Eco quì, spero che vi piaccia. Nonostante tutto, sono felice di aver potuto chiamare di nuovo in causa Meselim ed Eumeo, che erano stati i protagonisti del mio primo racconto "maturo" (almeno sei anni fa... quanti ricordi!). E poi, era più di un anno che non mi concedevo nulla di vagamente lovecraftiano!
Per quanto riguarda i tabù violati, sono quelli della civiltà persiana arcaica ossia il parricidio, la profanazione del fuoco e quella della terra (che, per ragioni di tempo sono stato costretto a far passare in sordina).
Buona lettura
Dove conduce l’orroreI raggi del tramonto fanno arrossire i campi di grano e bruciano le mura della città in lontananza.
Persi nell’oceano riarso, i contadini sono ombre indistinte, mosconi su un corpo in decomposizione.
La porta si apre, ma nessuno m’accoglie. Dove sono finiti la sposa e il figlio infante?
L’unica persona presente in casa è mia madre: la trovo piangente in un angolo, mille volte più sfatta e decrepita di come l’ho lasciata un anno fa.L’ombra di un sicomoro mi da refrigerio, mentre gli occhi allucinati seguono quel sentiero fatto mille volte. Il cuore perde un battito quando un’ombra compare sulla cima del colle: anche se è troppo lontano perché possa riconoscerlo, so per certo che è il moscone che aspetto.
-Dov’è Barsine? Dov’è il piccolo Bagoa?-
Mia madre geme e indica la finestra aperta: il terrore mi invade quando intravedo le cime delle Torri del Silenzio. Poi monta la rabbia e la schiaffeggio più volte. È la donna che mi ha dato la vita, eppure non smetto di colpirla fino a quando i suoi mugolii non cominciano ad acquisire un senso. Dalla sua bocca sgorgano sangue e fiotti acidi di verità.Lo osservo scendere lentamente dal colle, ciondolando sul vecchio asino. Riconosco l’abito sontuoso e il mantello elegante, ma è solo quando vedo la sferza di pelle che cadono gli ultimi dubbi e il sangue prende a pulsare incontrollabilmente nel corpo.
Non riesco più a resistere: quando è a meno di cento passi da me sistemo il mantello e mi incammino. Poco dopo, i nostri sguardi si incrociano.
- Salve Padre.
-
Dicevano che gli yauna vi avessero sterminati tutti.- geme, provando a rannicchiarsi contro il muro. -Barsine e tuo figlio piangevano. Tuo padre, invece, sosteneva che fosse un segno di Ahura Mazda, perché solo i più forti tornano dalla guerra. Così, una notte, è entrato nella camera di tua moglie e l’ha presa contro la sua volontà. Diceva che era necessario, affinché venisse assicurata una linea di sangue più degna del nome della nostra famiglia.
Il mio stupore dura solo un istante, poi comprendo con orrore cosa ne è stato di mio figlio.
-Il giorno dopo, Barsine ha portato il corpo di Bagoa alle Torri. Ai nostri conoscenti tuo padre ha detto che il bambino era stato ucciso da una belva e che tua moglie avrebbe mantenuto il lutto, ma lo faceva solo per poterla prendere con violenza tutte le notti. Poi, un giorno, lei non è riuscita più a sopportare i suoi stupri e si è impiccata a una trave.
Prima ancora che nei suoi occhi possa diradarsi il terrore suscitato dalla mia comparsa, sollevo il mantello e impugno la spada. È la stessa arma con cui ho combattuto per il Gran Re, ma nemmeno nella mischia più feroce ho mai provato l’emozione che provo ora nel trafiggere il corpo di mio padre. Mentre l’asino scappa, lui sputa sangue e cerca di maledirmi con le ultime forze che gli restano.
- Tu… tu non sei mio figlio!
Gli sputo sul volto prima che possa parlare ancora, poi gli strappo lo scudiscio dalla cintura e lo percuoto con violenza.
- Ti sbagli, vecchio: mai come oggi sento fino in fondo di essere il frutto dei tuoi lombi! – urlo, continuando a marchiare la sua carne. – E se anche non fosse il sangue a unirci, osserva come sboccia in me il frutto del tuo male!
L’odio e il rancore erompono fin più profondi recessi della memoria e si riversano contro la patetica creatura che sussulta nella polvere. Continuo a colpirlo anche dopo le ultime scintille di vita hanno abbandonato il suo corpo.
Mia madre sente l’odio e la disperazione gonfiarsi nel mio petto e trema di paura.
- Tuo padre ha fatto questo! Lui e soltanto lui!
- E tu cosa hai fatto per impedirglielo? In che modo hai protetto mio figlio e la mia sposa?
Le parole la prendono di sorpresa, forse perché le pronuncio senza rabbia. Lei si rannicchia ancor di più contro il muro, ma non deve temere nulla: la disprezzo troppo per poterle concedere il privilegio di una vendetta.
- Dove si trova adesso?
- Nei campi, per badare agli schiavi. – Nei suoi occhi brilla una scintilla di complicità. – Non c’è nessuno ad accompagnarlo.
Le volto le spalle e mi dirigo verso la porta.
- Voglio che abbandoni subito questa casa. Non mi interessa cosa farai, né dove vorrai andare: va via di qui e non farti mai più rivedere.
Senza attendere la sua risposta, esco e vado in contro al Sole che tramonta sui campi.
Quando riprendo il controllo delle mie azioni, di mio padre non resta che un grottesco ammasso di carne e pelle scarnificata.
Ormai privo di lucidità, scoppio a ridere per sfogare la tensione: Rido fino a quando le guancie non mi fanno male e due fili di lacrime non prendono a fluire dagli occhi, poi cado in ginocchio e resto in silenzio, lasciando che le lacrime vadano a mescolarsi con la lordura che macchia il terreno.
È in quel momento che mi rendo conto che c’è qualcuno alle mie spalle.
Con la coda dell’occhio intravedo una tunica bianca e un lungo mantello rosso con cappuccio, ma non riesco a vedere i suoi lineamenti. Chiunque sia, è un testimone scomodo del mio delitto: non posso permettergli di restare in vita.
Con uno scatto suscitato dalla più profonda disperazione, mi avvento sul corpo di mio padre e sfilo la spada, poi mi alzo in piedi e mi preparo a fronteggiare l’uomo misterioso.
Ma non trovo nessuno.
- Colui che uccide il padre, rinnega l’origine stessa della sua vita. – fa una voce alle mie spalle. – Ciò facendo, egli rinuncia alla luce di questo mondo e si avvia a sprofondare anzitempo nel dominio di Ahriman.
Mi giro e vedo la stessa figura di prima: come ha fatto a muoversi così rapidamente senza che me ne accorgessi?
Alzo la spada per minacciarlo, ma tutta la mia rabbia svanisce in un istante. Senza neanche rendermene conto lascio cadere l’arma a terra.
- Chi sei?
- Solo l’araldo di una Volontà più alta. Votato a custodire e proteggere, divento l’ombra di un ossessione qualora il mio cammino incroci l’empietà più abietta.
Fa un passo avanti verso di me.
- Non c’è rimedio a ciò che hai fatto: ora soffrirai e diverrai monito errante per chiunque osi violare la volontà del Mio Signore. Osserva il mio volto: sarà il tormento che riempirà d’angoscia i tuoi giorni e il terrore che popolerà d’incubi le tue notti. Lo sguardo di una colpa che non si può cancellare.
Dal buio del cappuccio emerge un ammasso di carne purulento, una mostruosità dalla bocca irta di denti affilati e con occhi carichi di odio e di bruciante disprezzo.
Gli stessi occhi di mio padre.
***
Dovunque mi giri, solo pianure coperte d’erba, rocce muscose e radi alberelli quasi privi di foglie. Sono trascorsi cinque giorni da quando ho lasciato la carovana e già allora ne erano trascorsi venti da quando eravamo partiti dall’ultima città , eppure il paesaggio attorno a me sembra sempre lo stesso, quasi non mi fossi mosso di un piede.
Simili spazi sconfinati sono l’esatto opposto di ciò che ho conosciuto nei miei viaggi e ormai ho forti dubbi sul fatto che queste distese vuote siano abitate da uomini. Fino a ora non ho visto nemmeno i resti di un bivacco.
La notte, poi, è anche più terribile, poiché l’oscurità rende la pianura simile a un mare smisurato, una distesa buia solo apparentemente tranquilla, in cui le belve feroci e i demoni si aggirano alla ricerca di nuove prede. Questa situazione mi indebolisce e rende, per contro, i miei incubi via via più forti: quando avrò finito la droga che mi permette di dormire, mi verrà tolto anche il sonno e ciò che resta della mia ragione si consumerà del tutto.
Cerco di non pensarci e bevo un rapido sorso dall’ultimo otre d’acqua.
Le ultime speranze si fondano su quell’unica imperfezione che taglia l’orizzonte, un rilievo che è l’unico candidato ad essere la meta finale della mia ricerca. Lo vedo crescere ora dopo ora, sempre più immenso e solitario nella pianura sconfinata.
Quando disto sei o sette parasanghe, vedo anche i primi fili di fumo; a tre comincio a intravedere i carri e le tende di un accampamento di nomadi. A due, mi scopro circondato da una ventina di guerrieri sciti a cavallo, bruti irsuti armati di archi e scimitarre che mi scrutano con estrema ferocia.
Il loro capo si fa avanti e mi dice qualcosa con aria minacciosa, ma non capisco la sua lingua. Provo a rispondergli in persiano, in aramaico e in greco, ma nessuno di loro fa cenno di aver compreso e le loro mani si stringono ancor di più sull’impugnatura delle spade.
Allora gioco la mia unica possibilità ed estraggo il pendente che porto nascosto sotto la tunica. Gli sciti riconoscono l’immagine del dio scolpito, forse riescono anche a comprendere ciò che è inciso alla base del monile e arretrano.
Il loro capo fa una smorfia, poi riprende a parlare: neanche stavolta capisco ciò che dice, ma la deferenza nel suo tono di voce mi fa capire che ho fatto la scelta giusta.
- Meselim.
Gli rispondo, ansioso di sapere se la mia ricerca è finalmente giunta al termine. I guerrieri si guardano tra di loro, poi mi fanno cenno di seguirli verso la montagna.
L’accampamento è molto più grande di quanto non sembrasse da lontano: forse è il risultato del viaggio comune di parecchie tribù consanguinee. I guerrieri che mi accompagnano allontanano la folla di curiosi che si accalca per vedere, ma ai più vicini non sfugge l’idolo che ho mostrato loro, poiché i vecchi fanno segni di scongiuro al mio passaggio e le donne richiamano vicino a sé i figli.
Superate le tende, raggiungiamo la base del monte, che scopro forato dalle aperture di innumerevoli gallerie e decorato con statue gigantesche scolpite nella viva roccia. Benché corrose dal tempo, riesco comunque a intuire l’aspetto mostruoso che dovevano avere nei tempi antichi e sento un brivido attraversarmi la schiena. Chi le ha scolpite? Nemmeno per un istante penso possano essere stati i miei selvaggi accompagnatori e mi viene ancora una volta da chiedermi quanto ci sia di vero nelle leggende che si raccontano nelle città ai bordi della steppa.
Sono pensieri vani, che abbandono non appena i guerrieri mi fanno cenno che siamo arrivati: davanti a noi, l’apertura di un cunicolo la cui estensione si perde nell’oscurità.
- Entra.
Dice il loro capo, in un persiano che definire stentato sarebbe persino un complimento: allungo lo sguardo nelle ombre e subito vi scopro i nidi che i miei incubi vi stanno facendo. Le loro bocche distorte mi sorridono malignamente e le loro mani deformi si tendono verso di me: è raro che gli offra la possibilità di tormentarmi in pieno giorno e devono aver deciso di approfittarne al massimo.
Sospiro, poi cerco di sorridere: se tutto va bene, forse è l’ultima volta che potranno fare scempio di me.
***
La musica mi raggiunge quando sono ancora lontano, resa distorta e confusa dagli echi in cui viene riflessa dalle pareti della galleria. Benché non ne conosca l’origine, mi muovo cercando di rintracciarne la provenienza, sforzandomi il più possibile di ignorare le visioni con cui gli incubi tentano di condurmi alla pazzia. In qualche modo, ho l’impressione che cerchino in ogni modo di distrarmi, come se avessero timore di ciò che potrei trovare. Mi aggrappo come un disperato a questa illusione e comincio a correre a perdifiato in quei meandri sconosciuti, indifferente al rischio di cadere in qualche crepaccio nascosto.
Poi, finalmente,la musica erompe davanti a me in tutta la sua potenza e un’improvvisa luce spezza le tenebre e ricaccia indietro gli incubi che vi si erano nascosti.
Quello che mi trovo davanti, però, è ancora più incredibile.
Decine, forse centinaia di persone d’ogni età e sesso danzano in un’immensa caverna, coperti solo dal sudore della frenesia e dai tatuaggi che decorano i loro corpi. Ai bordi della sala, illuminati da fiaccole incastrate nella pietra, numerosi musici, anch’essi nudi, producono suoni difformi con strumenti diversi, generando la cacofonia che si mescola e si sovrappone alle grida d’estasi dei danzanti.
Quando i miei occhi si abituano maggiormente a quello spettacolo, riesco a cogliere anche il rapido movimento di alcune figure incappucciate, cultisti che emergono dalle ombre portando con se grossi catini ricolmi di un liquido misterioso, che viene dato da bere ai danzatori più esausti. Il fatto che questi ultimi sembrino riprendere d’un tratto le forze mi fa pensare che possa trattarsi di una qualche droga.
Ho già visto scene simili nelle celebrazioni dei Misteri in Grecia e nei rituali orgiastici della Grande Madre in Asia, eppure basta poco perché mi renda conto di quanto questi ultimi siano diversi da ciò a cui sto assistendo adesso. In qualche modo, persino nel caos più assoluto di quei rituali era possibile rintracciare una parvenza di ordine, un filo conduttore che li riportava in un ambito più umano. In questa caverna, invece, la semplice idea di logica è stata abbandonata e la celebrazione da l’idea di crescere ed autoalimentarsi da sola, come animata da una coscienza che trascende quella dei singoli cultisti.
E al centro di questo caos senza limiti, sorge la statua del dio che essi servono, un immenso cumulo di metallo senza significato che sembra animarsi al continuo mutare della luce delle torce. Su di esso riconosco i simulacri di volti d’animali e di uomini in mille pose, poi braccia, gambe e tronchi di corpi d’ogni genere, frammisti a simboli e a opere mozze di cui non comprendo il significato.
Non ho mai conosciuto né immaginato nulla di simile, ma il solo guardarlo fa scorrere un brivido gelido lungo la mia schiena.
Mentre osservo le forse mostruose di quella statua, mi accorgo che uno dei danzatori è crollato al suolo. Subito dalle ombre emergono dei cultisti incappucciati che lo portano via.
- La danza non può cessare mai. – fa una voce alle mie spalle. – Chi vi partecipa balla e urla fino a quando non nemmeno le droghe riescono più a dargli forza. Capita spesso che qualcuno muoia, ma subito viene sostituito. La danza non può cessare mai: Colui che Non può Essere Nominato sorveglia.
Mi volto: dietro di me un uomo vestito interamente di giallo, con il volto coperto da una grottesca maschera di seta. A differenza di quella che indossano i cultisti, però, questa suscita timore e rispetto.
- Chi sei tu?
- Il Sacerdote Giallo, – risponde lui. – colui che tu chiami con il nome di Meselim.
L’uomo si toglie la maschera, rivelando il volto saggio di un mio compatriota. Le rughe testimoniano la sua vecchiaia, ma la schiena dritta sembra quella di chi è nel fiore degli anni.
Mi inchino davanti a lui.
- Il mio nome è…
- Non conta. Chi è maledetto dagli Dei perde tutto, persino il nome che gli è stato dato.
L’uomo sorride davanti al mio evidente stupore.
- Non essere sorpreso da ciò che dico. L’ombra che grava su di te è talmente pesante che solo un cieco potrebbe ignorarla.
Io annuisco e lui mi fa cenno di seguirlo.
- Vieni: ti porterò dove potremo parlare con più calma.
Lo osservo scomparire nella parete, attraverso una fenditura nella roccia che in precedena doveva essermi sfuggita.
Dopoa verlo seguito pochi metri, raggiungo una piccola caverna, dove Meselim mi attende assiso su un trono scavato sulla roccia. Quando mi siedo anch’io, un cultista velato apparso dal nulla appoggia per terra una brocca d’acqua e scompare di nuovo.
- Prima di tutto, dimmi chi ti ha condotto da me.
- Un mercante di Siracusa di nome Iolao, che asseriva di averti conosciuto in gioventù. – rispondo io. – I membri del culto a cui apparteneva, lo chiamavano Eumeo.
Lo stupore emerge per qualche istante dagli occhi di Meselim, poi il suo volto si addolcisce.
- Se ciò che dici è vero, allora Eumeo è rimasto fedele a ciò che gli ho insegnato in quei tempi lontani…
Scuote il capo, come a voler allontanare un pensiero inutile, e il suo sguardo torna a farsi severo.
- Il tuo, quindi, è stato un lungo viaggio… raccontami tutto: dimmi come ha avuto origine la tua maledizione.
Gli racconto tutto, descrivendogli anche il più piccolo dettaglio che riesco a estrarre dalla mia memoria. Quando ho finito, lui sospira e resta qualche istante in silenzio.
- Ciò che mi dici non fa altro che confermare i miei sospetti. – sussurra, lisciandosi la barba. – La creatura che ti ha maledetto era un Fravashi, un emissario della volontà di Ahura Mazda.
- Un Fravashi? – rispondo io, sgomento. – Ma i sacerdoti insegnano che si tratta di esseri benigni, custodi deputati a proteggere il cammino dell’uomo a cui sono stati affidati.
- Ciò avviene a patto che l’uomo in questione non violi uno dei precetti sacri di Ahura Mazda. Qualora ciò avvenga, essi diventano inesorabili persecutori, il cui unico scopo è quello di portare il disgraziato alla pazzia.
“Votato a custodire e proteggere, divento l’ombra di un ossessione qualora il mio cammino incroci l’empietà più abietta.”
Le parole di quell’essere risuonano di nuovo nella mia mente, ora con un significato chiaro.
- Il Fravashi ha agito tramite l’amore che provavi verso tuo padre e lo ha sfruttato come un varco per farsi strada nella tua anima. Gli incubi che ti perseguitano non sono altro che i parti mostruosi del tuo rimorso che quella creatura nutre oltre ogni limite.
Scuoto il capo.
- No, ti sbagli: non ho mai amato mio padre. D’altronde, come sarebbe stato possibile amare una simile persona? Sin da quando siamo stati presentati ho conosciuto più la sua sferza che le sue mani, né ha mai avuto per me una parola di conforto e di incoraggiamento. Se mio fratello maggiore non fosse morto in tenera età, immagino che non avrebbe esitato a strangolarmi con le sue mani.
- Forse potevi odiare la persona, - ammette, - Ma quell’uomo era pur sempre l’origine della tua nascita. In quanto tale, la tua stessa condizione umana ti imponeva di amarlo, così come adesso ti impone il fardello del rimorso.
Sconvolto dalla rivelazione, abbasso il capo. Per un istante, ho l’impressione che dalle ombre sia emerso il volto ghignante di mio padre, poi mi rendo conto che è solo uno dei miei incubi.
- Se questo è ciò che mi è stato fatto, conosci il modo per liberarmi da questa maledizioni?
- Non c’è modo di farlo. Se gli Dei ti hanno bandito dalla vita, non è nel mio potere riportarti indietro.
Il cuore mi si gela nel petto, mentre il ghigno dell’incubo che ricompare tra le ombre si allarga a dismisura.
- Non… non puoi fare davvero nulla per me?
- Te l’ho detto: essendo umano, sei preda delle voleri e dei capricci degli Dei di questo mondo. L’unico modo per sfuggirli, sarebbe rinnegare la tua umanità e porti sotto l’ala nera degli Altri Dei, che governano il Cosmo dalle loro sedi al centro dell’infinito.
- E ciò è possibile?
Meselim sorride, un sorriso che non sembra meno inquietante di quello della creatura che mi scruta dall’oscurità.
- Come ti ho già detto, uccidendo tuo padre e scacciando via tua madre hai rinnegato la fonte della tua nascita: ciò rende il tuo essere simile a quello di un bambino eternamente sigillato nel suo utero. Conosco un rituale che potrebbe permetterti di superare questo stadio crepuscolare e rinascere sotto una nuova forma. Ma il prezzo da pagare è alto, molto più di quanto tu possa immaginare.
- Ho alternative?
Lui alza le spalle.
- No. Un tuo eventuale suicidio non avrebbe altra conseguenza che il consegnarti eternamente nelle mani del tuo aguzzino, come un bambino abortito che viene espulso dal corpo materno per scomparire nell’ombra.
Abbasso il capo, poi stringo i pugni. Il mio sguardo si sposta da Meselim all’incubo ghignante e ne taglia il volto deforme.
- E sia. Se gli Dei di questo mondo mi opprimono per spingermi alla follia, allora accoglierò qualunque strada possa permettermi di sfuggire al loro volere.
***
Mi libero degli abiti e mi sdraio a terra. Due cultisti mi lavano e frizionano tutto il mio corpo con un unguento, fino a farmi perdere la sensibilità. Meselim tasta una spalla con un bastone, poi fa la stessa cosa sulla coscia.
Quando ritiene che sia pronto, pone le mani sul mio capo e comincia a salmodiare in una lingua sconosciuta, mentre un terzo cultista comincia a tagliare la mia pelle con un coltello, incidendo simboli e scritte per me incomprensibili.
Non provo dolore: la lama passa più e più volte sulle mie carni senza farmi soffrire e senza far stillare la minima goccia di sangue. Quando Meselim concludo le sue formule, lo osservo con aria dubbiosa.
- Hai detto che il prezzo sarebbe stato terribile, ma non ho provato nulla.
- Questo era solo il rito di preparazione. – risponde lui, sfoderando un ghigno beffardo. – Ora seguimi, così potremo completare la cerimonia.
Due cultisti prendono delle torce, il terzo una giara e una vanga. Meselim rivolge loro alcune parole sottovoce, poi mi fa cenno di seguirlo e scompare in una fenditura nella parete. Fino a un attimo fa, ero sicuro che ci fosse solo roccia.
La luce delle torce rivela una scalinata intagliata nella viva roccia. È stretta e i suoi gradini sprofondano sempre più nell’abisso, scendendo a profondità che mai avrei creduto possibili. Vorrei chiedere chi l’ha intagliata e perché, ma qualcosa mi dice che nemmeno i miei accompagnatori conoscono la risposta. O forse preferiscono non porsi nemmeno la domanda.
Dopo essere scesi per quelle che sembrano essere svariate ore, sento i miei piedi affondare nella nuda terra e mi rendo conto che abbiamo raggiunto la nostra meta, qualunque essa sia.
Dopo pochi istanti, mi rendo conto che questo luogo è illuminato da un tenue chiarore crepuscolare, apparentemente suscitata da colonie di funghi grotteschi che crescono in ogni dove. Ma è quando mi rendo conto di ciò che li nutre, che il mio disgusto si approfondisce maggiormente.
Cadaveri. Pile e pile di corpi di uomini e animali ammucchiati alla rinfusa, fino a formare vere e proprie montagne di carne e ossa, puntellate da un numero infinito di orbite vuote che sembrano guardare tutte nella mia direzione.
- Ora sai che fine fanno i danzatori che non sopravvivono alla loro cerimonia in onore di Colui che Non Può Essere Nominato. – mi sussurra Meselim, indicandomi le pile di corpi più vicine. – Se andassimo più lontano, potrei mostrarti cadaveri sprofondati da pozzi che hanno origine in luoghi che neanche io conosco, ma non credo che sarebbe saggio. Questa penombra nasconde cose che non temono nulla, nemmeno il mio potere.
- Che posto è questo?
- L’Abisso. Qui trova ricettacolo tutto ciò che la luce rifiuta e tutti gli abomini che esse deve scartare per preservare la propria purezza. In questo grumo di oscurità intrappolato nelle viscere del nostro mondo, gli Altri Dei hanno posto il loro trono e il loro estremo avamposto. Ed è qui che noi completeremo il nostro rituale.
Fa un cenno al terzo cultista e quello, posata la giara, comincia subito a cavare in un palmo di terra libero.
- Mentre lui pensa alla fossa, tu devi occuparti del rogo: raccogli ossa e cadaveri da queste pile e fanne un grosso mucchio lì vicino.
Annuisco, anche se il suo comando mi sembra nauseabondo.
Quando immergo le braccia in quegli ammassi putrescenti, il fetore è tale che più volte vengo colto da profondi conati di vomito, resi ancora più violenti dal marciume che mi insozza ogni volta che sono costretto a rompere uno di quegli osceni funghi. Un paio di volte, poi, ho la netta impressione di essere sfiorato da qualcosa, mentre i mucchi di ossa che mi circondano tremano leggermente. Entrambe le volte mi costringo a pensare che si tratti solo di un’illusione dettata dalla paura, ma è un inganno fin troppo misero.
Quando Meselim ritiene che il mucchio sia abbastanza alto, mi fa cenno di fermarmi.
- Ora prendi la giara, vuotane il contenuto su quei corpi e dagli fuoco.
- Ma in questo modo profanerò il fuoco! È una blasfemia!
Meselim scoppia a ridere.
- Sei pieno fino a questo punto degli insegnamenti dei magi? Eppure ciò che hai subito avrebbe dovuto condurti già da tempo lontano dalle loro dottrine. – Ride nuovamente, poi mi afferra per le spalle e mi obbliga a guardarlo negli occhi. – È stata la tua empietà a farti cominciare questo cammino, ora non ti resta che concluderlo. Se avevi davvero tanta paura di scontentare Ahura Mazda, avresti dovuto sopportare le angherie di tuo padre.
Detto questo, mi mette in mano la giara e toglie il tappo.
Stretto tra la necessità e il timore suscitato dagli antichi precetti, scelgo di seguire l’unica via che mi offre una minima speranza di salvezza e verso il bitume sui corpi.
Quando vi getto sopra la torcia, un turbine di fuoco si accende sulle ossa profanate, gettando nuova luce in quel baratro.
Poi un ruggito di rabbia e di dolore emerge tra le fiamme e il volto deforme che era stato di mio padre emerge tra le lingue incandescenti.
- Cani! Come avete osato profanare la sacra emanazione di Ahura Mazda? – urla, agitando il pugno del braccio deforme. – Nessuno di voi sfuggirà alla sua ira!
Arretro, spaventato dalle sue parole, ma Meselim si fa avanti per fronteggiare il Fravashi.
- Taci, eunuco del dio, non ci fai alcuna paura. In questo luogo il tuo signore non ha potere e la sua volontà vale meno delle ossa rinsecchite che quest’uomo ha appena bruciato.
Per la prima volta, quel volto detestato si atteggia a una smorfia di rabbia impotente. Ottenuta la sua vittoria, il Sacerdote Giallo mi afferra per un braccio.
- Ora che hai contaminato il fuoco, è il momento di contaminare le tue stesse carni. Sali sulla pira e lascia che quella fiamma impura bruci le tue spoglie umane e ti consenta di rinascere sotto nuova forma.
Punto gli occhi nelle fiamme e il mio sguardo incrocia quello del Fravashi.
- Tu non oseresti…
Sussurra, consapevole della paura che mi sta agitando membro a membro, ma stavolta sono io a sorridere.
- Era la stessa cosa che pensava mio padre. Ora è tempo che anche tu impari cosa è capace di compiere un uomo nel nome del proprio odio.
Faccio ancora in tempo a godere della sorpresa che compare tra quei lineamenti deformi, lo stesso sguardo di mio padre quando l’ho trapassato con la spada.
Davanti a una simile vista, persino il fuoco che mi avvolge quando salgo sulla pira può essere dimenticato.
Ormai ridotto a una torcia umana, trovo comunque la forza di ululare gioia, poi incespico tra le ossa semicarbonizzate e rotolo oltre la pira, fino a sprofondare nella fossa scavata dal cultista.
Dovrei essere morto, eppure il mio essere resta intrappolato in questo corpo consumato, permettendomi persino di sentire le parole di Meselim.
- Il fuoco è stato profanato e con esso ciò che restava della tua umanità. Ora puoi rinascere sotto nuova forma, avendo come utero questa terra maledetta e come liquido amniotico la tabe che filtra dai corpi in decomposizione. Come un seme sepolto nel terreno, ciò che sei ora in potenza, diverrà atto nella volontà degli Altri Dei.
Poi tace e il mio corpo viene sepolto sotto le altre carcasse.
***
I primi vermi sono piccoli e voraci, crudeli bestie che filtrano dalle tane che hanno scavato nelle carni decomposte degli altri cadaveri. Consumano in fretta ciò che resta dei muscoli carbonizzati, ma il loro viscido rosicchiare attrae presto altri razziatori, più grossi e forti.
I nuovi arrivati hanno denti aguzzi e bocche fameliche e cominciano a consumare le ossa annerite per nutrirsi del loro midollo. Anche il loro pasto, però, ha breve durata, poiché viene interrotto da creature ancora più abominevoli, vermi-funghi che ormai hanno le dimensioni di grossi serpenti. Soddisfatta la fame, essi depongono le loro spore nelle ossa, ormai cave, fino a riempirle del tutto.
Poco alla volta, le larve maturano, si ingrossano e si uniscono tra loro, fino a spaccare i nidi che le hanno cresciute. Sono voraci, anche più delle creature che le hanno precedute, perché ognuna di loro è frutto della fusione di centinaia di altre spore.
Spinte dall’impulso della fame, piantano i loro tentatoli nei corpi che li circondano e, quando non possono nutrirsi da sole, mordono i compagni vicini e ne diventano i parassiti.
Poco alla volta, le migliaia di mostruosità che scavavano nel buio diventano parte di un organismo sempre più complesso e sviluppato, carne e sangue di un’unica creatura.
Poi, esse dimenticano ciò che erano state e la somma dei loro istinti si raccoglie attorno a un unico pensiero.
È il mio io che nasce, la consapevolezza di esistere e di andare oltre le singole componenti del mio corpo.
Quando i miei istinti si separano del tutto da quelli delle bestie che mi hanno formato, un impulso irresistibile mi spinge a farmi strada nelle carcasse che sono state il mio nido. Per la prima volta, non è la fame a dirigere le mie azioni, ma qualcosa che ancora non comprendo appieno.
Poi le mie mani trovano il vuoto e i mei occhi abituati al buio vengono bagnati per la prima volta dalla penombra. Stupito da questo miracolo, abbatto le ultime macabre barriere e striscio fuori, coperto dal sangue di ciò che era stato il mio alimento.
Un silenzio mi coglie davanti alla profondità dell’abisso che mi circonda, così diverso dal nido in cui sono nato. Emozioni sconosciute mi invadono e sconvolgono la mia mente ancora acerba.
Infine, lancio nell’aria crepuscolare un lungo e struggente richiamo, come se volessi affidare all’oscurità il mio tormento.
Dopo pochi istanti, l’eco di molti ululati mi giunge in risposta e vedo centinaia di occhi rossastri emergere sulle cime delle colline di corpi.
Scopro le fauci affilate in un sorriso sinistro e mi dirigo verso di loro. La carne e il sangue mi chiamano ed è ora che prenda posto tra i miei fratelli.
Come sempre, do autorizzazione a Jackie a pbblicare quesrto racconto sullo skanna