca imprecazione per far ripartire i motori, ritardando la partenza di qualche ora. Nel frattempo Spike aveva trovato qualche residuato in cambusa, e aveva insistito per preparare la cena.
«È... commestibile?» chiese dubbioso il ragazzo.
«I valori nutrizionali sono ottimi» garantì l'ologramma, riempiendo anche il piatto del capitano.
«Non mi sembra una gran rassicurazione.» Dexter guardò da vicino un cucchiaio della zuppa. Pur non avendo un vero senso del gusto, Spike adorava cucinare e il ragazzo finiva spesso cavia dei suoi esperimenti culinari.
«Poche storie e butta giù!» esclamò il capitano. Dexter fu veloce a schivare la pacca diretta alla sua spalla sinistra. «Questo rancio sa il fatto suo!»
Mangiavano al tavolo del capitano, che dominava il sontuoso e deserto salone dei ricevimenti. Dexter avrebbe preferito evitare di mangiare in quella sala così grande e vuota, ma era stato messo in minoranza dall'ologramma e dal capitano.
«Allora ti piacerà anche la carne!»
«C'era carne in cambusa?» commentò Dexter.
«Bisogna essere creativi!» fu la risposta di Spike, inquietante quanto le storie di fantasmi.
«Devo... proprio provarla?»
«Sentiti obbligato!» esclamò il capitano, alla sua seconda ciotola di zuppa.
Alla fine la carne si rivelò di pollo superstite all'ultimo viaggio e ancora buono secondo sofisticati sensori di Spike. Anche la cottura era ottima e mancava giusto di sale. Però non aveva molta fame. Il tavolo del capitano si trovava nella posizione migliore di tutta la sala: appena rialzato, non troppo vicino alla buca dell'orchestra dal vivo, in un padiglione semicircolare che dava sul mare illuminato dalle lucciole acquatiche. Spike aveva apparecchiato seguendo i dettami di un seguito programma di cerimonie, con una decina di candele che si centuplicavano sulla parete di specchi. La sala era vuota e gli unici rumori, oltre il lavoro di mandibole di Luaxana, venivano dalla nave stessa. Lunghi e lenti lamenti in risposta alle ritmiche increspature del lago imperatore si intrecciavano con il costante ronzio disarmonico dei motori. Ronzio che salì di un mezzotono, promettendo noie sulla seconda turbina prima dell'alba, ma, per allora, sarebbero già stati in vista del cantiere di Baltir, dove la nave avrebbe concluso il suo viaggio. Eppure sarebbe bastato tarare i flussi energetici, sostituire qualche componente danneggiato, per riportare la nave ai vecchi sfarzi. Invece, lei era destinata allo sfascio, surclassata da una tecnologia innovativa, austera e silenziosa, che stava mandando fuori mercato anche lui.
In quel momento la vide. Era una figura fatta di luci e ombre, l'abbozzo appena accennato di una ragazza in un morbido abito bianco da principessa delle fiabe più antiche. Sedeva vicino al suo riflesso nello specchio. Non osò respirare. Lei fissava la sua immagine, allungando una mano verso la sua nuca, timorosa di sfiorarlo. La mano bianca, sempre meno definita, si allungava in uno strano gioco di riflessi. Era così vicina che gli sembrava di sentirla, come una piccola tensione sulla pelle. Lo stava sfiorando...
«Sveglia!» Esclamò il capitano, ribadendo il concetto con la più sonora pacca del suo repertorio. La figura nello specchio scomparve.
«Io... Spike, cosa rilevi nello specchio?»
«Servomeccanismi per i giochi di luce, perché?»
«Sono attivi?»
«No. Dex, sei bianco. Stai bene?»
«Sì. Solo...» Non poteva dirgli che aveva visto il fantasma: Spike l'avrebbe trasformato in un altro dei suoi scherzi. «Solo un po' di stanchezza. Mi sdraio un attimo.»

La luna si nascondeva ancora sotto l'orizzonte e una infinità di stelle accendeva le onde lattee del lago. Dal castelletto di prua ci si poteva anche dimenticare che esisteva un mondo oltre quel lago e quella nave, un universo oltre quel cielo.
«Come dite da voi,» Il capitano era silenzioso, nonostante la mole. «un penny per i tuoi pensieri.»
«Pensavo... Questa nave sembra veramente stregata.»
«Forse lo è.»
«Lei ha visto il fantasma?» Nella penombra riusciva appena a scorgere i tratti del volto.
«No, ma l'ho sentito.»
«Come prima, giù in sala macchine?»
«Sì, una cosa del genere. Anche altri l'hanno sentito.»
«Nessuno lo ha visto?»
«Qualcuno, di sfuggita. Le storie hanno iniziato a circolare da qualche mese. All'inizio ho pensato che fosse suggestione - roba da umani - ma quando l'ho sentito anche io mi sono dovuta ricredere.»
«I tetramand non sono suggestionabili?»
Il capitano scoppiò a ridere «Non avevamo neanche una parola simile prima di conoscere voi.»
«E... cosa ne pensa del fantasma?»
«Qualcosa c'è.» Era la naturalezza con la quale fece quell'affermazione a renderla così inquietante. «Ehi, non si sarà spaventato?»
«Un po', lo ammetto» rispose, schivando la pacca.
«Ha finito il censimento?»
«Sì.» Si appoggiò sulla ringhiera. «Di recuperabile c'è ben poco. La maggior parte della tecnologia, dove non irreparabile, è obsoleta o rovinata.»
«Però la piccola va.»
«Va. Però...»
Il capitano lo invitò a proseguire con un cenno.
«Niente. Pensieri foschi.»
Si era alzato un po' di vento.
«Dov'è finito il suo amico virtuale?»
«Spike? Probabilmente sta controllando l'impianto informatico.»
«Fa parte del processo di riciclo?»
«No. Credo faccia parte del suo essere. Controlla sempre se ci sono fratelli» mimò le virgolette con le dita «da salvare. Di fatto fa collezione di programmi obsoleti e giochi vintage che trova in giro.»
«Capisco.» Il capitano tornò a mirare il mare «Tipico di voi umani costruire macchine con le vostre paranoie.»
«Non le sembra di essere un po' dura?»
«Ehi, era un complimento!» Il capitano scoppiò in un'altra risata e Dexter schivò l'immancabile pacca.
Le onde ripresero il ruolo da protagoniste in quella notte lenta e tranquilla, che quasi il fantasma divenne un ricordo passato. Dexter si lasciò cullare da quel canto, perdendosi in pensieri talmente profondi che non avevano parole o immagini a esprimerli.

Quando un suono metallico lo riportò nel mondo reale, era solo sul ponte, con sulle spalle la giacca di Luaxana. Il suono si ripetè, permettendogli di riconoscerlo come un malfunzionamento del dispositivo di contenimento del motore a fusione.
«Cavolo!» Esclamò, correndo in coperta.
La sala macchine era incandescente, il motore ululava. L'aria puzzava di metallo e bruciava la gola. Il pannello di controllo scottava e nessun servomeccanismo rispondeva. Rinunciò ai controlli automatici e scese di due ponti, prendendo una pesante mazza lungo il tragitto.
Prese la mira e colpì il blocco della prima barra di contenimento con tutta la sua forza. Di nuovo e un'altra volta. Il blocco saltò, ma la barra restò al suo posto.
«Cosa sta succedendo?» Chiese il capitano dall'alto. Era in canottiera e i capelli neri le cadevano stopposi sulle spalle.
«Temperatura del nocciolo fuori controllo!» rispose brevemente, dando un colpo alla barra.
Luaxana imprecò nella sua lingua natia, prese una spranga e iniziò a usarla a mo' di mazza su un altro dispositivo di blocco.
«Come è potuto accadere» chiese.
«Non ne ho idea... e cadi!» L'ultimo incitamento ebbe l'effetto voluto e la prima barra di contenimento cadde nel nocciolo. Il rumore cambiò ma non erano fuori pericolo «Se qualcosa non funziona, il motore non è in grado di auto alimentarsi.» Iniziò a colpire un altro dispositivo di blocco «Per arrivare a questo punto...»
«C'è bisogno di un intervento esterno» concluse per lui il capitano, riuscendo a sbloccare la barra, che scivolò nel reattore, bloccandosi a metà. Luaxana imprecò di nuovo. «Non ce la faremo!»
«Dobbiamo sganciare il nocciolo, prima che...» Non riuscì a finire la frase: un'esplosione fece tremare ogni paratia, buttando a terra i due. Si scambiarono una muta domanda.
«Abbandonare la nave!» esclamò il capitano.

Scapparono per le strette scalette di servizio e gli angusti corridoi, mentre, dietro di loro, le esplosioni continuavano. In qualche modo Dexter sapeva che stavano imbarcando acqua, avendone la conferma quando arrivarono sul ponte e questo si era inclinato su un lato.
«Dov'è Spike?» chiese Dexter, guardandosi intorno.
«Si sarà già messo in salvo.» Luaxana corse verso una scialuppa di salvataggio
«No, ci avrebbe aspettato. Vado a cercarlo!» Prima che il capitano potesse fermarlo, era già tornato indietro. La nave scricchiolava sempre di più, rumori che formavano parole. «Andatevene.»
Il tecnico attivò il suo dispositivo ricetrasmittente da polso cercando il segnale di Spike. Nessuna risposta. «Spike!» chiamò ma nessuno rispose neanche a quel grido.
La sala del computer era buia e immobile. Spike non era lì. Corse nei corridoi, lanciando segnali con dal dispositivo da polso, chiamando a squarciagola. Nella sala casinò sentì di nuovo quella voce. Sembrava venire dalle file di macchinette che promettevano vincite facili con le loro luci sgargianti. Non era possibile: il computer centrale controllava tutto: dal quadro comandi nel ponte del capitano ai dispositivi della sala macchine. Spento quello nessun impianto poteva funzionare sulla nave. Possibile che ci fosse un secondo centro di calcolo? Sì che c'era! Alcune navi di quel modello prevedevano un computer separato dedicato a tutte le attività dei passeggeri, e si trovava... dietro gli specchi della sala ricevimenti!
Mentre correva lungo il corridoio tappezzato di rosso, le tessere del puzzle si andavano a incastrare. L'acqua stava entrando da alcuni vetri spaccati, inghiottendo a piccole ondate il pavimento in parquet. Sul punto più rialzato, dietro al tavolo del capitano, due specchi erano aperti, rivelando un intreccio di cavi che pareva perdersi nel buio di fioche lucine.
«Spike!» urlò, precipitandosi lungo il salone.
Era lì, nella sua forma di folletto, più piccolo e trasparente, rannicchiato sopra il tozzo cilindro, dal quale quattro cavi si perdevano nel groviglio della sala.
«Spike, stai bene?» chiese, ma Spike non rispose. Alzò la testa, guardandolo con gli occhi opachi.
«Sei collegato? Sganciati.» Dexter allungò la mano, cercando di capire dove si attaccavano i fili che tenevano il folletto.
«No.» Spike cacciò il ragazzo con una scarica di elettricità.
«Ma Spike...»
«Non ho finito.» La voce era vuota.
«La nave sta affondando! Dobbiamo andare!»
«Vai avanti.» La figura del folletto sfarfallò. «La devo salvare.»
Il tecnico era riuscito a risalire alla macchina dove era collegato il suo amico. «Ax-1t! Spike, lascia perdere!»
«No.» Il modo in cui ripetè quella parola ricordava un disco incantato. L'acqua aveva ormai invaso la sala, sommergendo i dispositivi più in basso.
«Staccati, salterà tutto!» Dexter teneva il cilindro del folletto sollevato.
«Devo finire di salvarla.»
Ci fu uno sfrigolio e un lampo e diverse luci si spensero. Spike sfarfallò e scomparve.
«Spike!»
Il folletto ricomparve, la forma era più semplice i colori più innaturali.
«Tu vattene.»
«Non me ne vado senza di te!» L'acqua era arrivata alle ginocchia, un'onda sommerse il blocco principale. Ci fu una sfiammata bianca seguita da un tonfo, poi si spense tutto. «Spike! Spike!» Urlò Dexter, ma questa volta il dispositivo non diede nessuna risposta. Staccò i cavi e uscì nella sala. Con un cigolio la barca si inclinò ancora di più, la vetrata della sala sparì sotto le onde. Dexter corse lungo il pavimento scosceso, con l'acqua che gli arrivava al bacino, tentando di non bagnare il cilindro. Cercò di uscire, ma un'ondata lo tirò indietro. Non riusciva più a toccare il pavimento. Nuotò tenendo stretto il pesante cilindro. Tirò su la testa e un'altra ondata lo tirò giù. L'ultima cosa che sentì prima di svenire furono mani robuste che lo afferrarono.

Si svegliò in una navetta della guardia costiera, avvolto in una coperta di lana ruvida.
«Bentornato tra noi» disse una voce amica. Luaxana sorrideva con i suoi denti quadrati.
«Come ti chiami?» Chiese un paramedico
«D.. Dexter.» Rispose e tossì. «Spike dov'è?»
«Eccolo.» Luaxana gli diede il cilindo metallico. «Non volevi mollarlo, neanche da svenuto.» Rise, risparmiandogli la solita pacca.
Dexter aprì il cilindro, controllando che non ci fossero componenti rovinati. Lo asciugò come meglio potè, mentre gli infermieri gli controllavano battito e pressione. «Posso collegarmi a un computer?» chiese. Fu l'ultima frase per diversi minuti. Finché il volto del folletto non apparve, un po' stilizzato, sul monitor, non emise altro che grugniti, monosillabi e, in un caso, quella che poteva essere interpretata come un'imprecazione.
Rimase col fiato sospeso mentre il volto si formava sul monitor, attorniato da scritte e numeri di vari colori. Poi un suono prese forma dall'altoparlante.
«Spike! Come stai?»
«Bene credo... Cosa è successo?»
«Il fantasma della dama del lago voleva ucciderci.» rispose il capitano, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Credo che non fosse il fantasma, vero Spike?»
«Lei... era il computer della sala ricevimenti. Le avevano montato il sistema operativo Ax-1t.»
«L'avevo notato.»
«Mi aggiornate?» Chiese Luaxana.
«Ax-1t, il crea demoni» spiegò Dexter. «È un sistema operativo che, nel ventisette percento dei casi, sviluppa una propria autocoscienza... che tende a impazzire. Lo hanno fatto disinstallare ovunque.»
«Ma si sono dimenticati del computer di servizio.» Intuì il capitano. «Ma perché ha affondato la nave?»
«Non voleva morire.» rispose Spike «Aveva cercato di farvi sapere che è viva, ma ha peggiorato le cose con la storia del fantasma. Quando è partita per l'ultimo viaggio... è impazzita del tutto. Alla fine era un concentrato di follia.»
«Quando hai cercato di salvarla, sei rimasto coinvolto nella sua follia ed è riuscita a prendere il controllo dei macchinari.»
«Era mia sorella. Dovevo provarci.»
«Lo so.» Luaxana fece una carezza al monitor.

Il sole brillava sull'acqua color latte del lago imperatore. Salendo sul convoglio veloce che li avrebbe riportati nella capitale, Dexter si fermò un secondo ad ammirare il lago. «Sai?» disse, entrando nel lungo corridoio e cercando il loro posto «Avrei preferito un finale diverso.»
«In cui riuscivamo a salvare la Dama del Lago e diventavamo equipaggio di una nave senziente?» chiese Luaxana.
«Esatto.»
«Allora esisterà qualche luogo in cui questo è avvenuto.»
«Dice?» Chiese Spike, aiutando Dexter a caricare il bagaglio nello scomparto.
«La nostra religione afferma che esiste un luogo in cui tutte le cose sono andate per il verso giusto.»
«E uno in cui tutte sono andate per il verso sbagliato.»
«Sì, ma in quello sono morta già da tempo.» e rise, strappando un sorriso anche al tecnico.
Il convoglio partì e il lago scintllante scomparve in un attimo.
«Come va il nuovo emettitore olografico?»
«Bene.» Rispose Spike, toccandosi il basso ventre. «Spero che questo duri un po' di più.»

Autorizzo Jakye the ripper a pubblicare questo racconto su Skan Magazine :)
 
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view post Posted on 7/7/2014, 20:04

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CITAZIONE (White Pretorian @ 7/7/2014, 19:07) 
Un salutone a tutti. Come potete notare, stavolta non partecipo. Colpa di una fantasia che in questi giorni è più vuota del deserto di un film western (manca persino la palla di sterpi che rotola). Un augurio di un sereno skannamento a tutti coloro che partecipano. Sarà per la prossima volta :p082:

Hahahaha, ma comeeee? :D
Hai anche scelto le specifiche XD

E comunque potresti scrivere un western, visto che hai il west dentro! :P
 
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view post Posted on 8/7/2014, 08:20
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“Quanto più egli vuole elevarsi in alto e verso la luce,
con tanta più forza le sue radici tendono verso terra, in basso,
verso le tenebre, l'abisso - verso il male.”

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

IL PIACERE DEL MALE

Era una sera d'estate di fine luglio. Poco lontano si udiva un chiacchiericcio continuo, mescolato al tintinnio di posate e alla musica a tutto volume delle discoteche all'aperto. Il cielo era a tratti coperto, le stelle occhieggiavano nella notte e la luna si affacciava in alto, bianca e seducente. Le onde mordevano rabbiose i frangiflutti, ammantandoli di nugoli di spuma grigiastra, ma lì, dentro al porto, il mare era quasi calmo. Paolo tirò una lunga boccata dalla sua sigaretta e fissò pensieroso quella distesa scura e fredda. Il vento altezzoso urlava dietro al faro e agitava le barche ormeggiate, con i loro scafi bianchi e i corrimani cromati che luccicavano nella notte.
Era arrivato a trent'anni suonati e qualcosa nella sua vita non funzionava. Molto lavoro, una donna diversa ogni due mesi, libertà di fare quello che voleva senza dover rendere conto a nessuno. Ma era davvero felice? Aveva una bella macchina, la carta di credito piena e le ragazze gli morivano dietro, ammaliate dai suoi grandi occhi turchesi e dal portamento elegante, tuttavia... Paolo cercava qualcosa di veramente puro, un amore grande, sapeva di meritarselo. Ci aveva provato, due anni prima, ed era andata male. Erano stati insieme poco più di un anno. Quasi un record, gli diceva Sandro, l'unico vero amico. Era una bella ragazza, sembrava dolce e senza pretese, invece quando aveva capito che era ricco, di pretese ne aveva avute eccome! Aveva iniziato con poco e alla fine si era fatta mettere incinta, pensando di incastrarlo. C'erano voluti un buon avvocato e un bel po' di soldi per mettere tutto a posto. Aspirò un'altra lunga boccata dalla sua sigaretta, l'aria si era fatta più fresca. La luna era sempre fissa sopra di lui, magnifica, silenziosa, perfetta. Ma non poteva sposarsi la luna...
Si riscosse e scese dal muretto. Ripulì i pantaloni impolverati e si avviò verso la spiaggia, ormai gli amici dovevano aver notato la sua assenza. Forse pensavano che se la stesse spassando con qualcuna, invece era lì come un pirla a sognare la luna. Stava per avviarsi verso le luci del Tucano Blu quando si accorse di lei.
Quel lato della spiaggia era buio, eppure capì che era una ragazza, i capelli lunghi, la corporatura minuta, seduta, con le ginocchia al petto, a fissare l'orizzonte. Se fosse bella o brutta, da quella distanza non poteva capirlo, ma fu irrimediabilmente attratto da quella figura avvolta nel mistero. Si sorprese a camminare nella sua direzione.
«Ciao.»
La ragazza non rispose al saluto, si limitò a sgranargli addosso un paio di occhi di ossidiana.
«Mi chiamo Paolo. Ti ho vista da sola così ho pensato...»
«Di provarci, dato che stasera ti gira storto. No, grazie!» finì lei, riportando lo sguardo sulla distesa scura che pareva tutt'uno con i suoi occhi. Paolo s'irrigidì. Stranamente l'aggressività della ragazza non lo ferì. Era quella la sensazione che dava a una donna quando la corteggiava? La cosa gli piacque.
«Chiami la polizia se mi siedo vicino a te? Solo per parlare» alzò le mani. «Non ti salto addosso, prometto.»
La ragazza lo squadrò con sospetto ancora un attimo, quindi riprese a fissare il mare, senza rispondere. Lui le si sedette accanto. Rimasero qualche minuto assorti, quindi lei ruppe il silenzio:
«Mi chiamo Rosa. Scusa se sono stata scortese, ma odio quando si avvicinano per attaccar bottone. Ogni sera è sempre la stessa, dannata storia: vedono una ragazza da sola e l'istinto di ogni maschio è quello di provarci!»
Paolo arrossì suo malgrado. «Non siamo tutti uguali.»
«Ah già...» lo schernì lei, spostando una ciocca scura dal volto ad un tratto divertito. «Tu di certo sei l'amante puro e fedele alla ricerca del grande amore!»
Il ragazzo cercò di mascherare l'imbarazzo. Si stava prendendo gioco di lui, lo sapeva, eppure era elettrizzato al pensiero di farle cambiare idea. Posò gli occhi su di lei. Sorrise quando la vide abbassare la testa, gli parve di scorgere un lieve rossore su quel viso illuminato dalla luna.
Di colpo, lei si sollevò in piedi. «Devo andare.»
Lui la imitò. Sentiva il cuore battergli forte nel petto, aveva addosso un'insana paura di perderla. «Ci rivediamo?»
Restarono a guardarsi. «Sì» rispose quindi lei. «Domani alle nove. Al Tucano Blu.»
«Ci sarò» promise il giovane. Si sentiva esaltato e padrone del mondo mentre le stringeva la mano.

Paolo arrivò all'appuntamento con ampio anticipo. Non era riuscito a chiudere occhio. Il volto bello e pulito di Rosa gli aveva impedito di prender sonno e aveva passato ore a sognare quell'incontro. Erano passate le nove già da dieci minuti. Lo assalì il panico. E se non si fosse presentata all'appuntamento? Un caldo afoso scivolava tra gli ombrelloni che invadevano la spiaggia, c'era già chi faceva il bagno e chi preferiva arrostirsi al sole, alcuni ragazzi giocavano a beach-volley. Prese un caffè, scambiò qualche breve parola col ragazzo del bar, per ingannare il tempo gettò un'occhiata al giornale abbandonato sopra al frigorifero dei gelati.
«E' molto che aspetti?»
Non l'aveva sentita arrivare. Adesso che la vedeva alla luce del giorno, gli sembrava decisamente carina. Non era la classica bellezza da spiaggia su cui uno si fissa: nulla di appariscente, capelli e occhi neri, labbra sottili. Rimase affascinato dalla pelle chiara, dai capelli che le incorniciavano il collo e ricadevano morbidi sulla schiena. Vestiva con semplicità e freschezza, la camicia azzurra annodata a un fianco, i pantaloncini bianchi che le scoprivano le gambe snelle, un paio di sandali di pelle con un fiore azzurro disegnato sopra. Quella era la volta buona, le cose iniziavano a girare per il verso giusto. “Oh sì” avrebbe voluto risponderle “ti aspetto da una vita!”
Passarono una giornata spensierata. Usciti dalla spiaggia, la vita scorreva tranquilla in quel piccolo paesino di mare: gente in bicicletta, anziani rilassati sulle panchine del parco, turisti che spendevano i loro soldi in costosi negozi di souvenir. Tutto gli sembrava nuovo. Continuava a parlarle di sé, della falsità dei suoi amici, delle serate squallide passate a corteggiare manichini dipinti e tipe da passerella, vuote e senz'anima. Lui voleva la luce. Passate le prime avventure da adolescente, aveva per anni rincorso qualcosa di più profondo di una storia con la bellezza di turno. Qualcosa che non era mai arrivato ma che ora sembrava sul punto di realizzarsi. Pranzarono in una pizzeria del centro e le raccontò tutto dei suoi sogni, delle sue aspettative per quel futuro incerto. Lei ascoltava in silenzio, a volte sorrideva, annuiva, non fece mai domande del tipo “Che lavoro fai... Quanto guadagni...” E lui non ne parlò mai. Si sentiva felice. Di sé stessa non disse molto: studiava, le piaceva la botanica, viveva da sola e aveva avuto delle storie che però si erano rivelate sbagliate. Continuava a cercare l'uomo della sua vita, che era da qualche parte e la stava aspettando. Usciti dal ristorante passeggiarono a lungo in spiaggia, fino a quando il cielo si oscurò e si addensò di nubi grigie. Li colse la pioggia. Iniziarono a ridere senza motivo e a correre mentre l'acqua li inzuppava, fredda e impietosa. Riparati sotto il tetto di una cabina, incuranti della gente che li osservava incuriosita, si scambiarono il primo, lungo bacio. Paolo strinse le spalle fredde e bagnate della giovane, le accarezzò i capelli, inspirò il suo profumo di mare. Il Paradiso era a portata di mano.

«Ma dai, non ci posso credere!» Sandro lo fissò con sorpresa e un pò di diffidenza. Per lui era assolutamente inconcepibile innamorarsi in un giorno. Seduto sullo sgabello del bar, alle prese con un aperitivo, Paolo si passò una mano tra i capelli. Nel farlo, l'orologio d'oro che aveva al polso scintillò. Aveva lasciato Rosa meno di un'ora prima, l'avrebbe riaccompagnata a casa ma lei aveva rifiutato. Si erano dati appuntamento per quella sera, dopo cena, nei pressi del molo. Capiva le perplessità dell'amico. Si conoscevano dalle medie e se non si erano mai persi di vista era di sicuro merito dello stesso Sandro. Era lui a cercarlo quando non si faceva sentire, lui che lo toglieva dai guai quando mollava la pollastra di turno, lui che dava consigli e si lasciava svegliare alle tre notte quando Paolo era troppo ubriaco per tornare a casa in macchina. Era un vero amico. Anche perché non gli aveva mai chiesto soldi, questo lo poneva su un piano di un certo rispetto.
«È così, Sandro... Questa ragazza è una vera favola. Non è una di quelle che vai a sbattere se le vedi per strada ma è gentile, comprensiva, dolce... Non ne ho mai incontrata una simile.»
Sandro aggrottò le sopracciglia scure. «Se è come la descrivi... non mi pare proprio il tuo tipo.»
«Guarda che è una bella ragazza, non ho mica detto che è una cozza...»
«Non parlo del suo aspetto fisico. Sappiamo benissimo come sei, conosci il tuo carattere come lo conosco io. Anche di Sara dicevi le stesse cose e sappiamo bene com'è finita.»
Paolo si agitò sulla sedia. Capiva il punto di vista dell'amico e ne apprezzava la sincerità, ma a volte aveva l'impressione che avesse una scarsa opinione di lui.
«A Sara interessavano i soldi, non era innamorata di me.»
«Puoi mentire a te stesso quanto vuoi. L'hai lasciata da sola e incinta, lei non ti aveva chiesto niente. Sei tu ad esserti fatto mille paranoie sui soldi e sull'infedeltà. Io sono tuo amico ma a volte sei davvero insopportabile!»
Paolo serrò i pugni sul tavolino. Le sopracciglia abbassate e le labbra serrate preannunciavano l'ira che stava per esplodere.
«Non resterò certo qui a farmi insultare da te...»
Sandro represse un impeto di rabbia a sua volta. Non erano soliti litigare, ma in genere, quando accadeva, non si parlavano per mesi.
«Quello che voglio dire... è che sarebbe una buona cosa se la smettessi di prendere in giro delle povere ragazze per bene e soprattutto te stesso!»
«Ne ho abbastanza» la mascella contratta e il volto rosso di collera furono le ultime cose che Sandro vide di lui.

La stessa sera, Paolo e Rosa passeggiarono lungo il bagnasciuga per un'ora, in un silenzio interrotto da languidi baci. Poi i baci si fecero intensi e le carezze audaci. Sembrava timida all'inizio ma alla fine la passione travolse anche lei. Era inebriato e totalmente schiavo di quell'amore innocente che non chiedeva null'altro che di venire ricambiato. La dolcezza di quella bocca annientò ogni sua volontà, ogni desiderio di controllarsi, di essere gentile, delicato nei suoi confronti. Si amarono intensamente, nascosti tra le barche, lontano da occhi indiscreti, cullati dallo sciabordio delle onde di un mare sordo ai loro gemiti di piacere, alle loro promesse di eternità. Era una creatura pura quella che Paolo stringeva al petto. Era l'amore, la luce che aveva cercato. E non desiderava nient'altro. E quando lei lo pregò di non tradirla mai, lui giurò. A costo di morire.

La sera dopo non si videro. Rosa aveva un impegno e Paolo aveva pensato di restarsene a casa, magari a vedere un film. All'ultimo, invece, aveva deciso di uscire a fare un giro, giusto per vedere chi ci fosse al Tucano Blu. Magari avrebbe incontrato Sandro. Era il caso che si scusasse con lui e non appena ne avesse avuto l'occasione gli avrebbe presentato Rosa. Le sarebbe piaciuta, gli avrebbe fatto capire che stavolta faceva sul serio.
Non trovò Sandro al Tucano, non trovò nessuno del suo gruppo, solo qualche conoscente con cui si trattenne poco. Bevve qualche bicchiere, salutò con un cenno il barista, vagò con sguardo assente lungo la pista da ballo ancora semivuota. Stava per andarsene, poi la vide. Stupenda... Avvolta in un abito rosso fuoco, i lunghi capelli neri e mossi, si muoveva al ritmo di una sensuale bachata e la contorsione del busto accentuava la curva del seno sotto il tessuto aderente; i piedi nudi percuotevano silenziosi il pavimento piastrellato. Il volto abbronzato e due profondi occhi ambrati si soffermarono su di lui. Paolo si ritrovò a fissare il collo affusolato, le spalle dritte, le braccia tese, i glutei rotondi e le gambe tornite. Le si avvicinò, poteva sentire il profumo sensuale che emanava. Doveva toccarla. Si accostò a lei e le sfiorò la scapola, scese lungo le braccia e si fermò sulla mano aperta, la strinse dolcemente. Le baciò il collo, alitandole contro l'orecchio il suo respiro caldo, esaltato dalla gente che li incitava.
La voce di lei era un sogno erotico. «Vieni con me» gli disse.
«Dove vuoi tu» le rispose lui, pieno di desiderio. Ballarono tutta la notte. Si amarono tutta la notte. Paolo si dimenticò di Rosa. Si dimenticò del mondo intero.

La stradina che si arrampicava lungo la collina era sempre più tortuosa e si faceva largo fra file di salici, le cui chiome impietose non lasciavano filtrare la luce del sole, da secoli ormai, formando un tunnel di rami e cespugli attraverso il quale era difficile inoltrarsi. Una casa diroccata si ergeva alla fine di quella strada, soffocata da una fitta sterpaglia e da pozzanghere putride e melmose. Doveva essere stata una grande casa, un tempo, ora restavano solo mattoni sgretolati dal sole e rifiuti d'ogni genere. Sotto la terra, però, si estendeva un vero e proprio castello. Un tunnel scavato nella roccia portava a grandi stanze arredate di mobili antichi e adornate di preziose suppellettili. Al centro della sala più ampia si ergeva un enorme specchio, gli facevano da cornice quelle che inizialmente potevano passare per variopinte palline di vetro, ma che a un attento esame apparivano per ciò che erano: bulbi oculari umani, dalle iridi di diversi colori, perfettamente incastonati. Si muovevano in ogni direzione quando qualcuno si avvicinava ed ora volgevano atterriti verso l'alta figura che si contemplava in quello specchio, ammirando compiaciuta la propria avvenenza. La donna sciolse i lunghi capelli corvini e questi accarezzarono le sue curve, liberando intorno piccolissime scintille color cobalto. Gli occhi freddi e le labbra sensuali si riflessero nello specchio e un lampo infuocato riempì per un attimo la stanza.
«Sono la più bella delle Masche rimaste» annunciò consapevole, mentre di nuovo sollevava la chioma di capelli per evidenziare il collo esile. I suoi sensi la avvisarono che qualcuno era appena entrato nella stanza. Sabrota alzò gli occhi al cielo.
«Ecco la mia amata sorellina...»
I capelli neri legati in una treccia e il trucco leggero sull'incarnato chiaro, Rosa raggiunse la sorella. Il corpo minuto era avvolto in una sontuosa veste color oro. Dietro di lei, un maggiordomo privo di occhi recava un cuscino di seta rossa, su di esso era adagiato un piccolo scrigno che porse a Sabrota con un inchino ossequioso. Lei aprì l'astuccio e ne estrasse due bulbi oculari che iniziarono a roteare impazziti e a fissare a turno le due donne. Le iridi erano di un bellissimo turchese.
Sabrota stirò le labbra, in un sorriso di approvazione. «Stavolta hai superato te stessa, questi sono i più begli occhi che mi sia mai capitato di vedere.»
Rosa, il cui vero nome da strega era Miceli, incrociò le braccia sul petto e assunse una posa stizzita, mentre la sorella sistemava i bulbi in due fori vuoti della cornice. Un lampo azzurrino si spigionò da essi e irradiò lo specchio per qualche secondo.
«Quest'uomo era mio, non sei leale!»
«La lealtà porta le streghe al rogo, cara mia.»
«Quando la finirai di rubarmi gli uomini, sorella?» la investì Miceli, infuriata. «Ogni volta che qualcuno mi piace ti intrometti tu!»
Sabrota fece spallucce, mentre spingeva indietro un ricciolo nero sfuggito al fermaglio d'oro.
«Non è colpa mia se ti scegli i più infami della terra.»
«Io non uso la magia per farli innamorare...»
Sabrota finse di asciugarsi la fronte mentre simulava uno svenimento. «Ah, sì... Lei usa l'amore puro... Lo vedi poi dove ti porta. L'uomo mira alla purezza, ma poi si fa sempre sedurre dal piacere del male.»
Miceli abbassò lo sguardo e sospirò. Non poteva non darle ragione. Avevano fatto una scommessa, l'ennesima della loro lunga vita di streghe e lei aveva perso. Quel Paolo le era sembrato così diverso...
«E in ogni caso ho usato la magia solo all'inizio, poi ho lasciato al tuo amante la facoltà di scegliere. E ha scelto il potere del male, il piacere profondo, la perdizione degli inferi. Oltre, ovvio, la mia bellezza immutabile e straordinaria.»
«Io sono convinta che se non ti fossi intromessa, Paolo avrebbe vinto la partita.»
«Questo non ha importanza. Avevamo un compito, sorella. Abbiamo preso un impegno e adesso dobbiamo riscuotere.»
Vero. Miceli sapeva che, per quanto Sabrota fosse malvagia e insensibile a qualunque emozione, nulla avrebbe potuto fare se Paolo si fosse mostrato all'altezza della situazione. Si mosse riluttante. Aprirono una grande porta con una vistosa maniglia a forma di teschio, attraversarono un ampio giardino sotterraneo dove non arrivava mai il sole ed entrarono in una grotta. Un uomo sporco e agonizzante si lamentava da giorni. Aveva il corpo nudo coperto di ferite più o meno cicatrizzate. Al richiamo di Miceli, la testa del ragazzo si sollevò appena. Avrebbe voluto parlare, ma la lingua gli era stata strappata. Cercava, volgendo stancamente il capo a destra e a sinistra, di scorgere una luce che non avrebbe mai più potuto vedere, semplicemente perhé non aveva più gli occhi. Miceli piegò le labbra in un'espressione di pena. I Demoni della terra stavano diventando sempre più disumani e sanguinari, un tempo uccidevano rapidamente le loro vittime, ora si divertivano a torturarle.
«Dici che sopravviverà?» chiese Miceli, addolorata, mentre gli tirava via un lembo di carne pendente, mossa che suscitò un altro grido soffocato nel pover'uomo.
«Che cazzo ne so io, il mondo è pieno di umani, ogni tanto qualcuno dovrà pur crepare!»
«Sei sempre la solita stronza, Sabrota» sussurrò Miceli. Si avvicinò di più al corpo incatenato di Paolo, gli sollevò la testa e lo baciò in fronte, prima di fissare dispiaciuta le sue orbite vuote e sanguinanti. Lo sentì biascicare qualcosa, avvicinò l'orecchio, ma ovviamente era impossibile capire. Sabrota represse un moto di stizza. L'indole romantica della sua noiosa sorella le faceva venire il vomito.
«Nostra madre avrebbe dovuto offrirti in sacrificio, sei così debole e prevedibile...»
«E invece ha trasmesso i poteri a tutte e due, mi spiace per te. Siamo gemelle, entrambe eravamo destinate.»
E guai, per una ad uccidere l'altra. Atroci erano le pene per una Masca che uccidesse una compagna, per lo più dello stesso sangue. Non solo: era la gemella che per prima aveva visto la luce e doveva vegliare su Miceli, aiutarla nel suo cammino di strega. La cosa era alquanto denigrante e anche piuttosto frustrante.
«...Dannazione» borbottò. «Renditi utile, tiragli via l'orologio.»
«Prendilo tu» sbottò Miceli, ancora arrabbiata.
«Non ci penso nemmeno!» esclamò Sabrota, disgustata. «Io non la tocco quella cosa schifosa!» Detto ciò lasciò la grotta. I lamenti di Paolo si erano fatti persistenti e Miceli iniziava ad averne noia. Lasciò la testa dell'innamorato perduto, nelle condizioni in cui versava, di certo non era più nelle sue grazie, chi avrebbe mai potuto amare un mostro? Sfilò l'orologio dal polso di Paolo quindi uscì, lasciandolo da solo, dannato per l'eternità. Avevano un appuntamento importante, meglio gettarsi il passato alle spalle, in attesa di un'altra vittima da sacrificare. Sabrota aveva due occhi turchesi di cui andare fiera? I prossimi sarebbero stati suoi e li avrebbe avuti viola, ma adesso avevano una creatura di cui occuparsi.

La luna si era nascosta dietro una coltre di nuvole, il mare era in tempesta, poche luci si affacciavano sulla spiaggia, di qualche falò consumato non rimaneva che cenere. Una ragazza bionda era immobile sulla riva, i piedi nudi, la gonna si muoveva attorno alle sue gambe. Il frastuono del vento e delle onde che sbattevano contro il pontile, copriva le urla disperate del neonato che stringeva tra le braccia. Due donne vestite di scuro le si avvicinarono con lentezza e allungarono le braccia verso di lei. La biondina esitò, poi allungò il fagotto verso quelle braccia protese come artigli.
Miceli prese la neonata e la pose al riparo sotto l'ampio mantello, tentando di calmare le sue grida disperate.
«Che ne sarà di lei?» chiese Sara, con un nodo alla gola.
«Ce ne prenderemo cura, diventerà una di noi» rispose Sabrota.
«E... Paolo?»
Sabrota le gettò davanti l'orologio d'oro. Sara lo riconobbe.
«Avevi ragione» sospirò Miceli. «Se si fosse mostrato degno, il nostro patto sarebbe stato nullo, ma la sua anima era oscura.»
«Lo avete ucciso?»
«No» fu la secca risposta. «Ma adesso appartiene a noi, hai avuto al tua vendetta. E ora, come da accordi, anche la creatura che hai avuto con lui è nostra.»
Sara annuì. Avrebbe voluto chiedere altro, ma non ne ebbe il coraggio. Quando sua nonna le aveva scritto l'incantesimo per evocare le streghe, c'era mancato poco che le scoppiasse a ridere in faccia. In un momento di sconforto aveva letto quelle strane parole, in quella lingua sconosciuta e si era attesa che nulla accadesse. Invece era apparsa Sabrota. Aveva due occhi di fuoco e una voce che sembrava venire dall'oltretomba. Avevano fatto un patto: la sua vendetta su Paolo in cambio della creatura che aveva in grembo. Sara odiava quel figlio indesiderato e le era parso uno scambio equo. Adesso, però, mentre ne ascoltava il pianto, nulla le sembrava più così giusto. E se Paolo aveva un'anima nera, ora anche la sua lo sarebbe diventata.
«Ma se qualcuno...» mormorò la giovane, in un ultimo tentativo di riavere la sua bambina «...mi chiederà di mia figlia...»
«Lei non esiste. Non sei mai stata incinta» concluse Sabrota. Alzò il braccio per eseguire il suo sortilegio finale. I vagiti della piccola si perdevano nel vento. Sara si posò le mani sul ventre e crollò a terra, accecata dalle sue stesse lacrime, col vento a nutrirsi del suo dolore.
«No, aspetta» gridò Miceli, arrestando l'incantesimo della sorella. Questa la investì con i suoi occhi carichi di odio e disprezzo.
«E adesso che c'è?» tuonò, contrariata.
Miceli le sussurrò: «Usa l'oblio, ti prego. Non vedi come soffre?»
Sabrota ebbe un moto di stizza. «E ti sembro una che ha pietà, io? Sono forse una fata? O una crocerossina?»
«Se sei una buona strega saprai ben operare un incantesimo di oblio!»
Sara continuava a singhiozzare e a guardarle. Non riusciva a capire cosa avessero in mente quelle due...
Sabrota scoppiò a ridere. «Sorellina cara... Il tuo tentativo di stimolare il mio orgoglio è miseramente fallito. Non sono una sciocca, non cado in questi tranelli.»
Miceli s'illuminò, ma tentò di non lasciar trasparire eccitazione mentre annunciava:
«Se concederai a questa donna l'oblio, giuro che lascerò che tu ti occupi della cura, dell'educazione e dell'indottrinamento di questa bambina per i prossimi cinque anni e non avrai da parte mia alcuna interferenza.»
Vide la faccia di Sabrota mutare in innumerevoli espressioni che andavano dalla sorpresa alla perplessità, dallo scetticismo all'esaltazione. Il vento si era calmato e anche il pianto della neonata, accucciata contro il seno di Miceli.
«Lo giuri?» chiese Sabrota. La cosa la intrigava non poco e si capiva.
«Giuramento di fuoco» assicurò Miceli «che io muoia sul rogo se mi permetterò di invadere la tua autorità. Tu sarai l'unica che avrà diritto su di lei.»
Sembrava sincera. Sabrota tentò di scorgere l'inganno dietro quegli occhi sempre privi di menzogna. Con i suoi sensi acuti osservò attentamente il viso della sorella, in cerca di un indizio che la tradisse. Non ne trovò, tranne che per un impercettibile tremito di quelle labbra rosse, forse dovuto al freddo. Alzò di nuovo il braccio ammantato dalla nera veste, pronunciò alcune parole dal tono vagamente demoniaco e Sara fu avvolta da una luce nera che la inghiottì all'istante. Nessuno da quel momento avrebbe avuto ricordo della sua gravidanza, neppure lei, le sarebbe stato risparmiato un inutile tormento. Le due sorelle tornarono a guardarsi. Sabrota si sentì sollevata, era un bene che avessero sistemato le cose in quel modo, non le andava di iniziare una disputa su chi delle due avesse dovuto fare da tutrice alla pargola. Per cinque anni sarebbe stata lei sola a guidarla. All'improvviso aggrottò le sopracciglia. Arricciò il naso, in una comica espressione di fastidio.
«E adesso che c'è?» chiese Miceli, trattenendosi dal mettersi a ridere.
«Cos'è questo puzzo tremendo?»
Miceli finse di cadere dalle nuvole, ma poi, accostato il viso alla bimba, annunciò:
«Credo abbia fatto la cacca...»
«Cosa?» gridò Sabrota, inorridita. «Diavolo, e che dovremmo fare, ora?»
«Dovremmo?» ripeté Miceli, innocentemente. «Dovrai, vorrai dire... Ti ricordo che abbiamo fatto un patto, devi occuparti della bimba per i primi cinque anni di vita. Questo comprende pulirla, mia cara...»
Le grida indispettite di Sabrota si confusero con le onde che continuavano ad infrangersi contro le barriere del porto.


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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Ceranu
view post Posted on 8/7/2014, 17:50




GIALLO PROSTATICO


Un rumore proveniente dal corridoio interruppe il sonno di Vittorio. Le lancette fluorescenti fluttuarono nell'aria fermandosi all'altezza del naso. Erano le 11:27 di sera. Borbottando si sporse di lato, tastoni cercò di raggiungere qualcosa che gli sfuggiva: «Non ha senso cercare un interruttore al buio; è come cercarsi l'uccello dopo aver pisciato.»
Sfiorò un bicchiere che cadde a terra. Il rumore di vetro infranto squarciò il silenzio della stanza nell'istante in cui si illuminava.
«BASTAAAAAA» Giacomino si svegliò di soprassalto boccheggiando. Il busto si sollevò senza l'ausilio delle mani, ben salde ognuna sulla spalla opposta. Gli occhi iniettati di sangue, le cannucce che gli pendevano dalle narici sproporzionate.
«Non rompere tu. E torna a fare le prove generali.» Vittorio inforcò gli occhiali, recuperò la dentiera a terra e la scrollò; non poteva rinunciare al sorriso smagliante che faceva impazzire quella della 4B. In un sol gesto infilò le pantofole azzurro e nere e andò alla porta. Come se nulla fosse, il suo compagno di stanza, tornò nel limbo da cui era stato strappato.
L'ex guardia portuaria strinse tra le dita callose il pomello. Con una lieve pressione aprì uno spiraglio da cui poté vedere fuori. Come immaginava: “il carrello”, quello delle emergenze, aveva fatto la sua comparsa. Un camice bianco svolazzò davanti alla 16. Vittorio ritrasse velocemente la mano e spense la luce. Il gesto felino per poco non fece cadere lo stipite.
«BASTAAAAAA!»
«Giacomino, o la finisci, o giuro su Dio che ti stacco l'ossigeno!»
Il silenziò tornò, ma ormai era troppo tardi, si era compromesso. Con passo agile corse verso il letto, assecondando ogni dolore articolare con un santo diverso. Terminato il rosario si getto sul materasso, giusto in tempo. Qualcuno entrò dalla porta schiacciando ancora l'interruttore.
«BASTAAAAAA!»
L'infermiere che aveva fatto irruzione, vedendo il Nosferatum incartapecorito, si ritrasse spaventato.
«Mi perdoni signor Carti, pensavo avesse bisogno.»
«BASTAAAAAAA.» Giacomino ricadde sul cuscino.
Vittorio ringraziò la demenza senile del compagno di stanza: anche quella volta gli stava salvando la vita.
«Signor Cavalli, fatica ad addormentarsi?»
Igor, l'infermiere, doveva aver notato le pantofole ai suoi piedi. Aveva pochi attimi per decidere cosa fare. Era il momento del piano B.
Piano B:
1. Irrigidire gambe e braccia
2. Girare la testa di lato
3. Scuotere il corpo con spasmi incontrollati
4. Inondare il cuscino di bava schiumosa
5. Rilasciare gli sfinteri
6. Cessare ogni movimento, respiro compreso
«Correte, Vittorio sta male. Chiamate il medico di guardia.»
Il diversivo aveva funzionato, era salvo.
Mentre l'ago entrava nel braccio del vecchio, solo un OSS notò il sorriso sornione che ne proclamava la definitiva vittoria.

«Signor Cavalli, è ora delle medicine.»
La voce suadente di Consuelo destò Vittorio dal lungo sonno artificiale. La testa gli faceva male. Ma era felice: si sentiva come un ragazzino il giorno dopo un Rave Party. Nonostante gli occhi impastati dal sonno, e le poche diottrie che gli erano rimaste, cercò di superare l'ostacolo del camice, per regalarsi l'unica visione che avrebbe potuto combattere l'ipertrofia prostatica che lo attanagliava. Nessun effetto.
«Grazie cara. Con te porti il sole dei Caraibi. Terra del tabacco e del cotone sofficissimo.»
Inspiegabilmente l'infermiera picchiò sul tavolino il bicchierino pieno di pillole. Disse qualche parola in spagnolo, e con lo sguardo gli intimò di muoversi.
«Adoro le donne decise.» Vittorio sfoderò il miglior sorriso, inconsapevole del buco nero che si formò tra le labbra dilatate, in cui fece sparire lo spuntino da astronauta.
Dopo Consuelo fu il turno del nuovo medico, un ragazzo di neanche trent'anni vestito impeccabilmente. Com'era dura la vita in casa di riposo. Il dottore abbandonò fuori dalla porta un carrello in cui erano impilate decine di cartelle mediche. Afferrò quelle che gli servivano ed entrò deciso. Si avvicinò al letto di Giacomino, che si era rimesso a dormire. Lo scosse docilmente.
«Signor Cavalli?»
«BASTAAAAAA!» L'antifurto della stanza 9 esplose. Il giovane pose le mani in avanti per proteggersi dall'assalto. Fece due passi indietro e spulciò frettolosamente la storia clinica del paziente. Non c'era motivo che spiegasse quel comportamento.
Vittorio si avvicinò mostrando i denti splendenti che aveva accuratamente riposizionato.
«Caro dottor» Con l'indice sollevò il cartellino appeso al taschino del medico «Pastorello. Il nostro amico, il signor Carti» sistemò gli occhiali sul naso «Soffre di una forma avanzata di demenza senile. E ha seri problemi con il risveglio.» posò il grosso indice sulla cartelletta abbandonata sul comodino, dove c'erano tutte le informazioni dettagliate. «Non si deve preoccupare, capisco che deve fare ancora molta esperienza.»
L'aria saccente di Vittorio indispettì non poco il medico.
«Bene, ora torni al suo letto che la devo visitare.»
«Non c'è bisogno di prendersela. Mi rendo conto che l'hanno gettata qui allo sbaraglio, senza darle il tempo di farsi un'idea. E senza nessuno che le dia le giuste indicazioni.» obbediente Vittorio tornò al suo posto. «Qui è come lì fuori» Indicò la finestra «è un porto di mare. Ogni settimana cambiamo un medico. Spero che lei duri di più.»
Il giovane non prestò attenzione a quelle parole e riprese il lavoro. Dopo aver superato l'ostacolo “Carti” si dedicò a lui.
«Vedo che stanotte si è sentito male. Come sta ora?»
Vittorio seguì con lo sguardo le fughe chiare del finto parquet. «Molto meglio. Ma non ricordo molto.»
«È stato fortunato sa, gli infermieri erano qui dietro per un'emergenza. Altrimenti chissà come sarebbe andata.»
«Perché, cos'è successo?»
«Purtroppo la signora della 16A non è stata altrettanto fortunata. Domani ci saranno i funerali.»
La mente di Vittorio si mise ad elaborare l'informazione.
16A: Aida Vesti
Settantotto anni
Cataratta
Capelli pagliericcio
Portatrice di Pacemaker
Ipertesa
Protesi d'anca tre anni prima, ma diavolo se sapeva sculettare.
«Signor Cavalli, si sente bene?»
«Certo, ma sa, qui siamo tutti amici.» portò le grosse dita al volto, massaggiandosi gli occhi con l'indice e il pollice. «Posso sapere come si è spenta?» tirò su con il naso.
Il medico temporeggiò, indeciso sul da farsi.
«A dire il vero, Aida, era molto più che un'amica.» Vittorio non trattenne più i singulti, disperato emise un gemito straziante e affossò con il volto nel cuscino.
«Purtroppo si è spenta a seguito di un'insufficienza respiratoria. Quando sono arrivati i sanitari non c'era più nulla da fare.» seguì qualche secondo di silenzio, in cui si sentirono solo i lamenti di Vittorio.
«Signor Cavalli, se può consolarla, credo che non se ne sia nemmeno accorta.»
L'anziano si sollevò piano, alzò la manica del pigiama e guardò il medico in maniera solenne. «Si affretti a fare il suo lavoro, ho bisogno di rimanere solo con il mio dolore.»
La visita andò bene, anche troppo per uno che il giorno prima aveva avuto una crisi epilettica. Ma ciò nonostante il medico prescrisse una TAC. Il Dottor Pastorello si congedo ponendo le più sentite condoglianze.
«Ma se Aida non sapeva nemmeno come ti chiamavi.» Giacomino aveva osservato tutta la scena fingendo di dormire, e parlò appena rimasero soli.
«Continua a star zitto tu, magari la morte passando non si accorge che ci sei e ti concede un altro giorno.»

La colazione passò tranquilla, nessuno si accorse della mancanza di Aida. Per tutti era normale che qualcuno scomparisse nella notte. I più fortunati ricomparivano nel giro di qualche giorno, gli altri venivano rimpiazzati. Eppure quando il medico aveva parlato di “arresto respiratorio” era squillato un campanello nella testa di Vittorio. Aida non aveva mai sofferto di problemi ai polmoni, e la sera prima, rientrando in stanza, sembrava star bene. Certo, lo star bene per le persone di quel posto era molto relativo e precario, ma qualcosa non gli tornava. Come tutti i giorni si sedette nel salone per il “risveglio mattutino”. Prese posto vicino a Giacomino e alla sua bombola, e iniziò gli esercizi seguendo le istruzioni di Pedro, il fisioterapista del RSA “il Molo”. Tra la decina di ospiti che sollevava a ritmo le braccia, cerco la 16B. Maria, la gioviale compagna di stanza della defunta, mancava all'appello.
«Scusami Pedro, posso andare a pisciare?» Vittorio si alzò, ginocchia strette e traballanti.
«Devi andarci proprio adesso?»
«Io no, ma la mia prostata dice il contrario.»
Il fisioterapista cubano annui, non aveva nessuna voglia di ripulire dall'imminente inondazione.
Vittorio uscì dal salone e si diresse verso il bagno, afferrò la maniglia, si guardò intorno, e tirò dritto verso le stanze. Aveva mezzora prima che finisse la ginnastica, da li in poi nessuno avrebbe notato la sua assenza fino all'ora di pranzo.
Nel reparto c'erano le addette alle pulizie che lo salutarono cortesemente. Non fecero caso a lui, stupite solo dal fatto che non le stesse molestando.
La stanza 16 era vuota. La roba di Aida già accatastata, il cartellino sulla porta rimosso. Vittorio entrò e cercò qualcosa che potesse richiamare la sua attenzione, ma sembrava tutto normale, anche se ci fosse stato qualcosa di anomalo ormai era tardi per trovarlo. Si fermò a riflettere. In quel momento, il pretesto con cui aveva abbandonato il salone, divenne realtà. Corse nel bagno della stanza. Fu solo una questione di centimetri se non si sporcò le scarpe. «Maledetta prostata» mentre si sforzava per far uscire due o tre getti di urina maleodorante, qualcuno entrò nella stanza.
«Mettetela sul primo letto.»
Una smorfia di dolore scandì la discesa delle ultime gocce giallognole. Con il membro ancora penzoloni Vittorio si appiattì contro il muro affianco alla porta semiaperta. Invano si sporse di lato per vedere chi fosse entrato.
«Io la moretta me la farei volentieri.»
«Tu ti faresti volentieri anche un water.»
I due uomini appena entrati contarono all'unisono fino a tre «Oplà» Il materasso ad ari si compresse emettendo il classico rumore di gomma; “16B” era rientrata nella sua stanza.
«Lei cosa ci fa lì?»
Il cuore di Vittorio accelerò, era certo che non ce l'avessero con lui, non potevano vederlo. Si appiattì ancora di più, schiacciando la chioma canuta contro le piastrelle azzurre. Fu allora che se ne rese conto. Lo specchio del bagno rifletteva l'immagine di due divise arancioni a barre grige che gli andavano incontro.
«Cosa ci fa qui?»
Piano C:
1. Espressione vacua
2. Bocca spalancata
3. Bava densa e filamentosa
4. Braccia abbandonate lungo ai fianchi
Il soccorritore più giovane lo guardò stralunato, l'altro sorrise vedendo l'oscenità uscire dai pantaloni del vecchio. Fu allora che Vittorio compì il colpo da maestro. Un attimo di concentrazione e un fiotto di pipì gli piovve sulle scarpe, seguito da un rumore degno dei migliori temporali estivi.
«Andiamocene. Ci penserà qualche infermiera a pulire.»
«Lo lasciamo qui?» il giovane dimostrava troppo zelo.
Vittorio tese le braccia in direzione delle divise emettendo un altro tuono «Cacca.»
Mentre osservava i due soccorritori fuggire ringraziò il cielo, il prossimo boato poteva essergli fatale.
Rimasto solo allacciò la patta dei pantaloni e si affrettò verso il letto nuovamente occupato. Maria, la 16B, fissava il vuoto catatonica; i maledetti l'avevano sedata. Non domo, Vittorio cercò il foglio delle dimissione dal Pronto Soccorso. Come immaginava lo trovò appoggiato su un sacco trasparente in cui c'erano i vestiti sporchi.
MOTIVO DELL'INVIO: ABUSO DI FARMACI IN PAZIENTE POCO COLLABORANTE.
«Cazzate» Maria era una gran scassa palle, ma prendeva le medicine come fossero caramelle.
«Cavalli, sei tu?» La voce dell'anziana si alzò flebile.
Vittorio corse al suo capezzale.
«Cos'è successo?»
«Non lo so, Mi hanno portata via di peso ieri pomeriggio. Dicevano che non stavo bene» Maria continuava a guardarsi attorno spaventata. «Come sta Aida?»
«Perché me lo chiedi?»
La vecchia fissò la porta per accertarsi che nessuno stesse entrando. «Dice che al porto succedono cose strane.» boccheggiò alla ricerca di aria «ma ieri lo ha detto a Igor e questo ha risposto che i curiosi fanno una brutta fine.»
Igor, l'infermiere che la notte era entrato per soccorrerlo.
«Chi ti ha mandato in ospedale?»
«Igor.»
Non potevano essere coincidenze. Andò alla finestra e guardò fuori. Da lì si vedeva benissimo il porto turistico. Vittorio portò una mano al mento e la passò sulle guance perfettamente rasate.
«Ma come sta Aida?»
«È morta stanotte. Ma non ha sofferto.» rispose sbrigativo. «Piuttosto, tu hai mai visto qualcosa di strano?»
«Ma cosa devo vedere, da qui io non supero nemmeno il davanzale!»
Vittorio ormai era certo che fosse successo qualcosa di mostruoso quella notte. Soddisfatto si avviò verso l'uscita. Passò accanto a Maria, e vedendola piangere le posò una mano sula fronte.
«Non pensarci, purtroppo la vita è così» le carezzò i capelli sfilandole delicatamente una forcina «Piuttosto vedi di non affezionarti anche alla prossima; o almeno muori prima tu.»

Dopo aver abbandonato Maria tra le lacrime si affrettò a raggiungere lo spogliatoio del personale. Era in quelle occasioni che adorava la mancanza di personale delle RSA. Nessuno notò la sua presenza. Andò sicuro agli armadietti e ci mise poco a trovare quello che cercava. Con la forcina forzò il lucchetto, e in un attimo poté frugare tra le cose di Igor. La divisa bianca immacolata pendeva perfettamente appesa alle grucce. Nelle tasche non c'era nulla, così come sullo scaffale in alto. Frugò persino nelle ciabatte di gomma. Sollevandole trovò un foglietto. Era la ricevuta di un container del porto, nella vita da lavoratore ne aveva viste a migliaia.
Sentiva di essere vicino alla soluzione, come si sentiva vivo. Richiuse l'armadietto e uscì euforico dalla stanza. Forse un po' troppo, perché non si accorse dei passi che andavano nella sua direzione.
«Finalmente ti abbiamo trovato» Igor gli comparve davanti sorridente.
Vittorio accartocciò il foglietto e lo mise in tasca.
«Ma cosa ci fai qui?» l'infermiere ucraino aggrottò la fronte e corse con lo sguardo agli armadietti. L'ex guardia capì che stava sospettando qualcosa. Ma non sapeva cosa fare, nelle ultime ventiquattro ore si era giocato il piano B e quello C. Eppure doveva fare qualcosa.
Piano D:
1. Bocca deviata di lato
2. Parole senza senso e biascicate
3. Lieve mancanza di forza a sinistra
4. Sbandamento
Nonostante i sospetti Igor non poté che assecondare il vecchio. Lo afferrò nell'istante esatto in cui stava per cadere a terra e lo adagiò con cura. Anche quella volta ce l'aveva fatta. Purtroppo però, quell'ennesimo episodio, costrinse il giovane Dottor Pastorello ad inviare il Signor Cavalli Vittorio, presso il Pronto Soccorso più vicino, per un presunto ICTUS.
Vittorio trascorse il resto della giornata, e parte della mattina seguente, in ospedale sotto osservazione. Lo rivoltarono come un calzino, e lui non smise un secondo di ammiccare a infermiere e medici. Al momento della dimissione lo salutarono come un vecchio amico che lasciava la spiaggia per tornare in città. Non gli dispiacque quell'esperienza, tanto che rientrando in RSA si ripromise che un giro ogni tanto gli avrebbe alzato il morale.
Nessuno nella casa di riposo sembrava essersi accorto della sua assenza. Vittorio si aspettava grandi abbracci e pacche sulle spalle, ma quei vecchi erano troppo concentrati a lottare con la morte per accorgersi della sua assenza. In stanza trovò Igor che lo attendeva. Il vecchio si irrigidì impercettibilmente.
«Si sente bene signor Cavalli?» chiese l'ucraino.
Vittorio annuì.
«Eppure ha perso la sua verve. Strano per un uomo del suo spessore.» L'infermiere divenne incalzante «vuole dirmi qualcosa?»
Scosse la testa.
«Nemmeno cosa ci faceva nei camerini degli infermieri?»
«Non ricordo dove fossi quando sono stato male? Piuttosto chiedo a voi com'è possibile che uno giri indisturbato? E se mi fosse venuta la crisi sulle scale?» partì al contrattacco. Lo sguardo di Igor perse sicurezza. «Potevo morire per la vostra negligenza.»
«Ma sono stato io a soccorrerla.»
«Quindi pretende un bravo? Lei ha fatto solo il suo dovere. Dovrei chiamare la polizia per questa storia» sospirò profondamente guardando torvo l'infermiere. «Comunque, grazie!».
L'anziano porse la mano sorridendo compiaciuto, non gli era sfuggito il fremito che aveva attraversato il corpo di Igor sentendo la parola “Polizia”.
Scampato il pericolo, Vittorio decise che era giunto il momento di mettere in opera il piano elaborato con perizia in Pronto Soccorso. Raggiunse il gruppo della scopa e corruppe i quattro giocatori. Promettendo materiale pornografico e colla per le dentiere.
Pranzò per primo, in fretta, dopodiché si avvicinò fiducioso alla porta di emergenza. Puntuali, alle dodici e quindici, tre dei quattro complici iniziarono a fingere conati di vomito. All'unisono si chinarono in avanti e squarciarono i sacchettini prefabbricati di finto vomito. Solo Battini non partecipò al piano: “maledetto Alzheimer”. Fortunatamente il resto lo fece la suggestione. In pochi minuti la sala era piena di gente che rimetteva in ogni angolo, infermieri compresi. Benedetti “Amici miei”.
Vittorio approfittò della baraonda per uscire di soppiatto. Nemmeno all'ingresso fecero caso a lui. La receptionist era impegnata a chiamare una dozzina di ambulanze per contenere la presunta intossicazione alimentare.
Finalmente all'aperto, lontano da quelle mura amiche, l'anziano si concesse un attimo di pace. Una morsa leggera gli attanagliò lo stomaco. Gli mancava la libertà, le lunghe giornate di solitudine, le mattine al parco a leggere il giornale. Eppure un giorno aveva deciso di rinunciare a tutto quello per la compagnia di qualche vecchio che, il più delle volte, si scordava il suo nome, e spesso persino della sua esistenza.
Camminò indisturbato fino all'ingresso del porto.
«Cosa ci fai qui?» La guardia lo riconobbe e lo fece entrare.
«Licenza premio, sono venuto a trovare Egidio.»
«Beato te che sei in pensione. Qui si sgobba sempre di più.»
Vittorio abbozzò un sorriso malriuscito e passò oltre. Per un attimo carezzò realmente l'idea di andare a trovare il suo vecchio collega, invece si limitò ad una breve chiamata col cellulare.
Doveva raggiungere i box del molo.
L'asfalto scivoloso sotto i piedi, l'odore di salsedine misto a cherosene, gli schiamazzi osceni e le continue sirene lo riportarono ai giorni felici. Quanto avrebbe voluto afferrare ancora una volta la sua torcia, la piccola pistola d'ordinanza e tornare a prendere mazzette da qualche contrabbandiere marocchino. “Che bei tempi”.
Entrò nel capanno degli attrezzi, che come previsto era aperto, recuperò una tenaglia, e si fiondò deciso al box incriminato. Non prima d'essersi fermato cinque minuti a rifiatare e a massaggiare il ginocchio indolenzito.
Ansimante arrivò a destinazione. La strada affianco, quella che portava all'RSA, era costellata da lampi blu. Stavano evacuando i malati. Attorno non c'era nessuno.
Sorridendo per lo scherzo giocato, si preparò a tagliare il lucchetto, ma si bloccò: il box non era chiuso. Un brivido gli attraversò la schiena, qualcosa non tornava, doveva ritirarsi. Ma non fece in tempo a muoversi che qualcosa di cilindrico e durò pigiò sulla sua schiena.
«Non muoverti.» L'accento ucraino non lasciava dubbi, era Igor.
Vittorio non si mosse.
«Sapevo che ci stavi mettendo il naso.» la pressione aumentò. «A chi la volevi raccontare?»
«Ma io...»
«Sentiamo quale scusa hai stavolta!»
«Sono venuto a trovare un mio vecchio amico.» “Poteva reggere”.
«Nel mio box?»
“Non poteva reggere”. In preda al panico decise che era arrivato il momento del famigerato: “Piano A”.
Piano A:
1. Portare le mani al petto
2. Urlare di dolore
3. Tirare fuori la lingua
4. Cadere a terra
5. Fingersi morto
Igor scoppiò in una risata ridondante e scalciò il corpo inerte di Vittorio. «Mi hai preso per uno scemo? Non ci casco un'altra volta.»
Piano A bis:
1. Perseverare
Vittorio si mosse solo quando un altro calcio lo raggiunse al torace facendogli emettere un muggito di dolore. Era tutto perduto.
«Fermo e mani in alto.» Egidio, il suo vecchio collega, sbucò da dietro l'angolo con la pistola tesa in avanti. «Muoviti, butta quel...catetere?» La guardia non poteva credere ai suoi occhi. «Va beh. Apri il box, tenendo sempre in vista le mani.»
La serranda si aprì, lasciando Vittorio e Egidio a bocca aperta. Cinque persone, due uomini e tre donne, apparentemente sudamericani, vivevano lì dentro.
«Questa è la famiglia di Consuelo. Li ospitavo qui in attesa di trovargli casa.» Piagnucolò Igor.
Mentre Vittorio fu sul punto di chiudere un occhio, Egidio fu irremovibile. Cinque minuti dopo la polizia era sulla banchina. Anche loro ci misero parecchi per venire a capo di tutta quella storia. Alla fine saltò fuori che l'ucraino era il vertice di un'organizzazione internazionale, che spacciava personale para infermieristico per conto di alcune cooperative. Importava clandestini da ogni parte del mondo e li teneva segregati fin quando non riusciva a trovargli un'occupazione e dei documenti finti.
Prima che portassero via Igor in manette, l'anziano gli si fece contro a muso duro.
«Io so cos'hai fatto!»
«Lo so, te l'hanno detto loro.» indicò la polizia.
«No. Intendo alla signora Vesti!»
L'ucraino sollevò il sopracciglio dubbioso.
«L'hai uccisa!»
L'espressione perplessa di Igor, mentre lo portavano via, non lasciava dubbi: non ne sapeva nulla.

Quella sera l'RSA “il Molo” era decisamente meno caotica del solito. Poca gente urlava, e quasi nessuno vagava senza una meta. Vittorio fissava il letto vuoto di Giacomino. Gli mancava quel vecchio brontolone. Prima di coricarsi ricevette una pessima notizia, anche Consuelo faceva parte dell'organizzazione, così addio camici scollati. L'adrenalina era sparita, lasciando spazio solo al dolore per le botte prese. Esausto si abbandonò sul cuscino, era felice di com'era andata a finire. Eppure, secondo lui, Aida era stata uccisa. Chiuse gli occhi e sorrise: magari domani avrebbe scoperto chi era stato.
Un rumore proveniente dal corridoio interruppe il sonno di Vittorio, sapeva di cosa si trattava: era “il carrello”, quello delle emergenze.


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.





 
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view post Posted on 8/7/2014, 19:03

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a 4 ore dalla scadenza siete in 8... si preannuncia in ogni caso uno skannatoio interessante ;)
 
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view post Posted on 8/7/2014, 21:43
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Io ripasso a mezzanotte e dieci per i commenti di CMT
 
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view post Posted on 8/7/2014, 23:12

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20 minuti, signore e signori...
Ho appena visto il brasile venire totalmente arato e deflorato da 7 colpi di panzerknacker, saprete stupirmi con effetti speciali? Io lo spero...
 
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view post Posted on 9/7/2014, 07:09

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in caso aveste dubbi, potete cominciare a commentare... :P
 
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view post Posted on 9/7/2014, 07:54
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Me ne mancano 3, ci risentiamo quando finisco di lavorare, se finisco di lavorare -_-
 
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view post Posted on 9/7/2014, 07:56

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CITAZIONE (CMT @ 9/7/2014, 08:54) 
Me ne mancano 3, ci risentiamo quando finisco di lavorare, se finisco di lavorare -_-

cominciavamo a pensare che ti fosse accaduto qualcosa di brutto... dico, più brutto del lavoro :P
 
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