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Skannatoio, Ottobre 2014, edizione 34

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view post Posted on 5/10/2014, 15:50
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Il battito della Terra
di Nazareno Marzetti


Un colpo.
Seguito da un altro colpo.
Poi tre colpi veloci.
Di nuovo un colpo. I quattro mazzuoli si alzarono insieme e picchiarono sulla pelle tesa dei tamburi in perfetta sincronia. Poi di nuovo in alto e altri tre colpi di propagarono sulle onde di un oceano che pareva adeguarsi al ritmo dei tamburi. I quattro suonatori tenevano gli occhi chiusi, persi nel ritmo della loro stessa musica, annichiliti in una dimensione solo loro, grandi come il pianeta e piccoli al cospetto del cosmo. Un ritmo costante e sempre uguale che dal falò saliva sino alla vetta del vulcano e si riversava in ogni angolo del mondo.
Non avrebbero saputo dire per quanto tempo suonarono, né quanto passò prima che aprissero gli occhi, cercando nel familiare paesaggio del basso promontorio la loro identità. Gli echi dei loro tamburi risuonavano ancora.
L'uomo coperto di piume prese una sigaretta acciaccata dai suoi jeans e sollevò la maschera da uccello per soffiare il primo fumo verso il cielo fitto di stelle. Alla sua destra la ragazza dalla pelle cappuccino attizzò il fuoco e nascose una ciocca di capelli neri nella maschera di scaglie ramate.
«Fiamma» la chiamò la maschera dall'altra parte del fuoco, un cetaceo che copriva il corpo fin sotto l'inguine. «C'è qualcosa che ti preoccupa?»
«Non è niente» rispose, senza alzare gli occhi dal falò. «È solo...»
«È solo?» la spronò.
«Questa mattina è venuto un tipo strano. Ha fatto domande in giro.»
«Un tipo tarchiatello, capelli bianchi e baffoni?»
«Ah-ah. Ne sai qualcosa?»
«L'ho incontrato oggi.»
«Sarà uno dei tanti curiosi della leggenda.» La maschera di testuggine liquidò la faccenda con un gesto della mano, facendo vibrare il carapace che gli nascondeva la schiena.
«Sì, ma era insistente.»
«Troppo insistente» confermò Fiamma. «Stamattina è stato quasi un'ora al bar a far vedere le sue foto.»
«Quali foto?» chiese l'uomo piumato soffiando via un po' di fumo.
«Aveva delle foto sfocate che ci ritraevano» rispose la maschera da cetaceo.
«Già. Mi sono divertita un po' a smontare le sue teorie.» Fiamma sorrise. «L'ho mandato via con la coda tra le gambe.»
«Be', male che vada, troverà quattro pazzi che si divertono a passare la serata intorno a un falò vestiti da idioti.» L'uomo si alzò, gettando la cicca nel falò «Io vado.»
«Meglio se teniamo un profilo basso per un po'» disse la testuggine. «Hai capito Vento? Vale anche per te.»
Questo rispose con un gesto della mano.
«Vado anche io.» La ragazza si sistemò la maschera ramata «Oceano, ci pensi tu a spegnere il falò?»
«Mh.»
«Buona notte.» Salutò, allontanandosi.
«Ora sei tu ad avere qualcosa che non va» commentò l'uomo tartaruga, infilando una mano sotto la maschera da cetaceo, per accarezzare i fianchi.
«Forse.» Oceano sospirò. «Credo di sapere chi è Fiamma.»
«Come...?»
«Stamattina, nel bar dove lavoro, è venuto questo tipo con le sue foto. Si è messo a fare domande su di noi e mostrava le foto a tutti. E c'è questa cliente fissa. È l'unica che gli ha dato corda, per poi denigrare le sue teorie. Avranno litigato per un'ora, poi se ne è andato con la coda tra le gambe.»
«Magari può essere una coincidenza.»
«Lo spero» commentò Oceano, rannicchiandosi tra le sue braccia.
«Del resto non possono veramente sperare che queste maschere ci nascondano per sempre.»
Oceano si irrigidì «Devono farlo! Nessuno deve sapere chi siamo, neanche tra di noi.»
Roccia appoggiò il mento sulla sua spalla «Voglio solo conoscere la donna di cui mi sono innamorato.»
«La donna... già.» Si liberò dall'abbraccio. «Meglio andare. Devo svegliarmi presto che ho l'apertura. Ci pensi tu alle braci?» Si allontanò senza aspettare la risposta.
«Ci penso io» mormorò il ragazzo, sfilandosi il carapace prima di spegnere quello che rimaneva del falò.
Le luci degli alberghi delineavano la curva della baia, un altro universo dal quale giungeva una musica così debole da non riuscire a sovrastare il battito dei tamburi che ancora risuonava nell'aria.

«Buongiorno Clarisa. Cheese cake e uova strapazzate?»
«Ciao Kesley, sì» rispose l'ispanica sedendosi al bancone. «E spremuta d'arancia, grazie» aggiunse, sistemando una ciocca ribelle.
«Arrivano.» Kesley chiamò le uova finendo di pulire i tavoli. «Per lei?» chiese al ragazzo appena entrato.
«Uh? Ehm... Prendo un caffè» rispose questo, sedendosi ad un tavolo su cui il sole disegnava strisce oblique.
«Un caffè. Arriva.» Kesley mise su un piattino la fetta di cheese cake e riempì una tazza di caffè.
«Il tipo di ieri si è fatto più vedere?» chiese Clarisa.
«Il pazzo con i baffoni? No.» Servì il dolce e portò il caffè al ragazzo filippino «Mi avrebbe meravigliato il contrario dopo come l'hai trattato» aggiunse, sorridendo.
«Be', se ripassa, ne ho ancora un paio.»
«Se ripassa, ti chiamerò. Ecco le uova.»
«Tu che ne pensi di tutta questa storia?» chiese la ragazza, giocherellando con la forchetta da dolce.
«Be'... la leggenda dei guardiani gira un po' da sempre.» Indicò il murale che rappresentava quattro uomini con fattezze di animale che ballavano intorno al fuoco. «Fa folclore, e attira i turisti.»
«Una manna, insomma.»
«Alla fine il tipo non è più pazzo degli altri.»
«Su questo ho i miei dubbi.» Sorrise.
«Non dovremmo meravigliarci se ogni tanto arriva qualche esaltato. Anzi, ci fa un po' di pubblicità.»
«Vero. Però non vorrei che...» lasciò la frase in sospeso e Kesley non insistette.
La musica riempì il locale, mentre il barista continuava a riordinare i bicchieri appena tolti dalla lavastoviglie. Clarissa finì il dolce e affrontò le uova e il ragazzo filippino era giunto alla fine del giornale per la terza volta.
Entrarono un paio di americani, ordinando un paio di toast e una coca. La donna si lamentò più volte del caldo degli insetti e di quanto sarebbe stato meglio passare le vacanze in qualsiasi altro posto civilizzato. Quando uscirono Kesley e Clarisa si scambiarono uno sguardo e trattennero una risata.
«Metto un po' di Pink Floid?» chiese il ragazzo, dirigendosi al juke box ravviando i ricchi ribelli.
«Come si chiama la ragazza che lavora qui?» chiese, invece, il filippino.
«Dici Nalani? O Kala?»
«Quella che fa la mattina.» Il tono era stranamente basso.
Kesley si bloccò. «Non c'è nessuna ragazza che fa il turno la mattina.»
«Avrò sbagliato bar.» Lasciò i soldi sul tavolo e uscì.
«Allora questi Pink Floid?» Clarisa si avvicinò al ragazzo che ancora guardava il juke box con la monetina in mano.
«Ah, sì.» Kesley infilò la monetina e selezionò una canzone. «Senti... se i guardiani esistessero veramente...?»
«Ecco... Sarebbe interessante, no?»

Come ogni sera, Vento era arrivato per primo e aveva già preparato il falò. Il posto era diverso, ma non era mai stato un problema: in qualche modo sapevano sempre dove riunirsi. Fiamma arrivò poco prima che le ombre del crepuscolo divenissero fitte da non distinguere i contorni del vulcano dormiente. Accese il fuoco con consumata abilità, mentre l'uomo uccello soffiava via il fumo dell'ennesima sigaretta.
«Ciao Oceano» salutò quando la figura grigiastra si avvicinò al fuoco acerbo. «Il tipo si è fatto poi rivedere?»
«Ciao. No. Ho saputo che sta ravanando nella parte più interna dell'isola.»
«Ravanando?»
Oceano rise, piazzando il suo tamburo verso est «Scusa... cercando...»
«In modo particolarmente fastidioso» concluse Fiamma. «Ah, ecco Roccia.»
«Ciao.»
«Ciao ragazzi» mormorò l'uomo sotto il carapace, appoggiando a terra il suo tamburo.
Senza aggiungere niente, anche Vento e Fiamma sistemarono i loro tamburi. Tutti presero i mazzuoli e li sollevarono in aria, chiudendo gli occhi e aspettando in un collaudato rituale. Li abbassarono insieme, colpendo il tamburo in una sincronia imperfetta. Rialzarono i bastoni, ma i colpi caddero come una piccola pioggia. I tre colpi furono uno scrosciare quasi indistinto. Ricominciarono, ma non vi era traccia dell'armonia di quell'unico battito.
«Non ci siamo» disse per tutti Vento, appoggiando il battente sulla membrana.
«È vero.» confermò la ragazza drago «Che ti succede Roccia?»
Il tarchiato guardiano fissò il proprio tamburo senza rispondere e Oceano si mosse a disagio.
Fiamma spostò lo sguardo tra i due, senza capire. «Allora? Voglio una risposta.»
«Oceano... Come si chiama il bar dove lavori?» chiese Roccia, senza alzare lo sguardo.
«Non possiamo conoscerci se non come guardiani.» Il tono di Oceano suonava come colpevole alle orecchie della donna.
«Almeno dimmi che non è il Kanakani» insistette Roccia.
Oceano non rispose e quel silenzio divenne una risposta. Fiamma si coprì la bocca con le mani e Roccia sprofondò ancor di più nei suoi cupi pensieri.
Vento ne approfittò per accendere un'altra sigaretta. «A questo punto è meglio se vi chiarite.»
«Ma... le regole...»
«Le avete già infrante.» Soffiò via il fumo.
«Kesley?» chiese Fiamma.
«Si Clarisa» rispose Oceano. «Perché sei venuto al bar questa mattina?» chiese a Roccia.
«Te l'ho detto!» rispose Roccia con la voce che gli tremava. «Volevo conoscere la donna che amo. Perché non mi hai detto che sei un uomo?»
«All'inizio pensavo che te ne fossi accorto» si giustificò Oceano. «E poi... avevo paura che avresti reagito male.»
«Male? Male è il minimo!» urlò il filippino, con la voce che divenne subito roca«Dovevi dirmelo subito!»
«Be', scusa, non ho pensato di dirti “ah, prima che ti innamori di me, guarda che sono un maschio”! Non ho pensato proprio che mi scambiassi per una donna!»
«In effetti Oceano è sempre stata una donna» intervenne Vento. «Almeno nelle ultime generazioni. È normale che l'abbiamo dato per scontato.»
«Ma questo non cambia niente! Dovevi dirmelo!»
«Maschio o femmina, sono sempre io!»
«No, non so più chi sei!»
«Smettetela!» L'urlo di Fiamma sovrastò le due voci. L'eco del suo urlo si disperse in lontananza. «Sì, c'è stata un'incomprensione.»
«Incomprensione?» ringhiò Roccia.
«Anche io avevo dato per scontato che Oceano fosse una ragazza, ma non credo che Kesley volesse prenderci in giro.»
«Non avevo capito che mi consideravate una donna» si giustificò. «È diventato palese solo pochi mesi fa.»
«E in tutti questi mesi non ti è venuto in mente neanche una volta di dircelo?» lo accusò Roccia.
«Ogni notte.»
«E perché non l'hai fatto?» chiese Fiamma.
«È che... Io... Non lo so.»
Roccia scattò in piedi, urlando qualcosa in filippino. Gli tirò un pugno, facendogli cadere la maschera a terra.
Il silenzio cadde su di loro congelando la scena. Poi Roccia si sedette davanti al suo tamburo, imitato da Oceano e dagli altri guardiani. Iniziarono a colpire la membrana,questa volta in sincronia, ma il suono che ne traevano era ovattato e il ritmo incoerente. Sentivano che non funzionava, ma sapevano che non potevano lasciare che la notte trascorresse nel silenzio.

Quella mattina Ikaika non riusciva a concentrarsi sul lavoro. Non che ci fosse bisogno di molta concentrazione per tagliare l'erba, ma dopo che aveva rovesciato la cesta della lavanderia e arenato il tosaerba sul vialetto d'ingresso il padre lo obbligò a prendersi la giornata di riposo.
Vagò per le vie nascoste dell'isola, massaggiandosi la mano. Non era la prima volta che faceva a pugni, e allora perché, si chiese, la mano continuava a fargli male? Il suo pensiero andò più volte a Oceano e a Kesley. Si chiese come aveva fatto a non accorgersene prima. Certo, la voce era completamente diversa, e di lei... lui vedeva solo le braccia. Però c'erano stati tanti altri indizi. Perché non aveva saputo coglierli? Era riuscito a capire che veniva dall'Europa per quel suo assurdo accento, aveva intuito che gli piacesse cucinare per l'odore che si portava spesso dietro. Ma non era riuscito a capire la parte più importante. Avrebbe dovuto dirglielo. Perché non glielo aveva detto?
Si ritrovò davanti al Kanakani. Rimase per un lungo secondo indeciso, e infine entrò.
«Buongiorno» disse Kesley al suono del campanello, poi lo riconobbe e lo sguardo cambiò. «Un caffè?» chiese, ma dalla sua voce era scomparsa la nota allegra di un attimo prima. Il filippino fece un cenno con la testa, andando a sedersi a uno dei tavoli vuoti.
Il barista appoggiò il vassoio su un tavolo, servendo delle coppe gelato ai clienti. «A voi» disse con il suo solito tono spensierato. «Jacob, altre due uova strapazzate e bacon, grazie» ordinò verso la finestra della cucina. Versò un'abbondante tazza di caffè con una mano, prendendo un piattino dall'espositore con l'altra. Il bar era abbastanza affollato a quell'ora, per lo più turisti. Clarisa, seduta al bancone, girava il bicchiere di arancia tra le mani. Ikaika non aveva neanche il giornale da sfogliare, rimase seduto a guardare fuori, lanciando appena qualche occhiata al bancone e massaggiandosi la mano.
«Il caffè.» Kesley lasciò trapelare un po' di stanchezza nella voce allegra.
«Grazie» rispose. Voleva dire qualcos'altro, ma c'era troppa gente.
Qualcuno mise su un vecchio successo di Bonnie Tyler e una famiglia rumorosa entrò sbuffando. Quando riportò lo sguardo verso il bancone si trovò davanti la ragazza ispanica.
«Ciao» fece lei.
«Ehm... ciao... Clarisa, giusto?»
«Sì. E tu?»
«Ikaika.»
«Ti dispiace se mi siedo?» chiese, sedendosi di fronte a lui. «Allora? Sei venuto a chiedergli scusa?»
«Non sono io che deve delle scuse.»
«Allora perché sei venuto?»
«Hai ragione.» Ikaika fece per alzarsi.
«Non ci provare.» La ragazza lo trattenne appoggiandogli una mano sul braccio. «Tu non scappi così facilmente, chiaro?»
Ikaika tornò a sedersi, guardandosi la mano. «Il livido non si vede più» constatò.
«Correttore. Come pensi che riesca a nascondere le occhiaie tutte le mattine? Modestamente gli ho insegnato io ad usarlo.»
«Siete amici da tempo?»
«Da quando si è trasferito a Koranaso.»
«E non ti è mai venuto in mente...?»
«Be'... Che vuoi che ti dica? No, ma non ho mai cercato... insomma... mi hai capito.»
«Ha ingannato anche te.» La voce era roca.
«Senti, non è così grave...»
«Invece lo è!» La interruppe con voce troppo alta.
«Sì, ora calmati. Non ho bisogno di un'altra scenata e... Oh, no. Non ora.»
Il ragazzo seguì lo sguardo di Clarisa, fino a un signore con camicia ai gusti misti e cappello di paglia. Sul viso risaltavano un paio di baffoni bianchi e sotto il braccio teneva una cartellina.
«Io ho un impiccione da far fuori. Tu non pensare nemmeno di andartene.» La ragazza si alzò, andando a spalancare la porta appena l'uomo mise un piede sull'ultimo gradino. «Di nuovo a ravanare in giro?»
«Ravanare?» fece eco l'uomo.
«Clarisa, non mi spaventare i clienti» disse Kesley senza alzare la testa dal taccuino su cui stava scrivendo le ordinazioni.
«Oh, ma questo vecchietto non è un cliente. È solo un rompiscatole.»
«Signorina, porti un po' di rispetto.»
«Il rispetto è di chi se lo merita.»
La faccia tonda dell'uomo divenne paonazza «Non si permetta di parlarmi in questo modo!»
«E come dovrei parlarle, o sommo indagatore di menzogne e falsità?»
«Non sono falsità e glielo dimostrerò!»
«Oh, e come? Con foto mosse e sfocate?»
«No! Questa volta ho foto inequivocabili!» Agitò la cartellina «Mi faranno diventare famoso! Ho anche un video!»
«Ah, sarei proprio curiosa di vederle, queste foto» lo provocò.
«Ecco, vedrà, vedrà.» Aprì la cartellina, ma tutto il contenuto scivolò, sparpagliandosi sul pavimento. «Le mie foto!» esclamò, chinandosi a raccoglierle con tale veemenza che urlò: «La mia schiena!»
«Oh, mi dispiace tanto» sogghignò Clarisa. «Mi permetta di aiutarla.» La ragazza si chinò a raccogliere le foto, mostrando le sue curve e facendo scivolare via quelle che li ritraevano troppo bene. Era meglio se la loro rimanesse una leggenda. Una delle foto ritraeva Kesley senza maschera. Finì sotto il juke box.
«Lasci stare le mie foto!» urlò il signore, cercando di piegarsi ma bloccato dalla schiena. I clienti sembrarono trovare divertente la scenetta.
«Ecco, a lei.» Clarisa gli mise in mano una cartellina piena di foto stropicciate. «Le consiglio di non sforzare troppo la schiena. Mia cugina fa degli ottimi massaggi. Se mi dice dove alloggia, gliela mando in ...» un brontolio profondo interruppe la frase a metà. Ci fu agitazione tra i clienti, e molti schizzarono in piedi. Poi le bottiglie sui ripiani presero a tremare, seguite dai tavoli e le sedie. Clarissa e il signore vennero spinti fuori da un americano nerboruto. Le foto si sparpagliarono di nuovo per tutto il locale. Kesley e Ikaika si scambiarono uno sguardo, poi iniziarono a urlare «Calma! Uscite ordinatamente. Non fatevi prendere dal panico!»
La scossa si fece più intensa. Le maschere appese alle pareti rovinarono a terra. Riuscirono a far uscire tutti i turisti in strada, dove presero a correre in ogni direzione, cercando qualsiasi cosa potesse somigliare a un riparo sicuro. Gli alberghi e i locali sulla riva vibrarono violentemente, alcune delle finestre saltarono. Dietro i solidi alberghi riservati ai turisti, tra le strade secondarie dell'isola, alcune palazzine crollarono su se stesse. Soddisfatto, il tremore cessò, ma dal mare si sollevò un'onda alta più di un uomo che si infranse sulla spiaggia trascinando diverse persone al largo. I due ragazzi si scambiarono uno sguardo di consapevolezza e, un attimo dopo, stavano correndo. Kesley, strappata via la camicia si buttò in mare insieme ad altri bagnini, mentre Ikaika si fece largo verso le rovine della palazzina crollata.
Mentre Kesley cercava di portare a riva quanti più bagnanti possibile, il filippino scavava e sollevava macerie impensabili per un essere umano. Non aveva bisogno che gli dicessero dove scavare: lo sapeva, come sapeva dove recarsi ogni sera. Afferrò una colonna di calcestruzzo sollevandola quanto bastò perché altri uomini potessero tirar via una signora, poi corse a spostare mattoni e calcinacci poco lontano. Scavò e scansò macerie finché non comparve una esile mano scura. Continuò a scavare, sempre più veloce, liberando anche la testa, i capelli neri sporchi di sangue. Troppo tardi: non c'era più vita in quel corpo. Lasciò la ragazza ai soccorsi, non poteva fermarsi: dei bambini piangevano intrappolati in una cavità formatosi sotto una parete di mattoni.
Kesley aveva affinato la tecnica dopo il primo turista portato in spiaggia: prendeva un galleggiante e si ributtava in acqua appena aveva lasciato il precedente naufrago a qualcuno, riprendendo appena fiato. Nuotava fino al disperso, gli infilava tra le braccia il galleggiante e lo trascinava a riva senza rallentare.
Si fermò dopo non sapeva neanche lui quanti viaggi. Non si udivano urla provenienti dalle onde, né si vedevano braccia in cerca di soccorso, ma una donna urlava «Alex!» disperata. Non ci fu bisogno di fare domande. Kesley si tuffò un'ultima volta, cercando quell'Alex che mancava all'appello. Chiuse gli occhi, ascoltando l'oceano con altri sensi. Le correnti, i pesci, le alghe, il fondo... Nuotò con tutte le sue forze, presa una boccata e si immerse sperando di non essersi sbagliato. No, eccolo. Il corpo di un bambino galleggiava immobile a qualche centimetro dalle rocce del fondo. Con un ultimo sforzo lo raggiunse e lo trascinò fino a riva dove i volontari della croce rossa iniziarono a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La madre che girava impotente intorno al gruppo. A niente valsero gli sforzi dei volontari o le urla e le preghiere della donna.
Dall'altra parte della spiaggia, anche Ikaika si era fermato, guardando nella sua direzione. Si avvicinarono con passo lento e stanco. Il mare aveva lavato via il correttore, mostrando il livido sullo zigomo del ragazzo, e il filippino era bianco di polvere e sudore.
«Quella ragazza è morta a causa mia» disse il guardiano della roccia quando furono a meno di un metro.
«Quel bambino è morto per colpa mia» confermò il guardiano dell'oceano.
Ikaika allargò le braccia e fece un cenno fugace con la mano. Kesley si lasciò cadere in quell'abbraccio.
Inginocchiati, l'uno nelle braccia dell'altro, erano come svuotati. Qualsiasi rancore, dubbio, errore che c'era stato tra loro si dissolse, in quel momento ciascuno capì l'altro, perché non c'era differenza alcuna tra loro. Qualcuno diede un colpo su un tamburo. Non sapeva bene perché, solo sentiva che doveva farlo. Un secondo colpo, accompagnato da un altro tamburo. Tre colpi. Un altro colpo, e qualcuno arricchì con le note di una chitarra. Un colpo e qualcun altro intonò una nenia antica come il mondo. Tre colpi.
Un colpo.

Autorizzo Jackie the ripper a pubblicare il racconto sullo skan magazine

Come mio solito ho voluto strafare e ho soddisfatto le specifiche due volte. :D

Ci sono due tabù nella storia:
I guardiani non possono mai vedersi in volto, conoscere le loro identità. Questo è il tabù "esplicito", quello con cui soddisfo la specifica.
Poi c'è un altro tabù, ben più implicito: i guardiani non devono mai litigare / provare risentimento / entrare in disarmonia.
Infrangere il primo tabù ha portato come conseguenza l'infrangere il secondo tabù e questo... alla morte della ragazza e del bambino.
 
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view post Posted on 6/10/2014, 13:47
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Custode di Ryelh
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Però, quanta gente che ha già pubblicato! Io ci sto lavorando, ma devo cominciare a tagliare, sennò con tutta la carne che ho messo al fuoco rischio di completare appena in tempo per la scadenza dello Skanna... quello di giugno prossimo si intende!


Shanda: esiste un'altra possibilità, ossia che dentro di te ci siano decine di migliaia di personalità sopite. Come motto potresti adottare "IL MIO NOME è SHANDA, PERCHè SIAMO IN MOLTI!" :p082: :p082:

Ok, cazzeggio time finito, si torna alle cose serie. Statemi bene!
 
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view post Posted on 6/10/2014, 14:36
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 6/10/2014, 14:47) 
Però, quanta gente che ha già pubblicato! Io ci sto lavorando, ma devo cominciare a tagliare, sennò con tutta la carne che ho messo al fuoco rischio di completare appena in tempo per la scadenza dello Skanna... quello di giugno prossimo si intende!


Shanda: esiste un'altra possibilità, ossia che dentro di te ci siano decine di migliaia di personalità sopite. Come motto potresti adottare "IL MIO NOME è SHANDA, PERCHè SIAMO IN MOLTI!" :p082: :p082:

Ok, cazzeggio time finito, si torna alle cose serie. Statemi bene!

Vedi di partecipare perché siamo solo in 3 e non mi va che salti anche questo skan
 
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ilma197
view post Posted on 6/10/2014, 16:54




CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 6/10/2014, 14:47) 
Però, quanta gente che ha già pubblicato! Io ci sto lavorando, ma devo cominciare a tagliare, sennò con tutta la carne che ho messo al fuoco rischio di completare appena in tempo per la scadenza dello Skanna... quello di giugno prossimo si intende!

Hai tutta la mia comprensione! Io sto lavorando su un'idea che mi piace tantissimo, ma sono straindietro... spero tanto di farcela! :1392391933.gif:
 
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Ceranu
view post Posted on 6/10/2014, 17:23




Io ho quasi finito, non sono assolutamente soddisfatto, ma dovrei postare comunque entro la scadenza.
 
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view post Posted on 6/10/2014, 20:25

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Tempo ce n'è ancora, niente panico ;)

Poi, per metà/fine mese, forse riesco a far partire il prossimo speciale :)
Di cui però ancora non vi dico niente, perché devo sistemare alcune cose, chiarirmi le idee su un paio di modalità e sondare il terreno con chi mi dovrebbe aiutare :P

Però sappiate che sto lavorando per voi dietro le quinte! ;)

Lo speciale potrebbe essere molto interessante, se se riuscissi a organizzarlo per come l'ho in mentei :)
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 7/10/2014, 06:52




Denti e metallo

Nemmeno quella sera Mario era in grado di toccare la forchetta con i denti.
La posata era appoggiata alle sue labbra, certo, ma a fare entrare in contatto smalto e metallo non ci pensava proprio.
Era una peculiarità della quale era a conoscenza la sua famiglia e qualche fidato amico.
Per il resto, custodiva gelosamente la faccenda ed il disagio ad essa correlato all'interno della sua mente.
Improvvisamente gli venne da starnutì, ed il contatto tanto evitato avvenne erroneamente.
Un attimo di esitazione.
Suo padre, che stava sorseggiando un po' di vino tra un boccone e l'altro, si fermò con il bicchiere a mezz'aria.
Poi Mario tolse la forchetta di bocca, toccò con la stessa il tavolo nel consueto rituale e riprovò ad infilzare un altro pezzettino della bistecca che stava mangiando.
Il padre, rassegnato, finì di portarsi il bicchiere alla bocca e bevve un piccolo sorso.
La madre nel frattempo si lasciò scappare un sospiro.
Tutto come sempre.
Anche questa, per quanto bizzarra, era una garanzia che scandiva le giornate della loro famiglia.

“Non sei affatto pazzo” gli aveva detto il dottor Trevi, suo medico di famiglia da sempre, “soffri solamente di D.O.C.”
A quel punto il povero Mario aveva sgranato gli occhi e, per un piccolo tragico attimo, aveva pensato al peggio, salvo poi concentrarsi su quel “solamente” utilizzato dal medico come intercalare.
“D.O.C. è l'acronimo che sta ad indicare il disturbo ossessivo compulsivo" aveva ripreso subito “ed è una patologia molto più diffusa di quel che si potrebbe pensare. Può essere curata e controllata, ma si deve accettare il fatto che non verrà mai sradicata dalla persona che ne soffre. Si deve imparare a conviverci.
Sei semplicemente ossessionato da dei pensieri che ti appaiono come intrusivi e non tuoi.
Pur essendo consapevole dell'assurdità di tali pensieri ti comporti come se, sotto sotto, un po' ci credessi. Di conseguenza ti vedi costretto ad eseguire dei riti scaramantici che, se non messi in atto, potrebbero portare a delle conseguenze molto gravi a te o alle persone a cui vuoi bene. Anche questo stesso pensiero è intrusivo in quanto assurdo e non reale ma, visto che un po' ci credi, la consapevolezza di ciò comunque non ti impedisce di svolgere i rituali.”
La conversazione con il dottor Trevi era durata una quarantina di minuti, alla fine dei quali aveva qualche conoscenza in più su sé stesso e un po' di fiducia in meno sull'affidabilità della mente umana.

Dopo quel fatidico colloquio, nonostante le conoscenze acquisite, era iniziata l'avventura di Mario all'interno del meraviglioso mondo delle ossessioni.
Come in una perfetta coreografia, le diverse manie ossessive si intervallavano e si davano il cambio in un flusso continuo che gli avvelenava la vita giorno dopo giorno.
Prima dello scatenarsi della sindrome ossessiva era stato un ragazzo incondizionatamente felice ed estroverso, molto legato alla famiglia, soprattutto al nonno paterno.
Ed era stata proprio la figura del nonno la sua fortuna e rovina al tempo stesso. Con lui Mario aveva compiuto i primi passi fondamentali della propria adolescenza: andare a pescare, bere grappa fatta in casa, saper riconoscere le principali specie di funghi commestibili. Nonno Armando, che non si chiamava Armando ma Mario anche lui (Armando per gli amici, i parenti e per il folclore paesano che, come succede spesso, ha delle logiche tutte sue), aveva una vera e propria predilezione per il nipote, ma allo stesso tempo ne criticava spesso l'animo troppo sensibile.
“Finirai per farti male, se non ti abitui alle bastonate di quella vecchia strega che è la vita” ripeteva sempre al figlio di suo figlio durante le loro escursioni nel bosco. Dal canto suo, Mario accettava le critiche e si impegnava a farsi vedere uomo forte, per onorare il carisma che nonno Armando irradiava spontaneamente.
La morte improvvisa - dovuta ad un ictus emorragico - di quella figura così fondamentale, era stata una doccia fredda.
Troppo fredda.
Poco tempo dopo il funerale per Mario erano iniziate le “voci dentro la testa”: era questo il termine che aveva coniato nella mente per definire quelli strani pensieri che lo opprimevano.
Il sintomo scatenante, che lo aveva portato a chiedere l'aiuto del suo medico, era la paura dello sporco. Qualsiasi cosa toccasse, si sentiva poi costretto a decontaminare la sua pelle.
Di conseguenza lavava, lavava e lavava ancora le mani fino a provocarsi delle vistose abrasioni cutanee. Il processo poteva durare minuti come ore.
Dopo aver acquisito nozioni sul suo disturbo, era intervenuta la paura di spegnere la luce: di conseguenza, prima di uscire da una stanza durante le ore serali, non si sentiva mai pronto e abbastanza concentrato per premere l'interruttore nel modo giusto, accendendo e spegnendo compulsivamente per tre volte o per un numero di volte che fosse multiplo di tre.
E più era consapevole della non veridicità delle sue paure, più si sentiva frustrato e irascibile.
L'ultima arrivata, ma non meno bizzarra delle altre, era la fobia di toccare la forchetta con i denti durante i pasti.
Nonostante i suoi tentativi, proprio non riusciva a dar luogo a questo contatto. Avvertiva la solita intrusione mentale che gli diceva che la forchetta aveva un'anima e che addentandola, avrebbe potuto ferirla o ucciderla. Se lo avesse fatto, tutto il popolo delle forchette gliel'avrebbe fatta pagare.
Se erroneamente il contatto tra denti e metallo aveva luogo, Mario era costretto a picchiettare con l'estremità arrotondata della posata sulla superficie del tavolo per cinque, dieci o quindici volte.
Aveva spiegato ai suoi genitori, come aveva fatto anche per le altre ossessioni, il tipo di pensiero del quale era vittima. Come sempre loro si erano dimostrati molto comprensivi verso la patologia del loro unico figlio e, sotto sotto, credevano che tra le tante questa potesse essere un'ossessione dalla buona gestibilità.
Quanto si sbagliavano.
Era iniziato un calvario fatto di cene infinite e tensione latente in un momento della giornata che per molte famiglie rappresentava invece un momento di condivisione e relax.
Tanto che, parlando tra di loro, i genitori avevano iniziato a porsi seri dubbi sulle possibilità di guarigione o di miglioramento di loro figlio.
“Non avrei mai pensato di arrivare a dirlo, ma rimpiango il periodo in cui dovevamo comprare quantitativi industriali di sapone” aveva confidato il padre alla madre in un momento di scoraggiamento.
E non si poteva biasimarlo.
Non era facile affrontare una cena con Mario: tutta la sua difficoltà nel portare a termine un pasto era appesantita dal bisogno di silenzio assoluto necessario a concentrarsi.
Questa strana ossessione lo stava trasformando in un eremita sociopatico. Aveva smesso di frequentare quasi tutte le persone che conosceva per paura che venissero notate le sue stranezze; soffriva per la situazione ed era un sentimento ampiamente motivato. Durante gli anni delle scuole superiori, che considerava ancora i migliori della propria vita, aveva coltivato buoni rapporti dai quali erano nate ottime amicizie che aveva portato avanti per anni.
Poi era arrivato il grande tiranno della sua mente - il D.O.C. - e tutto aveva subito una brusca mutazione.
Per come la vedeva lui, l'arrivo e l'oramai lunga permanenza nella sua mente dell'ossessione della forchetta, lo poneva in una definitiva posizione di malato cronico perenne.

Preso da questi ricordi, terminata la sua lunghissima cena (i suoi genitori avevano già finito e si erano poi trasferiti sul divano a guardare la tv), Mario andò in camera oppresso da amare considerazioni sulla sua vita.

La mattina del cambiamento, si svegliò di buon'ora.
Prima di tutti e prima del sorgere del sole.
Scese in soggiorno e si sedette sul divano. Teneva tra le mani un diario.
Non si trattava di un diario adolescenziale farcito di spensieratezza, fototessere e adesivi ma bensì del suo diario clinico, sul quale gli era stato consigliato di annotare riflessioni, stati d'animo e paure.
Era stanco di vivere in quella maniera.
Era giovane e fuori dalle mura di casa c'era un mondo, fatto di potenziali esperienze, di occasioni, di delusioni e di rischi. Ma era un mondo che gli spettava di diritto. Doveva solamente allungare la mano e prenderselo.
Aveva sofferto a sufficienza.
Come gli aveva detto il dottor Trevi, non avrebbe potuto liberarsi del suo disturbo ma piano piano avrebbe potuto fare in modo di renderlo accettabile e vivibile.
Aprì il diario e lo sfogliò rapidamente fino ad arrivare a una pagina bianca. Prima di scrivere pensò che da quel giorno anche lui sarebbe stato un foglio bianco, sul quale avrebbe scritto in prima persona il proprio destino.
Poi si scrollò di dosso gli ultimi pensieri e scrisse semplicemente, a caratteri particolarmente grandi e in stampatello maiuscolo, due parole molto chiare: MAI PIÙ.
Mise da parte il diario, si alzò e si incamminò verso la cucina.
Per un momento gli venne da ridere, perché nella sua testa stava suonando Up where we belong di Joe Cocker. Era un buon segno, che stava ad indicare il ritorno della sua vecchia autoironia.
Spazzò via ogni distrazione e puntò diritto al cassettone delle posate.
Lo aprì ed individuò la sua solita forchetta, quella con il manico in plastica verde scuro.
Da bravo ossessivo, aveva sviluppato la fissazione per lo stesso oggetto che giorno dopo giorno era diventato anche la sua croce.
Senza pensarci minimamente la mise in bocca e... strinse i denti.
Strinse fortissimo, come non esistesse un domani.
Strinse fino a sentire le tempie pulsare e fino a provare dolore.
Non capì precisamente quanto tempo rimase in quello stato, ma seppe di essere nella giusta direzione. Sudava freddo ma stringeva.
Poi, piano piano, iniziò a mollare la presa. Guardò la forchetta e dovette resistere all'impulso automatico di picchiettare sul piano della cucina. Era una tendenza molto forte, ma doveva resistere.
Lo fece.
Aprì lo sportello all'interno del quale era contenuta la pattumiera e gettò via la forchetta.
“A noi due, vita bastarda” disse fra sé e sé mentre tornava in soggiorno ad attendere l'inizio della giornata.

...quella mattina la forchetta aveva capito tutto già dai primi rumori. Oramai conosceva Mario e provava un sentimento vero verso di lui. Era ironico pensare che l'amore che sentiva per il suo proprietario si sarebbe potuto esprimere solo attraverso l'accettazione del proprio annientamento.
Silenziosamente, irradiò delle vibrazioni tutto attorno per salutare le proprie compagne di cassetto. Queste risposero commosse, accettando tacitamente il dolore per l'imminente perdita della loro amica dal manico verde.
Quando Mario aprì il cassetto, lei vibrò per l'ultima volta, solo per lui che non avrebbe mai potuto sapere, che era ignaro come il resto dell'umanità, ma una parte delle sue ossessioni racchiudeva una grande verità: le forchette potevano avere un'anima e di conseguenza vivevano e, a volte, morivano.
E fu proprio prima di venire schiacciata dai denti di Mario che la forchetta visse intensamente i suoi ultimi secondi di vita.
Passò i suoi ultimi attimi amando, come nessun'altra posata era stata capace di fare nella storia.
“Ti voglio bene Mario” pensò vibrando. Poi il nulla.



Autorizzo la pubblicazione su Scan Magazine
 
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Ceranu
view post Posted on 7/10/2014, 21:36




Genesi di un eroe

di Francesco Nucera



Il rumore delle posate, che battevano contro i piatti, riecheggiava nella mensa affollata. Il solito chiacchiericcio si alzò potente, riempiendo il salone dalle pareti azzurre. Grosse vetrate permettevano al sole di illuminare quelle piccole persone, che si gettavano a capo fitto sui piatti colmi di cibo.
Alex, seduto in disparte, osservava i suoi colleghi. Portava delle cuffie, che non erano collegate a nulla. Non gli piaceva la musica. Ma sapeva che così nessuno l'avrebbe disturbato. O almeno lo sperava.
«È libero questo posto?»
Alex continuò a fissare il vuoto, convinto che quella voce femminile avrebbe presto desistito.
«Mi scusi,» Dei capelli rossi gli comparvero davanti. «è libero?»
Il ragazzo fece finta di accorgersi solo allora della domanda. Sgranò gli occhi e sfilò le cuffie.
«Sì, mi scusi.» Il ragazzo allargò il braccio, facendole cenno di accomodarsi.
In tutta risposta, la giovane afferrò le cuffie di Alex e se le portò alle orecchie.
«Che cosa ascolti?» chiese sorridendo.
«Veramente io...» il volto di lui avvampò. Passò la mano sulla guancia e si gratto la poca peluria che voleva essere una barba.
«Bella musica.» La ragazza chiuse gli occhi e fece ondeggiare la folta chioma al ritmo di una canzone inesistente. «Anche a me piace molto,» Ammiccò .«Soprattutto in questi posti.»
Alex la guardò stupito. Era veramente bella. I capelli rossi le scendevano fin sulle spalle, roteando in boccoli leggeri. Aveva occhi verdi come le colline del nord, la pelle chiara e liscia, faceva risaltare le labbra cremisi, fra cui spiccava il più bel sorriso che lui avesse mai visto. Indossava un lungo vestito bianco, che scendeva morbido sulle forme abbondanti.
«Mi chiamo Marica,» La ragazza allungò la mano tesa.
Alex continuò a guardarla a bocca aperta. Non gli piaceva essere disturbato, ma lei non lo stava facendo. Si alzò di scatto, con la gamba urtò la sua sedia che ruzzolò a terra. Nessuno degli altri sembrò accorgersene. Solo Marica portò una mano alla bocca per coprire il sorriso, che altrimenti l'avrebbe abbagliato.
«Scusa, io sono Alex.» Strinse la mano mentre si inginocchiava a raccogliere la sedia. «Accomodati pure.» Con il gomito spolverò la seduta e attese che lei si sistemasse.
«Piacere Alex. Che cosa fai qui?»
«Lavoro.» Alex, che nel frattempo si era rimesso al suo posto, abbassò lo sguardo sul tavolo.
«Allora abbiamo già qualcosa in comune.» Marica trattenne a stento una risata, poi sussurrò come se stesse per dire un gran segreto. «Ma credo che tutti siamo qui a lavorare.»
«Sì scusami,» Il ragazzo si picchiò il palmo sulla fronte. «cioè, io faccio cose con il computer.» Visibilmente agitato assecondò ogni parola con un gesto. «Prendo dei dati e boom.» Allargò il braccio urtando il bicchiere, che si rovesciò riempiendo d'acqua il piatto di lei.
Alex impallidì, tese i muscoli pronto a fuggire. Ma, la risata cristallina in cui scoppiò Marica, lo costrinse a bloccarsi. Non era come quella dei ragazzi che l'avevano sempre deriso, in lei c'era della magia. Gli occhi le si allungarono, formando delle leggere rughe agli angoli esterni, che si alzarono spinti dagli zigomi. Le labbra carnose divennero sottili, e mostrarono una fila perfetta di denti bianchi.
«Quindi tu non sei un chimico?» chiese Marica sistemando il bicchiere del ragazzo.
«No, io mi occupo del web, ma me la cavo anche in chimica.» Alex arrossì visibilmente.
Passarono altri minuti, in cui si susseguirono gaffe e approcci maldestri. Quando lui le passò l'olio le loro mani si sfiorarono. Quel contatto, per quanto minimo, procurò un brivido al ragazzo. Alex divenne paonazzo, e dovette trattenere gli istinti, che l'avrebbero portato ad amarla lì. Alla fine dell'ora di pausa, Marica estrasse una penna e scrisse qualcosa su un foglietto di carta.
«Se avessi voglia di pranzare ancora con qualcuno,» Porse l'appunto ad Alex. «questo è il mio interno.» La ragazza sorrise e si allontanò.
Alex rimase impietrito. Fra le dita teneva stretto quel bigliettino, ultimo contatto con il mondo reale. Le persone accanto a lui non esistevano più, la mensa era deserta. Solo l'ondeggiare sinuoso della gonna bianca di Marica, indicava che il tempo non si era fermato. Per qualche secondo indugiò con lo sguardo sui glutei di lei, che premevano leggeri contro il vestito. Una vampata di calore gli partì dall'inguine su fino allo stomaco. Alex si piegò leggermente in avanti, preoccupato che gli sguardi dei colleghi potessero notare il rigonfiamento dei pantaloni. Sorrise compiaciuto. Quella notte, pensando a quell'immagine, avrebbe sfogato la sua passione.

Seduto alla scrivania, con il monitor acceso, Alex non riusciva a ritrovare la concentrazione. Erano passate diverse ore da quando aveva conosciuto Marica, ma continuava a sentire il suo dolce profumo. Di tanto in tanto gettava un'occhiata al fogliettino appoggiato accanto al portamatite. Non gli sarebbe servito, nella sua mente erano ben impresse quelle quattro cifre, ma lo teneva lì, come a ricordargli che lei esisteva veramente. Alzò lo sguardo, alla ricerca di qualcuno con cui condividere quel momento, ma nella sua vita non c'era mai stata nemmeno l'ombra di un amico. Ghignò, e si mise a parlare con la pianta, che sua madre gli aveva regalato quando aveva saputo dell'ufficio privato.
«Ho un appuntamento.» Non stava più nella pelle. Guardò l'ora, e si corrucciò pensando che avrebbe dovuto aspettarne quasi ventiquattro.
«E se la chiamassi subito?» Batté ripetutamente le dita sulla scrivania. «Magari per un caffè.»
Si alzò e cominciò a camminare. Andava avanti e indietro nella stanza, prigioniero delle proprie ansie. Afferrò la maniglia della porta del bagno, di solito si rinchiudeva lì quando voleva scacciare la sensazione di inadeguatezza.
«Non credo mi risponda di no. Me lo ha dato lei il numero.» insistette rivolto alla pianta. «Io lo faccio.»
Corse fino al telefono, e compose il numero. Al primo squillo riagganciò. Completamente sudato si gettò sulla sedia girevole. Espirò e poggiò la fronte contro la scrivania.
«Non poso.» Rimase immobile per qualche secondo, pensando a quanto fosse un illuso. Marica era troppo bella per lui.
«Non è vero.» gridò Alex rivolto alla Pothos. «Tu non sei mia amica. Tu non vuoi il mio bene!»
Si alzò e andò incontro alla pianta.
«Lei mi vuole.» Rosso in volto dirottò verso la porta d'uscita. Dopo pochi passi si bloccò. Il telefono stava squillando.
Come poteva non averci pensato. Tutti avevano il riconoscimento della chiamata. Quella doveva essere Marica. Si fece coraggio, tornò sui suoi passi, e guardò il piccolo display. Era il suo numero.
«Pronto ciao Marica stavo pensando che se vuoi possiamo bere un caffè alle macchinette.» disse tutta la frase d'un fiato. Svuotato si appoggiò alla scrivania.
«Ciao Alex. Veramente io stavo andando a casa. Ma se vuoi, posso passare da te prima di uscire.»
Non aveva la voce scocciata. Quel tono lo avrebbe riconosciuto. Eppure sembrava titubare.
«No, fa niente.» Non voleva bruciarsi subito le sue carte. «Magari facciamo domani.»
«Come preferisci. Ora scappo. Buona serata Alex. Un bacio.»
La comunicazione si chiuse, ma il ragazzo rimase immobile con il telefono in mano. “Un bacio”, anche se virtuale, non erano molte le ragazze a dargliene, forse nessuna.

Quella notte Alex non dormì. Pensò a quei capelli rossi che gli sfioravano il viso, agli occhi verdi in cui si era perso per un secondo, al profumo della sua pelle chiara, e a quel sorriso capace di sciogliere il gelo che, gli attanagliava il cuore. Immaginò di sfiorarla, ma anche nei suoi sogni vigili ritraeva la mano, incapace di toccare una donna. Per farsi coraggio pensò a quelli come lui. Clark, Peter, James, e tutti gli altri. Loro lo stavano osservando da dietro le rilegature di plastica trasparente. Erano sempre stati suoi amici, quelli che come lui non avevano un posto in cui stare. Solo una cosa li differenziava, Alex non sapeva quale fosse il suo super potere, ma era certo che quando si fosse palesato, anche la sua vita sarebbe diventata stupenda.
Poco dopo l'alba si alzò di soprassalto dal letto. Corse in bagno, e si infilò sotto la doccia. Nonostante l'acqua ghiacciata, appena ripensò al sedere di Marica, si eccitò. Come gli succedeva spesso, il suo istinto ebbe la meglio, e con la mano intirizzita dal freddo, cercò quel piacere che nessuna gli aveva mai dato.
Soddisfatto andò davanti allo specchio, arrotolò l'asciugamano bianco alla vita, e osservò quel viso che tanto detestava. Passò una mano tra i capelli castani, cercando di dargli una forma. Nonostante fossero ancora bagnati, ad ogni passaggio riprendevano la loro posizione originaria.
«Non c'è nulla da fare.» sospirò. «Se almeno potessi eliminare questo.» Alex girò il volto verso sinistra, e di sbieco osservò il suo profilo. Probabilmente avevano ragione quei ragazzi che, alle superiori, lo prendevano in giro.
Con la mano coprì il naso, senza non sarebbe stato così male. Aprì la specchiera e prese una lametta nuova. La sollevò all'altezza degli occhi e osservò il riflesso della luce. Assorto, la girò un paio di volte. «Se fosse così semplice.» Sbuffò facendo cadere le spalle, e cominciò a radersi senza schiuma da barba.
Quella mattina, seduto sul pullman, osservò gli studenti. Erano rumorosi come sempre, eppure lui non borbottò nemmeno una volta. Subì tranquillo la loro felicità, forse era arrivato anche il suo momento per provare a vivere.
All'ingresso dell'ufficio salutò la guardia che, rispondendo, lo colse di sorpresa. Contento, Alex corse fino al quinto piano, spinse il maniglione antipanico, e gioì sentendosi abbracciare dalla luce del sole, che entrava dalle vetrate. Non si era mai reso conto di quanto fosse tutto così bello.
«Buon giorno Marica,» Alex si inchinò davanti alla pianta. Afferrò una foglia con delicatezza, e la baciò. Guardò l'orologio.
«Solo tre ore.» disse esultando. Il tempo sarebbe volato, o almeno così credeva.
Man mano che i minuti trascorsero, le lancette sembrarono rallentare, così come il suo cuore, che perse sicurezza. Aveva deciso di chiamarla alle dodici, in modo da non sembrare troppo bramoso, ma un quarto d'ora dopo stava ancora osservando il telefono, che si mise a trillare.
«È inutile che insisti, non ci sono.» disse rivolto alla pianta.
«Non voglio, e se mi prende in giro? È troppo per me, e tu lo sai.» Sconsolato, portò le mani al volto.
«Non potrei sopportare un'altra delusione.» Le lacrime bagnarono il i polsini della camicia.
«Va bene, ma se succede qualcosa di brutto è colpa tua!»
Afferrò la cornetta e rispose. «Ciao Marica.»
«Ciao. Pensavo non fossi venuto a lavoro. Non dovevi chiamarmi?» La voce di lei era allegra come sempre.
«Sì scusami, ma ero preso.» Alex guardò lo screensaver del computer, su cui non aveva nemmeno iniziato a lavorare.
«Ci vediamo giù all'una. E non farmi aspettare.» Marica stava ridendo. Quel suono scosse Alex, che sentì tornare il coraggio.
Dieci minuti dopo, il ragazzo era già davanti alla porta a vetri della mensa. Oltre a lui c'erano solo le cuoche, che stavano finendo di sistemare. Nel tentativo di non farsi notare si appiattì contro una parete, sperando di essere come Jack Griffin.
Sorridente, una donna dal grembiule blu lo salutò. Alex avvampò dalla vergogna.
Poco dopo, il corridoio iniziò a riempirsi di colleghi, quelli sì che lo consideravano invisibile, nessuno lo degnò di uno sguardo, ma ogni risata, ogni battuta, era come una coltellata per lui. Lo stavano prendendo in giro. Portò le mani al collo, cercando le cuffie che lo avrebbero separato dal mondo, ma nella fretta le aveva dimenticate nel suo ufficio. In quel momento si sentì nudo, ma solo fin quando, un vestito nero a fiorelloni rossi, si fece largo tra le persone in coda. Alex guardò Marica, era ancora più bella di quanto si ricordasse. Due spalline sottili scendevano fino al seno prosperoso, da cui partiva un vestito attillato che, all'altezza dei fianchi, si allargava in una gonna a ruota bordata col pizzo dello stesso colore dei fiori. Marica salutò qualcuno facendo cenno che si sarebbero visti dopo. Una morsa allo stomaco tagliò il fiato ad Alex. Lei non stava con lui perché era sola. Aveva scelto di passare il suo tempo con il più sfortunato dell'azienda.
«Ciao!» La ragazza sfoderò il suo sorriso migliore. Arrivò davanti a lui e si sollevò sulle punte per dargli un bacio sulla guancia. Nonostante i tacchi alti era decisamente bassa. Il ragazzo, intimidito, si ritrasse. Lei non sembrò prendersela, allungò la mano e gliela passò tra i capelli. Imbarazzato, Alex abbassò la testa, ritrovandosi con il naso puntato sull'abbondante scollatura di Marica.
«Hai già visto cosa c'è di buono?» La ragazza saltellò verso la finestra che dava sull'interno della mensa. «Guarda, oggi c'è la pasta al forno.» Premette l'indice contro il vetro, e per poco non fece lo stesso anche con la faccia. «Sì, lo so che usano tutti gli scarti, ma a me piace.» Si voltò sorridendo. «Dai muoviamoci,» Lo prese per mano. «ho una fame!»
Inebetito da tutto quell'entusiasmo, Alex si fece trascinare.
«Da quanto lavori qui?» chiese Marica riempiendo un piatto fino all'eccesso.
«Cinque anni.» rispose il ragazzo cercando di scollare l'unica cucchiaiata di pasta che si sarebbe concesso.
«Com'è possibile, io non ti ho mai visto.» Marica lo fissò qualche secondo, poi tornò all'assalto del buffet.
«Non lo fa mai nessuno.» rispose tra i denti Alex.
«E prima cosa facevi?»
«L'università.»
Marica si bloccò di colpo, sgranò gli occhi e lo osservò alla ricerca di un dettaglio che gli fosse sfuggito. «Ma quanti anni hai?»
«Ventinove.» Alex si sentì in imbarazzo, non si era nemmeno posto il problema di quanti potesse averne lei. «E tu?» chiese timoroso.
«Ventisette.» La ragazza continuò a squadrarlo, ma ora il suo sguardo sembrava ammirato. «E hai già un tuo ufficio?»
«Sì» Per la prima volta nella sua vita, Alex poteva parlare di qualcosa di cui andava fiero.
«Tu devi essere un genio.»
Il ragazzo avrebbe voluto saltarle addosso, lei gli aveva fatto un complimento.
Al termine della fila, i due vassoi rispecchiavano in pieno la diversa fisicità. Quello di lei strabordava, mentre quello di Alex si sarebbe potuto definire “minimale”.
Quel pranzo fu il momento più bello della vita del ragazzo. Parlarono molto, più lei che lui, e il tempo volò.
«Certo che qui le porzioni sono veramente piccole.» Marica si buttò sullo schienale della sedia, facendolo scricchiolare. «Ma tu sei veramente una forza.» Si allungò sul tavolo e gli carezzò il volto.
La mensa era ormai deserta, molti dei tavoli erano stati già ripuliti, e le cuoche iniziarono a mandare delle occhiatacce ai due ragazzi. Marica guardò l'orologio che aveva al polso. «O cavolo, ma è tardissimo. Ci vediamo domani a pranzo.» Si alzò di scatto, fece due passi verso Alex, e gli diede un bacio. Il ragazzo trasalì, se pur solo sull'angolo, le loro labbra si erano sfiorate. Quando lei gli diede le spalle, Alex gettò la testa all'indietro. Il cuore gli batteva forte nel petto, le guance erano tizzoni ardenti, lacrime calde gli riempivano gli occhi. Sospirò cercando di allontanare lo stato di stordimento in cui si trovava, si alzò e salutò tutte le persone che incontrò da lì fino al suo ufficio.
Alle dodici e quarantacinque del giorno seguente, Alex era pronto per andare in mensa. Salutò la pianta Marica e fece per uscire dalla stanza. Il telefono sulla sua scrivania squillò. Alex si affrettò a rispondere. Magari la sua bella, da quella notte aveva deciso di chiamarla così, aveva bisogno di dirgli qualcosa. Impugnò la cornetta e si bloccò. L'interno sul display non era il suo.
«Avvocato Asproni, buon giorno.» Non era un buon segno ricevere una simile chiamata. Quel vecchio burocrate, faceva fare quel genere di cose alla segretaria personale.
«Dottor Scalzi, mi domandavo che fine avesse fatto.» Nella voce dell'uomo c'era del sarcasmo. «Lei sa che sto aspettando il suo materiale da due giorni?»
Alex serrò gli occhi e la mandibola. Se ne era completamente dimenticato. «Ha ragione, ma ho avuto dei problemi con...»
«Non sia tedioso come i suoi colleghi.» L'avvocato non lo fece parlare. «Scalzi, da lei mi aspetto risultati, non parole,»
Alex strinse il filo del telefono, non gli era mai capitato di essere ripreso da un superiore. Boccheggiò cercando una giustificazione, ma nella sua mente aveva solo l'immagine di Marica.
«Le farò avere tutto dopo...»
«Dopo questa chiamata.» disse con tono perentorio l'uomo.
Mesto, Alex non poté che accettare. «Porterò subito il materiale a Elena.» Si morse il labbro. «Mi scusi per l'inconveniente.»
«Sono certo che non succederà più.» L'avvocato chiuse la chiamata.
Il ragazzo alzò lo sguardo sull'orologio. Mancavano dieci minuti all'apertura della mensa. Il cuore gli batteva forte nel petto. Mosse il mouse, e mentre attendeva che la schermata di lavoro comparisse, guardò altre tre volte l'ora. Il tempo sembrava correre troppo veloce. Aprì una cartella e schiacciò due volte là dove sarebbe comparso il foglio di lavoro. «Dai, muoviti.» Nonostante l'angoscia, in quel momento si sentì come Neo. Il suo cervello correva molto più in fretta della macchina. Non attese neppure che caricasse tutto il documento. Aprì la maschera e lanciò la stampa. Rimase fermo giusto il tempo di vedere se il comando fosse partito, poi si precipitò fuori. Doveva recuperato il plico nell'ufficio tecnico.
Alex attraversò di corsa il corridoio. Urtò un paio di persone, ma non si voltò a chiedere scusa, quella parola l'avrebbe dovuta usare più volte il giorno dopo, quando L'avvocato Asproni si sarebbe accorto che, nella relazione, mancavano le conclusioni. Per allora avrebbe finito il lavoro e, con un po' di malizia, sarebbe riuscito a dare la colpa a un errore della stampante.
Trafelato, arrivò alla porta dell'ufficio tecnico. Nello slancio ci si buttò contro. La botta, che lo ricacciò a terra, gli fece capire che era chiuso. Quegli idioti erano in pausa. Ormai erano passate le tredici da cinque minuti, Marica probabilmente stava già chiacchierando con qualcuno. Alex immaginò di essere Mr Fantastic, così avrebbe potuto afferrare i fogli anche attraverso la porta chiusa. Si chinò e provò a infilare la mano sotto la fessura buia. Rinunciò subito, le dita non ci passavano.
«Fanculo anche Asproni!» imprecò ad alta voce. Girò i tacchi e riprese la corsa, questa volta in direzione della mensa. Mentre superava gruppi di colleghi intenti a chiacchierare, Alex cercava la frase da dire a Marica. Non voleva solo chiedere scusa, avrebbe voluto stupirla con una battuta a effetto, qualcosa che l'avesse costretta a ridere. Ma più si avvicinava alla mensa e più si incupiva. Infondo lei era una bella ragazza, chissà quante persone le si sarebbero buttate addosso vedendola sola. E lei, triste per non averlo visto, poteva aver accettato un qualsiasi invito. A quel punto lui cosa avrebbe fatto?
Arrivato a pochi passi dall'ingresso della mensa, Alex si bloccò. La camicia azzurra, ormai era quasi totalmente blu scuro. Il cotone gli si era appiccicato addosso, e dalla punta dei capelli gocciolava il sudore. Allungò la mano destra e si poggiò allo stipite della vetrata che, il giorno prima, per poco Marica non aveva baciato.
Alex cercò di regolarizzare il respiro affannoso, e poco alla volta si allungò per vedere l'interno del refettorio. Tra la folla accalcata, non ci mise molto a vederla. Era in piedi, nell'angolo opposto al suo, spalle alla parete. Quel giorno indossava una gonna gialla a tubino, che si fermava poco sopra le ginocchia, lasciando vedere le calze rosa. Come sempre, il seno era in bella vista. La vi, della scollatura della camicia, terminava a metà del petto, lasciando ben poco all'immaginazione. Marica sorrideva imbarazzata, mentre un tizio della loro età, alto e magro, con i capelli ordinati e il naso dritto, le parlava ammiccando. La mano di lui era poggiata sulla parete, a pochi centimetri dai ricci rossi di Marica. Per poco non li toccava. Altri colleghi, a pochi passi dai due, si davano di gomito, trattenendo le risate sadiche.
Il cuore di Alex si bloccò, stavano usando la ragazza per prendersi gioco di lui. L'acido dello stomaco gli salì fino alla gola. Quel bell'imbusto continuava a parlarle, avvicinando il suo naso perfetto alle orecchie di lei. Alex serrò il pugno, che tremò d'impotenza. Se fosse stato il più codardo dei McFly, sarebbe andato da quel tizio al grido “ehi tu porco, levale le mani di dosso”, e da lì la loro storia d'amore sarebbe sbocciata. Ma lui non era George, lui era molto meno coraggioso. Improvvisamente sentì le spalle pesanti. Affranto, si voltò e lasciò la scena a personaggi molto più importanti di lui.
Rabbia e delusione, accompagnarono il ragazzo fino al suo ufficio. Sbatté la porta e si scaglio contro la povera Marica. Le foglie, fatte a pezzi da Alex, volarono dappertutto. Non contento di aver martoriato la pianta, andò fino alla scrivania. Avanzava a gattoni, mani e ginocchia sporche di terra. Scagliò la sedia contro il muro, su cui era appesa la sua laurea, che cadde a terra. Si issò e ribaltò il monitor del computer. Prese in mano il mouse e lo lanciò. La luce rossa del sensore dipinse un arco in aria, che si spense, con un tonfo, contro la porta d'ingresso. Con i palmi sulla scrivania, le braccia tese e il mento sollevato, mosse piano gli occhi spalancati, alla ricerca della prossima vittima.
Era uno stupido, un idiota. Alex afferrò il piano di lavoro e provò ad alzarlo. Voleva buttarlo contro la finestra, ma lui non era il dottor Banner. Nonostante lo sforzo, riuscì solo a far strisciare le gambe della scrivania sul pavimento.
Qualcuno bussò alla porta. Alex, come risvegliatosi da un brutto sogno, si guardò attorno spaventato. Era messo tutto a soqquadro. Il primo pensiero corse all'avvocato Asproni, e a quei maledetti documenti. Sistemò il monitor. Raccolse da terra il quadretto, la cui cornice si era separata dalla lastra di vetro rotta a metà, e spinse i cocci ai piedi della scrivania. Corse a raccogliere il vaso rovesciato. Bussarono ancora.
«Dai Alex, tanto lo so che ci sei.»
Una strana sensazione di felicità attraversò il cuore del ragazzo, era Marica.
Alex afferrò la maniglia della porta, e si passò la mano libera tra i capelli nel vano tentativo di darsi un tono. Il terriccio gli si sgretolò sulla fronte, finendogli negli occhi. Accecato aprì.
«Perché sei fuggito?» chiese la ragazza ancora prima di vederlo.
Madido di sudore, e sporco dalla testa ai piedi, Alex la osservò imbarazzato.
«Io,» disse abbassando lo sguardo sul seno di lei. «io ti ho visto con lui.» Nonostante la rabbia, il cuore accelerato, e la vergogna che lo attanagliava, Alex avrebbe voluto saltarle addosso.
Marica scoppiò a ridere. «E te la sei presa con quella pianta?»
Rosso di vergogna, Alex si voltò verso il moncherino, che aveva rimesso nel vaso vuoto. «Sì.»
Si voltò verso di lei. Non fece in tempo a metterla a fuoco. Marica gli saltò al collo e lo baciò.
Il calore che invase Alex divenne presto un incendio. Mulinò la lingua nella bocca di lei, come una trivella alla ricerca del petrolio. Con le mani la perquisì, e quando arrivò ai seni, li strizzò avidamente. La ragazza non sembrò curarsi dei modi goffi di lui. Marica, sfruttando la sua mole, lo trascinò nella stanza. Mentre si spostarono avvinghiati, persero l'equilibrio. Alex le cadde addosso. Il ragazzo afferrò il colletto della camicia di lei, e tirò verso l'esterno. I bottoni, che stavano già sopportavano il loro massimo sforzo, saltarono in ogni direzione. Alex si immerse nei suoi seni floridi, che tanto aveva bramato. Marica sussultò per il piacere, prese tra le mani la testa del suo amante, e la pigiò ancora più forte sul petto.
Seduto a terra, con le mani poggiate dietro la schiena, Alex osservò estasiato la ragazza. Marica, a carponi su di lui, gli slacciò i pantaloni. Senza farsi pregare gli impugnò il membro, e gli si buttò addosso a fauci spalancate. La prima reazione del ragazzo fu quella di ritrarsi. Ma, il contatto umido lo eccitò, superando di gran lunga la vergogna che provava. Rimase immobile, le gambe piegate gli tremavano, il volto era incandescente. Sfregò con le unghie contro il pavimento, nel tentativo di resistere al crescendo di piacere.
Marica alzò lo sguardo sorridente. «Ora tocca a te!» Si alzò e si mise a sedere sulla scrivania. Sollevò la gonna fino ai fianchi, e spalancò le gambe, mostrando la vulva nuda. Alex provò a rispondere al sorriso, mostrando un ghigno inquietante. Tirò fuori la lingua dilatata, e leccò le calze fino a raggiungerle il sesso. Nonostante lo avesse visto fare migliaia di volte, si sentì impacciato, ma forse poteva essere come Rocco.
L'eccitazione lo guidò al buio. Le inondò il clitoride di saliva, e brusco infilò due dita nella vagina asciutta. Marica gemette ritraendosi. Si diede un colpo di reni allontanandosi, e ricadde sul piano di legno. La Scrivania non resse, le gambe del tavolo si spezzarono, facendola cadere all'indietro.
Alex si sporse in avanti e rimase impietrito. L'unica donna che l'avesse mai avvicinato, giaceva a terra priva di vita. Cadendo, Marica era finita sul vetro spezzato della cornice, che le si era conficcato dietro la nuca, e usciva aguzza dalla bocca spalancata.
Il ragazzo avanzò incredulo, tutto il corpo gli tremava, il pene gli pulsava bramoso. Mise i piedi nella pozza di sangue, che si stava allargando, e osservò Marica. Lei era per metà sollevata. Le ginocchia penzolavano dall'altra parte della scrivania.
Alex l'afferrò per le ascelle, e trascinò il corpo finché non fu in piano. Non si capacitava della sfortuna che aveva avuto. Gli sarebbero bastati pochi istanti, e l'alone nero, che l'aveva sempre circondato, sarebbe sparito. Con la mano le chiuse le palpebre. Era ancora calda. Prese la camicia e provò a coprirle il seno nudo, ma i lembi leggeri caddero scoprendola ancora. Ci riprovò, con le dita le sfiorò i capezzoli soffici. Si chinò e le leccò l'iride. Un fremito gli percorse il corpo, se possibile il pene gli si indurì ancora di più. Scavalcò la gamba più vicina, le afferrò le ginocchia e le strinse attorno ai suoi fianchi. Sapeva che lei avrebbe voluto finisse così. L'unico rammarico, fu di non poterla baciare. La penetrò.
Scaricatosi dei suoi istinti, Alex si sedette sulla sedia.
«E ora che faccio?» Si rivolse al cadavere. «Qualcuno può averti vista. Tutti ci hanno visto ieri.» Si mise le mani sporche di sangue tra i capelli.
«E ora c'è lo sperma, il vetro rotto, la pianta sradicata e la scrivania distrutta. Penseranno tutti che ti abbia stuprata.» Roteò sulla sedia, e sferrò un pugno al muro. «Già li sento i nostri colleghi: è sempre stato un tipo strano. Io lo sapevo che avrebbe fatto una cosa del genere. Io l'ho sempre evitato.» Alex si chinò e le carezzò la fronte. Rispetto a pochi minuti prima era più fredda. Aveva le labbra blu, e sulla pelle iniziavano a comparire delle chiazze scure.
«Eri così bella.» Le baciò i capelli. Il membro gli pulsò, gli istinti animaleschi tornarono.
Alex montò Marica altre tre volte, e sarebbe andato avanti, se il telefono non avesse squillato.
«Buona sera avvocato Asproni.» rispose euforico.
«Dottor Scalzi, non doveva portarmi la relazione?»
«Certo, ma ho avuto cose più importanti da fare.»
Per qualche secondo non parlò nessuno, il suo superiore sembrava spiazzato da quella risposta spavalda.
«Scalzi.» Asproni scandì il nome del ragazzo. «Io non so cosa ci possa essere di più importante,» si capiva che stava trattenendo la rabbia. «ma veda di portarmi il documento entro cinque minuti.»
Alex si grattò il mento, non se la sarebbe mai cavata. Guardò Marica e sorrise. Inspirò profondamente, e rispose. «Mi faccia una cortesia,» Questa volta era lui a scandire le parole. «vada a fare in culo, lei e tutta la compagnia.» agganciò la cornetta, si piegò sulle ginocchia, baciò per l'ultima volta la fronte di lei, e corse fuori.
Nel corridoio incrociò due colleghi, che si ritrassero vedendolo. Sorrise pensando a quanto dovesse apparire spaventoso. Nella sua mente si fece largo un'idea che non l'aveva mai sfiorato. Lui non era Clark, non era Peter, ne tanto meno uno degli altri eroi della sua infanzia. Per una vita aveva cercato di emularli, senza trovare la sua strada. Forse perché in lui c'era il DNA dei grandi cattivi. Arrivò alle scale e salì fino al piano dei laboratori.
Come immaginava, la maggior parte della gente era in mensa, gli altri giocavano con il computer o leggevano, ma nessuno fece caso al suo passaggio. Alex recuperò un camice bianco e si infilò nel primo laboratorio vuoto, sapeva cosa cercare. Recuperò vari componenti, e quelli che non c'erano lì li trovò nello sgabuzzino delle pulizie. Si chiuse dentro per qualche minuto, poi uscì trafelato e corse di nuovo sulle scale. Dal basso si alzava un vociare allegro, i suoi colleghi stavano tornando a lavoro.

Il vento mosse i capelli ondulati di Alex, scompigliandolo ancora più di quanto non fosse. Da più di mezzora osservava il tetto del palazzo difronte. Aveva vagliato tutte le vie di fuga, e quella era l'unica percorribile. Sollevò i palmi, sporchi di sangue, e li osservò. Marica l'aveva definito un genio, ma lui era solo un pazzo.
Fece due passi all'indietro. Espirò ballando sulle punte dei piedi. Si guardò intorno e indietreggiò ancora.
«Dovrebbe bastare.» sussurrò alle nuvole così vicine.
Tremava. Non tanto per il freddo, il sole gli scaldava i vestiti logori e incrostati, ma per la paura. Dalla porta alle sue spalle, uscivano dense nuvole di fumo grigio. Era arrivato il momento.
«Via!» Piegò il corpo in avanti, sollevò la gamba destra, e partì di corsa verso il ciglio del terrazzo. A un metro dalla balaustra spiccò il primo salto. Leggero volò fino al corrimano. Si sentiva potente. Poteva farcela. Attorno a lui c'era solo il cielo. Cento metri più in basso, la strada era piena di passanti che guardavano in alto, ma nessuno lo vide. Erano tutti intenti ad osservare le fiamme che scaturivano dal decimo piano.
Poggiò la scarpa sinistra sul metallo, e con la destra si diede una nuova spinta. Ormai poteva solo sperare di non aver sbagliato. Un sibilo alla sua sinistra attirò la sua attenzione. Un falchetto gli volava accanto. Leggero e regale, come avrebbe voluto essere lui.
Chiuse gli occhi e pensò a Marica, a quanto fossero stati speciali quei tre giorni. Il vento, che proveniva dal basso, si placò per un istante. Alex rimase come sospeso tra due forze. Poi arrivò un boato, un'energia invisibile spinse il corpo di Alex come fosse di pezza. Non avrebbe mai raggiunto l'altro tetto, ma sicuramente, lei l'avrebbe abbracciato presto.

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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view post Posted on 8/10/2014, 07:34
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Losco Figuro

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Oh bene, il minimo sindacale l'abbiamo raggiunto :-)
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 8/10/2014, 08:01




Ciao Pretoriano! :1392239620.gif:
 
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Ceranu
view post Posted on 8/10/2014, 09:12




dai, che a sette ci arriviamo. Io punto su ilma e Bloodfairy.
 
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view post Posted on 8/10/2014, 12:38
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Custode di Ryelh
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La consegna è oggi?!!!!
Io ero convinto che fosse ieri!!! E pensare che ieri sono andato avanti fino alle due di notte a scrivere (che, a pensarci bene, comunque sarei stato fuori tempo massimo :p098: ) che quasi collassavo sulla tastiera :p105:
Bene così: a meno di catastrofi, in giornata completo la parte finale e lo consegno. CIauz e complimenti a chi lo ha già fatto.
 
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view post Posted on 8/10/2014, 15:26
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Educatrice di bambini alieni

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NUVOLE DI PANNA

Di Laura Palmoni

Le acque del fiume erano placide e cristalline, il loro suono era melodioso alle piccole orecchie della giovane fata in ascolto. La terra sbocciava di fiori variopinti e le alte querce sembravano lambire le nuvole; quando era più giovane restava ore a guardarle muoversi e assumere le forme più disparate, mentre le fate anziane le volavano attorno cantando una nenia che ricordava ancora.
Dormi piccina, fai la nanna,
bella fatina, con la tua mamma,
sotto un cielo di nuvole di panna...
Il bosco incantato, probabilmente uno degli ultimi rimasti sulla Terra, brulicava di vita magica. Animali che nessun umano era più in grado di vedere correvano liberi e felici in quel mondo dimenticato, accarezzando le acque fresche di quel torrente per trovare ristoro. Yélhèna sospirò, spostò un ciuffo ribelle dalla fronte, batté le ciglia e i suoi occhi indaco si riempirono di riflessi dorati. Adorava il cielo, il bosco e la sua piccola comunità, eppure le mancava qualcosa. Era sempre stata una creatura strana, diversa dagli altri esseri magici, ma negli ultimi tempi qualcosa dentro di lei stava cambiando. Disegnò distrattamente un ampio cerchio intorno alla sua figura sinuosa, dalle dita sottili uscì una leggera polvere aurea che diede vita a fiori multicolori, dove l'erba era stata toccata.
Qualcosa doveva accadere, era nell'aria, lo sentiva da giorni.
«Cosa dovrebbe accadere, Yélhèna?» La voce la fece dapprima sussultare, poi le suscitò rabbia.
«Mefir!» sbottò, adirata, sollevandosi sulla punta delle sue scarpette d'argento. «Quante volte ti ho detto di non usare i tuoi poteri su di me, soprattutto per leggermi il pensiero?»
«E tu dovresti affinare i tuoi, di poteri, per impedirmi di farlo» il ragazzo incrociò le braccia sul petto e chinò la testa da un lato, cercando di assumere un'espressione pensierosa. «Ultimamente sei distratta, non ti si vede più in giro e non partecipi alle nostre attività... Ti sarai mica innamorata?»
«Certamente non di te!» sbuffò lei, tornando a fissare il fiume.
Mefir le mise una mano sulla spalla. Il suo tono di voce divenne più dolce: «Ce lo facciamo un voletto tra le nuvole, come ai vecchi tempi?»
Lei si divincolò dalla presa. «Non mi va.»
Il ragazzo sospirò e le si sedette accanto. I capelli biondi brillavano come l'oro e i suoi occhi erano incantevoli, caldi, color del fuoco vivo. La pelle diafana emanava pura energia e molte fate lo corteggiavano, per l'aspetto e per quel suo carattere dolce e inquieto assieme. Eppure Mefir sembrava non avere occhi che per lei, al punto che l'aveva chiesta in sposa ai suoi genitori. Yélhèna pensò che un tempo ne era stata innamorata, ma la storia era durata un'estate. Per una fata che vive più di trecento anni era come un battito di ciglia. L'unico sentimento che provava ora, superava di poco l'affetto per un fratello.
«Non dovresti più tornare dagli umani, almeno per un po'» stava continuando il giovane.
Yelhena si accigliò. «Non è vietato dalla nostra legge curiosare nel loro mondo!»
«No, infatti. Noi ci nutriamo di alcuni dei loro sogni per vivere e se possiamo li ricambiamo lasciando loro qualche dono. Ma ci è assolutamente vietato concentrare i nostri poteri su una sola persona, tanto mento possiamo mostrarci loro!»
«Io non ho mai...»
«Ma hai intenzione di farlo» la rimproverò Mefir. I suoi occhi divennero color del piombo fuso, accadeva sempre quando era fuori di sé, ma Yélhèna aveva imparato a non temere e ad affrontare quella collera. «Non occorre che ti ricordi che per la nostra comunità è piuttosto disdicevole provare sentimenti per quei selvaggi!»
«Tu non hai nessun controllo su di me, stupido folletto!»
«Non osare chiamarmi folletto, sono un Emùr!»
«Preferisci forse mezzosangue?» lo sfidò.
«Non ti permettere!»
«Gli Emùr sono nati dall'unione di umane con i folletti, quindi voi siete magici solo per metà!»
«Quello che è stato fatto in passato aveva uno scopo, creare una nuova specie.»
«Appunto. E tu ne fai parte. E siccome hai sangue umano anche tu, lo stesso disprezzo che hai per loro dovrei averlo io per te, non ti pare?»
«Sei stupida e testarda...»
«E tu sembri un vecchio sciamano lagnoso!»
Mefir si alzò in piedi. «Sono stufo di starti a sentire.»
«Guarda che non ti ho chiamato io, per quanto mi riguarda puoi tornare dalla tua cerchia di ammiratrici!»
«Certamente sono meglio di te, loro non se la fanno con gli umani!»
«Sei solo un villano, non so cosa posso aver trovato di interessante in te.»
Mefir le restituì un mezzo sorriso. «Vedi? Allora ammetti che un tempo ti è piaciuto stare con me...»
«Diciamo che in quel periodo non avevo di meglio da fare.»
Le ali trasparenti dell' Emùr vibrarono d'ira. Yélhèna lo vide alzarsi in volo e disegnare ampi cerchi di fuoco prima di scomparire oltre le montagne. Non era affatto pentita di aver dato il benservito a quell'insolente, ma adesso aveva un problema da risolvere.
«Se lo sa lui, presto lo sapranno anche i mei genitori» sussurrò ad una farfalla multicolore che le si era posata sul palmo della mano. Poi però pensò che forse era anche meglio così. Mentre lasciava libera la farfalla nel suo volo, pensò che anche lei presto sarebbe volata via di lì, libera di seguire il suo volo e nessuno, neanche i suoi genitori, poteva impedirglielo.

Eccolo, finalmente. Yélhèna ebbe un tuffo al cuore e le ali di luce tremolarono come la fiamma tenue di una candela. Era così bello,con la sua pelle abbronzata e gli occhi scuri come la notte. Non era esile ed effeminato come Mefir e tutti gli altri Emùr del piccolo villaggio, le sue spalle erano larghe, il torace possente e guizzava di muscoli, i riccioli neri scivolavano lungo il suo collo come una soave carezza. Non sarebbe mai riuscita a dominare le proprie emozioni, ogni volta che lo vedeva una lama infuocata le attraversava il piccolo cuore. Poi rivide lei. Collera e gelosia le crebbero dentro, forti quanto lo era stato l'impeto d'amore di pochi istanti prima. La donna che era sempre con lui, non molto alta, con lunghi capelli castani mossi e grandi occhi scuri. Rideva mentre gli correva incontro. Yélhèna avvampò di collera quando lei gli sfiorò le labbra in un bacio delicato. Ah, se avesse potuto richiamare i poteri sacri della foresta e affondare le più affilate spine nel cuore di quella sciocca mortale!
L'auto partì slittando sull'asfalto. Il cielo era pulito e il sole splendeva radioso, ma il cuore della piccola fata era gonfio di dolore e risentimento quando si mise a volare dietro di loro.

Essere a capo di una piccola comunità di fate dei boschi non era semplice: vero, erano rimasti ben pochi di un'antica e magica stirpe, ma riunire più di duecento creature sotto lo stesso cielo era alquanto complicato. O forse era solo che con i suoi quattrocento anni iniziava ad essere stanca. Met si guardò allo specchio. I grandi occhi rubino baluginarono nella penombra, da un po' di tempo le dava fastidio la luce del sole e preferiva il silenzio ai rumori del bosco che tanto l'avevano allietata in gioventù. Quando era solo una fata dell'aria, correva ore ed ore attraverso gli alberi, sopra distese d'acqua limpida e prati lussureggianti. Creava giochi di luce meravigliosi e splendidi arcobaleni, descriveva cerchi di fiori nei boschi dei villaggi umani; visitava spesso le case dei contadini, sussurrava sogni alle giovani donne, accendeva sorrisi sui volti dei neonati che potevano vederla in tutto il suo giovane splendore. Poi le cose erano lentamente cambiate: molte fate si erano dissolte, annientate dall'incredulità di umani sempre più tecnologici, frettolosi, ciechi ad ogni forma di reale bellezza. Aveva visto fate annientarsi a causa della diffidenza e dell'odio, altre perdersi per amore. Strappata ai suoi pensieri, sollevò lo sguardo e lo puntò nello specchio che ora mostrava la sua amata Laiha, amica e consigliera fedele da tempo immemorabile. Duecento anni appena, un viso docile e luminoso, lunghi capelli di smeraldo e una veste cucita di stelle.
«Il giovane Mefir chiede udienza, Fata Madre.»
«Mefir?» si voltò e sorrise verso la fata. «Cosa può mai volere il futuro sposo di mia nipote se non portarmi inattese novità che forse sarebbe meglio non sapere? Digli pure di entrare.»
Il giovane era già entrato, ancor prima che la donna finisse di parlare. Come tutti gli Emùr aveva un carattere irruente e combattivo. Malgrado fossero passate molte generazioni, la loro parte di umanità era ancora ben radicata nel loro cuore.
«Fata Madre, voi dovete fare qualcosa.»
«Cosa ti preoccupa, giovane Emùr?»
«E' vostra nipote che mi preoccupa. Credo... che stia frequentando gli umani.»
Lo sguardo di Met si addolcì. «Cara la mia piccola Yélhèna, sempre libera da catene e costrizioni. Non angustiarti, la tua futura sposa è giovane e ribelle come sua zia, lasciale un po' di tempo e vedrai che si calmerà.»
Mefir abbassò lo sguardo, forse per nascondere il dolore che teneva in fondo al cuore alle sue parole: «Yélhèna non sarà mai mia sposa, ormai è chiaro che non mi vuole più, ma non è questo il punto.»
«Cosa vuoi dire?»
«Lei non è affezionata agli umani in generale, è ad uno in particolare che rivolge le sue attenzioni. Credo... Credo che sia attratta irrimediabilmente da lui. E penso anche che finiremo col perderla.»
Lo scettro nelle mani della fata tremò e la sua pelle divenne, se possibile, ancor più pallida.
«Ne sei certo?»
«Non verrei a disturbarla se non lo fossi.»
La Fata Madre sospirò. La sua espressione era addolorata e il suo tono di voce grave quando ordinò: «Avvisa la mia amata sorella. Dille che faccia venire qui Yélhèna, voglio parlarle.»
Mefir annuì, sollevato. Forse non tutto era perduto, pensò. Con un po' di fortuna e l'aiuto della Fata Madre tutto si sarebbe risolto. Lo sperava, perché perdere Yélhèna sarebbe stato come perdere il bene più prezioso, la sua stessa vita.

Yélhèna tornò tardi quella notte. Per seguire i due amanti aveva perso la cognizione del tempo ed ora era in ansia per la lavata di capo che sicuramente l'attendeva. Sperava che i suoi genitori fossero già nelle loro cuccette ma ebbe fortuna solo a metà. Sua madre era sveglia e tesseva un vestito di fili d'oro. Restò immobile, pronta ad un fiume di domande a cui faticosamente avrebbe cercato di dare risposte più o meno credibili. Sua madre, però, fece vacillare i suoi propositi di difesa, parlando con il solito tono di voce mellifluo, quello delle grandi occasioni.
«Si dice che un giorno il sole fosse più invadente del solito e guardando giù scorse un bellissimo fiore. Volle posare su di lui la sua luce per far brillare i suoi petali, per poi poterlo così cullare d'amore.»
La piccola fata deglutì. Il cuore le batteva all'impazzata. Ecco, il momento è arrivato prima di quanto pensassi, disse tra sé. Sua madre continuò, senza mai distogliere gli occhi dal suo lavoro.
«Il sole dopo un po' divenne malinconico, poiché, celato interamente da nubi scure, guardava il suo orizzonte senza poter più scrutare il prato dove sorrideva il suo amato fiore e si afflisse di nostalgia.»
«Madre, io...»
«Attese per vari giorni che il cielo si aprisse per poter quindi dichiarare la sua passione, ma quando ciò avvenne quel fiore non c'era più. Forse era stato strappato dal vento, o portato via per adornare la stanza di qualche stolto umano e lì desolatamente appassito.» Finalmente la donna alzò lo sguardo dal suo telaio e fissò gli occhi dorati in quelli impetuosi e ribelli di sua figlia.
«Abbandona la folle idea di compiacere quell'umano, figlia mia. Noi non possiamo interferire nella loro vita e non possiamo innamorarci di uno di loro!»
«Chi ti ha detto...» Quindi tentò di indovinare: «E' stato Mefir.»
«Non devi più vedere quel mortale» insistette la donna. «Stai mettendo in pericolo la tua vita e la sua!»
Yélhèna arricciò il naso e volse lo sguardo al soffitto della piccola caverna di granito. Non le erano mai piaciute le prediche, tanto meno gli ordini.
«Se vuoi bene a quel ragazzo, devi dimenticarlo. Tu sei una fata, puoi legarti per un po' al sogno di un mortale, non puoi far parte della sua vita.»
«Perché no» gridò la giovane, conficcando le unghie nei palmi delle mani, così forte che le fecero male. «Io non voglio apparirgli in sogno, voglio essere la sua realtà!»
«Yélhèna!»
«Basta mamma, non voglio più sentire.»
«Tua zia vuole parlarti.»
«Non riuscite a capire, quello che ho qui non basta a rendermi felice! Io voglio l'uomo che amo, voglio condividere con lui tutto questo.»
«Non essere sciocca! Tu sei una fata!»
«E non voglio più esserlo allora!»
Lasciò la sua caverna, ignorando i richiami accorati di sua madre. Le sue lacrime brillarono come diamanti nella notte. La donna sospirò. Non passava secolo che una fata non s'invaghisse di un umano, era ancora potente l'attrattiva di quella razza su alcune di loro, ma aveva tanto sperato che non accadesse proprio a sua figlia. Forse era troppo tardi, forse neanche sua sorella poteva fare qualcosa e se così fosse stato, sua figlia era già perduta. Rivolse il suo sguardo alla notte, pregando la dea della Natura di non portarsi via la loro piccola Yélhèna.

Passato l'impeto di rabbia, nel cuore della giovane rimase il rimorso per le parole che si era lasciata sfuggire e che in realtà non descrivevano correttamente il suo stato d'animo. Yélhèna era orgogliosa di essere una fata, della sua bellezza, della sua anima che era tutt'uno con la natura, con cui viveva in simbiosi e che le dava pace e serenità. In verità lei non desiderava affatto diventare umana, gli umani le avevano sempre suscitato un po' di fastidio, erano così stupidi, a volte, e presuntuosi! Eppure proprio di uno di loro aveva finito con l'innamorarsi. E quell'umano era diverso da tutti gli altri: si era lasciata trasportare dal suo carattere altruista, da quegli occhi puliti, dalla voce calda e sensuale. Quando gli si metteva davanti aveva quasi l'impressione che la stesse guardando, giocava con quella meravigliosa bocca morbida, rossa come le fragole di bosco, immaginava di posarvi le sue, ne sentiva il profumo. Cosa c'era di sbagliato in quello? Un'idea folle le scombussolava il cervello da un po'... E se invece di diventare lei umana fosse divenuto lui una creatura magica? Un Emùr, come Mefir. La sua razza non discendeva forse dall'unione di umane con folletti del bosco? E le fate non avevano forse rapito umani in passato, solo per far nascere nuove fate? Poteva essere una soluzione, certo. E c'era solo una creatura al mondo capace di aiutarla e l'avrebbe fatto, perché l'amava come una figlia. La grande, potente Fata Madre!

«Non ne parliamo neanche, Yélhèna!» La voce di sua zia era irriconoscibile alle orecchie della giovane fata. Era sempre stata così generosa, protettiva con lei, non riusciva a spiegarsi il perché di quell'improvvisa ostilità.
«Ma perché zia?» piagnucolò. «Perché non posso averlo come compagno? Perché non può vivere con me?»
«Yélhèna, non vuoi capire... Quell'uomo ha una sua vita, i suoi affetti più cari appartengono al suo mondo. Non pensi di essere egoista a volerlo strappare dalle sue radici?»
«Ma in passato le fate lo hanno fatto... Si sono scelte dei compagni terrestri per generare altre fate!»
La donna, muovendosi davanti al volto della nipote, fissò nei suoi gli occhi luminescenti.
«Erano altri tempi, fortunatamente non abbiamo bisogno di umani per creare nuovi esseri di luce e non ho intenzione di infangare la nostra reputazione solo per esaudire un tuo capriccio!»
Dal suo tono di voce capì di stare sprecando tempo, eppure supplicò che le concedesse speranza.
«E' la tua ultima parola, zia? Ti prego.»
«No» rispose «La mia ultima parola è 'obbedisci'. E non dare altro dolore a tua madre.»
Yélhèna fuggì via. La Fata Madre chiuse gli occhi. Aveva paura, la situazione era fuori controllo. La veemenza di quell'amore l'aveva sentita vibrare in tutto il suo essere. L'unione di esseri fatati con umani non erano più permessi da secoli, per questo gli Emùr erano nati, per sostituirsi agli uomini e generare nuove fate. L'antica attrazione tra due specie così diverse, però, non si era mai sopita e ogni tanto qualcuna cadeva nella trappola e si perdeva. Non poteva permettere che accadesse a Yélhèna, che lì tutti amavano, lei sopra ogni altro.

Quel giorno era così infuriata che avrebbe potuto incendiare chiunque le avesse intralciato il passo e quando Mefir aveva ricominciato con la solita storia della fatina capricciosa era totalmente uscita di senno; gli aveva lanciato contro una scarica di energia tanto potente che per poco non lo aveva colpito. Lui era rimasto sorpreso da quella reazione, ma aveva ripreso subito la sua aria da sapientone, strafottente di un Emùr! Non gli era bastata la lezione, si era avvicinato a lei e Yélhèna non si era tirata indietro, voleva dimostrargli di non avere paura di lui, pensando volesse schiaffeggiarla o spingerla a terra. Voleva una rissa? Come quando da piccoli si rotolavano nel fango? Ci stava. E invece l'aveva presa per le braccia e l'aveva baciata. Intensamente, con rabbia, quasi tremando. Lei aveva risposto al bacio, un attimo di disorientamento era più che normale date le circostanze, ma poi gli aveva mollato un sonoro ceffone, così avrebbe imparato a tener la lingua a posto, lo screanzato! E così, ancor più inviperita, era volata a casa dell'unica persona in grado di tranquillizzare il suo animo inquieto. Lo aveva osservato per ore. Stava preparando qualcosa da mangiare, c'era un buon profumo nell'aria... Si era quasi calmata, quando qualcuno aveva suonato alla porta. Yélhèna era corsa fuori, prima che lui l'aprisse. Era la sua fidanzata, quella sottospecie di gorgone dalla chioma di serpente. Non riusciva a capire cosa ci trovasse il lei. Di certo non poteva dirsi bella, con i capelli marroni e nodosi come il legno di una quercia, (anche il corpo assomigliava ad un tronco, a parer suo) gli occhi color pece e costretta a mettere dei bastoncini sotto le scarpe per poter apparire più alta. E aveva una voce insignificante, priva di melodia. Doveva essere di nascosto una strega, altrimenti non si spiegava come mai lui se ne fosse innamorato!
Scherzetto.
Era bastato un po' di sovraccarico di energia e quel che c'era di commestibile nel forno era andato velocemente in fumo. Lui aveva cercato di salvare la cena, ma inutilmente. La soddisfazione della fata era durata poco, perché alla fine il giovane aveva convinto lei ad uscire e a cenare fuori.
Adesso stavano tornando a casa in macchina. Yélhèna era ancora lì con loro. La mano di Luana si posò sulla gamba di lui e il giovane le sussurrò “ti amo”...
La giovane appoggiò il capo contro la spalla del suo uomo e lui le rispose con un sorriso. La fata non riuscì a contenere la sua furia. Contravvenendo agli ordini della Fata Madre e fuori da ogni controllo, Yélhèna prese forma davanti a lui. Avrebbe visto il suo volto, ne sarebbe rimasto folgorato, nessuno poteva resistere alla luce radiosa e celeste di una fata. Ma scorse solo sorpresa, negli occhi di lui. Uno stupore che subito divenne terrore mentre repentinamente sterzava e finiva a grande velocità contro un albero, in uno schianto di morte. La luce si dissolse, rimase un disperato silenzio. La pioggia giunse improvvisa in quel lugubre tramonto e si mescolò alle lacrime della fata sconsolata. Il ticchettio delle sue gocce impetuose si confuse col suono delle lamiere contorte e con le urla disperate di una donna. Yélhèna si tappò le orecchie, non voleva sentire. E non voleva vedere. Che cosa aveva fatto? Cosa le aveva suggerito il suo maledetto cuore di perfida fata? Ecco. Il suo amore era chiuso il quell'ammasso di rottami, in quel mostro metallico e affamato di vite che a causa sua ora prendeva forma, per cibarsi dell'unico essere che mai le fosse stato a cuore. Cosa poteva fare per rimediare? Aveva disobbedito, si era mostrata ad un mortale e questo gli sarebbe stato fatale, macchiandola di una colpa che non poteva essere cancellata. Non era più una creatura di luce, ma una folle che recava morte a chi la incontrava. Pazza di dolore fuggì via, mentre la pioggia aumentava, liberando sui due giovani corpi imprigionati nell'auto tutta la sua follia.

«Io farò qualunque cosa mi chiederai, zia, ti prego» mormorò la fanciulla.
Met attraversò il cunicolo che separava la grotta dal giardino, il confine del loro regno magico. Il profumo dei fiori era intenso e rilassante, l'esplosione di vita e di colori era quanto una fata potesse desiderare. Una piccola cascata scendeva dalle montagne, il ruscello era fonte di splendore e vita e le sue acque erano curative e rinfrescanti. Quell'esplosiva bellezza non bastava, quel giorno, a risollevarle lo spirito. Yélhèna non era mai appartenuta a quel posto, Met lo sapeva. Aveva immaginato che non sarebbe mai riuscita a convincerla a farsi carico della piccola comunità di fate ed Emùr, ma che addirittura potesse infrangere in una notte ciò che lei aveva costruito in decenni no, quello non lo aveva previsto. Ed era troppo tardi per rimediare.
«Mi spiace, piccola mia.»
«L'umano sta morendo...»
«Non è un nostro problema. La mia autorità mi da il diritto di infliggerti una severa punizione ed è questa che avrai. Ma per lui non posso fare nulla. Non possiamo interferire.»
«Ma non è colpa sua.»
«Non ha alcuna importanza. Uno dei tuoi castighi sarà questo, avrai sulla coscienza la morte di una giovane vita.»
Quando la nipote le volò davanti, con il suo sguardo ostinato e colmo di lacerante dolore, il cuore dell'anziana fata si riempì di tristezza.
«Io sono pronta a morire per lui.»
«Tu non sai neanche cosa sia la morte. Nessuna fata lo sa. Quando la nostra vita giunge al termine, la nostra energia si libera e ne genera di nuova, noi siamo eterne.»
«Io morirò se non riuscirò a salvarlo» Yélhèna ripensò alla donna che era con lui. Al dolore che aveva sentito provenire da lei, che lo amava davvero e che adesso provava gli stessi suoi sentimenti. Non poteva essere suo, Yélhèna lo aveva sempre saputo, apparteneva alla sua donna, alla sua terra, non c'era posto per lei nella sua vita.
Met le prese le mani. «Lo sai che sto rompendo un giuramento, bimba mia? E che se ti insegno il più grande segreto dell'energia di una fata, potrai usarlo una sola volta e ti porterà via per sempre da qui?»
Yélhèna scosse il capo, i capelli morbidi e lucenti le fluttuarono intorno sprigionando stelle di energia. «Non m'importa.»
La Fata annuì. La sua energia divenne tutt'uno con quella della nipote, le due essenze si fusero e il giardino esplose in un incanto di luce e colori.

Ora sapeva cosa fare. Le mani dell'eterea fanciulla scivolarono lungo le braccia del giovane addormentato. I macchinari lo tenevano in vita, l'ossigeno gli forniva il respiro, gli restava ancora poco tempo, doveva affrettarsi... Con la punta delle dita gli sfiorò le labbra livide. Le cicatrici sul corpo erano segni profondi della sua sciocca superbia. Nessuno l'avrebbe vista. Forzando i microcristalli che la componevano, aveva reso impalpabile la propria essenza e adesso era puro spirito, pronta ad entrare in lui, quando l'ultimo alito di vita terrena si fosse spento. Rimase in ascolto. Avvertì un leggero sussulto in quel corpo caldo e martoriato, pose le mani sul quel petto. Quando lo vide sussultare e le pupille si mossero in uno spasmo sotto le palpebre, capì che era il momento. L'ultimo battito cessò e la macchina emise un sibilo piatto e insistente, Yélhèna salutò mentalmente tutti coloro che aveva amato. L'aspettava un'altra vita, da adesso, non sapeva se ne sarebbe stata consapevole, ma non poteva tornare indietro. Avrebbe abitato in lui per sempre.
Chiuse gli occhi. Li riaprì immediatamente, quando un calore dietro di lei la scosse dalle sue intenzioni. Senza voltarsi, capì chi le era dietro, avvolgendola in un amore che prima non aveva mai avvertito.
«Non ti lascio andare così.»
Riconobbe Mefir. La sua energia e il suo sentimento erano tanto forti da confondersi con i suoi. Ancora una volta pensò a quanto era stata ingiusta, e a quanto avesse sottovalutato quell'amore.
«Sarò io a ridargli la vita, per te» lo sentì sussurrare. Avvertì il suo respiro caldo e le lacrime le bagnarono i capelli, in un'ultima, dolce carezza. Prima che lei potesse aggiungere qualcosa, anche la più inutile e banale, la sua essenza astrale era già sparita, inghiottita da quel corpo inerme sdraiato su quel freddo letto d'ospedale. Adesso non sapeva proprio cosa fare. Era solo un'inutile fata innamorata, costretta a tornare ad una vita che non le apparteneva più, indecisa se annientarsi nell'universo o esplodere in quella stanza buia e fredda, sprecando così un'energia che non poteva più usare.
Poi entrò lei. Pallida, con gli occhi scavati, il corpo prosciugato dalla fatica e dalla paura. Aveva addosso i segni di quella notte maledetta, la pelle sotto i vestiti era disseminata di lividi. Yélhèna poteva vedere e sentire l'odore del sangue mischiarsi a quello della morte. Sussultò quando le sue mani calde di energia si posarono sul ventre di lei. Sentì un battito debole e sofferente, una vita le stava morendo dentro, forse a causa dell'incidente. Addentrandosi nella mente confusa della donna, capì che non ne era a conoscenza. Aveva una creatura in grembo e stava per perderla! Fu un istante, perché tempo per pensare non ne restava molto e quindi decise, finalmente, per l'unica cosa che le restava da fare.

Svegliati. Non ne aveva la forza. Sentiva lontano una voce di donna che piangeva, un calore che attraversava ogni centimetro del suo corpo, ma non riusciva a muoversi. Si trovava sospeso, da qualche parte nell' universo oscuro, privo di memoria e di qualunque senso. Poi la vide. Bellissima, pura essenza luminosa, che comunicava con lui attraverso il pensiero. Lo identificò in un angelo, non poteva scorgere il volto in mezzo a tutta quella luce, ma ne sentì la presenza, ne avvertì la speranza e la grande forza. Si lasciò avvolgere, dolcemente, e ricondurre casa. Chiuse gli occhi, cullato da una dolce canzone che parlava di foreste incantate e nuvole bianche e soffici. Era vivo. Si sentiva pieno di energia.
Luana alzò la testa di colpo. Sul suo viso si riaccese la speranza. Forse era stata la sua immaginazione, ma le era sembrato di sentire la mano di lui muoversi. Coma irreversibile, la dura sentenza dei medici, ma ancora non se ne capacitava. I genitori di Fabio erano distrutti, tutti lo erano. E adesso, l'incredibile forza della speranza le giocava brutti scherzi. Eppure ci credette, perché concentrò lo sguardo su quella mano che appena un giorno prima la teneva stretta e l'accarezzava.
Muoviti, gli ordinò, certa che la forza del suo amore avrebbe compiuto il miracolo.
Muoviti adesso... Accarezza il mio volto, amore mio, io sono qui...
E come rispondendo a un ordine, le dita del ragazzo si mossero. Ruotarono dolcemente, allungandosi, quasi la cercassero. Lei gli porse la mano e lui la strinse forte. E Luana gridò, con tutta la forza di cui era capace.

Tutto era tranquillo, nulla era cambiato, la vita avrebbe continuato a scorrere felice in quel mondo dimenticato dagli uomini. Met accarezzò i due fiori appena nati, uno giallo come il sole, l'altro lilla, allacciati insieme come due innamorati. Il destino si era compiuto per entrambi. Era stata infranta una regola, ma due creature avevano pagato con la vita per un errore. Ma lo era stato veramente? Forse amare non lo era mai, in nessun caso e non esisteva regola al mondo che potesse impedire ad un cuore di provare sentimenti. Loro si definivano esseri magici e si illudevano di essere al di sopra dei comuni umani. E avevano permesso che le loro leggi si fondassero sul pregiudizio che i diversi non potessero condividere una vita insieme. Non erano allora più presuntuosi degli uomini? Si rialzò. I due fiori brillavano di rugiada. Erano bellissimi, come lo erano stati Mefir e Yélhèna. E lo sarebbero stati altrettanto coloro a cui avevano permesso di vivere.
Il regno fatato non conosceva inverni, eppure la Fata Madre sentì il freddo e la solitudine di tutti i suoi lunghi anni. Presto la notte sarebbe scesa anche per lei e tutto sarebbe stato più sopportabile e forse comprensibile.

Solo una cosa poteva fare a quel punto: focalizzare la sua attenzione sull'evento meraviglioso che stava vivendo. Luana stava soffrendo. Le contrazioni erano dolorose e lei era così minuta, così fragile... Ogni minuto che passava aveva quasi il sospetto che non potesse farcela a sostenere un dolore così forte, da sola. E allora le sussurrava parole dolci, tranquillizzanti, le dava da bere e le sorrideva. Gli vennero in mente le parole di una strana canzone. Fai la nanna, futura mamma, dormi calma, sotto nuvole di panna... Un urlo straziante, lungo, gli sembrò impossibile venisse da lei. Fabio sobbalzò. Gli stringeva la mano con una forza inaudita. Per un attimo gli tornarono in mente le parole del medico, assistere al parto poteva essere un'esperienza meravigliosa e scioccante allo stesso tempo. Era stato ottimista: era letteralmente terrorizzato! Un altro grido e con gli occhi pieni di attesa e paura continuò a fissare l'ostetrica. La stretta di Luana si fece più forte e tremante. In quel momento pensò a quanto l'amava e a quanto avrebbe amato la creatura che ora stava uscendo da lei. Non poteva vederla distintamente perché aveva gli occhi umidi e la mascherina gli impediva di respirare, ma sapeva che era bellissima. Un pianto acuto, liberatorio, riempì la sala parto. L'ardore di un angelo solcava quel piccolo volto roseo dalla voce potente, la sua carica vitale, il modo in cui agitava le braccia ribellandosi al mondo che l'accoglieva gli accarezzò il cuore. La sua bambina...
Tagliò il cordone come gli avevano insegnato, le mani erano ferme e calde nonostante la profonda emozione per quel semplice gesto. Tenne per un istante tra le braccia quel corpicino minuto e vibrante. Aveva gli occhi pieni di lacrime e così non vide, giusto il tempo di un battito d'ali, quei piccoli occhi aprirsi e illuminarsi di un bagliore indaco. Solo un istante, poi la luce scomparve.
E con un timido bacio, Fabio suggellò quello che era ormai il loro dono più grande.

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo racconto su 'Skan Magazine'.

Il Tabù infranto è quello che vieta ad una fata di legarsi ad un umano. E' considerato disdicevole innamorarsi di un umano in questa comunità di fate, si possono 'visitare' gli umani ma non ci si può innamorare di loro. Yélhèna ha poi violato la regola che impone di non interferire nella vita degli umani, ( ha ridato la vita ad un umano morto ). Di conseguenza un altro tabù violato, anche se appare velatamente, è quello della diversità: due esseri diversi non possono entrare in comunione e quindi anche le fate, che si pongono al di sopra come creature sensibili ed intelligenti, peccano di superbia, sentimento che per le creature magiche è alquanto indegno.
 
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rehel
view post Posted on 8/10/2014, 16:01




LA VALLE DEL SOGNO



Lo catturarono poco prima che il sole calasse dietro l’orizzonte.
Rodrigo stava rannicchiato in posizione fetale, fra due rocce vicino al fiume. Aveva bevuto più che gli era stato possibile allo scopo di lenire i morsi della fame. Da due giorni non mangiava. Aveva provato in tutti i modi a scalare le rocce che circondavano tutta la valle, ma senza riuscirci. Era caduto tre volte e si era fatto male alle costole. Sfinito, senza forze, senza più volontà, aveva atteso l’inevitabile, che si era manifestato con l’arrivo di una decina di uomini del villaggio sopraggiunti in cerca di lui.
Rustico, il balivo, lo prese a calci. Gli legò le mani dietro la schiena così forte da farlo urlare. E lo costrinse a camminare. Ma Rodrigo non si reggeva in piedi. Cadde e ancora Rustico infierì su di lui fino a farlo rialzare, ma poi il fuggitivo crollò ancora e Rinaldo, mosso a pietà lo tirò su e lo sostenne.
- Perché lo aiuti? – gli chiese Rustico. Quel bastardo ha cercato di lasciare la Valle. Nessuno lo deve fare, lo sai bene tu come tutti quanti!
- Certo che lo so, cosa credi – rispose Rinaldo. – E di certo non ha fatto una buona cosa. Infrangere uno dei principali insegnamenti del Costruttore. Tuttavia sua madre mi ha fatto nascere. Se non fosse stata per lei sarei morto assieme alla mia, mentre stentava di mettermi alla luce. Io non l’ho dimenticato.
Rustico sputò per terra, spintonò Rodrigo e si mise a ridere. – Quando sarà giustiziato, e il suo corpo diventerà buono solo per la Geenna, allora dovrai dimenticarlo per forza.
Rinaldo provò un brivido. La Geenna, la fossa, una cloaca putrescente dove si mettevano tutti gli scarti, i cadaveri di uomini e bestie, i rifiuti. Anche quello era un obbligo sancito dal Costruttore. Tutto doveva ritornare a lui, tramite la Geenna.
- Avanti! – urlò il balivo – Al villaggio ci aspettano, non facciamo attendere il Maestro.

***

Djorick bussò con insistenza alla sua stanza. Poi suonò il campanello. Matheus, il Supervisore, si alzò con fatica. Gli sembrava di essersi addormentato da pochissimo tempo. Il sonno lo aveva sfuggito con accuratezza per ore e solo dopo parecchio tempo era venuto stancamente a visitarlo.
Aprì la porta. Alla vista del suo assistente si passò una mano sulla faccia, come a scacciare i sogni che erano venuti a tormentarlo.
- Un uomo del villaggio è scappato –disse Djorick.
Il Supervisore lo osservò senza dire nulla, in attesa di ulteriori notizie.
- Ma è stato ripreso. Adesso è custodito nel villaggio in attesa di…
Il Supervisore lo interruppe con un gesto. – Sì, lo so, lo so bene. Dovrà essere ucciso.
- In questo caso è più che mai necessario. Ha trovato una porta, l’ha forzata usando delle pietre, si tratta di un individuo assai robusto, ed è entrato.
Il Supervisore impallidì.
- Ma la seconda porta lo ha fermato. Così è dovuto uscire e ha vagato senza meta. Poi la fame lo ha sfiancato. L’hanno trovato giù al fiume.
Il Supervisore si girò e si sedette sul letto. Dimostrava ben più dei suoi cinquantadue anni. I capelli erano un vago ricordo che aveva lasciato solo sporadiche reminiscenze sulla nuca. La fronte era solcata di rughe profonde come fossati. Gli occhi sembravano incapsulati nelle occhiaie. La pelle delle guance cadeva come si trattasse di escrescenze posticce malamente aggiunte al trucco di un attore da quattro soldi.
- Oggi sono nati due bambini – disse l’assistente dopo essersi schiarito la voce.
- Dunque non ci sono altre possibilità? – chiese Matheus.
L’assistente scosse il capo. – I dati parlano chiaro. Il sistema ha elaborato la soluzione ottimale. Scatenerà un morbo.
- Fra quanto tempo?
- Un mese al massimo.
Il Supervisore prese a fissare la parete di metallo. Anni addietro c’era una fotografia di suo padre lì appesa. – Cosa ha programmato?
- Peste – rispose secco l’assistente.

***

Ellero, il Maestro, sedeva al centro. Pelagio e Gualtiero, due confratelli, stavano ai suoi lati. La piccola sala del Priorato era semibuia nella livida luce del mattino. Faceva ancora freddo per la stagione e Rodrigo stava in piedi, legato fra due uomini armati di rozze spade.
A lato della sala, sulla destra, la cappella che conteneva la teca del Costruttore. Era fatta di un materiale che nella Valle non esisteva. Incredibilmente trasparente, ma duro. Dentro si poteva ammirare il corpo mummificato dell’uomo che tutto aveva creato.
- Che cosa volevi mai fare? – esordì il Maestro. – Dove volevi andare? Non c’è altro mondo al di fuori del nostro. Lo sai che nessuno può uscire dalla Valle.
- Se nessuno deve uscire, allora vuole dire che si può uscire…
Per un attimo nessuno parlò. Nella sala scese un silenzio greve. I tre confratelli erano ammutoliti di fronte alla logica stringente mostrata da Rodrigo.
- Io sono convinto che ci debba essere una via di uscita. Il mondo non è solo questo che conosciamo – riprese con voce quasi sofferente il fuggitivo.
- Continua a bestemmiare – sottolineò Pelagio. L’uomo era il più vecchio dei confratelli. Quasi sessantacinque anni vissuti nel Priorato da quando, all’età di otto anni gli era stato consentito l’accesso.
- Rodrigo è sempre stato una testa dura – disse Gualtiero – vero fratello?
- Basta così – intervenne il Maestro alzando la voce. – E dimmi, Rodrigo, hai trovato un modo per andare via da qui? Rendimi edotto…
Il fuggitivo chiuse gli occhi, poi li riaprì e si mise a fissare il Maestro. – Ho trovato una porta.
Nella saletta il silenzio divenne assordante.
- E dove portava questa porta? – chiese Ellero dopo una lunga riflessione.
- A un’altra porta.
- E questa seconda porta?
Rodrigo tacque.
- Allora? – lo incalzò il Maestro. – Dove portava questa seconda porta?
- Era chiusa. Troppo massiccia perché io potessi aprirla.
I tre confratelli si misero a ridere. I due armigeri li imitarono in un grottesco controcanto. Il fuggitivo aveva poco da vivere ancora.
La mummia del Costruttore sembrava ascoltare curiosa.

***

Il Supervisore stava assorto alla sua scrivania. Aveva trascorso le ultime ore a studiare quell’uomo.
Rodrigo, figlio di Ilario. Aveva ventinove anni, terza generazione. Suo fratello Gualtiero faceva parte del Priorato, ma lui, in realtà, avrebbe dovuto entrarci in virtù della sua intelligenza. Poi il suo rifiuto era stato così forte che i confratelli avevano ritenuto più conveniente lasciarlo fuori e accettare il fratello, anche se meno dotato d’ingegno.
Tutti i ragazzi più intelligenti dovevano entrare nel priorato. Era una delle regole della Valle. Sarebbero stati confratelli per tutta la vita, senza potere generare e trasmettere la loro intelligenza. La Valle era un mondo immobile e tale doveva restare ancora per lunghissimo tempo. Era stato un errore, evidentemente. Rodrigo era turbolento, insofferente alle restrizioni, asociale. Aveva una ragazza, Mara, esisteva la concreta possibilità che la sua intelligenza si propagasse. Ma adesso sembrava tutto risolto. Rodrigo sarebbe stato giustiziato e tutto poteva tornare alla normalità.
Si alzò avvicinandosi alla parete del modulo. Guardò dall’oblò. La Terra brillava di luce e di colori. Lui non vi era mai stato. Era nato lì, sul modulo collegato all’Arca. Figlio del precedente Supervisore e di una addetta. Ma lui non aveva voluto generare altro di sé che si potesse propagare nel futuro. Mancavano ancora sette anni. Se tutto fosse andato come previsto, l’Arca sarebbe partita verso la sua destinazione.
Erano più di novant’anni che la preparazione andava avanti, dal primo giorno in cui l’Arca era stata popolata da volontari pronti a un’impresa pazzesca. Pronti a tutto per loro stessi e per i loro discendenti.
Il Costruttore, per alcuni un pazzo degenerato, per altri un sognatore. In ogni caso una persona che aveva dedicato tutta la sua vita, e le immense ricchezze che possedeva, alla realizzazione del suo progetto. Quanto a lui, a quasi sessantacinque anni si sentiva decrepito.

***

La porta della cella si spalancò. Rodrigo socchiuse gli occhi alla luce troppo forte e non riuscì a vedere bene, ma il profumo che era entrato lo conosceva bene,
- Come fai ad essere qui? – chiese a Mara.
La ragazza gli si avvicinò. Si accucciò accanto a lui che giaceva steso sul pagliericcio umido. – Tuo fratello mi ha consentito di entrare – rispose.
A sentire pronunciare quel nome Rodrigo si irrigidì. – Mio fratello Gualtiero che fa qualcosa per me, non ci sono abituato – Poi, come colto da un pensiero improvviso le strinse una mano. – Cosa ha preteso da te?
Mara scosse il capo. – Niente.
- Lo conosco troppo bene – disse Rodrigo alzando la voce.
- Ti supplico, – replicò la ragazza – abbiamo così poco tempo.
Il volto di Rodrigo si era fatto rosso per l’ira. – Dimmelo, cosa ha voluto da te?
La ragazza smise di lottare. Si abbandonò e disse: - L’unica cosa che potevo dargli.
Allora anche Rodrigo si arrese. Inclinò il capo dall’altra parte e pianse. Poi ebbe un guizzo. – Lo accuserò! I confratelli del priorato non possono avere rapporti con le donne – disse in un singulto.
- E allora perderai anche me. Moriremo tutti e due. Tu, io e forse tuo fratello, anche se credo che riuscirà a cavarsela bene lo stesso. Lo sai che è il candidato più probabile alla successione del vecchio Maestro.
Mara gli incollò al corpo. Gli accarezzò la guancia e lo costrinse a guardarlo. – Non pensare a quello che è accaduto. Pensa che sono qui accanto a te, questa è la nostra ultima notte. Immagina per un attimo che in questa Valle ci siamo solo io e te. Non esiste il villaggio, il priorato, siamo vicini al fiume che fluisce cantando la sua canzone dolce intonata col suo fruscio d’acqua che scorre. Poi lo fissò a lungo negli occhi che sembravano diventare sempre più grandi.
La ragazza si scostò i capelli. Il viso apparve luminoso e bello come non mai. Rodrigo si sentì pervadere di desiderio.
- Ti ho portato anche qualcosa da mangiare, dopo – disse ancora Mara. Poi non disse più nulla.

***

Il supervisore stava ricontrollando i dati relativi agli equilibri nati-morti-popolazione-risorse. Per i primi trent’anni tutto era andato bene, poi il sistema aveva notato una leggera crescita in eccesso e aveva dato il via a una serie di inverni freddi. La popolazione si era stabilizzata ben presto. Verso i cinquant’anni il fenomeno si era ripetuto, ma questa volta l’abbassamento della temperatura non era stato sufficiente. Il sistema aveva attivato una procedura più drastica: un’epidemia di vaiolo. La popolazione si era ridotta di un decimo e le risorse erano di nuovo adeguate.
Verso il settantesimo anno le nascite avevano cominciato a calare. E allora era stato più caldo. Le messi nei campi erano cresciute rigogliose. L’abbondanza di cibo e il clima mite avevano in pochi anni riportato la densità umana dell’Arca ai livelli previsti.
Lì dentro tutto era in equilibrio. La popolazione ottimale era stata stimata in circa mille unità. Oscillazioni in positivo o in negativo venivano valutate dal sistema che operava in completo automatismo sfoltendo o incrementando. I metodi con cui agire erano essenzialmente due: il clima e le malattie indotte nell’Arca tramite opportuni agenti patogeni conservati nel laboratorio. A lui, il Supervisore, era lasciato il compito di osservare e intervenire solo in casi estremi. Ma fino ad ora non era stato necessario. Il sistema di controllo aveva operato in maniera estremamente efficace.
L’assistente bussò con discrezione e fece il suo ingresso.
- Questa è una delle tre che ho trovato di recente – disse porgendogli un’ape.
Matheus prese l’insetto fra le dita e lo osservò. Le api vere non sarebbero sopravvissute al viaggio. Quegli insetti erano un capolavoro di nanotecnologia, ma negli ultimi tempi se ne stavano guastando parecchie. La loro era una funzione primaria dentro la valle. Dovevano assicurare l’impollinazione e la conseguente crescita delle piante e delle coltivazioni. Non sarebbe cresciuto nulla, senza.
- Dobbiamo farle analizzare nel laboratorio e scoprire cosa non va in loro.
- Provvedo subito, ipso facto – rispose Djorick uscendo.
Il supervisore si concesse uno dei suoi rarissimi sorrisi. Il suo assistente aveva ancora voglia di scherzare. Si era accommiatato asserendo che la faccenda era “detto e fatto”, in latino, come parlavano gli uomini nella valle. Una lingua morta per un luogo di morti viventi, gli venne da pensare. Un idioma che non conteneva parole moderne, perfetto per mantenere il mondo cristallizzato che doveva perpetuarsi per circa quattrocentocinquantatre anni. Ricordava quand’era piccolo suo padre che si arrabbiava in maniera terribile quando lui sudava sulle declinazioni e sulle versioni di tacito, Lucrezio, Giulio Cesare. Anche suo padre aveva fatto parte di quel gruppo di persone che si era imbarcato anima e corpo nel progetto. Aveva lavorato fino all’ultimo giorno senza mai chiedersi che diritto aveva avuto di condannare suo figlio allo stesso destino.
C’era una differenza sostanziale. Suo padre sapeva di non potere fare ritorno alla Terra, ma lui, se non si fosse ammalato o incorso in qualche problematica organica precoce, a pochi anni dalla partenza prevista dell’Arca, sarebbe ritornato. Il modulo sul quale lui e gli altri addetti vivevano si sarebbe staccato dalla nave principale e l’avrebbe lasciata partire per un lunghissimo viaggio. Loro avrebbero fatto ritorno sul pianeta nativo dei loro genitori e nonni. Se pensava ai lunghi mesi di riabilitazione e alle sofferenze fisiche che lo attendevano prima di potersi riabituare alla gravità terrestre, avrebbe anche potuto spararsi.

***

Il supplizio di Rodrigo avvenne alla svelta.
Tutti gli abitanti del villaggio erano stati radunati nella piazza. La punizione doveva essere esemplare, per questo terribile.
Due guardie spogliarono Rodrigo e lo legarono a un palo. Poi un confratello lo cosparse con l’olio della fonte, un liquido denso che sgorgava da una cavità fra le rocce che salivano a picco vicino all’ansa del fiume. L’olio alimentava i fuochi nelle abitazioni, forniva combustibile per le lucerne, si consumava lentamente nei bracieri riscaldando. Senza quello strano liquido la vita nella Valle sarebbe stata assai miserevole, perché un'altra regola del Costruttore vietava nella maniera più assoluta di abbattere alberi o di tagliare piante, anche la più piccola e insignificante.
Il Maestro si fece avanti. Allargò le braccia come se volesse racchiudere nel suo abbraccio tutto il popolo lì riunito e prese a parlare. Fece un discorso breve. Riassunse quello che era il progetto del Costruttore, di portare tutti loro al giorno del risveglio, quando la valle si sarebbe aperta permettendo di entrare in un nuovo mondo. Era la prima volta che qualcuno si ardiva a trasgredire alle regole imposte dal Costruttore. Anzi, era la prima volta che qualcuno cercava di sfuggire alla condizione che gli era stata data nel progetto. E questo era il peccato più grave di quell’uomo. Avere cercato di fare di se stesso qualcosa di più importante del progetto stesso del Costruttore.
- Non abbiamo altra scelta se non adempiere al nostro dovere, così come ci è stato tramandato – concluse il Priore.
Fece un cenno al Balivo e costui lanciò un’occhiata d’intesa con uno dei suoi uomini. Questi prese un acciarino e accese della paglia, la avvicinò a Rodrigo e diede fiamma all’olio di cui era cosparso.

***

Il Supervisore aveva assistito in diretta dai monitor a quanto era accaduto nella piazza del villaggio. Aveva abbassato al minimo il volume per non sentire le grida del giustiziato. Poi aveva cercato inutilmente in un armadio a muro qualcosa di forte da bere. Ma aveva consumato tutte le sue scorte e il sistema non gli avrebbe concesso altri approvvigionamenti per almeno due settimane. Cosa ne poteva sapere uno stupido programma dei problemi della dipendenza da alcool di un essere umano?
Ancora sette anni, pensò. Sette lunghissimi anni. Poi l’Arca sarebbe partita verso la sua destinazione. Proxima Centauri, il sistema binario a quattrocentocinquantatre anni di volo necessari per raggiungerla. Solo una nave come l’Arca, con a bordo un’intera popolazione umana, avrebbe consentito all’uomo di raggiungere la stella più vicina. Questo era stato il sogno del Costruttore. Sogno che lui non avrebbe mai potuto vedere, ma che procedeva inesorabile. Tutto doveva essere calibrato alla perfezione, per questo era stato approntato un periodo di prova di un secolo. Era necessario verificare se la società medioevale appositamente allestita potesse funzionare, oppure se ci fossero dei problemi e in tal caso intervenire.
L’istinto primario dell’uomo, come del resto quello di tutte le specie, era quello di riprodursi. Quante epidemie sarebbero state necessarie per mantenere adeguato il livello della popolazione? Quanti roghi per assicurare lo staus quo? Quante intelligenze murate all’interno delle mura del priorato?
Bussarono alla porta, il suo assistente entrò.
- Abbiamo risolto il problema delle api – disse. – Una faccenda molto strana. Come se il processore che le controlla avesse ricevuto istruzioni anomale.
- Anomale? Spiegati meglio – chiese il Supervisore.
- Erano stati cambiati alcuni parametri e finivano per andare in avaria.
- Una cosa incredibile, non riesco a capire…
- Abbiamo risolto, questo è ciò che conta – concluse Djorick con uno strano sorriso. – Adesso volano e impollinano che è una meraviglia.
- Perfetto – disse il Supervisore grattandosi la barba ispida. – Allora tutto a posto.
Il suo assistente lo lasciò solo. Aveva una moglie giovane, addirittura di quarta generazione. Il fratello di lei era una guardia. Non che ci fossero mai stati problemi, ma per ogni evenienza il Costruttore aveva previsto anche un corpo di uomini armati che vivessero nel modulo, oltre ad altro personale addetto a svariate funzioni, come medici, cuochi, tecnici di varie capacità. Una piccola popolazione se confrontata a quella dell’Arca, circa un centinaio di persone.
La sua silenziosa lotta col sistema andava avanti da mesi senza vincitori né vinti. L’idea di sabotare le api era stata stupida. Ma gli era venuta di getto e sul momento gli era sembrata pure valida. In altri casi aveva disseminato piccoli ostacoli, falsato dati e rapporti, ma tutto era proceduto inesorabilmente. Era più forte di lui e non ce la faceva più all’idea di tutte quelle persone segregate in quel limbo che riproduceva un oscuro medioevo, fatto di malattie, di freddo, di fame e di ignoranza. Se poi pensava che fra sette anni sarebbero partiti per un’odissea lunga altri quattrocento e passa, gli veniva voglia di urlare. E lui era a capo di tutto questo progetto assurdo.
Aveva una sete terribile. Prese un bicchiere e lo riempì d’acqua. Bevve e sputò per terra, non era della semplice acqua che avrebbe potuto soddisfarla.
Prese da un cassetto una scheda elettronica che unica era in grado di aprire ogni porta nel Modulo e nell’Arca. Uscì, percorse alcuni corridoi. Giunse a una delle uscite che conducevano nei corridoi più esterni. Oltrepassò quella soglia che mai aveva varcato in vita sua. Giunse alla seconda porta che immetteva direttamente nella Valle.
Aprì anche questa. Fuori era buio. Loro, nel modulo, vivevano a turni che non avevano nulla a che vedere col ciclo giorno e notte all’interno dell’Arca. Nella Valle adesso era notte fonda. Lo colpì la freschezza dell’aria resa umida da apposite apparecchiature durante le ore notturne. Il cielo era nerissimo, nella Valle non c’era alcuna necessità delle stelle, erano superflue e non erano state installate. Non c’era nemmeno una luna, ma la popolazione abbruttita dall’ignoranza non era particolarmente romantica, non ne avrebbe sentito nessuna mancanza. Solo il sole sarebbe sorto, a un’ora programmata in base alla stagione.
Scostò le frasche che nascondevano la porta. L’accesso era dello stesso colore delle rocce e si mimetizzava benissimo. Si chiese come avesse potuto Rodrigo scorgerla. Ma quell’uomo era morto e non avrebbe potuto rispondergli mai più.
Camminò fra l’erba alta in direzione del villaggio che era a circa cinque miglia di distanza. Prese una delle schede, poteva accendere delle luci di emergenza sparse per l’intera Valle.
Premette e la Valle s’illuminò. Era ora che quel mondo conoscesse la luce elettrica.
Avvertì un grido, poi dei rumori secchi che sembravano degli…


Gli spari crepitarono in una cacofonia dissonante. I colpi esplosi dalle guardie squassarono il corpo del Supervisore.
Poi Djiorick disse: - Basta così. Premette il duplicato della scheda e la Valle tornò nel buio. – Prendetelo e riportatelo dentro, presto – ordinò ancora agli uomini di picchetto.
Mentre il corpo del Supervisore veniva trasportato gli diede un’occhiata. Non c’erano dubbi, era morto. Ed era meglio così, molto meglio.
Prese il suo comunicatore e si mise in contato col sistema.
- Tutto a porto – riferì. – Il supervisore è deceduto. C’è stato un brevissimo momento di luce, ma ritengo che nessuno nella Valle se ne sia accorto. Come? No, non siamo riusciti a fermarlo prima. Dovevamo essere sicuri delle sue intenzioni.
- Molto bene. Un ottimo lavoro – disse il sistema di sorveglianza – lei è promosso sul campo, complimenti Supervisore Djiorick.
Il nuovo Supervisore gonfiò il petto. Al tempo previsto l’Arca sarebbe partita nel termini stabiliti e il merito era tutto suo.
Fu l’ultimo a rientrare nel modulo. E prima di infilarsi dentro la porta di accesso diede un’occhiata alla Valle. Tutto era avvolto nel buio più nero. In un silenzio che sarebbe durato secoli.




INTERVISTA AL COSTRUTTORE (estratto dal Corriere Europeo edizione on line)

D. Siamo l’unica testata giornalistica a cui lei ha concesso una intervista in esclusiva. Ne siamo onorati, ma per quale motivo tutto questo mistero?

R. Sul mio progetto girano voci incontrollate. Se ne parla in tutti i modi e spesso in maniera inappropriata. Concedo solo questa intervista nel tentativo di dare un’idea più consona alla realtà dei fatti e vediamo se il mio tentativo avrà successo. Procediamo.

D. Per quale motivo ha iniziato questo immenso progetto? Deve avere consumato la maggior parte delle sue risorse finanziarie, che pure sono, o dovrei dire erano, immense?

R. È sempre stato il mio sogno, fin da quando ero bambino. Portare l’umanità sulle stelle, su altri mondi, simili alla Terra eppure diversi.

D. Dicono che lei sia malato, è vero?

R. Sì, è così. Una malattia rallentata il più possibile dai valenti medici che mi seguono, ma che entro un paio d’anni inevitabilmente volgerà al suo epilogo. Non ci sono cure ulteriori.

D. Riuscirà a terminare il suo progetto? Partirà l’astronave?

R. Assolutamente sì. Partirò anch’io, voglio morire in viaggio verso le stelle. Il mio corpo sarà imbalsamato e tumulato in una cripta del monastero. Diventerò il Dio supremo del piccolo mondo che sto creando.

D. Non c’è una sorta di compiacimento narcisistico in tutto questo?

R. No, tutto è studiato per uno scopo ben preciso. Salvaguardare questo fragile micro mondo perché possa giungere intatto alla sua meta finale. Quegli uomini dovranno essere distratti e incantati da un’entità suprema.

D. Ma è vero che chi partirà dovrà parlare in latino?

R. Mi è sembrato un passaggio naturale. Questo microcosmo dovrà sopravvivere integro per quattrocentocinquantatre anni. Il tempo necessario ad arrivare a Proxima Centauri. Un team di psicologi e di storici ha concluso che l’ideale è un villaggio medioevale. Una economia avvolta in se stessa e basata sullo scambio in natura. Un mondo chiuso, asfittico, dove tutto deve rimanere immobile, il più possibile immutato. Il credo del Costruttore contribuirà ad amalgamare la popolazione e a impedire che si creino tensioni insostenibili. La lingua latina, con la sua mancanza di termini moderni, dovrebbe essere l’ideale per contribuire alla stasi necessaria.

D. Sembra incredibile che lei abbia trovato delle persone che partiranno per questo viaggio sapendo benissimo che non potranno mai arrivare vivi e che dovranno condurre una vita miserabile: generare figli, lasciarli nell’ignoranza più completa e con la prospettiva tutt’altro che remota di vederli morire a causa di malattie curabilissime, ma che nella valle da lei creata non lasceranno speranza. Potrebbero facilmente patire la fame, le donne morire per le complicanze del parto…

R. Lo sa che ho dovuto addirittura scartare tantissime persone per eccesso di richieste? Sembra incredibile, ma è così. Sono più di quanti lei possa pensare coloro che vorrebbero partire per questo viaggio senza ritorno. I sogni fanno parte dell’essenza dell’uomo; non sempre vi si può rinunciare. Si tratta della cosa che mi ha stupito di più, che queste persone accettassero di diventare dei servi della gleba, disposti ad allevare dei figli che nemmeno sarebbero giunti a un quarto del viaggio. Incredibile!

D. Fanatici?

R. Fanatici? No, sognatori, sognatori come me.


D. Come pensa di riuscire a mantenere questo piccolo microcosmo in equilibrio? Il viaggio sarà lunghissimo, più di quattrocento anni.

R. Le strategie che porremo in atto sono diverse. Prima di tutto il riciclo. Niente dovrà andare perduto, ogni corpo di uomo o animale verrà re immesso nel ciclo vitale. L’abbattimento delle piante diverrà un taboo, troppo difficile e lenta la loro ricrescita, vorrei evitare a tutti i costi quello che accadde all’isola di Pasqua. Un tale disastro ecologico porterebbe alla morte certa di tutti gli abitanti e al fallimento della missione. Per questo abbiamo pensato alla fonte dell’olio combustibile. Una facile e continua riserva di energia per riscaldare e cucinare, ma che sgorgherà come un rivolo allo scopo di non sprecarne neanche una goccia.

D. Scusi se la interrompo, ma c’è chi parla di strategie particolarmente efferate.

R. Lo ammetto, ma se vogliamo che la spedizione riesca è necessario, anzi vitale, che tutto funzioni come previsto. Lei certamente si riferisce al controllo automatizzato della popolazione umana. Sono stati ottimizzati dei sensori che monitoreranno il numero della popolazione. Se questa tenderà a una crescita eccessiva allora scatteranno una serie di contromisure atte a ridurla, al contrario se tenderà a decrescere troppo si attiveranno funzionalità specifiche contrarie.

D. Non potrebbe essere più preciso? So che si tratta di un argomento piuttosto controverso, ma è giusto che chi parte sappia a cosa va incontro.

R. Tutti coloro che partiranno saranno informato di ogni più piccolo dettaglio. Comunque le contromisure dovranno per forza di cose essere drastiche. La popolazione della astronave non può e non deve aumentare a dismisura, morirebbero poi tutti di fame. Così se la popolazione crescerà, allora verranno immessi nell’aria germi patogeni di svariate malattie, più o meno virulente a seconda delle necessità. Anche il clima verrà utilizzato a questo scopo. Più freddo, se necessario, oppure più caldo. L’equilibrio dovrà regnare sovrano. Un imperativo indispensabile, direi vitale.
Per aggiustamenti di minore importanza, ovvero per decrementare la popolazione in misura più lieve, abbiamo studiato interventi mirati che contribuiranno al folklore popolare del villaggio.

D. Qualcuno ha parlato di veri e propri mostri che dovrebbero servire a mantenere la popolazione sottomessa nel terrore.

R. Non posso essere più specifico; mi spiace.

D. Ci sarà un’unica specie sintetica nella valle, è vero questo?

R. Esatto. Parliamo delle api. Non avrebbero retto allo stress del viaggio. E sono indispensabili al ciclo vitale. Non solo produrranno il miele, che sarà l’unico dolcificante disponibile a bordo, ma dovranno assolvere alla funzione di impollinare le piante e garantirne la riproduzione. E così abbiamo dovuto servirci della nanotecnologia. Ognuno di quei piccolo esserini è un autentico miracolo dell’ingegneria. Succhieranno parecchia energia per ricaricarsi ogni notte, ma sarebbe stato impossibile farne a meno.

D. Bene, mettiamo che tutti vada per il meglio e che l’astronave arrivi a destinazione. A proposito, quale, visto che il sistema di Proxima Centauri è binario e comprende due stelle? cosa succederà esattamente al termine del viaggio?

R. Avverrà il risveglio, giorno per il quale intere generazioni dell’Arca hanno atteso la venuta. I dettagli sono secretati, mi dispiace.

D. E noi sulla Terra lo sapremo?

R. Temo ci vorranno millenni. Ora, se vuole scusarmi, credo che il tempo concessole sia scaduto. Arrivederci.





Il taboo è ovviamente quello di non cercare di abbandonare la valle. Ma ci sono altri taboo, non tutti riportati, ovvero le regole del Costruttore atte a far si che l'esistenza nell'Arca si trascini uguale a se stessa senza particolari variazioni.
Forse il testo non sono riuscito a controllarlo come mia consuetudine, spero non ci siano troppe magagne... :1391975826.gif: E comunque buona lettura.
 
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view post Posted on 8/10/2014, 19:15
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Custode di Ryelh
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Eco quì, spero che vi piaccia. Nonostante tutto, sono felice di aver potuto chiamare di nuovo in causa Meselim ed Eumeo, che erano stati i protagonisti del mio primo racconto "maturo" (almeno sei anni fa... quanti ricordi!). E poi, era più di un anno che non mi concedevo nulla di vagamente lovecraftiano!

Per quanto riguarda i tabù violati, sono quelli della civiltà persiana arcaica ossia il parricidio, la profanazione del fuoco e quella della terra (che, per ragioni di tempo sono stato costretto a far passare in sordina).

Buona lettura



Dove conduce l’orrore

I raggi del tramonto fanno arrossire i campi di grano e bruciano le mura della città in lontananza.
Persi nell’oceano riarso, i contadini sono ombre indistinte, mosconi su un corpo in decomposizione.

La porta si apre, ma nessuno m’accoglie. Dove sono finiti la sposa e il figlio infante?
L’unica persona presente in casa è mia madre: la trovo piangente in un angolo, mille volte più sfatta e decrepita di come l’ho lasciata un anno fa.


L’ombra di un sicomoro mi da refrigerio, mentre gli occhi allucinati seguono quel sentiero fatto mille volte. Il cuore perde un battito quando un’ombra compare sulla cima del colle: anche se è troppo lontano perché possa riconoscerlo, so per certo che è il moscone che aspetto.

-Dov’è Barsine? Dov’è il piccolo Bagoa?-
Mia madre geme e indica la finestra aperta: il terrore mi invade quando intravedo le cime delle Torri del Silenzio. Poi monta la rabbia e la schiaffeggio più volte. È la donna che mi ha dato la vita, eppure non smetto di colpirla fino a quando i suoi mugolii non cominciano ad acquisire un senso. Dalla sua bocca sgorgano sangue e fiotti acidi di verità.


Lo osservo scendere lentamente dal colle, ciondolando sul vecchio asino. Riconosco l’abito sontuoso e il mantello elegante, ma è solo quando vedo la sferza di pelle che cadono gli ultimi dubbi e il sangue prende a pulsare incontrollabilmente nel corpo.
Non riesco più a resistere: quando è a meno di cento passi da me sistemo il mantello e mi incammino. Poco dopo, i nostri sguardi si incrociano.
- Salve Padre.

-Dicevano che gli yauna vi avessero sterminati tutti.- geme, provando a rannicchiarsi contro il muro. -Barsine e tuo figlio piangevano. Tuo padre, invece, sosteneva che fosse un segno di Ahura Mazda, perché solo i più forti tornano dalla guerra. Così, una notte, è entrato nella camera di tua moglie e l’ha presa contro la sua volontà. Diceva che era necessario, affinché venisse assicurata una linea di sangue più degna del nome della nostra famiglia.
Il mio stupore dura solo un istante, poi comprendo con orrore cosa ne è stato di mio figlio.
-Il giorno dopo, Barsine ha portato il corpo di Bagoa alle Torri. Ai nostri conoscenti tuo padre ha detto che il bambino era stato ucciso da una belva e che tua moglie avrebbe mantenuto il lutto, ma lo faceva solo per poterla prendere con violenza tutte le notti. Poi, un giorno, lei non è riuscita più a sopportare i suoi stupri e si è impiccata a una trave.

Prima ancora che nei suoi occhi possa diradarsi il terrore suscitato dalla mia comparsa, sollevo il mantello e impugno la spada. È la stessa arma con cui ho combattuto per il Gran Re, ma nemmeno nella mischia più feroce ho mai provato l’emozione che provo ora nel trafiggere il corpo di mio padre. Mentre l’asino scappa, lui sputa sangue e cerca di maledirmi con le ultime forze che gli restano.
- Tu… tu non sei mio figlio!
Gli sputo sul volto prima che possa parlare ancora, poi gli strappo lo scudiscio dalla cintura e lo percuoto con violenza.
- Ti sbagli, vecchio: mai come oggi sento fino in fondo di essere il frutto dei tuoi lombi! – urlo, continuando a marchiare la sua carne. – E se anche non fosse il sangue a unirci, osserva come sboccia in me il frutto del tuo male!
L’odio e il rancore erompono fin più profondi recessi della memoria e si riversano contro la patetica creatura che sussulta nella polvere. Continuo a colpirlo anche dopo le ultime scintille di vita hanno abbandonato il suo corpo.

Mia madre sente l’odio e la disperazione gonfiarsi nel mio petto e trema di paura.
- Tuo padre ha fatto questo! Lui e soltanto lui!
- E tu cosa hai fatto per impedirglielo? In che modo hai protetto mio figlio e la mia sposa?
Le parole la prendono di sorpresa, forse perché le pronuncio senza rabbia. Lei si rannicchia ancor di più contro il muro, ma non deve temere nulla: la disprezzo troppo per poterle concedere il privilegio di una vendetta.
- Dove si trova adesso?
- Nei campi, per badare agli schiavi. – Nei suoi occhi brilla una scintilla di complicità. – Non c’è nessuno ad accompagnarlo.
Le volto le spalle e mi dirigo verso la porta.
- Voglio che abbandoni subito questa casa. Non mi interessa cosa farai, né dove vorrai andare: va via di qui e non farti mai più rivedere.
Senza attendere la sua risposta, esco e vado in contro al Sole che tramonta sui campi.

Quando riprendo il controllo delle mie azioni, di mio padre non resta che un grottesco ammasso di carne e pelle scarnificata.
Ormai privo di lucidità, scoppio a ridere per sfogare la tensione: Rido fino a quando le guancie non mi fanno male e due fili di lacrime non prendono a fluire dagli occhi, poi cado in ginocchio e resto in silenzio, lasciando che le lacrime vadano a mescolarsi con la lordura che macchia il terreno.
È in quel momento che mi rendo conto che c’è qualcuno alle mie spalle.
Con la coda dell’occhio intravedo una tunica bianca e un lungo mantello rosso con cappuccio, ma non riesco a vedere i suoi lineamenti. Chiunque sia, è un testimone scomodo del mio delitto: non posso permettergli di restare in vita.
Con uno scatto suscitato dalla più profonda disperazione, mi avvento sul corpo di mio padre e sfilo la spada, poi mi alzo in piedi e mi preparo a fronteggiare l’uomo misterioso.
Ma non trovo nessuno.
- Colui che uccide il padre, rinnega l’origine stessa della sua vita. – fa una voce alle mie spalle. – Ciò facendo, egli rinuncia alla luce di questo mondo e si avvia a sprofondare anzitempo nel dominio di Ahriman.
Mi giro e vedo la stessa figura di prima: come ha fatto a muoversi così rapidamente senza che me ne accorgessi?
Alzo la spada per minacciarlo, ma tutta la mia rabbia svanisce in un istante. Senza neanche rendermene conto lascio cadere l’arma a terra.
- Chi sei?
- Solo l’araldo di una Volontà più alta. Votato a custodire e proteggere, divento l’ombra di un ossessione qualora il mio cammino incroci l’empietà più abietta.
Fa un passo avanti verso di me.
- Non c’è rimedio a ciò che hai fatto: ora soffrirai e diverrai monito errante per chiunque osi violare la volontà del Mio Signore. Osserva il mio volto: sarà il tormento che riempirà d’angoscia i tuoi giorni e il terrore che popolerà d’incubi le tue notti. Lo sguardo di una colpa che non si può cancellare.
Dal buio del cappuccio emerge un ammasso di carne purulento, una mostruosità dalla bocca irta di denti affilati e con occhi carichi di odio e di bruciante disprezzo.
Gli stessi occhi di mio padre.

***

Dovunque mi giri, solo pianure coperte d’erba, rocce muscose e radi alberelli quasi privi di foglie. Sono trascorsi cinque giorni da quando ho lasciato la carovana e già allora ne erano trascorsi venti da quando eravamo partiti dall’ultima città , eppure il paesaggio attorno a me sembra sempre lo stesso, quasi non mi fossi mosso di un piede.
Simili spazi sconfinati sono l’esatto opposto di ciò che ho conosciuto nei miei viaggi e ormai ho forti dubbi sul fatto che queste distese vuote siano abitate da uomini. Fino a ora non ho visto nemmeno i resti di un bivacco.
La notte, poi, è anche più terribile, poiché l’oscurità rende la pianura simile a un mare smisurato, una distesa buia solo apparentemente tranquilla, in cui le belve feroci e i demoni si aggirano alla ricerca di nuove prede. Questa situazione mi indebolisce e rende, per contro, i miei incubi via via più forti: quando avrò finito la droga che mi permette di dormire, mi verrà tolto anche il sonno e ciò che resta della mia ragione si consumerà del tutto.
Cerco di non pensarci e bevo un rapido sorso dall’ultimo otre d’acqua.
Le ultime speranze si fondano su quell’unica imperfezione che taglia l’orizzonte, un rilievo che è l’unico candidato ad essere la meta finale della mia ricerca. Lo vedo crescere ora dopo ora, sempre più immenso e solitario nella pianura sconfinata.
Quando disto sei o sette parasanghe, vedo anche i primi fili di fumo; a tre comincio a intravedere i carri e le tende di un accampamento di nomadi. A due, mi scopro circondato da una ventina di guerrieri sciti a cavallo, bruti irsuti armati di archi e scimitarre che mi scrutano con estrema ferocia.
Il loro capo si fa avanti e mi dice qualcosa con aria minacciosa, ma non capisco la sua lingua. Provo a rispondergli in persiano, in aramaico e in greco, ma nessuno di loro fa cenno di aver compreso e le loro mani si stringono ancor di più sull’impugnatura delle spade.
Allora gioco la mia unica possibilità ed estraggo il pendente che porto nascosto sotto la tunica. Gli sciti riconoscono l’immagine del dio scolpito, forse riescono anche a comprendere ciò che è inciso alla base del monile e arretrano.
Il loro capo fa una smorfia, poi riprende a parlare: neanche stavolta capisco ciò che dice, ma la deferenza nel suo tono di voce mi fa capire che ho fatto la scelta giusta.
- Meselim.
Gli rispondo, ansioso di sapere se la mia ricerca è finalmente giunta al termine. I guerrieri si guardano tra di loro, poi mi fanno cenno di seguirli verso la montagna.
L’accampamento è molto più grande di quanto non sembrasse da lontano: forse è il risultato del viaggio comune di parecchie tribù consanguinee. I guerrieri che mi accompagnano allontanano la folla di curiosi che si accalca per vedere, ma ai più vicini non sfugge l’idolo che ho mostrato loro, poiché i vecchi fanno segni di scongiuro al mio passaggio e le donne richiamano vicino a sé i figli.
Superate le tende, raggiungiamo la base del monte, che scopro forato dalle aperture di innumerevoli gallerie e decorato con statue gigantesche scolpite nella viva roccia. Benché corrose dal tempo, riesco comunque a intuire l’aspetto mostruoso che dovevano avere nei tempi antichi e sento un brivido attraversarmi la schiena. Chi le ha scolpite? Nemmeno per un istante penso possano essere stati i miei selvaggi accompagnatori e mi viene ancora una volta da chiedermi quanto ci sia di vero nelle leggende che si raccontano nelle città ai bordi della steppa.
Sono pensieri vani, che abbandono non appena i guerrieri mi fanno cenno che siamo arrivati: davanti a noi, l’apertura di un cunicolo la cui estensione si perde nell’oscurità.
- Entra.
Dice il loro capo, in un persiano che definire stentato sarebbe persino un complimento: allungo lo sguardo nelle ombre e subito vi scopro i nidi che i miei incubi vi stanno facendo. Le loro bocche distorte mi sorridono malignamente e le loro mani deformi si tendono verso di me: è raro che gli offra la possibilità di tormentarmi in pieno giorno e devono aver deciso di approfittarne al massimo.
Sospiro, poi cerco di sorridere: se tutto va bene, forse è l’ultima volta che potranno fare scempio di me.

***

La musica mi raggiunge quando sono ancora lontano, resa distorta e confusa dagli echi in cui viene riflessa dalle pareti della galleria. Benché non ne conosca l’origine, mi muovo cercando di rintracciarne la provenienza, sforzandomi il più possibile di ignorare le visioni con cui gli incubi tentano di condurmi alla pazzia. In qualche modo, ho l’impressione che cerchino in ogni modo di distrarmi, come se avessero timore di ciò che potrei trovare. Mi aggrappo come un disperato a questa illusione e comincio a correre a perdifiato in quei meandri sconosciuti, indifferente al rischio di cadere in qualche crepaccio nascosto.
Poi, finalmente,la musica erompe davanti a me in tutta la sua potenza e un’improvvisa luce spezza le tenebre e ricaccia indietro gli incubi che vi si erano nascosti.
Quello che mi trovo davanti, però, è ancora più incredibile.
Decine, forse centinaia di persone d’ogni età e sesso danzano in un’immensa caverna, coperti solo dal sudore della frenesia e dai tatuaggi che decorano i loro corpi. Ai bordi della sala, illuminati da fiaccole incastrate nella pietra, numerosi musici, anch’essi nudi, producono suoni difformi con strumenti diversi, generando la cacofonia che si mescola e si sovrappone alle grida d’estasi dei danzanti.
Quando i miei occhi si abituano maggiormente a quello spettacolo, riesco a cogliere anche il rapido movimento di alcune figure incappucciate, cultisti che emergono dalle ombre portando con se grossi catini ricolmi di un liquido misterioso, che viene dato da bere ai danzatori più esausti. Il fatto che questi ultimi sembrino riprendere d’un tratto le forze mi fa pensare che possa trattarsi di una qualche droga.
Ho già visto scene simili nelle celebrazioni dei Misteri in Grecia e nei rituali orgiastici della Grande Madre in Asia, eppure basta poco perché mi renda conto di quanto questi ultimi siano diversi da ciò a cui sto assistendo adesso. In qualche modo, persino nel caos più assoluto di quei rituali era possibile rintracciare una parvenza di ordine, un filo conduttore che li riportava in un ambito più umano. In questa caverna, invece, la semplice idea di logica è stata abbandonata e la celebrazione da l’idea di crescere ed autoalimentarsi da sola, come animata da una coscienza che trascende quella dei singoli cultisti.
E al centro di questo caos senza limiti, sorge la statua del dio che essi servono, un immenso cumulo di metallo senza significato che sembra animarsi al continuo mutare della luce delle torce. Su di esso riconosco i simulacri di volti d’animali e di uomini in mille pose, poi braccia, gambe e tronchi di corpi d’ogni genere, frammisti a simboli e a opere mozze di cui non comprendo il significato.
Non ho mai conosciuto né immaginato nulla di simile, ma il solo guardarlo fa scorrere un brivido gelido lungo la mia schiena.
Mentre osservo le forse mostruose di quella statua, mi accorgo che uno dei danzatori è crollato al suolo. Subito dalle ombre emergono dei cultisti incappucciati che lo portano via.
- La danza non può cessare mai. – fa una voce alle mie spalle. – Chi vi partecipa balla e urla fino a quando non nemmeno le droghe riescono più a dargli forza. Capita spesso che qualcuno muoia, ma subito viene sostituito. La danza non può cessare mai: Colui che Non può Essere Nominato sorveglia.
Mi volto: dietro di me un uomo vestito interamente di giallo, con il volto coperto da una grottesca maschera di seta. A differenza di quella che indossano i cultisti, però, questa suscita timore e rispetto.
- Chi sei tu?
- Il Sacerdote Giallo, – risponde lui. – colui che tu chiami con il nome di Meselim.
L’uomo si toglie la maschera, rivelando il volto saggio di un mio compatriota. Le rughe testimoniano la sua vecchiaia, ma la schiena dritta sembra quella di chi è nel fiore degli anni.
Mi inchino davanti a lui.
- Il mio nome è…
- Non conta. Chi è maledetto dagli Dei perde tutto, persino il nome che gli è stato dato.
L’uomo sorride davanti al mio evidente stupore.
- Non essere sorpreso da ciò che dico. L’ombra che grava su di te è talmente pesante che solo un cieco potrebbe ignorarla.
Io annuisco e lui mi fa cenno di seguirlo.
- Vieni: ti porterò dove potremo parlare con più calma.
Lo osservo scomparire nella parete, attraverso una fenditura nella roccia che in precedena doveva essermi sfuggita.
Dopoa verlo seguito pochi metri, raggiungo una piccola caverna, dove Meselim mi attende assiso su un trono scavato sulla roccia. Quando mi siedo anch’io, un cultista velato apparso dal nulla appoggia per terra una brocca d’acqua e scompare di nuovo.
- Prima di tutto, dimmi chi ti ha condotto da me.
- Un mercante di Siracusa di nome Iolao, che asseriva di averti conosciuto in gioventù. – rispondo io. – I membri del culto a cui apparteneva, lo chiamavano Eumeo.
Lo stupore emerge per qualche istante dagli occhi di Meselim, poi il suo volto si addolcisce.
- Se ciò che dici è vero, allora Eumeo è rimasto fedele a ciò che gli ho insegnato in quei tempi lontani…
Scuote il capo, come a voler allontanare un pensiero inutile, e il suo sguardo torna a farsi severo.
- Il tuo, quindi, è stato un lungo viaggio… raccontami tutto: dimmi come ha avuto origine la tua maledizione.
Gli racconto tutto, descrivendogli anche il più piccolo dettaglio che riesco a estrarre dalla mia memoria. Quando ho finito, lui sospira e resta qualche istante in silenzio.
- Ciò che mi dici non fa altro che confermare i miei sospetti. – sussurra, lisciandosi la barba. – La creatura che ti ha maledetto era un Fravashi, un emissario della volontà di Ahura Mazda.
- Un Fravashi? – rispondo io, sgomento. – Ma i sacerdoti insegnano che si tratta di esseri benigni, custodi deputati a proteggere il cammino dell’uomo a cui sono stati affidati.
- Ciò avviene a patto che l’uomo in questione non violi uno dei precetti sacri di Ahura Mazda. Qualora ciò avvenga, essi diventano inesorabili persecutori, il cui unico scopo è quello di portare il disgraziato alla pazzia.
“Votato a custodire e proteggere, divento l’ombra di un ossessione qualora il mio cammino incroci l’empietà più abietta.”
Le parole di quell’essere risuonano di nuovo nella mia mente, ora con un significato chiaro.
- Il Fravashi ha agito tramite l’amore che provavi verso tuo padre e lo ha sfruttato come un varco per farsi strada nella tua anima. Gli incubi che ti perseguitano non sono altro che i parti mostruosi del tuo rimorso che quella creatura nutre oltre ogni limite.
Scuoto il capo.
- No, ti sbagli: non ho mai amato mio padre. D’altronde, come sarebbe stato possibile amare una simile persona? Sin da quando siamo stati presentati ho conosciuto più la sua sferza che le sue mani, né ha mai avuto per me una parola di conforto e di incoraggiamento. Se mio fratello maggiore non fosse morto in tenera età, immagino che non avrebbe esitato a strangolarmi con le sue mani.
- Forse potevi odiare la persona, - ammette, - Ma quell’uomo era pur sempre l’origine della tua nascita. In quanto tale, la tua stessa condizione umana ti imponeva di amarlo, così come adesso ti impone il fardello del rimorso.
Sconvolto dalla rivelazione, abbasso il capo. Per un istante, ho l’impressione che dalle ombre sia emerso il volto ghignante di mio padre, poi mi rendo conto che è solo uno dei miei incubi.
- Se questo è ciò che mi è stato fatto, conosci il modo per liberarmi da questa maledizioni?
- Non c’è modo di farlo. Se gli Dei ti hanno bandito dalla vita, non è nel mio potere riportarti indietro.
Il cuore mi si gela nel petto, mentre il ghigno dell’incubo che ricompare tra le ombre si allarga a dismisura.
- Non… non puoi fare davvero nulla per me?
- Te l’ho detto: essendo umano, sei preda delle voleri e dei capricci degli Dei di questo mondo. L’unico modo per sfuggirli, sarebbe rinnegare la tua umanità e porti sotto l’ala nera degli Altri Dei, che governano il Cosmo dalle loro sedi al centro dell’infinito.
- E ciò è possibile?
Meselim sorride, un sorriso che non sembra meno inquietante di quello della creatura che mi scruta dall’oscurità.
- Come ti ho già detto, uccidendo tuo padre e scacciando via tua madre hai rinnegato la fonte della tua nascita: ciò rende il tuo essere simile a quello di un bambino eternamente sigillato nel suo utero. Conosco un rituale che potrebbe permetterti di superare questo stadio crepuscolare e rinascere sotto una nuova forma. Ma il prezzo da pagare è alto, molto più di quanto tu possa immaginare.
- Ho alternative?
Lui alza le spalle.
- No. Un tuo eventuale suicidio non avrebbe altra conseguenza che il consegnarti eternamente nelle mani del tuo aguzzino, come un bambino abortito che viene espulso dal corpo materno per scomparire nell’ombra.
Abbasso il capo, poi stringo i pugni. Il mio sguardo si sposta da Meselim all’incubo ghignante e ne taglia il volto deforme.
- E sia. Se gli Dei di questo mondo mi opprimono per spingermi alla follia, allora accoglierò qualunque strada possa permettermi di sfuggire al loro volere.

***

Mi libero degli abiti e mi sdraio a terra. Due cultisti mi lavano e frizionano tutto il mio corpo con un unguento, fino a farmi perdere la sensibilità. Meselim tasta una spalla con un bastone, poi fa la stessa cosa sulla coscia.
Quando ritiene che sia pronto, pone le mani sul mio capo e comincia a salmodiare in una lingua sconosciuta, mentre un terzo cultista comincia a tagliare la mia pelle con un coltello, incidendo simboli e scritte per me incomprensibili.
Non provo dolore: la lama passa più e più volte sulle mie carni senza farmi soffrire e senza far stillare la minima goccia di sangue. Quando Meselim concludo le sue formule, lo osservo con aria dubbiosa.
- Hai detto che il prezzo sarebbe stato terribile, ma non ho provato nulla.
- Questo era solo il rito di preparazione. – risponde lui, sfoderando un ghigno beffardo. – Ora seguimi, così potremo completare la cerimonia.
Due cultisti prendono delle torce, il terzo una giara e una vanga. Meselim rivolge loro alcune parole sottovoce, poi mi fa cenno di seguirlo e scompare in una fenditura nella parete. Fino a un attimo fa, ero sicuro che ci fosse solo roccia.
La luce delle torce rivela una scalinata intagliata nella viva roccia. È stretta e i suoi gradini sprofondano sempre più nell’abisso, scendendo a profondità che mai avrei creduto possibili. Vorrei chiedere chi l’ha intagliata e perché, ma qualcosa mi dice che nemmeno i miei accompagnatori conoscono la risposta. O forse preferiscono non porsi nemmeno la domanda.
Dopo essere scesi per quelle che sembrano essere svariate ore, sento i miei piedi affondare nella nuda terra e mi rendo conto che abbiamo raggiunto la nostra meta, qualunque essa sia.
Dopo pochi istanti, mi rendo conto che questo luogo è illuminato da un tenue chiarore crepuscolare, apparentemente suscitata da colonie di funghi grotteschi che crescono in ogni dove. Ma è quando mi rendo conto di ciò che li nutre, che il mio disgusto si approfondisce maggiormente.
Cadaveri. Pile e pile di corpi di uomini e animali ammucchiati alla rinfusa, fino a formare vere e proprie montagne di carne e ossa, puntellate da un numero infinito di orbite vuote che sembrano guardare tutte nella mia direzione.
- Ora sai che fine fanno i danzatori che non sopravvivono alla loro cerimonia in onore di Colui che Non Può Essere Nominato. – mi sussurra Meselim, indicandomi le pile di corpi più vicine. – Se andassimo più lontano, potrei mostrarti cadaveri sprofondati da pozzi che hanno origine in luoghi che neanche io conosco, ma non credo che sarebbe saggio. Questa penombra nasconde cose che non temono nulla, nemmeno il mio potere.
- Che posto è questo?
- L’Abisso. Qui trova ricettacolo tutto ciò che la luce rifiuta e tutti gli abomini che esse deve scartare per preservare la propria purezza. In questo grumo di oscurità intrappolato nelle viscere del nostro mondo, gli Altri Dei hanno posto il loro trono e il loro estremo avamposto. Ed è qui che noi completeremo il nostro rituale.
Fa un cenno al terzo cultista e quello, posata la giara, comincia subito a cavare in un palmo di terra libero.
- Mentre lui pensa alla fossa, tu devi occuparti del rogo: raccogli ossa e cadaveri da queste pile e fanne un grosso mucchio lì vicino.
Annuisco, anche se il suo comando mi sembra nauseabondo.
Quando immergo le braccia in quegli ammassi putrescenti, il fetore è tale che più volte vengo colto da profondi conati di vomito, resi ancora più violenti dal marciume che mi insozza ogni volta che sono costretto a rompere uno di quegli osceni funghi. Un paio di volte, poi, ho la netta impressione di essere sfiorato da qualcosa, mentre i mucchi di ossa che mi circondano tremano leggermente. Entrambe le volte mi costringo a pensare che si tratti solo di un’illusione dettata dalla paura, ma è un inganno fin troppo misero.
Quando Meselim ritiene che il mucchio sia abbastanza alto, mi fa cenno di fermarmi.
- Ora prendi la giara, vuotane il contenuto su quei corpi e dagli fuoco.
- Ma in questo modo profanerò il fuoco! È una blasfemia!
Meselim scoppia a ridere.
- Sei pieno fino a questo punto degli insegnamenti dei magi? Eppure ciò che hai subito avrebbe dovuto condurti già da tempo lontano dalle loro dottrine. – Ride nuovamente, poi mi afferra per le spalle e mi obbliga a guardarlo negli occhi. – È stata la tua empietà a farti cominciare questo cammino, ora non ti resta che concluderlo. Se avevi davvero tanta paura di scontentare Ahura Mazda, avresti dovuto sopportare le angherie di tuo padre.
Detto questo, mi mette in mano la giara e toglie il tappo.
Stretto tra la necessità e il timore suscitato dagli antichi precetti, scelgo di seguire l’unica via che mi offre una minima speranza di salvezza e verso il bitume sui corpi.
Quando vi getto sopra la torcia, un turbine di fuoco si accende sulle ossa profanate, gettando nuova luce in quel baratro.
Poi un ruggito di rabbia e di dolore emerge tra le fiamme e il volto deforme che era stato di mio padre emerge tra le lingue incandescenti.
- Cani! Come avete osato profanare la sacra emanazione di Ahura Mazda? – urla, agitando il pugno del braccio deforme. – Nessuno di voi sfuggirà alla sua ira!
Arretro, spaventato dalle sue parole, ma Meselim si fa avanti per fronteggiare il Fravashi.
- Taci, eunuco del dio, non ci fai alcuna paura. In questo luogo il tuo signore non ha potere e la sua volontà vale meno delle ossa rinsecchite che quest’uomo ha appena bruciato.
Per la prima volta, quel volto detestato si atteggia a una smorfia di rabbia impotente. Ottenuta la sua vittoria, il Sacerdote Giallo mi afferra per un braccio.
- Ora che hai contaminato il fuoco, è il momento di contaminare le tue stesse carni. Sali sulla pira e lascia che quella fiamma impura bruci le tue spoglie umane e ti consenta di rinascere sotto nuova forma.
Punto gli occhi nelle fiamme e il mio sguardo incrocia quello del Fravashi.
- Tu non oseresti…
Sussurra, consapevole della paura che mi sta agitando membro a membro, ma stavolta sono io a sorridere.
- Era la stessa cosa che pensava mio padre. Ora è tempo che anche tu impari cosa è capace di compiere un uomo nel nome del proprio odio.
Faccio ancora in tempo a godere della sorpresa che compare tra quei lineamenti deformi, lo stesso sguardo di mio padre quando l’ho trapassato con la spada.
Davanti a una simile vista, persino il fuoco che mi avvolge quando salgo sulla pira può essere dimenticato.
Ormai ridotto a una torcia umana, trovo comunque la forza di ululare gioia, poi incespico tra le ossa semicarbonizzate e rotolo oltre la pira, fino a sprofondare nella fossa scavata dal cultista.
Dovrei essere morto, eppure il mio essere resta intrappolato in questo corpo consumato, permettendomi persino di sentire le parole di Meselim.
- Il fuoco è stato profanato e con esso ciò che restava della tua umanità. Ora puoi rinascere sotto nuova forma, avendo come utero questa terra maledetta e come liquido amniotico la tabe che filtra dai corpi in decomposizione. Come un seme sepolto nel terreno, ciò che sei ora in potenza, diverrà atto nella volontà degli Altri Dei.
Poi tace e il mio corpo viene sepolto sotto le altre carcasse.

***

I primi vermi sono piccoli e voraci, crudeli bestie che filtrano dalle tane che hanno scavato nelle carni decomposte degli altri cadaveri. Consumano in fretta ciò che resta dei muscoli carbonizzati, ma il loro viscido rosicchiare attrae presto altri razziatori, più grossi e forti.
I nuovi arrivati hanno denti aguzzi e bocche fameliche e cominciano a consumare le ossa annerite per nutrirsi del loro midollo. Anche il loro pasto, però, ha breve durata, poiché viene interrotto da creature ancora più abominevoli, vermi-funghi che ormai hanno le dimensioni di grossi serpenti. Soddisfatta la fame, essi depongono le loro spore nelle ossa, ormai cave, fino a riempirle del tutto.
Poco alla volta, le larve maturano, si ingrossano e si uniscono tra loro, fino a spaccare i nidi che le hanno cresciute. Sono voraci, anche più delle creature che le hanno precedute, perché ognuna di loro è frutto della fusione di centinaia di altre spore.
Spinte dall’impulso della fame, piantano i loro tentatoli nei corpi che li circondano e, quando non possono nutrirsi da sole, mordono i compagni vicini e ne diventano i parassiti.
Poco alla volta, le migliaia di mostruosità che scavavano nel buio diventano parte di un organismo sempre più complesso e sviluppato, carne e sangue di un’unica creatura.
Poi, esse dimenticano ciò che erano state e la somma dei loro istinti si raccoglie attorno a un unico pensiero.
È il mio io che nasce, la consapevolezza di esistere e di andare oltre le singole componenti del mio corpo.
Quando i miei istinti si separano del tutto da quelli delle bestie che mi hanno formato, un impulso irresistibile mi spinge a farmi strada nelle carcasse che sono state il mio nido. Per la prima volta, non è la fame a dirigere le mie azioni, ma qualcosa che ancora non comprendo appieno.
Poi le mie mani trovano il vuoto e i mei occhi abituati al buio vengono bagnati per la prima volta dalla penombra. Stupito da questo miracolo, abbatto le ultime macabre barriere e striscio fuori, coperto dal sangue di ciò che era stato il mio alimento.
Un silenzio mi coglie davanti alla profondità dell’abisso che mi circonda, così diverso dal nido in cui sono nato. Emozioni sconosciute mi invadono e sconvolgono la mia mente ancora acerba.
Infine, lancio nell’aria crepuscolare un lungo e struggente richiamo, come se volessi affidare all’oscurità il mio tormento.
Dopo pochi istanti, l’eco di molti ululati mi giunge in risposta e vedo centinaia di occhi rossastri emergere sulle cime delle colline di corpi.
Scopro le fauci affilate in un sorriso sinistro e mi dirigo verso di loro. La carne e il sangue mi chiamano ed è ora che prenda posto tra i miei fratelli.


Come sempre, do autorizzazione a Jackie a pbblicare quesrto racconto sullo skanna ^_^
 
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