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Skannatoio, Novembre 2014, edizione 35, ipercritici

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view post Posted on 4/11/2014, 23:57
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shanda061211113
view post Posted on 5/11/2014, 18:11




MOTO PERPETUO
Di Alexandra Fischer
Gli operai arrivarono silenziosi come sempre in casi come quelli.
L’operazione era delicata e non bisognava irritare nessuno dei parenti sopravvissuti.
Altrimenti, addio nuovo incarico.
Dovevano controllare che l’ultima “sepoltura” fosse uguale alle altre.
Di fatto, quei tre “rovista rottami stellari” trapassati avevano infastidito un bel po’ di membri della società di LISTEVERTO.
E non solo per la loro fine inspiegata.
Gli altri equipaggi avevano lasciato nastri con le registrazioni audio e video dei loro ultimi momenti.
Loro no.
E dire che facevano parte del programma Rovista Rottami Stellari.
Gente chiacchierona, quella.
Aveva sempre qualcosa di sensazionale da pubblicizzare.
La “polvere degli astri” stupiva sempre.
Il trio scomparso aveva trovato qualcosa di notevole e non lo sapeva.
Lo aveva chiamato la Neve Verde.
Certo non era quello che voleva la LISTEVERTO.
Non era l’ennesimo pianeta da sfruttare.
Brutto affare, perché quelli conosciuti erano collassati.
C’erano solo corpuscoli che si agitavano nel vuoto, a casaccio.
Formavano un muro che, pensava il trio, forse nascondeva l’ennesimo Eldorado da saccheggiare.

La LISTEVERTO viveva di Scarti Cosmici e meno male che disponeva di una tecnologia abbastanza avanzata da permetterlo.

Il trio aveva raccattato quello che c’era e poi erano scomparsi nei pressi dell’ultimo sistema planetario.

Mentre la LISTEVERTO si interrogava su chi altro mandare a rovistare ai limiti del cosmo, un giovane appena arrivato nella casa dello zio, noto come Fuelo, aveva trovato soltanto una tomba sul punto di venire riaperta.
Era la ricognizione periodica.
Così gli avevano detto gli esperti al seguito degli operai: il medico legale e l’Antropologo dello stesso istituto.
Da sempre appassionato di reperti della Storia dello Spazio, scoperchiava tombe con il suo buon amico dottore per ricordare gli eroi della recente Epopea dei Riciclatori di Avanzi del Cosmo.
Finita a Domomortoj, con tanto di corpi troppo danneggiati per essere esposti nella camera ardente della base lunare, ma abbastanza passabili per le casse da morto in falso zinco.
Non che contenessero granché, del trio.
La persona che aveva trovato i resti dei tre, fluttuanti accanto alla Neve Verde era rivestita di uno scafandro apposito per i casi di Grave Invalidità da Incidente di Servizio.
A passi leggerissimi, aveva riconsegnato quel che rimaneva dello zio Fuelo.
Quando c’era stata la ricognizione dei poveri resti, il nipote era rimasto interdetto.
Da quando in qua una tomba di famiglia andava sgomberata?
Pazienza se qualcuno ne desiderava una nuova, venendo dirottato ai colombai che si trovavano dietro al Crematorio Interplanetario, ma quelle costruite ai vecchi tempi non le aveva disturbate mai nessuno.
Almeno, fino ad allora.
Il giovane si domandò cosa volessero, quegli esperti.
Aveva riconosciuto l’acronimo, sulle loro targhette: LISTEVERTO.
Zio Fuelo lo definiva la grande burla.
Quell’unione di parole come Liberto (Libertà) e Stelaverto (Stella Verde, unione di Pianeti Indipendenti) lo aveva sempre fatto ridere.
Era una dittatura mascherata, ecco cosa.
E anche vorace.
Quanti pianeti avrebbe divorato, prima di essere sazia?
Lui era solo un Riciclatore di Avanzi del Cosmo, ma sapeva cos’era un Muro di Energia, che non dà e non prende nulla.
Altro che Babau per i novellini, lui ne aveva avuto il sentore, una volta, durante un’avaria.
Era avvenuta proprio in prossimità del limite dell’ultimo sistema planetario.
Quella era la Zona della Neve Verde.
E la loro missione si era arenata lì.
Come da istruzioni, dovevano raccogliere i resti della Flotta Velocità Luce, che si era disintegrata trovandosi di fronte a un muro di energia priva di fonti.
Era stata la Grande Avventura dello zio Fuelo, ma nessun altro, escluso il nipote, ne aveva appreso il dettaglio inquietante.
La registrazione originale era ancora nella tomba di famiglia, nascosta sotto il pavimento.
Meritava di stare lì, dal momento che si trattava di uno schiaffo morale alla vita, così come gli esseri umani la intendevano.
Il giovane l’aveva vista un paio di volte.
Rinunciando a fare il pilota.

Fuelo era sceso nella sala macchine, al buio.
E una forma più nera dell’oscurità si era staccata dalla parete di fondo, andandogli incontro con la stessa indifferenza di un frammento di meteorite in caduta libera su un pianetino.
Lui, prima di risalire al piano superiore, alla luce scarsa della batteria di emergenza, aveva sentito lo spostamento d’aria accanto a sé.
Poi, il gelo, ma questo, veniva solo dalla sua mente.
Non c’era alcun avversario alieno da affrontare, perché lui e i suoi amici si erano spinti ben oltre i sistemi abitati.
Era materia indifferente, carica di un’energia che veniva da dentro, che nessuno avrebbe mai potuto usare.
Non aveva niente contro di lui.
L’apparecchiatura da registrazione che Fuelo aveva al polso, non aveva riportato affatto una macchia più nera del buio circostante.
Invece, era comparsa una luce verde , ferendo il buio e lasciandosi scie simili a bava di un lumacone alieno.
Il fenomeno era durato poco, ma Fuelo aveva intuito che la Neve Verde si era fatta una passeggiata casuale nella sala macchine guasta, ignara di cosa aveva visitato e del tutto indifferente al terrore provocato nell’osservatore.

Lui lo aveva appreso compiendo ricerche segrete, non per niente era il nipote di Fuelo, il Super Lettore.
La morale era stata che il trio, raccolti i pezzi delle navi, aveva usato il materiale ancora utilizzabile per ripartire.


Poi erano scomparsi, dando inizio al grande mistero dei Riciclatori Scomparsi.
Fino all’arrivo del tizio nello scafandro con i resti.
Questi si era fermato poco, dando risposte elusive alla commissione d’inchiesta, per poi scomparire a sua volta.

“No “ disse il tecnico della commissione d’inchiesta, indicando il quadrante “so meglio di te che una volta c’erano le navi del Progetto Velocità Luce, ma queste sono ben diverse”.
“Come fai a dirlo?”
“Non hanno rubato carburante per spostarsi. Con che cosa si muovono, allora?”
Ingrandendo l’immagine delle navi in corsa e rallentandola, ebbero un’altra sorpresa.
“Hanno riciclato pezzi di bagnarole del cosmo e le hanno fatte ripartire”.
“Dove hanno preso l’energia per farlo, dico io?”.
Il mistero rimase tale e l’inchiesta venne affossata.
Bastava semplicemente evitare quel punto dello spazio.
Tutte le rotte finivano lì.
Non c’era altro da aggiungere.

Il nipote di Fuelo si era insospettito, considerata la superficialità dei soccorsi, ma capiva quelli dei LISTEVERTO.
Non aveva senso, sprecare risorse contro un muro verde di indifferenza.
E allora perché la ricognizione della tomba?

L’Antropologo gli lesse nel pensiero.
- Noie burocratiche, prima di dichiarare il caso chiuso.
- Davvero? – domandò il giovane.
- Sì – confermò il medico – dobbiamo chiarire l’incidente.
- Ma è già stato fatto – obbiettò il nipote di Fuelo – anch’io, come unico parente ancora in vita ho visto la registrazione. La nave si è avvicinata alla Neve Verde e si è disintegrata.
Il medico era un tipo ossuto e impaziente: - Alludo quello recente. Sapevi che i resti degli amici di tuo zio si sono trasformati in corpuscoli verdi luminosi e sono schizzati al limite del cosmo?
Figurarsi, con la censura sui notiziari della LISTEVERTO.
Lo intuì anche l’Antropologo, un uomo grassoccio, che dava l’idea di stare meditando di divorarsela, la Neve Verde.
A quel pensiero, il nipote sogghignò.
Disprezzava quegli inviati.
Disturbavano i morti per profitto.

- Dove? – gli domandò il medico, facendo un gesto agli operai.
Il ragazzo indicò alla sua destra.
Quando il capo operaio estrasse la cassetta dalla nicchia, ne uscirono vapori.
Per fortuna, l’uomo aveva i guanti.
La depose con quanta più delicatezza poté sul pavimento di pietra, che sfrigolò in quel punto.
La vibrazione si trasmise ai presenti.
- Basta così – disse il medico – è andato come gli altri.
- No, dobbiamo esserne certi – ribatté l’Antropologo.
Il capo degli operai aprì la cassetta con molta circospezione, visto che nei due casi precedenti era già stato abbagliato, ma non accadde nulla.
Il fondo era bruciacchiato.
- Che succede? – domandò il medico all’Antropologo.
- È partito per primo.
- Che beffa.
Il medico lo guardò, senza capire.
- Vuol dire che se lo sono preso?
- No, ci è andato lui di sua spontanea volontà.
- Si può diventare come loro? – gli domandò terrorizzato il capo operaio, il quale aveva un fratello nella nuova flotta di LISTEVERTO.
- Non per propria scelta. La Neve Verde ingloba chiunque le si avvicini.

Fuelo non sarebbe mai voluto andare oltre, con la nave.
E dire che Frosto e Malvertino stavano quasi per convincersi a seguire il suo consiglio, quando era accaduto il Grosso Guaio.
Non si sarebbero mai dovuti avvicinare alla zona dei corpuscoli dalla luce verdognola.
Si muovevano a casaccio, come neve verde impazzita.
Solo che in quell’angolo del cosmo, non c’erano stagioni.
E poi la nave, a forma di sigaro all’andata e poi cambiata di aspetto durante il viaggio, fino a somigliare alla Neve Verde.
Ecco il lato ancora più assurdo della storia.
“Ci stanno beffando “ disse Fuelo.
“Ma se non sanno niente di noi. Può darsi che stiano riverberando i nostri pensieri senza capirne nulla e neppure volerlo fare”.
Malvertino aveva scoperto una grande verità senza saperlo.
“Il Sommo Presidente LISTEVERTO vuole che gli comunichiamo qualche ritrovamento eccellente”.
“Hanno già finito gli zuccherini del mese scorso?”
Frosto alludeva alle pagliuzze d’oro e ai frammenti di iridio e bario che avevano rintracciato nei dintorni.
Non gli piaceva restare troppo vicino alla Neve Verde; da quando c’era stata l’avaria poche settimane prima, aveva paura di scendere nella sala macchine; anche se ormai era in piena luce, c’era un angolo occupato da qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco, ma che viveva senza dover ricorrere ad alcuna fonte di energia.
Per quanto si sforzasse di prevederne le mosse, non riusciva a vederla.
Soltanto spegnendo le luci, un paio di volte, aveva scorto un paio di scie verdognole perdersi nel buio.
L’improvvisa oscurità non lo aveva certo reso popolare presso Frosto e Malvertino, i quali lo avevano rimproverato di farli spaventare inutilmente.
Dovevano fare proprio una figuraccia, davanti alla LISTEVERTO?
Frosto era meno nervoso di Malvertino.
Così, prese da parte Fuelo.
“ Che cos’hai in mente? A me puoi dirlo”.
“Solo fare un ultimo giro prima di ritornare a casa ammettendo che siamo arrivati al limite e si dovrà riparare quel poco che è rimasto”.
“E hai paura”.
Fuelo lo ammise.
E consigliò a Frosto di fare altrettanto.
Malvertino era forse la più difficile da convincere, visto che aveva preso la missione affidatale dai LISTEVERTO come un fatto personale.
“Dovresti parlarne anche con lei. Sarebbe meglio rientrare. Questo giro è stato duro”.
“Sai cosa farà. Comincerà a dire che per colpa nostra non avrà studiato a sufficienza la Neve Verde. Per lei è viva”.
Fuelo commentò: “La preferisco mentre analizza la spazzatura spaziale con quel suo programma informatico”.
“ Già. Ci ha avanzato parecchie noie. Vuoi mettere i sistemi tradizionali? Solo che ora è peggio del solito. Sente le voci”.
“Cosa fa?”
“Ma sì, gente che è stata qui prima di noi e grida disperata davanti alla Neve Verde”
“Ne è stata vittima, quindi”
“No, secondo lei inveisce contro l’indifferenza dei corpuscoli.”.
Fuelo ci ripensò: ma sì, meglio arrivare con il barile di spazzatura cosmica raschiato fino in fondo.
“Ti andrebbe di ritardare il ritorno a casa?”
“Per fare contenta Malvertino?”.
“Già. E anche per capire se dietro a quei corpuscoli può esserci qualcosa”.
“Benissimo”.

Ci erano finite tutte le navi.
No, non era una discarica spaziale, ma un cimitero con frammenti di navi e vibrazioni di voci spettrali che continuavano a intasare le frequenze radio.
Difatti, per loro tre era la Domomortoj LISTEVERTO.
Tutte quelle vite troncate nel mezzo di un viaggio che credevano a lieto fine erano divenute un’unica grande famiglia e avevano ottenuto una casa dalle stanze sconfinate con dei vicini molto accomodanti.
I corpuscoli si muovevano più lentamente, intrecciandosi in una danza cristallina dal verde sempre cangiante.
Dai toni del latte menta fino a quelli acidi.
E no, non era da attribuirsi a cambi di umore delle particelle.
Da quelle parti, emozioni e sentimenti latitavano.
Neppure il trio fece ritorno e la LISTEVERTO usò quello che aveva per andare avanti.

La storia delle ultime tre vittime della Domomortoj svanite nello spazio sotto forma di scie luminose, non aveva scoraggiato la LISTEVERTO.
Se esistevano davvero, avrebbero guidato la squadra di turno verso l’ipotetico Eldorado Planetario.

- Hanno forme a fiocco di neve – commentò il tecnico che stava ingrandendo i corpuscoli sullo schermo del computer della nave.
- Tra un po’ mi dirai che ti ricordano i ghiaccioli estivi delle gelaterie terrestri o le nevicate di casa tua.
- Più o meno. Che fastidio ti danno, i miei ricordi?
L’altro, un Sangue Misto ingobbito chiuso in una tuta troppo attillata per lui, bofonchiò: - Sono favole. Mia madre diceva che non esiste nessuna Terra.
- E tuo padre?
L’altro fece un gesto sprezzante: - Andato anche lui per la LISTEVERTO prima di quei tre. Per cosa mi è servito sapere che era un terrestre…ormai vi faccio da canarino nella miniera. Peggio di Malvertino.
- Ancora? – gli domandò il comandante.
- Sì, ancora – gli fece il verso Sangue Misto – sono certo che abbia previsto la catastrofe ascoltando le voci dei morti.
- Interessante – osservò il secondo pilota.
- Sicuro – osservò Sangue Misto – è così che gli ibridi come me e lei definiscono le onde sonore sul punto di finire il viaggio nello spazio scomparendo nella Neve Verde. Quindi vedi che era un’ipersensibile e non un’eccentrica. Ehi….guardate lì.

Aveva visto, prima di tutti loro, una scia di luce verde staccarsi dalle altre e mettersi a pulsare
come una stella in miniatura.
- Attenti – disse Sangue Misto al tecnico e al resto dell’equipaggio – fareste meglio a tornare indietro al mio segnale.
- Ah sì? Vuoi rubarmi il mestiere? – gli domandò il comandante della nave.
- Voi non sapete cosa sta per succedere – lo avvertì il mezzo alieno – non lo capireste neppure se l’evidenza vi prendesse a ceffoni.
Il comandante si avvicinò al Sangue Misto e lo scaraventò giù dalla sedia.
- Ora basta. Vuoi proprio finire male.
- Per questo, ci sono arrivato e non da solo. Mi ha parlato. E dice di non aspettarci nulla di là. C’è solo Neve Verde.
Il tecnico intervenne: - Ha ragione. È proprio quello che ci ha trasmesso quella scia nel linguaggio standard dei cosmonauti.
Il respiro gli si ruppe, mentre si metteva le mani nei capelli, tirandosi le ciocche come se fosse stato teso per un esame universitario.
Ebbe la forza di dire:- Niente altro che indifferenza…i fiocchi gelidi volteggiano a casaccio, senza che nessuna volontà li muova. E non prendono energia da niente…Moto perpetuo.

Fu la loro ultima comunicazione con la base.
E la scia?
Probabilmente, l’ultimo saluto di Malvertino, testarda fino alla fine.



Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine
 
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view post Posted on 6/11/2014, 14:11
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Milena Vallero

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Willow - Racconto
Moto Perpetuo


Ecco, si parte. L’adrenalina inizia a salire; piano, però. Non siamo ancora al culmine.
Il
clang-clang-clang sotto di me mi eccita come la musica dei violini prima di una scena horror. È un suono ritmico, regolare. Pulsa insieme al mio sangue e con esso si insinua nel mio cuore. Stiamo curvando leggermente. Vedo il primo vagone iniziare, dopo un piccolo clack, la sua lenta salita. Io sono ancora all’inizio della curva e quest’aspettativa mi carica di tensione. Non potrei mai sedermi lì, in punta, e perdermi questi secondi di attesa. Piano, piano anche io inizio l’arrampicata. Vedo le nuche di tutti quelli seduti davanti a me. In realtà ne vedo solo una parte, il resto è nascosto dai poggiatesta. Ma posso comunque capire cosa provano, ognuno di loro.
Vedo un ciuffo di capelli biondi e lisci continuare a spostarsi frenetico qua e là; dev’essere una ragazza, e deve avere una paura fottuta. Più avanti uno scorcio di testa pelata, immobile;
il Duro del Road House, signori, ecco a voi uno che mai vi darà la soddisfazione di vedere il timore sul suo viso. La gravità, mentre il treno s’innalza lento - ancora per poco, penso soddisfatto - mi schiaccia il torace, e aggiunge ulteriore tensione.
I primissimi vagoni scendono e spariscono dalla mia vista, mentre le mie orecchie si riempiono di urletti eccitati. La testa del treno ha incontrato la prima discesa, una sciocchezza di un paio di metri che serve solo a far aumentare di poco la velocità prima della discesa vera. Ecco, scendo anche io. Il vuoto d’aria è minimo, ma la vista che si presenta mi carica d’eccitazione tanto che un ampio sorriso mi si disegna sul volto. Da qui posso vedere tutto ciò che mi attende tra solo pochi secondi. La picchiata, i due giri della morte, il doppio avvitamento… Non faccio in tempo a pregustare a fondo quella visione che il treno, finalmente, scatta in avanti e io inizio a urlare. Non perché abbia paura, ma per dare sfogo alla gioia che mi pervade. Tengo sempre gli occhi aperti, non voglio perdermi un istante della folle corsa.
Che figata! penso, esaltato dalla velocità. La testa sbatte a destra e poi a sinistra contro le protezioni, l’orecchio destro mi fa un po’ male; forse dopo noterò un piccolo livido, chissà. Ma chi se ne importa, è troppo bello… arrivo agli avvitamenti, e… Dio, che mal di stomaco! Sento una fitta mostruosa al petto… cosa?... Niente, sto bene.
Oh… siamo arrivati alla fine della corsa. Cosa non darei per farlo di nuovo.
Ecco, si parte. L’adrenalina inizia a salire; piano, però. Non siamo ancora al culmine.
Il
clang-clang-clang sotto di me mi eccita come la musica dei violini prima di una scena horror. E’ un suono ritmico, regolare. Pulsa insieme al mio sangue e con esso si insinua nel mio cuore...

«Dai, sciocchina, non mi dirai mica che hai paura?»
Lisa si guardò le scarpe, arrossendo. «Beh, un pochino… senti, se tornassimo indietro?»
«Tornare indietro?» disse Luca. «Cacchio, dopo mezz’ora di coda?»
«Facciamo che vai tu; io torno indietro e ti aspetto giù. Anzi, all’avvitamento se riesco ti faccio una foto, da lì dovrei riuscire a beccarti».
«Ma dai, avevi detto che ti piacciono le montagne russe»
«No» disse Lisa, «ho detto che mi sarebbe piaciuto provare. Ma ora che sono qui… Il rumore del treno è così forte, mi dà ai nervi… e poi… se capita qualcosa? Se si stacca un vagone o cosa?»
«Senti, amico» disse un ragazzetto alle loro spalle, «vedi che la tua morosa non porti sfiga a tutti, ok?»
«Tu fatti gli affari tuoi, caccola» disse Luca senza nemmeno voltarsi, «e tu non farti le paranoie. Sai quanti giri fà ‘sta roba in un giorno, e quanti giorni gira in un anno? Tutti, tranne Natale, Pasqua e Capodanno. E non è mai successo niente».
«Beh, qualcosa è successo» disse la ‘caccola’.
«Ecco, visto? Io torno indietro».
«Stai qua. E cos’è che sarebbe successo?» chiese Luca, ora incuriosito dalla piega del discorso.
Il ragazzetto lo guardò con aria insolente.
«Ci è morto uno, sul treno verde».
«Ah sì? E quando».
«Boh, un paio d’anni fa, sì che so. Gli è venuto un infarto, o qualcosa del genere. Sembra avesse un difetto cardiaco di cui non sapeva niente. Quando il treno si è fermato stava lì, stecchito, con un gran sorrisone sulla faccia. È un bel modo di schiattare, dico io, insomma, mentre sei lì che te la spassi. Forse è meglio se capita mentre ti sbatti una, ma anche così…»
«Ma sta zitto, che hai l’aria di non avere nemmeno l’età per guidare il motorino, altro che sbatterti una…» lo schernì Luca. «Però, mica la sapevo ‘sta storia».
«Già» continuò il ragazzino, «ma la figata è un’altra. Da allora tutti quelli che vanno sul sedile dove stava il morto, vomitano l’anima e una volta uno è persino svenuto».
«Non raccontare balle! La ‘maledizione’ di chi si siede dove c’era quel poveraccio? Ma fammi il favore».
«No, è vero! Infatti non fanno più andare nessuno sull’ultimo sedile del verde. Il vagone lo tengono, ma hanno messo un nastro giallo sui due sedili in fondo e non ci fanno salire nessuno per evitare rogne».
«Non ci credo».
«Se non ci credi guarda l’ultimo vagone del verde, poi mi dici».
«Non dico che il nastro non ci sia, ma mica per quello. Ci saranno i sedili malconci che non han voglia di sistemare o che so io. Non spariamo SAV alla cazzo, dai».
«Sa… che?»
«SAV» spiegò Lisa alzando un sopracciglio. «Stronzate Alla Voyager… se l’è inventato lui. Sai, non crede a niente lui, uomo tutto d’un pezzo il mio amore».
Il ragazzo sghignazzò con lei.
«Beh, amico, nessuna SAV, come dici tu» disse poi. «È tutto vero, lo so perchè conosco uno che conosceva il morto. Cioè, un suo amico lo conosceva e…»
«Ecco, se serviva una conferma che è tutta una SAV, l’abbiamo appena avuta. Sai che ti dico, a ‘sto punto? Io ci voglio andare» dichiarò Luca.
«Ma sei scemo?» disse Lisa. «Non hai sentito cos’ha detto lui?» e indicò dietro di sè con il pollice.
«Appunto» rise Luca. «Proprio perché l’ho sentito ci voglio andare. Dai, su. Son tutte fregnacce e io lo voglio dimostrare».
«Fai pure, sai che io a quelle cose invece ci credo. Non mi trascini su quel vagone. Scendo e ti aspetto giù» disse Lisa, alzando le mani davanti a sè in segno di resa.
«No, dai! Vieni anche tu!»
«Col cavolo! Già potrei vomitare di mio là sopra, senza bisogno della maledizione di un morto. Evitiamo casini, per favore. Ti aspetto sotto». Così dicendo, facendosi largo a suon di ‘scusi’ e ‘mi fa passare per favore?’, Lisa iniziò a ripercorrere la scala a ritroso.
«Fai come vuoi» mormorò Luca. In realtà gli interessava poco che fosse andata giù, a questo punto. Voleva sfidare l’ultimo vagone, e se avesse dovuto farlo da solo, pace.
Dieci minuti dopo, finalmente fu il suo turno. Guardò il treno fermo ad attenderlo e vide che era rosso. Fece un passo indietro e lasciò passare avanti il ragazzino.
«Vai, io aspetto il verde» gli disse strizzandogli l’occhio.
«Come vuoi, amico. Buona fortuna».
Una volta carico, il treno rosso partì sferragliando e un paio di minuti dopo, mentre questo era a metà circa della salita, ne arrivò un altro colorato di un verde acceso. Luca aguzzò la vista e vide che in effetti gli ultimi due posti dell’ultimo vagone erano attraversati da una striscia di nastro giallo, molto simile a quello sulle scene del crimine nei telefilm americani.
Poco distante, un tizio con un cappello color cachi recante il logo del parco giochi - un pappagallo azzurro con una bandana da pirata sulla testa - era appollaiato su uno sgabello accanto a una console comandi. Luca gli si avvicinò.
«Vorrei salire sull’ultimo vagone» gli disse.
«Scusi, ma non si può» rispose questi, l’aria annoiata di chi passa otto ore al giorno a fare un lavoro che lo eccita quando veder girare il cestello della lavatrice.
«Perché?»
«È guasto».
«Se fosse guasto avreste tolto tutto il vagone, no?»
Il tizio fece un sospiro scocciato.
«Senta, è una disposizione del direttore del parco. Se non le va, parli con lui».
«Amico, so qual è il problema. E voglio dimostrare che non è vero niente. Salgo lì sopra» disse, indicando la coda del treno con un cenno del capo, «non vomito l’anima, scendo allegro e felice e voi avete due posti in più da sfruttare da oggi in poi».
Il tizio sembrò per un attimo indeciso. L’idea di togliersi di torno quel rompiscatole doveva allettarlo, d’altro canto non era lui il capo. Nonostante tutto, ci mise poco a decidere. Si alzò in piedi e fece un fischio con due dita. Un attimo dopo da una porta nascosta uscì un altro addetto alla giostra, vestito come lui ma di una decina d’anni più vecchio.
«Problemi, Giorgio?» chiese l’ultimo arrivato, guardando Luca come uno della sicurezza aeroportuale potrebbe guardare un presunto terrorista.
«Vuole salire sull’ultimo vagone, Mario» disse. «Io gli ho detto di non farlo, ma lui insiste. Sei tu testimone che fa tutto di testa sua, ok?»
«Guardi, signore, che è un casino salire lì… anche io non credo nei fantasmi o scempiaggini simili, ma… non è mai successo che qualcuno non sia stato male. Per favore…»
Luca fece semplicemente di no con la testa.
«Dovevo provare» disse Mario. «Ma mi sta bloccando la fila, il vagone rosso ha già finito il giro ed è lì che aspetta. Non ho voglia di perdere altro tempo». Così dicendo tirò via il nastro giallo e indicò il sedile col gesto pomposo di un lacché. «In carrozza, signore» lo canzonò. «Ma poi non dica che non l’avevamo avvisata».
Luca si sedette, baldanzoso e compiaciuto nel suo trionfo.
Il vagone partì, e lui si sentiva alla grande. Arrivò in cima alla salita, e lui stava da Dio. Fece i giri della morte, e lui urlò di felicità. All’avvitamento, invece… Lo stomaco gli si restrinse, fu come se un’incudine gli fosse stata lanciata sul petto a folle velocità. Sentì le mascelle inchiodarsi e un fiotto caldo erompere dalla sua gola.
Quando il treno si fermò, la sua faccia e i vestiti erano ricoperti dei resti di ciò che aveva mangiato a pranzo un paio d’ore prima: hot dog con senape, patatine e un muffin al cioccolato.
Le persone in attesa di salire emettevano versi di disgusto e qualche risatina.
«Gliel’avevo detto, signore» disse Mario, incapace di trattenere un riso di soddisfazione.
Luca era interdetto. Non aveva mai vomitato su nessuna giostra in vita sua, nemmeno sulla Spirale della Morte, quella dove tutti i suoi amici si erano sentiti male l’anno prima.
Mario allungò una mano per aiutarlo a scendere, ma Luca lo allontanò.
«Resto qui» disse. «Mi porti solo un asciugamano, per favore».
«Signore, non credo che un asciugamano basti per…» non finì la frase, ma la smorfia schifata che fece valeva più di mille parole.
«‘fanculo» disse semplicemente Luca. «Mi porti quell’asciugamano, per cortesia».
Mario fece un cenno a Giorgio, che meno di mezzo minuto dopo arrivò con un rotolo di carta asciugatutto.
«Le ho portato questo» disse imbarazzato, «sa, l’unico asciugamano che c’è è quello che usiamo io e lui…»
«Fa niente» disse Luca, strappandogli il rotolo dalle mani. Si pulì alla bell’e meglio, poi passò l’involto sporco ai due, che lo guardarono sconvolti.
«Lo… lo butti pure a terra, torno dopo a raccoglierlo…» disse Giorgio, palesemente sul punto di rigurgitare anche lui qualsiasi cosa avesse mangiato nella pausa pranzo.
«Ok, sono pronto. Fate partire ‘sto cazzo di treno».
Nel corso di questa strana pantomima, altri spericolati si erano accomodati nei vagoni, lasciando però liberi - chissà perché - i due posti subito davanti a lui.
«Farò un giro su questo affare senza vomitare. O non mi chiamo Luca Nardi».
Mario e Giorgio si guardarono con un’alzata di spalle, forse pensando tra loro che ormai il fesso avesse svuotato lo stomaco, quindi tanto valeva lasciarlo fare.
Il treno parti. Luca sentiva battere il cuore all’impazzata. L’unica volta in cui gli era capitato di essere così agitato su una giostra era stato al suo primo giro sullo Shuttle, quell’affare in cui vieni portato su a quaranta metri e poi sganciato con un tuffo che ti fa salire le budella in gola. Sì, ma allora aveva tredici anni, santo Dio.
Non sapeva perchè avesse rimesso il pranzo, non riusciva a spiegarselo. Forse, semplicemente, si era lasciato suggestionare. Poco male. Questa volta sarebbe arrivato bello fresco alla fine del giro, e quei coglioni che parlavano della maledizione si sarebbero ricreduti. Gli scappò una risata al pensiero di poterci finire lui in una puntata di Voyager.
«Dio ce ne scampi e liberi», mormorò divertito.
Il treno era quasi al culmine della salita.
Luca si sporse per quel poco che gli permettevano le imbracature di sicurezza e vide Lisa, piccina da quell’altezza. Aveva la testa all’insù e si riparava dal riverbero del sole con una mano; nell’altra, la macchinetta fotografica. Lui fece frullare le mani in un saluto; Lisa se ne accorse - una vista da falco, pensò con affetto e un certo orgoglio - e restituì il saluto alzando la mano libera con il pollice in su.
Certo, tutto ok, amore. Vedrai se non è così.
Superata la prima, piccola discesa, quella che lui aveva battezzato ‘l’antipasto’ mentre osservavano l’attrazione durante la lunga attesa su per le scale, il treno finalmente si tuffò, prendendo velocità. Il primo giro della morte… il secondo…
Era bellissimo.
Luca sentì stamparsi sul viso un gran sorriso da ebete; stava pensando vagamente che sperava non ci fossero quelle macchine fotografiche fisse - e comunque non sarebbe mai andato a ritirare una foto di sè coperto di vomito e con un sorriso da pirla in faccia - quando lo stomaco gli si contrasse, proprio appena la vettura si insinuò nell’avvitamento. Si sentì schiacciare al centro del petto, come se qualcosa di pesantissimo stesse premendo con violenza, come se lo sterno si stesse ripiegando su se stesso. Ebbe una vaga coscienza del treno che rallentava e subito dopo di urla terrorizzate. Poi nulla.

Ecco, si parte. L’adrenalina inizia a salire; piano, però. Non siamo ancora al culmine.
Il
clang-clang-clang sotto di me mi eccita come la musica dei violini prima di una scena horror. E’ un suono ritmico, regolare. Pulsa insieme al mio sangue e con esso si insinua nel mio cuore. Stiamo curvando leggermente. Mi volto a sinistra e… toh, c’è un ragazzo seduto a fianco a me.
Diamine, non l’avevo visto, ero convinto di essere solo su questo vagone.
«Ciao!» gli dico, «sono contento che ci sia anche tu».
Lui mi guarda un po’ confuso. Ha la faccia sporca, cacchio sembra vomito… ma no, si sarà sporcato mangiando un hot dog.
«Hai paura?» gli dico. «Ma va, non devi averne. Qui è una figata».
Vedo il primo vagone iniziare, dopo un piccolo
clack , la sua lenta salita. Io sono ancora all’inizio della curva e quest’aspettativa mi carica di tensione. Non potrei mai sedermi lì, in punta, per perdermi questi secondi di attesa. Piano, piano anche io inizio l’arrampicata.
«Stai tranquillo, amico» dico al mio nuovo compagno d’avventura, «sarà uno spasso. Vedi, qui sopra il divertimento non finisce mai!».


Autorizzo Jackie all'eventuale pubblicazione su Skan Magazine

Eccoci qua. Doverosa annotazione: sono pienamente consapevole del fatto che la trama del racconto non sia poi così originale. Ma, dopo aver scartato l’allettante dente scheggiato, titolo stupendo ma che non mi portava da nessuna parte, leggendo Moto Perpetuo mi si è stampata in testa l’immagine delle montagne russe di Gardaland e non sono riuscita a farla andar via. Quindi, mi sono adattata e il racconto qui sopra è quello che ne è risultato. Ho cercato di concentrarmi più che altro sui dialoghi e sul tentativo di fare più show che tell; spero di esserci riuscita.
A prescindere da tutto, mi sono divertita molto a scriverlo, più di altri racconti scritti in passato. Spero vi siate divertiti anche voi, almeno un pochino, a leggerlo!
 
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view post Posted on 6/11/2014, 15:13
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Losco Figuro

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Il mistero del dente scheggiato

Marco si svegliò con la lingua dolorante, senza sapere perché.
Era una strana sensazione, a metà tra una scottatura – ma non aveva mangiato nulla di bollente – e un’irritazione. Non un dolore intenso, questo no, ma comunque fastidioso.
Sì alzò, andò in bagno e si chinò sopra il lavandino per guardarsi allo specchio, cercando di capire cosa ci fosse che non andava. Quando vide il riflesso della sua bocca aperta, però, si dimenticò subito del motivo per cui lo stava guardando: qualcos’altro attirò la sua attenzione.
Si girò da un lato, poi dall’altro, cercando nuove angolazioni che potessero giustificare, o forse cambiare, la realtà di ciò che stava vedendo, ma non importava da quale prospettiva lo guardasse: uno dei suoi incisivi superiori, il destro per la precisione, era scheggiato. Non si trattava di un grande danno, aveva giusto un angolino mancante, ma era qualcosa di cui non riusciva a darsi una spiegazione. Cosa poteva mai averglielo danneggiato?
Mentre tentava, senza successo, di ricordare un qualsivoglia evento che potesse giustificare l’accaduto, provò a tastare il dente, dapprima con la punta della lingua, poi con un dito. La superficie in corrispondenza della scheggiatura era ruvida e acuminata, ma il dente in sé non gli faceva alcun male, e sembrava essere saldo al suo posto.
Provò a lavarlo, usando lo spazzolino con estrema cautela. Non accadde niente di particolare. Niente dolore, niente fastidio, l’incisivo non perse altri pezzi, né riacquistò miracolosamente quello mancante.
Più confuso che preoccupato, Marco finì le proprie abluzioni, prese il telefono e fissò un appuntamento con il dentista per quel giorno stesso, dopo il lavoro.
Non era un grande frequentatore di dentisti. Ogni tanto si recava dal suo per un detartraggio, e saltava più controlli periodici di quanti non ne facesse. Del resto, non aveva mai sofferto di carie né avuto altri problemi che necessitassero dell’intervento di un dottore, almeno fino a quel momento.
Per tutto il resto della giornata, non riuscì a evitare di pensare al dente. Quand’anche si distraeva, concentrandosi sul lavoro o parlando con qualcuno, poco dopo si ritrovava ad esplorare l’insolito spazio vuoto con la lingua, che peraltro continuava a dargli fastidio. Per quanto tentasse di obbligarsi a non farlo, ci ricadeva regolarmente, e alla fine della giornata lavorativa quasi si precipitò giù dalle scale pur di arrivare prima possibile dal dentista.
Quando entrò nello studio, con lo stomaco che gli brontolava perché, per sicurezza, non aveva mangiato nulla per tutto il giorno, la segretaria gli rivolse un sorriso che sembrava esserle stato estorto con la forza.
«Buon pomeriggio dottor Mari, il dottore la sta aspettando».
«Grazie», replicò lui, coprendosi istintivamente la bocca con la mano per non rendere la donna partecipe della sua disgrazia, per quanto la cosa, a ben pensarci, fosse stupida. Era la segretaria di un odontoiatra, dopo tutto, doveva essere abituata a ben peggio.
«Dottor Mari, buongiorno!» lo salutò il dottore al suo ingresso, con un calore che gli parve eccessivo, quasi fosse stato contento dell’incidente che aveva subito. «Allora, cosa le è successo? Anna mi parlava di un dente rotto».
«Rotto, be’, no», farfugliò Marco, «penso sia solo scheggiato, anche se…»
«E cosa ha fatto, mangiato qualcosa di troppo duro?»
«No, veramente…»
«Avanti, si sieda, mi faccia vedere», proseguì imperterrito il dentista, spingendogli il gomito, con una manona che sarebbe apparsa più adatta a un manovale, per guidarlo verso la poltrona.
Marco si sedette. «Vede, stamattina…» tentò di dire prima che due dita grosse come würstel gli serrassero la mascella in una morsa, tirando verso il basso.
«Apra bene bene, sì, così», continuò il medico, infilandogli in bocca uno specchietto. «Sì, è davvero scheggiato, un danno molto superficiale in effetti».
«M cshh…?» farfugliò lui, tentando di parlare senza chiudere la bocca.
«Avrebbe anche bisogno di una cura gengivale» aggiunse l’altro, ignorandolo.
Marco riuscì ad allontanargli la mano, non senza sforzo. «Ma che c’entra, scusi?» protestò. «Mica mi sarò scheggiato il dente perché ho le gengive irritate!»
«No, no, ma già che c’è…»
«Ma mi dica piuttosto che mi è successo al dente!»
«Questo dovrebbe dirmelo lei, veramente.»
«Ma io non lo so, mi sono svegliato così stamattina, col dente scheggiato e la lingua che mi faceva male.»
«E perché?»
«Ma cosa ne so? Me lo dica lei!»
«Vediamo,» disse il dentista riaprendogli la bocca a forza, «no, non ha niente. Probabilmente ha strofinato la lingua contro il dente durante la notte e l’ha irritata, niente di grave».
«Sì, ma il dente?»
«Le fa male?»
«No, ma…»
«Lo immaginavo. Per adesso non è un problema, ma potrebbe diventarlo. Potrei ricostruirglielo ma non durerebbe molto, la cosa migliore sarebbe limarlo e incapsularlo.»
«Addirittura?»
«È la soluzione più efficace.»
«E quanto mi verrebbe a costare?»
«Dirò ad Anna di farle un preventivo, poi possiamo metterci d’accordo per quando procedere.»
«E intanto io cosa faccio?»
«Niente». A tradimento, l’uomo gli cacciò in bocca un batuffolo di ovatta, tamponandogli l’incisivo come se avesse dovuto fermare un’emorragia. «Ecco qua, per il momento basterà, ma non mangi niente di duro ed eviti gli zuccheri».

Marco lasciò lo studio con le idee meno chiare di quanto le avesse avute arrivandoci. Di nuovo, sapeva solo che avrebbe dovuto spendere un bel mucchio di soldi senza neanche avere idea del perché.
Cenò con un brodino, facendo strane smorfie per deglutire senza che la punta della lingua gli finisse contro il dente scheggiato. Fortuna che viveva solo, perché si sentiva terribilmente ridicolo.
Nervoso com’era, decise di andare a dormire subito dopo cena, ma faticava a prendere sonno. Continuava a tormentarsi l’incisivo come se a forza di leccarlo potesse riportarlo allo stato originario, e questo non faceva altro che peggiorare la sua irritazione. Finché, all’improvviso, la sensazione che provava cambiò, ed ebbe l’impressione di sentire qualcosa che gli solleticava la punta della lingua.
Allarmato, pur senza comprenderne la ragione, schizzò fuori dal letto e corse in bagno a guardarsi il dente, senza riscontrare nulla di nuovo. Di nuovo, questa volta di proposito, lo accarezzò con la lingua, senza che la strana sensazione si ripetesse.
Non convinto, si avvicinò allo specchio quanto più poteva, sporgendosi oltre il lavandino. Continuò a non vedere nulla.
Accese le luci ai lati del lavabo, per avere un’illuminazione più diretta, e fu allora che notò un’ombra sottile, come un pelo che sporgesse dall’angolo scheggiato. Ma come poteva esserci un pelo in un dente?
Tentò di afferrarlo tra pollice e incide per tirarlo via. Premette i polpastrelli l’uno contro l’altro, ma non sentiva nulla tra essi, e nulla venne via quando li estrasse. Ma, ricontrollando, gli parve che il pelo non fosse più lì, se mai c’era stato. Probabilmente si era trattato solo di un’illusione ottica.
Rinfrancato, ma non troppo, se ne tornò a dormire.
La mattina dopo si esaminò la bocca come prima cosa, e trasalì: il pelo c’era eccome, ed era anche più lungo di quanto gli fosse parso la notte prima.
Con gli occhi sgranati, si voltò, aprì un mobiletto e prese una pinzetta. Quando tornò a specchiarsi, pronto a estirpare il corpo estraneo, non lo trovò più.
Decisamente, qualcosa non andava.
Telefonò in ufficio, dandosi malato, e si precipitò dal dentista, intercettandolo prima ancora che potesse aprire lo studio.
Poco dopo, a forza di sbraitare e insistere, stava guardando una lastra radiografica di pochi centimetri.
«Come vede non c’è nulla», sottolineò il dottore.
«E quelli? Cosa sono tutte quelle cose ramificate lì dentro?» domandò, quasi isterico.
«I canali del suo dente, perfettamente normali. Non c’è nulla che non debba esserci.»
Marco tornò a casa nervoso per il poco aiuto ricevuto.
Dato che non doveva andare al lavoro, rimase quasi tutto il giorno nel bagno, esaminando il dente di continuo. Arrivò al punto di fingere di fare altro e poi piazzarsi davanti allo specchio all’improvviso, per prendere il misterioso pelo di sorpresa, ma non ne ricavò niente, a parte sentirsi molto, molto stupido.
Prima di andare a dormire si preparò una dose tripla di camomilla, sperando che lo avrebbe aiutato a rilassarsi.
Per un po’ parve perfino funzionare, finché non si svegliò di soprassalto con uno strano prurito alla bocca.
Si passò il dorso della mano sulle labbra, e lo ritrasse con orrore quando sfiorò un groviglio di fibre sottili, simili a capelli, che si contorcevano come avessero avuto vita propria.
Si rizzò a sedere e accese la luce del comodino, solo per desiderare di non averlo mai fatto. Davanti ai suoi occhi si agitava una massa di filamenti neri che evidentemente scaturiva dalla sua bocca. Peggio ancora, dal suo dente.
Allungò le mani, tuffandole nel groviglio senza fermarsi a riflettere. Qualunque cosa fosse doveva strapparla via, subito!
I peli gli si avvilupparono intorno a mani e polsi, vanificando con forza prodigiosa ogni tentativo di asportarli. Poi, quando stava per accettare la sconfitta, sentì che si allontanavano. Vi fu una sensazione strana, come di qualcosa che gli venisse strappato via di colpo, seguita da un senso di leggerezza, e davanti a lui prese corpo ciò che solo in mancanza di una definizione migliore si poteva chiamare una creatura. In sostanza era solo una matassa di filamenti sottilissimi che si dipanava da un punto centrale, a stento grande come l’unghia di un mignolo. I peli ondeggiavano e si contorcevano in un moto perpetuo che appariva quasi ipnotico, tanto che Marco rimase incantato a fissarlo per lungo tempo prima di tornare lucido e capire che doveva fuggire. Solo allora gettò via le coperte, si precipitò fuori dal letto e mise un piede in fallo, cadendo faccia avanti e risvegliandosi sul pavimento, dolorante.
Accese la luce e si guardò intorno. Il letto era uno sfacelo, ma era l’unica cosa in disordine nella stanza; nessuna traccia di esseri mostruosi e filamenti animati.
Quasi per inerzia, andò in bagno e si guardò allo specchio. Non c’era nulla, ma per un istante gli parve di vedere un pelo nero che si ritirava in tutta fretta.

«Ma lei è ancora qui?» lo accolse il dentista quando per la seconda volta se lo ritrovò davanti alla porta dello studio ancora chiusa.
«Deve tirarmi il dente», lo aggredì Marco.
«Estrarlo? Ma non…»
«È mio, decido io, deve tirarlo, estrarlo, come le pare, deve sparire dalla mia bocca.»
«Ma serve del tempo, devo prenderle le impronte, far preparare un provvisorio…»
«Non mi interessa, deve togliermelo adesso.»
«Lei non sta bene», affermò il medico, «forse …»
«No che non sto bene, è per questo che deve fare quello che le chiedo!» ruggì lui. Poi, di colpo, abbassò le spalle e lo sguardo, la voce ridotta a un sussurro. «… per favore».
«Mi rifiuto di estrarle un dente sano. Non so perché sia così ossessionato da questa cosa, ma forse avrebbe bisogno di un altro tipo di medico.»
«Lei non capisce», bofonchiò lui. «Io… il dente… c’è…» Ma cosa avrebbe potuto dire? Che nel suo dente c’era un mostro, che oltretutto aveva solamente sognato? Lui stesso non avrebbe creduto a una storia del genere.
«Non importa», concluse, allontanandosi con aria afflitta.
Tornato a casa, aveva preso una decisione. Se il dottore non voleva aiutarlo, avrebbe risolto la faccenda da solo, liberandosi di quel dannato dente e di qualunque cosa vi vivesse dentro.
Ripescò dal garage una cassetta degli attrezzi e prese a scavarvi dentro finché non trovò una robusta pinza metallica con tanto di manico antiscivolo.
La portò dentro casa con aria risoluta, stupendosi del suo stesso coraggio.
Non avendo alcool, decise prima di lavarla con della grappa che qualcuno gli aveva regalato e lui, da bravo astemio, non aveva mai aperto. Quindi si dispose davanti allo specchio, pronto per quello che doveva fare. Alzò la pinza all’altezza della bocca e la fissò a lungo, colto da improvvisa indecisione. I suoi occhi presero a saettare tra questa e la superficie riflettente, come in cerca di un segno che potesse smentire o confermare la risoluzione che aveva preso. Ma la pinza era una pinza, lo specchio uno specchio, e nessuno dei due pareva intenzionato a elargirgli perle di saggezza.
Fece un lungo, profondo respiro, e aprì la bocca. La richiuse e afferrò la bottiglia di grappa, ancora piena per metà. Doveva almeno anestetizzarsi un po’.
Bevve un sorso, fece una smorfia e cominciò a tossire, ma si fece forza e ne bevve un secondo, poi un terzo. Prima che la bottiglia fosse vuota, vi aveva quasi preso gusto, e aveva iniziato a sentirsi più sicuro di sé, pronto anche ad affrontare mostri dei denti.
Gettò sul pavimento la bottiglia vuota, incurante dei vetri che si spargevano ovunque, e con un movimento secco afferrò l’incisivo con la pinza, iniziando a tirare. Il dolore gli strappò un urlo, ma era determinato e non smise per un istante di stringere e tirare, muovendo la pinza avanti e indietro. Se non altro, l’alcool lo intontiva a sufficienza.
Proseguì per ore, o forse solo minuti, finché, con un ultimo, supremo sforzo, sollevò trionfante il trofeo della sua battaglia: un dente perfettamente sano.
Un fiotto di sangue gli schizzò dalla bocca. Aveva dimenticato l’ovatta!
Si voltò per prenderla, lasciandosi dietro una scia di liquido rosso e filamenti neri, che si agitavano come vermi in procinto di annegare. Quando allungò la mano, un ciuffo di peli neri scese dall’alto e vi si abbarbicò, bloccandogliela.
Lottò inutilmente per liberarsi, mentre nuovi tentacoli fuoriuscivano dalla sua bocca a getto continuo, accompagnando il sangue che non accennava a fermarsi. Li afferrò con l’altra mano, cercando senza successo di tirarli via da sé.
In pochi istanti, si ritrovò completamente avvolto dai filamenti, che presero ad avvilupparlo come in un bozzolo. Quando sentì la pressione attorno alla gola, reagì con tanta violenza che riuscì a liberarsi le mani e a portarsele al collo, per cercare di contrastare la forza che lo stava strangolando. Fu l’ultima cosa di cui ebbe coscienza, poi il buio si abbatté su di lui.

Lo ritrovarono dopo diversi giorni, quando il suo datore di lavoro iniziò a preoccuparsi perché, dopo aver chiamato due mattine di seguito per avvisare che non stava bene, non aveva più dato notizie di sé.
Dopo aver sfondato la porta del suo appartamento, lo videro disteso sul pavimento del bagno, in una pozza di sangue rappreso. Accanto a lui vi erano vetri rotti, una pinza in metallo e l’incisivo superiore sinistro che gli mancava dalla bocca spalancata. Aveva un’espressione terrorizzata, gli occhi che sporgevano dalle orbite e le mani attorno alla gola.
Gli inquirenti parlarono con le ultime persone che avevano avuto a che fare con lui, e quando ascoltarono la testimonianza del suo dentista ricostruirono i dettagli della vicenda, a partire dall’ossessione che Mari aveva sviluppato per i propri denti.
Quello che non riuscirono mai a capire fu perché avesse tracciato le lettere SOS nel sangue, e soprattutto come fosse riuscito a strangolarsi da solo.
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 7/11/2014, 12:15




MOTO PERPETUO


Doveva essere stata davvero una villa di gran classe.
In stato di abbandono oramai da un paio di lustri, villa Scanardi per buona parte degli anni ottanta aveva rappresentato il simbolo di una ricchezza che probabilmente non sarebbe più tornata.
Ettore e Nicola, amici dai tempi dell'università, non si erano fatti pregare per il lavoro che si accingevano a svolgere nella villa.
D'altra parte, il favoloso periodo dove tutto sembrava possibile era passato e non era rimasto niente per due come loro. Utopici, romantici e laureati in lettere e filosofia. Ecco ciò che erano.
Avendo capito dopo un lasso di tempo relativamente breve cosa il mondo del lavoro non poteva dare, si erano rimboccati le maniche e si erano inventati la loro piccola attività.
“Hai preso le chiavi del lucchetto?”
“...ciao bello, ti richiamo verso sera... si, si, solito posto anche mercoledì... certamente... ok... ok...” stava dicendo Ettore al telefono mentre, annuendo in direzione dell'amico, si frugava le tasche estraendo il mazzo fornito loro dal committente.
Chiuse la comunicazione e si abbassò, armeggiando sulla catena che teneva chiuso il cancello.
Uno scatto secco ed il lucchetto si aprì.
Spinse i battenti e, fregandosi le mani, osservò il vialetto d'accesso alla villa, completamente invaso da entrambi i lati dalla vegetazione circostante. Tuttavia era ancora percorribile.
Varcò la soglia della proprietà.
Nicola avviò il furgone e lo seguì a passo d'uomo.
“Quanto abbiamo concordato con il tipo?” chiese.
“Teoricamente settanta euro a testa più le spese, se teniamo gli scontrini” disse Ettore mentre armeggiava con il mazzo di chiavi.
Avevano avviato da pochi mesi un servizio – ovviamente retribuito in nero – di svuotamento cantine e soffitte. Grazie ad un piccolo prestito dalle rispettive famiglie avevano acquistato un vecchio e spazioso furgone; ad entrambi non dispiaceva questo tipo di vita: bisognava adattarsi molto, ma si era allo stesso tempo liberi di gestire i propri orari, gustando quel sottile piacere di sentirsi padroni della propria vita e delle proprie giornate.
“Dimmi tu, che spreco! Va bene tutto, ma lasciare un immobile di questo tipo all'abbandono mi sembra veramente un insulto a gente come noi” e dicendolo, Nicola scese dal furgone e si affiancò all'amico.
“Come noi? Vorrai dire come te! Non vedi che portamento? Quante volte ti devo dire che svuoto cantine solo per passione? Fate largo, arriva lu Re!” e, detto questo, entrò seguito dall'amico.

L'atrio della villa appariva poco illuminato e polveroso.
Anni e anni di polvere e finestre chiuse avevano reso l'ambiente molto pittoresco e cinematografico. Tetro, certamente, ma con un suo stile da horror hollywoodiano che avrebbe fatto la felicità di più di un regista di genere.
Fecero un rapido giro per sollevare le saracinesche ed arieggiare lo spazio, in modo da farsi un'idea dell'architettura della villa.
Ai lati dell'atrio due porte conducevano a stanze tra di loro identiche nel perimetro, ma differenti nell'organizzazione: a destra si potevano trovare due ripartizioni – una più ampia e un'altra più contenuta divise da un muretto che si estendeva per metà della larghezza – mentre a sinistra, nella probabile ex sala da pranzo, si ammirava un unico grande spazio dal soffitto alto. Si trovavano proprio al centro di esso.
“Fa paura eh?”
“Beh, diciamocelo chiaramente: è un po' difficile in questo momento evitare di pensare alle tonnellate di thriller, horror e b-movie che ci guardavamo in appartamento all'università.” E così dicendo, Nicola si avvicinò ad un orologio a pendolo posto all'angolo della sala.
Mogano satinato. Impolverato ma ancora perfetto nella forma.
“Questo è veramente il top!”
“Lo carichiamo?” disse Ettore avvicinandosi e tastando l'oggetto. “Sai che guadagno se lo tiriamo a lucido con un po' di olio paglierino e facciamo revisionare gli ingranaggi? Sai quel tipo, amico di mio zio...”
“Chi, il postino?”
“No, no. Il baffo.”
“Appunto! Non ha mica i baffi, il postino?”
“Si, ma il baffo è il baffo.” Detto questo, Ettore si lanciò in un'imitazione grottesca gesticolando con le dita ed imitando dei baffi a manubrio.
“...azz! Adesso ho capito, si! Il baffo!!”
“Evvaii!” esclamarono all'unisono i due amici, goliardi a vita, come sempre.
Preso dall'entusiasmo Ettore iniziò a sfogliare la rubrica del cellulare, rapito dalle sue valutazioni.
“...comunque ti stavo dicendo che... volevo dire... ah, si... il baffo, appunto, mi dicono che abbia il pallino della meccanica e degli ingranaggi e, anche se è solo un hobbista, l'anno scorso ha sistemato alla perfezione per la cognata un orologio a cucù reperito in discarica. Se portiamo il pendolo a lui, ce lo rimette a nuovo e non ci chiede niente visto che, quando si imbarca in riparazioni varie, dice di farlo per curiosità personale. Direi di provare.”
“Beh, se fosse per caso un pendolo funzionante, magari non dovremo nemmeno chiedere aiuto”.
“Io intanto vado su” disse Ettore “se non sbaglio tutta la roba da buttare è al primo piano.”
Nicola fece per seguirlo. Prima di indirizzarsi verso le scale si fermò ad osservare ancora per un po' il pendolo. Stava oscillando. Probabilmente era stato toccato da Ettore. Lo fermò e lo studiò ancora per qualche secondo. Il legno che separava l'alloggiamento della barra inferiormente ed il quadrante dell'orologio superiormente, recava un'incisione: NOTOS. Probabilmente il nome della ditta che l'aveva realizzato.
Raggiunse Ettore al piano di sopra.
Poco dopo il pendolo ricominciò ad oscillare.

Fecero un lavoro molto accurato per tutta la mattinata. Dividevano meticolosamente il materiale da buttare per tipologia: legno con legno, metallo con metallo, vetro, materie plastiche, eccetera. Man mano che Nicola creava le cataste Ettore le riversava dentro a dei barili in plastica dura che erano soliti utilizzare per gli sgomberi. Lavorarono sodo per circa quattro ore e riuscirono a gettare tutto con due soli viaggi presso la discarica comunale, ritornando poi alla villa per recuperare l'orologio a pendolo e richiudere tutte le finestre che avevano lasciato spalancate.
Erano di buon'umore. I tempi eran quel che erano e le modeste entrate come quelle relative al lavoro che stavano svolgendo rappresentavano per il momento l'unica certezza.
Stavolta era Nicola ad avere le chiavi. Aprì l'ampia porta principale ed entrò; percorse l'atrio e svoltò a sinistra.
Si avviò verso l'orologio. Lo guardò. Si fermò.
“...adesso chiamo mio zio e mi faccio passare il numero del baffo...” stava dicendo Ettore, quando all'improvviso andò a sbattere contro Nicola, fermo all'improvviso.
“Ehi! Se freni di botto è ovvio che poi ti tampono... ehi! Pronto? Pronto-pronto?”
“Scusa amico, ma sono perplesso.”
“Non ti interessa più l'orologio?”
“Non è questo ma...”
“Non è che stai cercando di dirmi che vuoi gestire questa cosa tutto da solo?”
“Secondo te è normale che il pendolo stia oscillando?”
“Ettore stupido... Ettore no capire... Ettore no buono di compriendere!” lo schernì, forse per dissimulare il fastidio per l'improvviso cambio d'umore del suo socio.
“Dai Ettore, non sto scherzando. Giuro che quando siamo entrati stamattina c'è stato un momento in cui ho fermato il pendolo. Credevo l'avessi toccato tu ed avessi avviato il movimento.”
“Io non ho toccato nulla a parte la superficie del legno. Sarà stato un colpo di vento. Non è che stiamo farneticando davanti ad un ingranaggio che funziona così proprio perché così dev'essere? Il vento l'ha avviato e lui sta vivendo di rendita, una sorta di moto perpetuo. Oppure sarà una specie di meccanismo autoalimentato. Possibile che sia come un cronografo ricaricabile?”
“Appunto, come dici tu, ricaricabile. Se non sbaglio, c'è una molla.”
“Quindi?”
“Quindi non so. Diciamo che c'è qualcosa di sbagliato. Non vorrei che fosse entrato qualcuno nella villa. Che ne so, uno zingaro...”
Detto questo, decisero di tornare in furgone per munirsi di un paio di martelli, in caso ci fosse stato bisogno di difendersi. Fecero il giro di tutte le stanze del piano terra, passando davanti al pendolo che, perfettamente funzionante, oscillava senza sosta. Non solo non trovarono nessuno, ma poterono constatare che la casa era esattamente come l'avevano lasciata.
Perplessi, appoggiarono i martelli a terra e si misero davanti al pendolo, osservandolo.
Il movimento non dava cenno di esitazione, inoltre potevano distintamente udire un ticchettio che prima nessuno dei due aveva notato.
“Sicuro che al nostro arrivo non si sentisse questo tic-tac?”
“Dunque, le cose stanno così: o siamo entrambi un po' stanchini, o siamo improvvisamente impazziti. Io sono sicuro che prima non si sentisse nulla e il fatto che anche tu stia esprimendo un ragionevole dubbio parla da solo” disse Nicola.
“Per prima cosa vediamo come funziona questo pendolo, prova a fermarlo. Anzi, lo faccio io.”
Ettore quindi si avvicinò e fece per toccare la barra. Prima che le sue mani entrassero a contatto con il metallo, sentì una scarica fortissima trapassargli il braccio, passare per la nuca ed arrivare al centro del petto. Contemporaneamente, venne scalzato violentemente contro la parete opposta a quella sulla quale era appoggiato l'orologio. Poi il nulla.
Era a terra immobile.
Dopo qualche secondo di blocco mentale, Nicola corse accanto all'amico.
“No, no, no, no! Ettore! Ettore! Dimmi qualcosa! Mi senti? Dai, non mi lasciare nella merda!”
Provò a toccarlo. Nessuna reazione.
Ormai Nicola era completamente in panico. Scuoteva l'amico, che non rispondeva, aveva occhi vitrei, inespressivi e, probabilmente, senza vita.
Quando si voltò verso l'orologio, vide che sulle pareti si stavano materializzando dei segni.
Istintivamente, senza capire il perché, provò a toccare il pendolo nella vana speranza di interrompere il suo oscillare. Cercando di farlo, ebbe un secondo durante il quale percepì un blocco del movimento – del pendolo ma anche del proprio braccio e del proprio corpo – seguito da una forza d'urto tremenda, che lo spinse a mezz'aria, facendolo gravitare al centro della stanza. I segni sulle pareti ora erano definiti. Sembravano fatti con della cenere o con del carbone. Era una sola parola: NOTOS.
Si guardò intorno.
Scoprì con orrore che la parola si ripeteva di continuo su tutte le pareti.
NOTOS, NOTOS, NOTOS, NOTOS.
Era una sensazione terrificante. Consapevole dell'imminente fine, non vide sfrecciare davanti a sé le fasi cruciali della propria vita. Non vide sé stesso dall'esterno del proprio corpo, mentre abbandonava la vita terrena. Non vide nulla; solo la stanza girare. Sempre più veloce.
La consapevolezza delle scritte sui muri apparse da sole lo faceva cadere totalmente in balia del terrore.
NOTOS, NOTOS, NOTOS, NOTOS.
Tutto d'un tratto il suo vorticare cessò e venne spinto energicamente a terra, al centro della stanza.
Prima del nulla, davanti alla sua visuale rivolta al soffitto, comparve un muso di caprone grigio, capovolto rispetto alla sua posizione. La testa di animale era impiantata su un petto muscoloso dalle sembianze umane.
L'uomo-caprone parlò, emettendo il suo verdetto:
Non Osare Toccare O Soccombi.
Dopodiché lo vide abbassarsi sul suo viso ed aprire la bocca animalesca.
L'ultima cosa che sentì fu un alito gelido.
Poi il nero.


Autorizzo la pubblicazione su Skan Magazine
 
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Ceranu
view post Posted on 7/11/2014, 22:44




Rebbi di sangue
di
Francesco Nucera

La luce della stanza vacillò per un momento. Giulio distolse lo sguardo dal giornale, incrociò gli occhi di Marta e sorrise. Lei ricambiò e si tuffò nuovamente nella lettura.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiese lui alzandosi dalla poltrona. Profonde occhiaie gli scavavano il volto, gli occhi scuri navigavano nel mare rosso della stanchezza.
«No grazie, finisco il capitolo e vado a dormire.» La donna era rannicchiata sotto una coperta sul divano di fronte. I capelli biondi erano raccolti in una coda appoggiata sulla spalla sinistra.
Giulio avanzò piano verso la cucina. Lo sguardo fisso sulla maniglia a pochi metri, la mascella serrata e il fiato corto di chi ha paura di farsi sentire. Poggiò delicatamente il piede sul vecchio parquet che cigolò. Qualcosa alla sua destra si mosse fulmineo. Un'ombra rapida come i pensieri, inconsistente come la felicità. Un brivido freddo lo attraversò, ma si sforzò di sembrare il più naturale possibile.
«Amore tu sei sempre sicura?» Chiese ad alta voce.
Marta alzò lo sguardo verso il compagno, aveva l'espressione della mamma che rassicura il figlioletto. «Sì amore. Io qui ci sono nata.»
«Va bene.» L'uomo riprese l'incedere insicuro. Mise una mano nella stanza buia e premette l'interruttore. Un primo bagliore, di meno di un secondo, illuminò qualcosa di scuro sul pavimento. Il buio tornò e subito dopo fu ancora luce.
«Porca puttana!» Giulio urlò. Le vene del collo gli si gonfiarono, il volto impallidì. Mosse un passo alla sua destra. Con la mano cercò lo stipite, lo mancò e finì a terra.
Marta si alzò di scatto dal divano e corse da lui.
«Che succede?»
Giulio indietreggiò carponi. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, muoveva la bocca alla ricerca delle parole che non uscivano.
La donna lo lasciò lì, decisa a capire cosa l'avesse spaventato questa volta. Entrò in cucina e imprecò. «E che cazzo!» Recuperò i guanti da un cassetto, si chinò sul cadavere di un topo circondato dal sangue e lo sollevò. La testa dell'animale rimase a terra. Marta non si scompose, afferrò il capo e gettò tutto in un sacchetto nero.
«Schultz si dev'essere divertito un po'.»
«Quella non può essere opera di un gatto.» Giulio ricominciò a parlare, ma era in balia di tremori incontrollabili.
Marta sbuffò. «Vuoi smetterla di fare il ragazzino? Viviamo in campagna. É normale trovare certe sorprese.»
«Com'è normale che la televisione si accenda in piena notte?» Giulio si rialzò piano. «O che la porta di casa si spalanchi da sola? O forse è normale che la luce continui a saltare?» Si guardò attorno e abbassò il tono. «E poi quelle voci.»
«Smettila di fare il bambino. Qui l'unica cosa strana è la tua paura. La stessa che ti sei portato dietro dalla città.» Marta prese il mocio e lo passò sul pavimento. Il sangue a contatto con l'acqua mista ad ammoniaca si diluì diventando rosa. Rinfrancata dal silenzio del compagno rincarò la dose.
«Ci siamo trasferiti qui perché dovevi staccare. Ora siamo al punto di partenza. Non ho la forza di vivere ancora questa storia. E tu lo sai benissimo.»
Giulio abbassò lo sguardo. Fissò la punta dei piedi sentendosi in difetto. Conosceva il passato di Marta, sapeva che le stava facendo del male. «Sono stato da uno psicologo. Ma non è cambiato nulla.» Strinse il pugno facendo gonfiare l'avambraccio fino a sentire la maglietta tirare. «Diceva che io ero un debole. Io!» La paura si trasformò in frustrazione. «Quell'imbecille non sapeva nemmeno con chi stava parlando. Ma cosa potevo aspettarmi da uno che fa Esposito di cognome.»
«Ci sarebbe una persona.» La donna abbozzò un sorriso, ma nei suoi occhi c'era tristezza. «Me ne parlò Ester prima di...» Smise di pulire e andò incontro a Giulio. Una lacrima le bagnò la guancia. «Mi disse che fu doloroso, ma che per un periodo si sentì meglio.» Marta si voltò per nascondere il pianto. «Lei chiese più volte di richiamarlo. Ma mio padre non ne voleva sapere. Insisteva che quello fosse solo un truffatore. L'ironia fu scoprire che l'ultimo giorno papà aveva ceduto.»
Giulio la strinse nel tentativo di confortarla. Il corpo di lei si perse tra i muscoli tesi dell'uomo. Avere qualcuno da proteggere gli fece tornare il coraggio. «Hai ragione. Forse mi sto facendo suggestionare.»

Alle tre del mattino Giulio si alzò dal letto. Nel buio, rischiarato solo dalla luce che filtrava dalle persiane, continuava a percepire il movimento di ombre. Dal piano di sotto arrivavano scricchiolii e passi rapidi. Rimpianse l'idea di rifugiarsi in quella vecchia casa, ma dai racconti di Marta gli era parso di capire che quello fosse un piccolo angolo di paradiso. L'unico posto in cui si era sentita veramente a casa. Così aveva sperato che anche per lui potesse essere la stesa cosa.
Andò in bagno per sciacquarsi la faccia. Svegliarsi a quell'ora non era poi male. Avrebbe potuto contattare Tokyo, mancava poco a suggellare i patti per ricreare l'asse. Fortunatamente nonostante i settantanni trascorsi, anche lì non mancavano i nostalgici del Reich.
Da diverso tempo si chiedeva se tutto quello che gli stava succedendo fosse frutto dello stress. Ma sapeva che zingari, ebrei e negri conoscevano le arti oscure. Doveva essere colpa loro.
Arrivò allo specchio e si guardò con un'espressione schifata. Si stava trascurando troppo. Non avrebbe mai tollerato che uno dei suoi uomini tenesse la barba così lunga. Aprì un armadietto e recuperò il vecchio rasoio del padre di Marta.
«A.M.F.» Lesse l'incisione al centro dell'impugnatura d'argento. Usare quell'oggetto lo eccitava, ma non avrebbe mai fatto la stessa cosa con i suoi cimeli. Quelli, marchiati con la stessa sigla, li teneva nascosti nello studio.
Poggiò la lama sulla guancia, e si bloccò. La sua immagine riflessa sanguinava. Un leggero rivolo colava da un sottilissimo taglio. Giulio inspirò profondamente cercando di mantenere l'autocontrollo. Abbandonò il rasoio sul lavandino e portò la mano al volto in corrispondenza della prima goccia. La ritrasse e si sentì sollevato nel vedere che le dita erano pulite. Tornò a guardare il suo alter ego convinto di vederlo integro. Invece il taglio si era dilatato, il sangue aveva già inondato la maglietta bianca che indossava. Istintivamente se la tolse e la gettò a terra, ma questa era candida come quando l'aveva indossata. Chiuse gli occhi e si diede due manate sul cranio rasato. «Riprenditi cazzo!» Cercò di non urlare. Non voleva svegliare Marta, ma era sempre più difficile rimanere calmo.
Con le palpebre serrate si girò verso lo specchio. Poggiò i palmi sulla superficie liscia e si fece coraggio. Era solo lui, nessun altro. Aprì gli occhi. Il sangue non c'era più. Sollevato espirò buttando fuori tutta l'angoscia. Ma il suo riflesso non fece lo stesso. Mostrò i denti in un ghigno sadico. Giulio non riuscì a ritrarsi. Due mani, uscite dallo specchio, lo bloccarono. Cercò di divincolarsi ma non ci riuscì. La presa era troppo forte anche per lui.
«Marta!» urlò in preda al panico.
L'immagine continuava a ridere, mostrando denti di porpora. Giulio piegò il ginocchio destro e puntò il piede contro il lavandino. Spinse con tutte le forze, ma non riuscì a liberarsi.
«Aiuto Marta!»
Marta non arrivava.
L'uomo nello specchio non c'era più. Al suo posto un bambino, con addosso degli stracci lerci, lo fissava serio. Alle sue spalle c'erano centinaia di ombre indefinite. La presa sui polsi di Giulio sparì di colpo, proiettandolo contro la parete alle sue spalle. Si alzò indolenzito. Il bambino era ancora lì, con gli occhi fissi e un espressione impassibile.
«Chi sei?» balbettò impaurito.
«Non vi è mai interessato.» rispose il bambino.
«Cosa vuoi da me?»
«Quello che mi avete preso.»
Centinaia di mani uscirono dallo specchio. Giulio cercò di scappare all'indietro, ma inciampò sulla sua maglietta. Perse l'equilibrio e cadde di testa contro le piastrelle del bagno. Non fece nemmeno in tempo a sentire dolore, il buio fu immediato.

La Twingo azzurra dai finestrini oscurati superò adagio l'ingresso della tenuta. Le gomme affossarono leggermente nella ghiaia lasciando due strisce parallele. L'auto si fermò davanti alla scalinata dell'ingresso. Sotto il portico, una coppia sui quarantanni attendeva trepidante l'ospite. Dalla portiera aperta sbucò una scarpa nera che si poggiò a terra. Un uomo, sul metro e novanta, uscì alla tenue luce del lampione posto nel giardino. Fece un passo in avanti. Il pantalone dello stesso colore delle calzature lasciò intravedere un calzino azzurro a striscioline arcobaleno, unica nota allegra di un completo funebre che culminava in un cappello a tese larghe da cui sbucavano lunghi capelli mori. Il volto pallido e la pelle tesa conferivano all'uomo un età indecifrabile. Si guardò attorno ignorando i padroni di cara. Chiuse gli occhi e fiutò l'aria. Rimase immobile sotto lo sguardo speranzoso di Giulio. Marta, decisa a rompere gli indugi, scese i quattro gradini .
«Dottor Romet, ho sentito molto parlare di lei. Ester sosteneva che lei fosse un genio, mio padre un po' meno.»
L'uomo si voltò brusco verso la donna. Senza aprire gli occhi portò l'indice alle labbra. «Shhhh!»
Marta si bloccò perplessa, cercò conforto nello sguardo di Giulio che invece l'afferrò per un braccio ritraendola.
«Sento...» L'uomo vestito di nero spalancò gli occhi. «Sento delle forze maligne.» Portò la mano nella tasca della giacca e estrasse un crocifisso d'argento che baciò.
«L'abbiamo chiamata per questo.» disse Marta scocciata.
«Lei non sa per cosa mi ha chiamato.» Romet si strofinò gli occhi. «Io sono già stato qui, trent'anni fa.»
Marta strinse i pugni e serrò la mascella. «Conosco bene quella storia.»
«Mi dispiace per Ester,» il medium poggiò la mano sulla spalla della donna. «ma io ne avevo parlato con suo padre. Sapevo che gli spiriti non avrebbero lasciato in pace sua madre..»
«Matrigna. Ester era la mia matrigna.» Marta era diventata di ghiaccio.
Romet allargò le labbra in un sorriso gelido. «Ora entriamo, vorrei mettermi subito all'opera.»

Il medium mise a soqquadro la casa e spulciò in ogni cassetto. Di tanto in tanto prendeva qualche oggetto e lo passava a Giulio, che lo seguiva come un ombra. Quell'uomo sembrava sapere cose che nessun altro conosceva.
Nel bagno del piano di sopra Romet si bloccò davanti allo specchio.
«Qui è successo qualcosa di importante.»
Gli occhi di Giulio si riempirono di lacrime. Quell'uomo sentiva veramente le presenze. Si voltò verso Marta, che invece sembrava totalmente scettica, e sorrise speranzoso. La donna fece una smorfia di rimando e rispose al medium. «Due notti fa. Un'apparizione.»
«Chi di voi l'ha avuta?» L'indice di Romet oscillava alla ricerca della risposta.
«Io.» disse timidamente Giulio.
«Cos'hai visto?»
Giulio iniziò a raccontare. Il medium lo fermò una sola volta, chiedendogli di poter vedere il rasoio. Da quel momento sembrò concentrarsi molto di più sull'oggetto che sui ricordi dell'uomo.
«Bellissimo.» Ammirato, Romet esaminò il cimelio. Poi si voltò verso Giulio e lo fissò dritto negli occhi. «Questo rasoio l'ho già visto in passato. È potente, ma sento che ci sono altri oggetti magici.»
Timoroso l'uomo si voltò verso la compagna che alzò gli occhi al cielo e annuì.
Guidati da un ringalluzzito Giulio, si trasferirono nel suo nuovo ufficio. Alle pareti c'erano appesi poster inneggianti la razza ariana. Una bandiera con l'aquila imperiale occupava il muro dietro la scrivania. Giulio aprì un cassetto e estrasse una valigetta metallica. Orgoglioso guardò Marta e Romet e sollevò il coperchio. All'interno c'era un forchettone d'argento con le tre punte d'oro. Al centro del manico c'era incisa una croce uncinata.
Il medium estrasse dei guanti in pelle da una tasca, li infilò e stese la mano in avanti. Giulio lo guardò perplesso. Non faceva toccare a nessuno quel cimelio, ma l'insistenza dell'uomo ebbe la meglio.
«A.M.F.» Romet lesse l'incisione sul retro. «Tu sai cosa vuol dire?»
«È lo stampo della fabbrica.» Giulio sorrise compiaciuto.
«Ci sei quasi. Vuol dire Arbeit Macht Frei.» Il medium, assorto nei suoi pensieri, soppesò il forchettone.
«Il lavoro rende liberi!» tradusse Marta ad alta voce.
«Esatto.» Romet prese un foglio e lo spostò al centro della scrivania. «Ora è tutto chiaro. Sarà più facile del previsto.» Estrasse un'agendina dalla tasca interna del giubbotto, la sfogliò e la porse a Giulio. «Copia questa incisione.»
L'uomo socchiuse gli occhi cercando di capire cosa ci fosse scritto.
«Non ti sforzare, sono vecchi versi della magia celtica.» disse Romet sbrigativo. Marta scosse la testa incredula.
«Sai da dove proveniva quest'oro?» Il medium mise il forchettone davanti al volto di Giulio che scosse la testa.
«A.M.F. Era la sigla simpatica con cui firmavano i prodotti lavorati con gli scarti di Auschwitz. In questo caso penso che per l'oro abbiano usato le protesi dentarie.» Picchiettò i rebbi del forchettone contro la scrivania.
Giulio, impegnato a copiare quelle strane parole, continuava ad annuire senza prestare molta attenzione a quello che gli stava raccontando il medium. Dopo qualche minuto sollevò gli occhi contento. «Finito.» La bocca fu inondata dal sangue, che copioso gli usciva dallo squarcio alla gola procurato dal coltello che teneva in mano Romet.
Giulio non reagì. La vita scivolò via veloce. L'ultima immagine che vide fu quella di Marta che urlava.

«Papà cazzo. Il rito!» Marta inveì contro il medium che stava accompagnando il corpo di Giulio sul pavimento.
«Sì scusa, ma questo era proprio un coglione.» Il padre prese in mano il forchettone e si incamminò verso l'uscita. Dal cappello non pendevano più i capelli neri, il suo corpo stava mutando.
«Non dirlo a me. Ci sono dovuta andare a letto un sacco di volte.»
«Gradirei non saperlo.»
«E io gradirei capire perché facciamo ogni volta questa messa in scena. Non basterebbe rubare le reliquie maledette?» Marta inarcò il sopracciglio, nell'espressione perplessa della ragazzina che stava tornando ad essere. «E poi la storia del dottor Romet. Solo un ebete non capisce che è l'anagramma di Morte. Perché non posso chiamarti Alberto?»
«Perché Alberto Levi è sospetto. Comunque dobbiamo indagare. Fosse stato per te Ester sarebbe sopravvissuta.»
«Già, e me lo rinfacci da cinquant'anni. Tanto che sono sempre costretta a fare l'orfana inconsolabile di quella stronza.» Marta lo guardò torva.
Arrivarono all'auto. Il padre aprì il bagagliaio e ci gettò dentro il forchettone che tintinnò a contatto con i suoi vecchi fratelli.
«Ora aspetta un'oretta e chiama la polizia. Ci metteranno un po' a tradurre la frase. L'ebraico lo conoscono in pochi. Ma poi con la lettera di commiato e la testimonianza dello psicologo sarai libera di piangere il tuo amor perduto.» Alberto allargò le braccia tra cui si abbandonò Marta tornata al suo aspetto fanciullesco.
«Papà, di chi era l'anima che abbiamo liberato?»
«Del piccolo Guido. Viveva nella baracca affianco alla nostra.»
Marta alzò lo sguardo, aveva gli occhio gonfi «Quando libereremo la Mamma troveremo pace?»
«Forse.» Dal volto di Alberto scese una lacrima solitaria. «Anche se chi dà morte non conoscerà mai la pace.»

Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine

Edited by Ceranu - 8/11/2014, 14:59
 
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è giorno di consegna, signorine! :P
Come state messi? Comunque dovremmo essere in 5 già adesso, quindi l'edizione si terrà comunque, ma vorrei vedervi un po'più numerosi... non temiate lo speciale! :P


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Il giallo è il nero
di Nazareno Marzetti


Quella domenica il washington museum contava un numero ridotto di visitatori, per lo più profughi dalla calicola che aveva invaso le strade in cerca di refrigerio.
Sul divanetto della sala principale Aurora rileggeva le dichiarazioni dei testimoni chiamati dall'accusa. Se l'illuminazione che era venuta un'illuminazione guardando la sezione di un gigantesco albero era giusta, aveva in pugno la chiave del caso.
Sul divanetto accanto, un investigatore privato fingeva di leggere il giornale, spiando qualcuno dei presenti, e un canadese grosso quanto due leggeva assorto un poster.
«Ehi ragazzi!» esclamò un tipo magrolino, dai capelli biondi scarmigliati e una giacca gialla con strisce bianche. «Nostalgia?» chiese, dando una pacca sulle spalle del canadese, e mettendosi tra Aurora e l'investigatore.
I tre si voltarono verso il giovane, cercando di capire chi fosse.
«Non... mi riconoscete?» chiese interdetto.
Aurora scosse la testa, presto imitata dall'investigatore. Il canadese rimase a guardare il ragazzo sconcertato.
«Oh, cavolo! È la prima volta che ci vediamo? No, non doveva andare così!» tirò su la manica sinistra e prese ad armeggiare con uno strano congegno che gli prendeva tutto l'avambraccio fino al gomito «No, cavolo! Perché non mi ha avvisato questo coso?»
«Ma di che stai parlando?» chiese Aurora.
«È tutto da rifare. Tutto!» digitò alcuni comandi e poi premette un tasto appena più grande degli altri.
Sparì col rumore di quando si rompe una lampadina, lasciando i tre interdetti a guardarsi tra loro. Aurora fece per dire qualcosa, ma una breve scarica di mitra la bloccò. Dalla balconata del secondo piano caddero tre corpi, proprio davanti a loro.
«Ma... che diavolo...» commentò l'omone, nel suo accento nordico.
«Non... è possibile.» L'investigatore si avvicinò al corpo di uno dei tre, un volto tremendamente familiare, sporco di sangue. Sarebbe potuto essere il suo fratello maggiore, se avesse avuto un fratello maggiore.
«Siamo... noi?» balbettò Aurora, prendendo il portafoglio dell'altra versione di se stessa e controllando la carta d'identità. Anche l'investigatore prese il suo portafogli e verificò.
«Ma non dovremmo evitare di toccarli?» chiese il canadese, mentre Aurora trovava uno strano dispositivo nella tasca della giacca di quello che poteva essere il suo cadavere.
«Infatti» disse una guardia di sicurezza «allontanatevi. La polizia sta arrivando. Eravate parenti?»
Aurora si allontanò insieme al detective e il canadese. «Quello che sta accadendo non ha senso.»
Il detective si guardò intorno «Dove sono le telecamere?»
«Telecamere?» chiese il canadese.
«Ovvio. Deve essere una candid camera!»
«Quelli sono cadaveri veri» disse Aurora.
«Una candid camera un po' macabra» insistette l'investifatore.

Persero il resto della giornata al distretto di polizia. La loro versione era suffragiata dalle telecamere: i tre erano lì per caso, una scarica di mitra e i tre corpi caduti. All'inizio anche i poliziotti pensarono a uno scherzo, ma c'era poco da scherzare. Quello che era accaduto non aveva senso, e fu presto evidente che nessun agente volle rischiare il posto per scrivere un rapporto che non aveva senso. Classificarono le vittime come non identificate, chiusero l'autopsia con “morte causata da numerosi colpi di arma da fuoco”, scaricarono le registrazioni su un dvd e inviarono il caso in archivio prima ancora di cacciare i tre dalla centrale.
«Forse dovremmo dimenticarci di tutto questo» commentò l'investigatore.
«Quelli caduti dal balcone siamo noi! Non è una storia che ti puoi dimenticare» rispose diretta Aurora.
«Quindi che facciamo?» chiese il canadese.
«Cerchiamo di capirci qualcosa. Intanto presentiamoci: Aurora Myer, avvocato. Sto seguendo un caso. Ero venuta al museo per rilassare la mente.»
«Luck Button. Investigatore privato. Stavo seguendo un uomo.»
«Droga?»
«No» rispose l'uomo facendo il gesto delle corna.
«Tipico. E tu?»
«Olaf Rufos» rispose il canadese. Gli altri fecero segno di continuare.
«Lavoro in una segheria. Ero qui in vacanza.»
«Direi che non abbiamo niente in comune.»
«Tranne l'essere caduti morti da una balconata» aggiunse Luck.
«Da dove iniziamo?»
«Io resto dell'idea che dovremmo dimenticarcene. Però...» dalla giacca estrasse un DVD.
«È quello che penso?» il volto di Aurora si illuminò.
«Ho pensato che non avrebbero riaperto il caso tanto presto.»
«È appropriazione di materiale probatorio!» l'avvocato diede un bacio sulla guancia all'investigatore, prendendogli il DVD nello stesso gesto. «Ora scusate, ma Martedì devo presentarmi in tribunale e ho un interrogatorio da preparare.»
«Io devo tornare al mio caso.»
«Io... credo che torno in albergo. Però sarebbe meglio se ci scambiamo il numero di telefono?»
Aurora sospirò «Tutto questo giro solo per avere il mio numero? Potevate chiedere alla mia segretaria.»

Con una mano Aurora controllava la posta, con l'altra stendeva il correttore sulle occhiaie da notte passata a visionare i video. Aprì la busta più spessa, sfogliando il dossier e rimuginando sugli spezzoni di video. Passò alle lettere dei colleghi dell'accusa, e infine...
«E questa?» si chiese, prendendo una busta ingiallita e spiegazzata. «Nessun mittente... affrancatura d'oltre oceano... è stata inviata quasi mezzo secolo fa» costatò. Trovò strano che su una lettera di oltre un secolo fa ci fosse il suo nome.

Cara Aurora,
so quanto ti sembrerà strana questa lettera, ma è necessario che tu la riceva, perché non devi perdere l'appuntamento di domani, alle nove di sera al wine bar tra la 91st e la 2nd Avenue.

So che la tua prima idea è di andare da sola per la tua strada, ma il destino, o l'inevitabilità come ho imparato a chiamarla, ti ha scelto due compagni. Portali con te: ti salveranno la vita, almeno in questa prima occasione.

Prima di lasciarti, un ultimo consiglio: non perder tempo con le risposte che non capisci, poni quante più domande puoi perché non sempre avrai il tempo che vorresti.

Un bacio.

P.S.: la chiave è la mezzaluna.

«Nessuna firma» notò «e questa è la mia scrittura. Tutto ciò è semplicemente assurdo.» Prese il telefono.

Luck non ci aveva dormito la notte. Nonostante il proposito di dimenticare tutto, i pensieri non gli avevano dato tregua e il mattino vagava per l'ufficio, tenendosi in piedi grazie ad abbondanti tazze di caffè.
Il telefono squillò.
«Pronto?» boffonchiò con uno sbadiglio.
«Luck?» rispose la voce femminile.
«Sì?»
«Sono Aurora Myer. Ma non avevi memorizzato il mio numero?»
«Ah, Aurora. Sì. Stanotte non ho dormito bene.»
«Sento. Prenditi un caffè e ascolta: domani sera dobbiamo trovarci al wine bar tra la 91st e la 2nd Avenue.»
«Perché?»
«Ecco... questa è la cosa più strana. Mi è arrivata una lettera scritta mezzo secolo fa e mi ha detto di trovarmi lì. Non ha senso, lo so.»
«Non mi meraviglia. Hai trovato qualcosa nei video?»
«Sì. Ho ricostruito i movimenti dei tipi morti, del tipo che ci è venuto a parlare e di quello che ha sparato.»
«Sei riuscita a capire chi è stato?»
«No: le telecamere non hanno una gran risoluzione e il cappello gli copre quasi sempre il volto. È un tipo vestito di nero, bassetto e gracilino.»
«Come ha fatto a portare un mitra nel museo?»
«Ecco, questa è la parte che non ha senso: non è mai entrato né uscito.»
«Potrebbe essere apparso e sparito come il tipo giallo.»
«Ma non ha senso!»
«Oh, sì che ce l'ha. Se il tipo giallo e il tipo nero possono teletrasportarsi. Magari sono coinvolti nel viaggio nel tempo.»
«Non è possibile!» urlò nella cornetta. «Ci deve essere un'altra spiegazione!»
«E quale di grazia?»
«Non lo so, ma la troverò. Troviamoci al museo questo pomeriggio. Alle quattro. E chiama anche Omar.»
«Olaf?»
«Sì, lui.»

«Perché sono dovuto venire anche io?» chiese il canadese, gironzolando per il bagno del museo.
«Perché tendo a fidarmi di me, anche se mi scrivo una lettera da mezzo secolo fa.»
«Quindi accetti che hai viaggiato nel tempo.»
«Accetto che sta succedendo qualcosa a cui devo venire a capo» ribadì Aurora. «Il tipo giallo è uscito da questo bagno quasi un minuto prima di incontrarci.»
«...e sparire» la punzecchiò l'investigatore.
«Quello nero è spuntato sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano, ed è sparito dietro la statua al secondo piano.»
«Le telecamere hanno ripreso quando è sparito?»
«No. Entrambi entrano o escono dalle inquadrature. Anche nelle ipotesi più assurde, mi pare impossibile che... »
«Cosa c'è?» chiese Olaf
«Me ne ero dimenticata.» L'avvocato estrasse dalla tasca un oggetto che ricordava, per mera associazione di idee, una calcolatrice. «L'aveva l'altra me stessa nella giacca.»
«Cos'è?» l'investigatore si avvicinò.
«Non lo so. Non ho mai visto questi simboli in vita mia.»
«Idem. Però è acceso.»
«Posso?» L'energumeno prese l'oggetto e iniziò a premere tasti a caso.
«Non è un giocattolo!» esclamò Aurora, strappandoglielo dalle mani.
L'oggetto blippò.

Olaf non era abituato ai wine bar. Li trovava troppo chic ed aveva sempre paura di fare qualche gaffes.
«Ricapitoliamo» disse Aurora.
«...per la centoventimillesima volta» concluse Luck. Olaf prese un'altra manciata di noccioline.
«Questo aggeggio blippa ogni volta che passiamo nei punti dove sono spariti o apparsi il tipo giallo e quello nero.»
«Come se segnalasse dove sono stati aperti varchi temporale.»
«...Vicino a quel blocco di granito nella sezione egizia, e un altro paio di posti in città» continuò Aurora imperterrita. «Abbiamo visto tre persone che ci assomigliano terribilmente cadere dalla balconata...»
«E ora siamo qui, seguendo le istruzioni di una lettera di mezzo secolo fa che parla di un generico domani.»
«Le nove e un quarto» commentò Aurora guardandosi intorno. «Forse è il domani sbagliato.»
«E ora che facciamo?»
«Non lo so...»
Il ragazzo vestito di giallo entrò sbattendo la porta nel locale, fermandosi subito dopo a riprendere fiato. Si guardò intorno e si avvicinò al tavolo dei tre. «Scusate... il... ritardo...» disse, ansimando. Afferrò il bicchiere di coca di Olaf e lo trangugiò in un sol sorso.
«Non fatelo scappare! Tenetelo lontano dal coso al braccio!» ordinò Aurora.
«Ritardo?» chiese, invece Luck.
«Sì. Ho ricevuto la tua lettera» disse ad Aurora «che volevi dirmi di così importante?»
«Lettera?»
«Questa lettera.» Mostrò un foglio di carta spiegazzata, che Aurora esaminò velocemente. «Questa è la mia firma. La data riporta... il 1794? Vienna? Ma...»
«Sì. Mi è arrivata giusto ieri. Allora, che volevi dirmi?»
«Io non ti ho mai spedito questa lettera.»
«Allora me la spedirai.»
«Calma, calma» disse Luck «Ricordi la tua lettera? Non ti impuntare sulle cose che non capisci. Fai le domande che servono. Chi sei tu?»
«Ma come? Non mi conoscete?»
I tre scossero la testa.
«Non ditemi che è la prima volta che ci vediamo» disse un po' spaventato.
«No, è la seconda. Ci siamo incontrati domenica scorsa.»
«A proposito dov'eri sparito?» aggiunse Aurora.
«Ah,» sospirò di sollievo. «Temevo di aver fatto un casino. Non lo so: non ci sono ancora arrivato a domenica scorsa.»
«Cosa?»
«Le domande» insistette Luck. Poi al ragazzo «Chi ci ha ucciso l'altra mattina.»
«Ah... quand'è l'altra mattina?»
«Il sette» sibilò Aurora.
«Uh... non ne ho idea. Te l'ho detto, devo ancora arrivarci.»
«Un tipo vestito di nero, capelli biondi, cappello... che ti assomigliava tantissimo» si rese conto l'avvocato.
«Ah, quella deve essere una versione futura di me.»
«Eh?»
«Sì. Un me futuro, sta cercando di distruggere tutto quello che ho fatto e di uccidermi» lo disse come se fosse una cosa di poco conto.
«Un te futuro?»
«E quelli che sono morti?» la precedette l'investigatore «Sono versioni future di noi?»
«Be', se voi siete vivi, quelli che sono morti devono essere una versione futura. Cioè, non sempre» si corresse «ma di solito funziona così.»
«Vuoi dire che noi diventeremo viaggiatori del tempo?»
«Certo. Avete preso il DST che avevo lasciato al museo.»
«Il DTS? Anzi, no. Le domande importanti. Perché il te del futuro ha ucciso noi del futuro?»
«Non lo so. Credo di essere completamente impazzito. Sapete... i paradossi temporali non sono proprio intuitivi.»
«E allora perché non smetti di viaggiare nel...?»
Aurora non riuscì a finire la frase: una raffica di mitra spaccò le vetrine del locale. Tutti si buttarono a terra, urlando.
«Cosa...?» chiese Aurora.
«Il te stesso del futuro» intuì Luck.
«Non vuole che raggiungiate il DST» confermò il giallo
«Non so cosa sia e non voglio raggiungerlo!» esclamò Olaf.
Una seconda raffica.
«Non credo che ci ascolterà! Andiamocene di qui» consigliò Luck.
«Ottima idea. Seguitemi!» esclamò il ragazzo, premendo il pulsante sul suo avambraccio e scomparendo.
Il dispositivo nella tasca di Aurora blippò.
«Come lo seguiamo, secondo lui?» chiese, acida.
Ricaricando, il ragazzo vestito di nero entrò.
«Ci pensiamo dopo» Olaf scattò e colpì il ragazzo con un montante che avrebbe steso un cavallo, facendolo finire contro l'espositore di vini. Una sventagliata di colpi partì disegnando una linea di buchi sulla parete.
«Scappiamo!»

«Ma quello è pazzo!» Aurora riprese fiato diversi isolati più in la, nascosta con gli altri due in un vicolo deserto.
«Te lo ha detto lui stesso» ironizzò l'investigatore.
«Dove andiamo?» chiese il canadese.
«Non lo so...» Aurora scosse la testa spaventata.
«Non vuole che troviamo il DST» ricordò Luck.
«Ma io non lo voglio trovare il DST qualunque cosa sia!» esclamò l'avvocato.
«E lui continuerà a cercare di ucciderci. Dobbiamo trovare il DST, almeno saremo ad armi pari.»
«Così ci troveremo a morire domenica scorsa in un museo.»
«L'alternativa è morire da qui a poco» le ricordò l'investigatore «Ragioniamo: noi sappiamo che domenica 7 agosto 2014 ci troveremo in quel museo. Facciamo attenzione a non essere lì in quel momento. O a non morire. O lo ammazziamo prima. Avremo anche una speranza, insomma.»
«Ma se non sappiamo neanche come è fatto il DST!» sbottò Aurora.
«Il blocco nella sezione egizia» ricordò l'investigatore.

Attesero l'apertura mattutina per entrare nel museo, passando la notte a girovagare in auto per le strade di new york.
Si diressero verso la sezione egizia aspettandosi di veder comparire dal nulla qualunque cosa pronta a ucciderli. Il blocco era dove ricordavano, coperto di geroglifici. Su una parete alcuni simboli ricordavano quelli sul dispositivo di Aurora. Dispositivo che blippò nuovamente come si avvicinarono.
«Qualsiasi cosa sia, è questo» commentò l'investigatore.
«Se mi avvicino,» si chiese Aurora «dite che scatta l'allarme?»
Come se aspettasse quella domanda, l'allarme scattò. Un attimo dopo videro correre verso di loro il ragazzo giallo, inseguito dal se stesso nero armato di pistola. «Ciao ragazzi. Ho un po' da fare» disse il primo senza rallentare. Olaf prese un paletto delle transenna, buttandosi contro il ragazzo vestito di nero. Schivò miracolosamente un proiettile e batté un home run con la testa del ragazzo.
Aurora si voltò verso il blocco di granito, cercando di decifrare qualcuno dei simboli strani. Mentre il ragazzo in nero cercava di riprendersi dalla botta, Aurora individuò una mezzaluna e la premette. Una porta nascosta si aprì, rivelando una capsula con una plancia ingombra di strumenti e pulsanti. Il ragazzo sollevò la pistola. Olaf spinse dentro gli altri due e premette un pulsante vicino alla porta, chiudendola. Aurora cadde sulla plancia e tutti gli indicatori si illuminarono. Ci fu una vibrazione e uno scossone, poi silenzio.
Dopo qualche minuto Luck premette il pulsante vicino alla porta, la quale si aprì su un deserto riarso dal sole, a pochi metri da un gruppo di uomini vestiti di blu che li guardavano disorientati.

15389 caratteri. Sto nella tolleranza del 10% ... Va be', è già tanto che sono riuscito a rientrare nella tolleranza.
 
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view post Posted on 8/11/2014, 14:38
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Custode di Ryelh
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CITAZIONE (Marco Lomonaco - Master @ 8/11/2014, 12:34) 
è giorno di consegna, signorine! :P
Come state messi? Comunque dovremmo essere in 5 già adesso, quindi l'edizione si terrà comunque, ma vorrei vedervi un po'più numerosi... non temiate lo speciale! :P


:p097: :p097: :p097: :p097: :p097:

Sorry, ma almeno a questo non riesco a partecipare. :(
Non mi è venuta in mente nemmeno una bozza di trama degna di questo nome :(
Boh, vediamo se con lo speciale recupero, altrimenti è la volta buona che cambio passione e decido di dedicarmi alla coltiovazione casalinga dei cocomeri.
 
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view post Posted on 8/11/2014, 18:48
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IL GIALLO E' IL NERO.
di Laura Palmoni

Ben Covent arrivò negli uffici della D.I.M.P a pomeriggio inoltrato. Pioveva da più di mezz'ora ma i vetri insonorizzati attutivano il fragore della pioggia. La vedeva abbattersi contro l'immensa vetrata, trascinata da un vento che piegava i rami degli alberi che circondavano l'immenso edificio. Il corridoio era deserto e non fosse stato per il ticchettio smorzato di dita agili sui tasti di un computer, avrebbe definito quel posto abbandonato. Continuò a tamburellare con le dita sulla coscia, stizzito per la lunga attesa.
Finalmente la porta in fondo al corridoio si aprì. Una ragazza in minigonna gli andò incontro sorridendo, Ben le rivolse il più smagliante dei sorrisi.
«Ciao Ben» disse la donna in un perfetto inglese. «Scusa se ti ho fatto aspettare.»
La seguì e mentre gli dava le spalle, gettava uno sguardo alle gambe sode e abbronzate, senza tralasciare il fondoschiena che magistralmente gli agitava davanti agli occhi, stuzzicando il suo appetito. D'altra parte i quadri lugubri appesi alle pareti e il velo di polvere adagiato sulle foglie di plastica delle piante finte, non erano certo uno spettacolo più interessante.
La segretaria aprì la porta e lo invitò ad entrare, quindi sparì, dopo aver salutato l'uomo gigantesco seduto dietro alla scrivania.
«Ben»
«De Carli...»
Si strinsero la mano.
«Vado subito al punto Ben. Hai un compito piuttosto complesso stavolta, ma sono sicuro che ne sarai all'altezza.»
Ben soffocò una risata. Davanti all'offerta di seimila sterline, e data la situazione disastrosa del suo conto in banca, doveva esserlo per forza.
«Vedrò di non farmi uccidere.»
«Questo è secondario. Devi scacciare questo dannato spettro.»
La Divisione Investigativa Manifestazioni Paranormali era nata dall'avidità di quell'uomo pachidermico e dei suoi soci. Acquistavano vecchie case a prezzi irrisori quando nessuno voleva comprarle e se c'erano entità poco raccomandabili, chiamavano lui per fare pulizia; dopo rivendevano le abitazioni - senza più ospiti sgraditi - a prezzi esorbitanti. Così la DIMP era divenuta irrinunciabile realtà, sia per lui che per loro.
«Non preoccuparti, sai che ero fan di Ramis e Aykroyd. Con i miei amici davamo la caccia ai fantasmi con le scope.»
«Sì sì me lo hai detto che eri un Ghostbuster dei poveri...»
«Beh, adesso lo sono a metà, nel senso che sono povero e basta. Ho dovuto impegnare la casa per pagare gli alimenti alla mia ex, queste seimila sterline mi stanno gridando “prendici se ci riesci!”»
E diamine se ci sarebbe riuscito!
In fondo stavolta erano solo due giorni.
«Devo sapere qualcosa di questo... fantasma?»
«Di tre che sono entrati da soli, due sono morti d'infarto e uno è impazzito.»
«Confortante!»
«Io direi deprimente...» De Carli aprì il cassetto della scrivania e gli consegnò un mazzo di chiavi. «Hai bisogno di qualcosa?»
Ben batté una mano sullo zaino. «Ho tutto il necessario.»
«Buona fortuna, Ben.»

La pioggia aveva smesso di cadere ma il cielo restava coperto di nubi e non prometteva nulla di buono. Scese dal taxi e si rivolse al tassista per pagarlo. Questi scosse frettolosamente il capo.
«Sono già stato pagato» rassicurò. Sfrecciò via sgommando, senza salutare. Ben fece una smorfia. Tutta quella paura era esagerata. Pensò che quella casa era così vecchia e cadente che anche un fantasma l'avrebbe trovata inabitabile. Attraversò la piccola corte e raggiunse la scala di pietra che portava all'entrata. Gettò un'occhiata all'unica finestra chiusa, si aggiustò meglio lo zaino sulla spalla, quindi infilò la chiave arrugginita nella serratura e aprì l'uscio. Il buio lo travolse, ma non si lasciò impressionare. Avrebbe cercato l'interruttore, se c'era, altrimenti aveva la torcia. Fece un passo avanti, la porta gli sfuggì dalle mani e si chiuse. Fu avvolto dalle tenebre. Niente tonfi sordi, porte sbattute, sussurri, spifferi, nulla di ciò che solitamente vedeva nei film di spettri. Solo un buio opprimente che gli penetrava nelle ossa. Avanzò di qualche passo, tendendo le braccia davanti a sé per non finire addosso ad eventuali ostacoli e farsi male.
«CHI SEI»
Ben sussultò. Ecco, adesso aveva paura. Cercò di scorgere qualcosa ma non riuscì a vedere niente. Cercò la pila nella tasca, la trovò, l'accese con mani che d'improvviso erano diventate gelide.
«Sono... sono Ben Covent, uno scrittore.»
Silenzio.
«Tu chi sei?»
«COSA VUOI»
E cosa poteva rispondere? Mosse la torcia, diffondendo la luce da ogni parte per scorgere chi avesse parlato. Naturalmente non trovò nulla. Non sapeva neanche dire da dove arrivasse la voce, sembrava giungere da ogni parte.
«Passare due notti qui.»
«LA TUA LUCE M'INFASTIDISCE»
Ben spense la torcia. Un rivolo di sudore gli scese suo malgrado lungo il collo. «Spenta» disse. «Adesso va meglio?»
Silenzio. Sapere di stare facendo conversazione, al buio, con un fantasma, rendeva la situazione quasi divertente, non fosse stato per quel brivido gelato che gli serpeggiava lungo la schiena.
«VUOI LA MIA CASA?»
Ben fece cenno di no, poi si ricordò che il suo interlocutore non poteva vederlo. O forse sì? «Non voglio la tua casa, non saprei cosa farmene.»
«NON TI PIACE LA MIA CASA???»
Pure il fantasma permaloso adesso. «E' molto bella, ma ho già la mia.»
«LA TUA CASA È BELLA PIÙ DELLA MIA?»
Dal tono indispettito, Ben avrebbe giurato che era un fantasma donna, assomigliava alla sua ex. Innervosito da quell'inatteso botta e risposta, sbottò:
«La tua casa è bellissima, la mia fa schifo ma mi piace così com'è. Odio le domande se non posso vedere chi le fa e non mi sembra educato lasciarmi al buio a parlare da solo, non sono pazzo.»
«LO DIVENTERAI. O FORSE TI ACCADRÀ DI PEGGIO.»
Come premessa non era delle più invitanti. Passare due giorni con un fantasma chiacchierone, suscettibile e fotofobico!
«Okay.»
«COME MAI NON HAI PAURA DI ME? DI SOLITO I VISITATORI MUOIONO DI TERRORE PRIMA CHE IO POSSA UCCIDERLI»
«Ma io ho paura» rispose il giovane. Gli sembrò di percepire delle ombre, forse era solo la sua immaginazione. Un rumore forte ruppe il silenzio e lo fece trasalire. Il camino si era acceso da solo e i ciocchi crepitavano, sembravano le urla di un condannato al rogo. Le fiamme erano rossastre, circondate da una luce tra il viola e il blu. Nonostante il fuoco, l'aria intorno a lui si era fatta gelida. E la vide. Prese vita tra le fiamme, la luce bluastra prese forma e diede vita al corpo di una giovane donna - Lo aveva detto che era femmina – dai lineamenti delicati. Da viva doveva essere stata molto bella.
«PENSI CHE IO SIA BELLA?»
Che doveva dire? Doveva stare attento alle risposte. Cercò di riordinare le idee. Se diceva di no, ovviamente l'avrebbe incenerito, strangolato, tagliato in due, insomma sarebbe stato un uomo morto. E addio seimila sterline. «Non riesco a vederti bene» prese tempo.
Lei si mostrò in tutto il suo splendore. Era così bella che sembrava vera, altro che fantasma... Era sospesa in aria, il volto pallido, lunghi capelli biondi e due grandi occhi neri, più bui delle tenebre che lo avevano avvolto pochi minuti prima. Faticava a staccarsi da quegli occhi.
«E ALLORA? TI SEMBRO BELLA?»
Ben deglutì. «Sì» ammise. La donna alzò un braccio e portò una mano al volto. Afferrò un lembo di pelle dalla fronte e tirò bruscamente, scoprendo un volto bruciato e tumefatto.
«E ADESSO? SONO UGUALMENTE BELLA?»
Ben soffocò sul nascere qualunque espressione che potesse sembrare di disgusto: dalla sua esperienza sapeva che l'entità avrebbe potuto offendersi.
«Sei meno bella di prima ma sei nella norma.»
Gli parve di leggere sdegno e furia negli occhi neri e profondi della donna, prima di vederla sparire. Respirò di sollievo. Psicologo degli spettri, lo chiamavano. Cominciava a pensare che fosse un nomignolo adatto. Si sedette davanti al fuoco, cercando di riordinare le idee. Il suo obiettivo era allontanare il fantasma da quella casa, ma soprattutto, malgrado le poco lusinghiere aspettative di De Carli, restare vivo. E aveva due giorni di tempo. La prima cosa da fare quando si trattava di fantasmi era conoscere le circostanze della dipartita e cercare il modo di spiazzarli e metterli in confusione. Doveva giocare d'astuzia.
Quando vide le fiamme del camino tremolare e ravvivarsi, capì che la pausa di riflessione era finita, la donna stava tornando.
«CHE COSA VUOI? »
Ben si girò verso di lei. Non aveva più il viso deturpato. Sedeva a gambe incrociate, sospesa a qualche centimetro dal pavimento in cotto, i capelli agitati dal vento. I suoi occhi erano laghi notturni, cupi, nei quali l'uomo sentì di poter annegare, se solo glielo avesse lasciato fare.
«Che riposi in pace e la smetti di far morire d'infarto la gente. Non è molto carino.»
«PERCHE' TU NON MOSTRI PAURA?»
«Perché non bado all'apparenza. Di che cosa sei morta?»
Lei sembrò sorpresa da quella domanda. Pensò che per lei fosse una situazione nuova, la gente che aveva avuto attorno non doveva essersi mostrata molto comprensiva nei suoi confronti.
«MIO MARITO ERA GELOSO DEI MIEI AMANTI. HA BRUCIATO IL MIO VISO E MI HA SOFFOCATA CON UNA CORDA. MI HA URLATO DI GUARDARMI ALLO SPECCHIO, DI CHIEDERE AI MIEI AMANTI SE FOSSI ANCORA BELLA... E IO QUESTO CHIEDO»
Due più due. Era fatta. La kuchisake-onna, donna dalla bocca spaccata, leggenda metropolitana tra le più conosciute in Giappone, narrava della moglie di un samurai che, accecato dalla gelosia, impresse sul volto della moglie fedifraga uno squarcio da un orecchio all'altro con la sua katana. Si narrava che da allora la donna si aggirasse per la città e chiedesse ai passanti di dirle se la trovassero bella. Ben aveva sentito quella storia da suo padre e adesso gli tornava utile, quel caso gli sembrava abbastanza simile. Una cosa doveva assolutamente scoprire.
«Cosa stavi facendo prima che tuo marito ti bruciasse il volto?»
Gli occhi della giovane si riempirono di tristezza. La chiave poteva essere proprio quella. Uno dei problemi con quel tipo di fantasma era l'interruzione di un desiderio. Riprendere dal punto in cui era stato troncato, ripristinare un desiderio rimasto irrealizzato, nel novanta per cento dei casi restituiva all'anima inquieta la pace temporale. Le entità in quel caso sparivano.
«STAVO ASSAGGIANDO UNA NUOVA POLVERE IMPORTATA DALLA CINA. UNA MISCELA DI FOGLIE DI AGHI D'ARGENTO DEL MONTE DELL'IMPERATORE »
Ben fu su punto di mettersi a saltare e gridare 'eureka' ma non gli parve il caso. Poté però gioire intensamente nel profondo.
«Tè giallo?»
Il fantasma inarcò le sopracciglia e reclinò la testa da un lato. «TE' GIALLO?» Gli fece eco.
Ben non si stupì che non ne conoscesse il nome volgare. Si guardò intorno, nella stanza illuminata dalle fiamme ancora vive.
«Hai una teiera? Delle tazze da tè?»
La donna si girò a guardare un punto della stanza immerso nel buio. Vi lanciò un cenno e l'angolo si illuminò, come vi fosse accesa una luce. Un'alta dispensa a vetri lasciava intravedere bicchieri di cristallo, argenteria, piatti e tazze d'ogni tipo. Ben vi si diresse senza esitazioni. Aprì uno degli sportelli, tirò fuori due tazze e le mostrò alla donna, che adesso era scesa alla sua altezza e lo seguiva incuriosita. Gettò lo sguardo sulle due tazze bianche e scosse i lunghi capelli biondi. Le dita esili indicarono una fila di tazze color avorio, abbellite con fini incisioni di oro zecchino.
«Queste. Okay» assentì Ben. Afferrò la teiera che lei gli indicò e apparecchiò su una tovaglietta ricamata, davanti al camino. Prese due fazzoletti di carta che piegò come tovaglioli, preparò cucchiaini, piattini, tazze.
«Immagino che non ci sia speranza di avere dell'acqua fresca» domandò. Lei non rispose e Ben sospirò. Estrasse dallo zaino la borraccia e cercò un pentolino da appoggiare sul camino. Vi versò parte dell'acqua e restò in attesa.
«CHE STAI FACENDO»
«Metto a bollire l'acqua. Ci prendiamo un bel tè, adesso.»
La donna lo fissava in modo strano. Sembrava sconcertata, ma la capiva, anche lui lo sarebbe stato al suo posto.
«MI TROVI... BELLA?»
«Ho già risposto a questa domanda» alzò gli occhi al soffitto quando lei si strappò la pelle del viso e con la faccia putrida e bruciacchiata gli domandò:
«E COSI' SONO BELLA?»
Quanto era noiosa. Sembrava sempre più la sua ex moglie. «L'acqua è pronta» sollevò il coperchio della teiera e prese dallo zaino una scatoletta di metallo. Aveva all'estremità un piccolo perno , lo premette contro il palmo e ne uscirono delle foglioline essiccate di colore grigio-verde. Le lasciò cadere nella teiera e poi vi versò l'acqua bollente. Lasciò qualche minuto in infusione. Non gli sfuggì la trepidazione che le lesse negli occhi quando il tè scivolò nella tazza, lasciando un vapore ed un profumo da tempo dimenticati. Ben estrasse dal taschino della giacca due bustine di carta. «Zucchero?»
Lei annuì, lui strappò il lembo della bustina e versò la fine polverina bianca. Il fantasma prese con le mani trasparenti il manico della tazza e se la portò alle labbra, assaporando un piacere che le era mancato di conoscere. La guardò reclinare il capo all'indietro, sospirare con la sua faccia tumefatta, gli occhi neri sfavillavano come stelle nel cielo notturno.
Poi ebbe uno scatto. I suoi occhi lo passarono parte a parte, provocandogli un tremito.
«TI LASCERO' VIVERE»
«Ah... grazie!» Mormorò l'uomo, tirando un sospiro di sollievo.
«MA NON POSSO LASCIARE QUESTA CASA. NON HO MAI ASSAGGIATO DEL TE' PECKO. E NON ME NE ANDRO' IN PACE SE NON L'AVRO' ASSAGGIATO»
Maledizione... Se le cose non fossero andate per il verso giusto e avesse esaurito la sua scorta d'acqua, resistere un altro giorno e mezzo senza bersi il suo amato tè sarebbe stato inaccettabile, senza contare che sarebbe morto di sete. Restò un attimo a pensare, non aveva scelta: suo nonno dalla tomba lo avrebbe maledetto per l'eternità, ma era un rischio che era costretto a correre. Doveva mescolare due tipi di tè.
«Scusa nonno» sospirò. Passò il liquido avanzato dalla teiera al pentolino e rimise tutto sul fuoco. Poi la guardò. «Sei proprio irritante» le disse. Lei riprese le sue belle sembianze ed esplose in una risata cristallina. Prese un secondo contenitore di metallo. Svitò il tappo e adagiò un filtro in ognuna delle tazze, vi versò il liquido giallo e premette col cucchiaino affinché il filtro rimanesse sul fondo. Dopo qualche minuto, da giallo, la bevanda divenne scura, quasi nera.
«IL TE' GIALLO E' IL TE' NERO!» Esclamò la giovane. Alzò lo sguardo attonito e soddisfatto su di lui: «TU SEI UN MAGO»
«No» rispose lui, sorseggiando il suo tè. «Sono solo inglese.»

La cosa che più lo divertiva di quel mestiere, oltre al ritiro del dovuto assegno, era lo sguardo perplesso che De Carli gli rivolgeva alla fine dei giochi. Il broncio con cui gli porse l'assegno la diceva lunga su quanto fosse infastidito dal suo successo, ma forse in parte ne era anche contento. La vecchia casa in collina era abitata già da due settimane, nessun fenomeno paranormale e, soprattutto, niente lavoro extra per medici legali e polizia.
«Ma che hai fatto lì dentro?» Chiese De Carli, mentre Ben sfilava dalle sue grasse mani l'assegno. Sorrise. «Niente. Ci siamo presi un tè!»



Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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view post Posted on 9/11/2014, 12:34

Alto Sacerdote di Grumbar

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Bene, gentaglia, si dia il via alle danze :P
Dichiaro aperta la fase di lettura e commento, appena ho un minuto libero aggiorno la lista con i racconti in gara (credo dopo pranzo).Intanto buona domenica ;)
 
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shanda061211113
view post Posted on 9/11/2014, 16:44




Ben trovati, ecco i miei commenti:

MOTO PERPETUO di Willow78 Bella l’idea della giostra per descrivere il moto perpetuo (molto ben indovinato il PDV di partenza… il tizio si è divertito da morire). Mi ha fatta pensare a un film del quale mi hanno parlato ieri gli amici in biblioteca (il treno in apparenza autosufficiente, dove c’è tutto per vivere, orti compresi, solo che lo fanno andare avanti…dei bambini). L’analogia fra il tuo racconto e il film finisce lì. La tua giostra vagone è un mondo autosufficiente per davvero. Mi è piaciuta la frase con la musica dei violini, tipo scena horror, che ricorre nella storia e ho trovato belli i riferimenti a Voyager (Carina la SAV, infatti). Molto indovinato il lessico dei personaggi (ragazzacci) e inquietante il riferimento al morto sul treno verde. E lo stesso destino infausto tocca anche allo spaccone Luca, che si trova a compiere lo stesso giro sul vagone in compagnia del suo…predecessore.

Attenta a: così dicendo tirò via il nastro giallo. Meglio: così dicendo, tirò via il nastro giallo.
Il treno parti: meglio il treno partì.
Sai quanti giri fa ‘sta roba in un giorno… e quanti giorni gira in un anno? Frase che andrebbe risistemata, troppa vicinanza fra giri e gira: sai quanti giri fa ‘sta roba in un giorno…e pensa per quanti giorni ne fa in un anno? (ma il mio è solo un parere personale).

IL DENTE SCHEGGIATO di CMT Ciao CMT, hai scelto uno spunto veramente spaventoso (i denti sono delle bombe a orologeria). L’orrore cresce in tutta la sua potenza (siamo passati da quello della visita del dentista con il preventivo da paura…appunto perché il medico non lo dice, al pelo che spunta dal dente. E così…ricorre al fai da te (e questo mi ha fermato il cuore mentre ti leggevo). Mi ricorda (per come hai reso le allucinazioni di Mari il Fischio al Naso di Buzzati, hai la stessa profondità; molto indovinata la sfumatura ironica….specchio e pinza che non elargiscono perle di saggezza). Ok per l’acronimo (SOS, Save our Souls, in questo caso, indovinatissimo. I peli possono anche venire dall’inferno. Mi hai fatto paura (anche perché dubito che tu abbia molto a che fare con i dentisti. Ho visto la tua fotografia sul tuo sito letterario, ai tempi di Due Bulli e una Pupa (desideravo saperne di più di te come scrittore, visto che eri mio capitano); che dentatura. Beato te).

Attento alla vicinanza ma-comunque: c’è gente che la ritiene un peccato mortale.
Detartraggio: direi più detartrasi.

MOTO PERPETUO di Tony La Muerte Ciao, Tony, ben ritrovato. Fin dalle prime righe, hai creato un’atmosfera decadente molto suggestiva. Ho visto la villa pensandola dotata di verande e circondata da parecchio verde. Mi sono piaciuti i due protagonisti, ho ammirato la loro intraprendenza nello scegliere il lavoro di svuota cantine. Suggestivo l’orologio caricato a vento (pendola a moto perpetuo). E bello anche l’acronimo NOTOS dell’uomo caprone (Non osare toccare o Soccombi). Mi piace come hai reso la fine dell’incauto che tocca la pendola e anche l’atmosfera che ne accompagna la morte (stanza che vortica, segni sulle pareti che formano un avvertimento divenuto inutile per lui). Straziante anche la fine del suo amico, il quale perde la vita per mano dell’uomo caprone (l’ho visto a metà fra un demone e Thoth).

Attento a si per sì.
La descrizione delle stanze andrebbe aggiustata, secondo me: toglierei differenti nell’organizzazione e metterei differenti nella planimetria.
Rivedrei anche: il legno che separava l’alloggiamento della barra inferiormente e il quadrante dell’orologio superiormente, scrivendo così: il legno che separava l’alloggiamento della barra nella parte di sotto e il quadrante dell’orologio sul lato superiore (è solo un mio parere, ma credo che gli avverbi siano brutte bestie…da non ripetere troppo in una frase).

REBBI DI SANGUE di Ceranu Ciao, piacere di rileggerti. Che bella immagine, occhi scuri che navigano nel rosso mare della stanchezza. E che caratterino, quel Schultz, io sto male per il topo. I fenomeni della casa mi hanno fatta pensare a un “poltergeist”. Invece, c’è un nostalgico del nazismo. Bello il pugnale con la sigla “A.M.F” sull’impugnatura (è un simbolo di forze maligne, perché Arbeit Macht Frei, il lavoro rende Liberi, è la scritta sulla porta del lager di Auschwitz e anche di Dachau, se non ricordo male; in entrambi i casi sono state rubate e questo è inquietante) . Notevole l’immagine delle vittime che si vendicano del carnefice facendo erompere le mani dallo specchio. C’è qualcosa di sulfureo nel forchettone di Giulio. La scena dell’uccisione di Giulio da parte del medium (Dottor Romet, Dottor Morte, carino) è ben resa. Ci sono dei punti oscuri nella trama: Marta ha sposato Giulio per vendicare le vittime del lager dove ha trovato la morte la sua matrigna Ester e il padre di lei, Levi, si finge medium e la obbliga ad aiutarlo facendo leva sul senso di colpa (cos’ha fatto?). Dialoghi da aggiustare: prima sembra che Marta sia figlia di Alberto Levi ed Ester e poi non lo sia. Curiosa l’immagine dei forchettoni nel bagagliaio.

Attento a ma cosa potevo aspettarmi da uno che fa Esposito di cognome.
Scriverei: ma cosa potevo aspettarmi, da uno che fa Esposito di cognome?
E a: “Riprenditi c…o!” scriverei: ”Riprenditi, c…o!”.
Quarantanni non va bene, meglio: quarant’anni.
Attento a “papà c…o il rito”, scriverei:” papà, c…o, il rito!”.
Affianco non va bene, meglio: a fianco.

IL GIALLO E’ NERO di Nazareno Marzetti Ben trovato, Nazareno (Reiuky). Affascinante l’idea dei paradossi temporali. E del DST (credo che sia il congegno mezzaluna che si trova nel museo) e che, premuto da Aurora dietro indicazione di se stessa, fa viaggiare nel tempo il gruppetto, nel tentativo di scampare al futuro che li vede morti entro domenica sette agosto del 2014. C’è anche una lettera viennese del 1794. Tutto materiale da aggiustare, che vedrei bene in un racconto molto più lungo (o romanzo breve). L’idea è affascinante. Mi piace il congegno mezzaluna che si trova accanto al pilone di granito di marmo egizio.

Attento a washington museum (meglio scritto Washington Museum).
A calicola per canicola (la parola deriva da Sirio, Stella del Cane, visibile nelle notti estive).
Attento a Se l’illuminazione che era venuta un’illuminazione, scriverei: se l’illuminazione che era venuta illuminante o a illuminarla (come preferisci, al limite anche: se l’illuminazione che le era venuta, ma non ripetere due volte illuminazione così).
Un canadese grosso quanto due leggeva assorto un poster. Meglio: un canadese, grosso quanto due, leggeva assorto un poster. Simpatica, come frase, per intendere il Tutto Muscoli Poco Cervello.
Refuso: investifatore per investigatore.
Versione suffragiata, non va bene. Si scrive: versione suffragata.
I poliziotti pensarono a uno Scherzo- Ma c’era poco da scherzare troppo vicini. Anche quello che era accaduto non aveva senso- scrivere un rapporto che non aveva senso.
Troppo vicini Stavo seguendo un caso- Stavo seguendo un uomo.
Martedì va meglio minuscolo.
“Io credo che torno in albergo”, no, meglio: ”Credo che tornerò in albergo”.
“Però sarebbe meglio se ci scambiamo il numero di telefono?”, no meglio: ” Però, non sarebbe meglio se ci scambiassimo il numero di telefono?”.
“Potevate chiedere alla segretaria” lo aggiusterei “Avreste potuto chiedere alla segretaria”.
Gaffes va al singolare: gaffe.
Meglio scrivere New York e non new york.
Constatò e non costatò.

IL GIALLO E’ IL NERO di Bloodfairy Strepitosa l’idea dei Ghostbusters. Surreale l’incontro fra Ben (originale ghostbuster psicologo) e il fantasma (una voce che mette i brividi, appunto perché sembra provenire dalla casa stessa). La Voce Disincarnata si rivela un fantasma donna impermalita dalla solitudine e dagli anni. Ho gustato molto la leggenda della donna fedifraga (kuchisake-onna) sfigurata dal marito samurai e anche l’espediente di Ben per salvarsi la vita e bonificare la casa dal fantasma permaloso (e a ragione, poveretta, prima ustionata e poi strangolata con una corda dal marito) bevendoci una miscela di tè. Splendida la menzione del tè dagli aghi d’argento (è la miscela che in Cina offrono soltanto ai capi di stato; dicono che abbia un gusto etereo) e anche quella del Pekoe (lo conosco aromatizzato all’arancia, è asprigno). Complimenti, è una storia istruttiva e godibile.
Attenta a da giallo divenne scuro (riferito alla bevanda) meglio: da gialla divenne scura.

La mia classifica è:

IL DENTE SCHEGGIATO di CMT 6 punti
MOTO PERPETUO di Tony la Muerte 5 punti
IL GIALLO E’ NERO DI Bloodfairy 4 punti
MOTO PERPETUO di Willow78 3 punti
REBBI DI SANGUE di Ceranu 2 punti
IL GIALLO E’ NERO di Nazareno Marzetti (Reiuky) 1 punto.

Al di là dei numeri, siete stati bravissimi e ho imparato molto da tutti voi.
 
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view post Posted on 10/11/2014, 09:18
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CITAZIONE (shanda06 @ 9/11/2014, 16:44) 
Ben trovati, ecco i miei commenti:

Ciao Shanda.

Grazie per i commenti. non ho capito, però, come mai mi hai messo ultimo. Sembra che tutto ti sia piaciuto, ma se mi hai messo ultimo ci sarà qualcosa di migliorabile nel mio.
 
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view post Posted on 10/11/2014, 11:20
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Losco Figuro

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Moto perpetuo di Shanda06

Specifiche: mi convincono poco. Il titolo viene richiamato alla fine, ma non mi sembra ci sia molto del moto perpetuo nel movimento del pulviscolo, che peraltro è una cosa piuttosto comune. In quanto alla sigla, la tua LISTEVERTO non è un acronimo, prende la sillaba iniziale di una parola (e va bene) quella di una seconda e poi la finale della seconda stessa, e non torna, finisce con l’essere la fusione abbastanza random di due parole.

Forma e Stile: rispetto al racconto del mese scorso ho riscontrato un ritorno a una maggiore mancanza di chiarezza. È piuttosto difficile seguire gli eventi perché ogni volta sembra di essersi persi qualcosa prima, durante o dopo, che a te sicuramente è chiarissimo, ma che limitandosi a leggere il brano risulta di difficile comprensione. Ad esempio non capisco perché partire con una cosa, poi andare avanti, poi in flashback rivelare cosa è accaduto al trio, e poi di nuovo andare avanti e parlare della missione successiva, i balzi temporali sono nemici della comprensione, specie se accadono di continuo (vedi all’inizio quando parli della tomba, poi passi a parlare di altro, poi di nuovo la tomba, poi altro ancora)

Trama: ricucendo i pezzi, la trama è interessante, e se fosse più lineare sarebbe sicuramente un buon racconto. Ci sono però alcune cose che non tornano, come ad esempio la cosa nera che però non esiste che però esiste però è verde... cos’è? E che c’entra?
Anche della Neve Verde non si capisce molto, perché vengono dette alcune cose (che non è senziente, che non è mossa da alcuna volontà) ma poi vengono puntualmente smentite (invia delle comunicazioni, e apparentemente Malvertino ha ancora coscienza di sé dopo essere diventata parte della Neve). Inoltre coloro che esaminano la tomba (che pensavo fossero sulla Terra finché non è venuto fuori che pensano neanche sia esistita) sembrano sapere già tutto su di essa (e infatti non si capisce che necessità abbiano di esaminare la tomba in questione, né tanto meno si capisce perché ci interessi assistere alla scena.

Ambientazione: interessante come sempre, ma sovrasta di gran lunga gli eventi.

Personaggi: i personaggi li ho trovati ben poco caratterizzati, in effetti quasi per nulla. Non riesco a distinguerne le voci, e sembrano perfettamente intercambiabili.

Conclusione: è un racconto con del potenziale ma che andrebbe rivisto, sfrondato e ripulito, rendendolo soprattutto più lineare per chi lo legge.

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Il trio aveva raccattato quello che c’era e poi erano scomparsi nei pressi dell’ultimo sistema planetario.

“era scomparso”, il, soggetto è “il trio”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
l’Antropologo

Perché maiuscolo?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Da sempre appassionato di reperti della Storia dello Spazio, scoperchiava tombe

Chi?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
La persona che aveva trovato i resti dei tre, fluttuanti accanto alla Neve Verde era rivestita

Manca la virgola di chiusura dell’inciso dopo “verde”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
trovandosi di fronte a un muro di energia priva di fonti.

“privo”, è il muro il soggetto, non l’energia

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
ma questo, veniva solo dalla sua mente.

Virgola tra soggetto e predicato

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
L’apparecchiatura da registrazione che Fuelo aveva al polso, non aveva

Idem questa

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
luce verde ,

C’è uno spazio di troppo

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
ferendo il buio e lasciandosi scie simili a bava di un lumacone alieno.

Perché “lasciandosi”?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
ignara di cosa aveva visitato

“avesse”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“No “

C’è uno spazio di troppo

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“Dove hanno preso l’energia per farlo, dico io?”.

Il punto alla fine è di troppo

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
quelli dei LISTEVERTO.

Non dovrebbe essere “della”?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Non aveva senso, sprecare risorse

Virgola di troppo, sta in mezzo tra il predicato e il soggetto

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
- Noie burocratiche, prima di dichiarare il caso chiuso.

Perché prima i dialoghi erano con le virgolette e ora coi trattini? :-?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
anch’io, come unico parente ancora in vita ho visto la registrazione.

Serve una virgola dopo “vita”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Il medico era un tipo ossuto e impaziente: - Alludo quello recente.

I due punti non ci vanno, perché il narrato non introduce il dialogo, serve un punto.
Si allude “a qualcosa” non “qualcosa”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
nella nuova flotta di LISTEVERTO.

Anche qui, non dovrebbe essere “della”?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Solo che in quell’angolo del cosmo, non c’erano stagioni.

O devi aggiungere una virgola dopo “che”, o quella che c’è è di troppo

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
E poi la nave, a forma di sigaro all’andata e poi cambiata di aspetto durante il viaggio, fino a somigliare alla Neve Verde.

Ma la neve verde non è solo corpuscoli? Come fa una nave, o in effetti qualunque cosa, a somigliare nella forma a un ammasso di corpuscoli?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“Ci stanno beffando “ disse Fuelo.

Adesso hai di nuovo i dialoghi con le virgolette, dovresti uniformarli

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“Ma se non sanno niente di noi. Può darsi che stiano riverberando i nostri pensieri senza capirne nulla e neppure volerlo fare”.

A questo punto io non so di cosa stiano parlando, non c’è stato alcun accenno ad alcun genere di comunicazione, ma da qui sembra invece che ce ne sia stata una.

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“ Che

Spazio di troppo

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
affidatale dai LISTEVERTO

Continuo a non capire perché “dai” e non “dalla”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Ci ha avanzato parecchie noie.

“avanzato”? in che senso?

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
grida disperata davanti alla Neve Verde”
“Ne è stata vittima, quindi”

A entrambe le righe manca il punto alla fine

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“No, secondo lei inveisce contro l’indifferenza dei corpuscoli.”.

Qui invece ne avanza uno ^__^;

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
“Per fare contenta Malvertino?”.

Idem qui

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
La storia delle ultime tre vittime della Domomortoj svanite nello spazio sotto forma di scie luminose, non aveva scoraggiato la LISTEVERTO.

Virgola tra soggetto e predicato

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
L’altro fece un gesto sprezzante:

Ci va il punto, non i due punti

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
terrestre…ormai

Manca lo spazio dopo i puntini

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
- Sì, ancora – gli fece il verso Sangue Misto

È un sangue misto ma non si chiama così, quindi dovrebbe comunque essere “il sangue misto”

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Ehi….guardate lì.

Troppi puntini e manca lo spazio a seguirli (anche dopo sono sempre privi dello spazio)

CITAZIONE (shanda061211113 @ 5/11/2014, 18:11) 
Ebbe la forza di dire:- Niente

Manca lo spazio dopo i due punti

--

Moto Perpetuo - Willow78

Specifiche: sufficientemente rispettate. Il moto perpetuo richiamato dal titolo, nella trama è più che altro un tecnicismo, e la sigla non è molto rilevante, però di esserci ci sono.

Forma: buona, al netto di qualche imprecisione e qualche accento altalenante (nel senso che, sulla stessa parola, a volte sono giusti, a volte no)

Stile: funzionale ed efficace, il racconto si legge tutto d’un fiato (anche se io in realtà ho dovuto leggerlo in tre fiati, ma per cause del tutto esterne) e scorre senza problemi.

Trama: non particolarmente originale, come dici tu stessa, ma ben resa, e peraltro è interessante il concetto del fantasma non solo inconsapevole di esserlo, che non è nulla di nuovo, ma anche di per sé innocuo, portatore sano, per così dire, di effetti nefasti dei quali non è però per nulla colpevole. Mi resta il dubbio se alla fine anche il nostro protagonista sia morto, come pare, o semplicemente il fantasma interagisca con lui a sua insaputa, ma non è un dettaglio fondamentale.

Ambientazione: minima ma sufficiente, del resto la storia gravita attorno a quel singolo vagone delle montagne russe, e non ci sarebbe ragione di spingersi troppo oltre.

Personaggi: ben delineati, nel loro piccolo svolgono tutti il ruolo che hai assegnato loro e sono caratterizzati anche da poche battute o scene.

Conclusione: è un buon racconto, che non definirei eccezionale ma che si legge piacevolmente e svolge bene la sua funzione di intrattenimento. Per essere una ghost story non è particolarmente spaventosa, anzi è più divertente che altro, ma non sembra fosse nelle tue intenzioni renderla cupa, perciò non è un punto a sfavore.

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
Ecco, si parte. L’adrenalina inizia a salire; piano, però. Non siamo ancora al culmine.

Vedrei meglio il punto dopo “salire” e il punto e virgola dopo “però”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
ma la vista che si presenta mi carica d’eccitazione tanto che un ampio sorriso

Metterei una virgola dopo “eccitazione”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
«Ma dai, avevi detto che ti piacciono le montagne russe»

Manca il punto

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
quanti giri fà

“fa”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
«Ma sta zitto,

“sta’” apostrofato, per “stai”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
tutti quelli che vanno sul sedile dove stava il morto, vomitano l’anima e una volta uno è persino svenuto».

Ci vuole una virgola dopo “anima”, mentre quella dopo “morto” non ci può stare, è in mezzo tra soggetto e predicato

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
lo so perchè conosco

“perché”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
indicò dietro di sè con il pollice.

“sé”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
davanti a sè in segno di resa.

idem

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
un lavoro che lo eccita quando veder girare il cestello della lavatrice.

Refuso: “quanto”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
il sedile col gesto pomposo di un lacché.

“lacchè”, no, non lo so per quale ragione ^__^;

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
Il treno parti.

Refuso: “partì”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
Non sapeva perchè avesse rimesso

“perché”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
Luca sentì stamparsi sul viso

“stamparglisi”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
a ritirare una foto di sè coperto

“sé”

CITAZIONE (willow78 @ 6/11/2014, 14:11) 
«Hai paura?» gli dico. «Ma va, non devi averne. Qui è una figata».

“va’” apostrofato per “vai”

--


Moto perpetuo di Tonylamuerte

Certo che è gettonatissimo questo titolo... ^___^;;;

Specifiche: abbastanza rispettate, anche se il moto perpetuo non sono sicuro si rifletta nel racconto (il pendolo non era fermo quando l’hanno trovato) e la sigla è un tantino fabbricata ad arte, non c’è una grande logica nella sua presenza o nel perché sia, appunto, una sigla (dunque abbastanza incomprensibile come avvertimento)

Forma e Stile: c’è qualche imprecisione di poco conto, a parte quello sei stato molto, molto parco di virgole. Io ti ho indicato i punti in cui sono proprio necessarie, ma anche il resto del racconto beneficerebbe dall’averne qualcuna in più, onde evitare l’effetto di apnea se lo si dovesse leggere a voce.

Trama: c’è un lieve eccesso di non detto, visto che non ci si riesce a fare un’idea del perché quel pendolo abbia questo effetto letale su chi lo tocca (o perché il primo a farlo in effetti muoia prima di riuscirci, mentre l’effetto sul secondo è del tutto diverso) e come mai non abbia fatto una strage negli anni. L’idea di fondo dell’orologio maledetto non è di per sé male, ma forse andrebbe rimpolpata, magari con un effetto meno immediato e un minimo di suspense/crescita della tensione.

Ambientazione: anche se, ovviamente, minima, è ben resa.

Personaggi: sono la parte gestita meglio, a mio parere. I dialoghi sono vivaci e appaiono naturali piuttosto che artificiosi, con la giusta dose di cameratismo tra i due amici. Riesci a renderli tridimensionali anche mostrandone il comportamento e i gesti, e questo va a tutto vantaggio del testo.

Conclusione: secondo me questo racconto è un’ottima base di partenza, o meglio un’ottima partenza che però si brucia troppo in fretta sul finale, con una valida preparazione che va a concludersi in una scena troppo veloce e troppo confusa (non nel senso che non si capisca la scena in sé, ma in quello che non si capisce cosa stia esattamente accadendo e per quale bizzarra ragione), che non ha molto a che fare col lavoro preparatorio iniziale. Lavorandoci su dal rientro alla villa in poi potrebbe diventare un ottimo racconto, così non è comunque riuscito male, ma non eccelle.

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
D'altra parte, il favoloso periodo dove tutto

“in cui tutto”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
si, si, solito posto

“sì” avverbio va accentato (non te lo risegnalo dopo, ma ce ne sono altri)

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Grazie ad un piccolo prestito dalle rispettive famiglie avevano acquistato un vecchio e spazioso furgone;

Metterei una virgola dopo “famiglie”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
L'atrio della villa appariva poco illuminato e polveroso.

Giusto per evitare ambiguità, io direi “polveroso e poco illuminato” (perché a una lettura cursoria potrebbe sembrare “poco (illuminato e polveroso)”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Preso dall'entusiasmo Ettore iniziò

Serve una virgola dopo “entusiasmo”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Il legno che separava l'alloggiamento della barra inferiormente ed il quadrante dell'orologio superiormente, recava un'incisione: NOTOS. Probabilmente il nome della ditta che l'aveva realizzato.

Tre avverbi in “mente” in due righi sono un po’ troppi da reggere per una lettura fluida, anche perché i primi due sono non solo facili da sostituire, ma secondo me anche tranquillamente omettibili

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Man mano che Nicola creava le cataste Ettore le riversava

Serve una virgola dopo “cataste”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Si avviò verso l'orologio. Lo guardò. Si fermò.
“...adesso chiamo mio zio e mi faccio passare il numero del baffo...” stava dicendo Ettore, quando all'improvviso andò a sbattere contro Nicola, fermo all'improvviso.

Hai già detto prima che si è fermato, non serve dirlo due volte. Al limite, per maggiore effetto, dillo solo la seconda.

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Contemporaneamente, venne scalzato violentemente contro la parete opposta a quella sulla quale era appoggiato l'orologio.

Altra sovrabbondanza di avverbi. “Contemporaneamente” potresti anche non mettercelo, non aggiunge niente al significato, ma aggiunge tanto alla lunghezza. Peraltro potresti anche fermarti dopo “opposta”, perché non è che possano esserci molti dubbi in merito a cosa sia opposta

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
Ormai Nicola era completamente in panico.

“nel panico”

CITAZIONE (Tonylamuerte @ 7/11/2014, 12:15) 
L'uomo-caprone parlò, emettendo il suo verdetto:
Non Osare Toccare O Soccombi.

Non si va a capo dopo i due punti.

--

Rebbi di sangue<b> di Ceranu

Intanto onore al merito per aver usato questo titolo, unico tra tutti :-)

<b>Specifiche:
la storia ha un legame con il titolo, anche se in senso lato (ma la colpa è dl titolo, non della storia) e la sigla c’è ed ha rilevanza, per cui rispettate.

Forma: buona, al netto di qualche refuso e/o imprecisione. Mancano un paio di virgole fondamentali, ma per il resto niente di particolare.

Stile: il testo scorre senza intoppi e si riesce a seguire la trama e immergervisi facilmente, salvo forse che nei primi passaggi della scena allo specchio, da una parte perché appare un tantino confusa, dall’altra (cosa che ha più a che fare con la trama che con lo stile, in effetti) perché il fatto che il protagonista sia un neonazista sembra pioverci addosso dal nulla, tanto che per un attimo viene il dubbio di aver cambiato del tutto scenario.

Trama: l’assunto di base è interessante, anche se ci sono un paio di cose che non mi tornano troppo (ad esempio perché la donna/bambina prima si lamenti perché il padre è stato sbrigativo e poi si lamenti perché ogni volta devono fare tutta la sceneggiata, a occhio le due cose appaiono un po’ in contrasto). Non capisco nemmeno perché (se è così come sembra) uccidano a prescindere i possessori delle reliquie, che magari potrebbero essere del tutto innocenti ed esserne venuti in possesso in modo casuale o comunque slegato dall’essere dei nazisti (del resto, la più volte nominata Ester ha un nome ebraico, difficile fosse una nazista).
A prescindere da questi due aspetti, che in fin dei conti sono dettagli, la cosa che mi torna meno, e che secondo me funziona meno, è il forchettone, che dà quasi l’impressione di esserci stato messo solo per giustificare il titolo, ma senza il quale tutto girerebbe molto meglio. Non solo è un oggetto alquanto bislacco (chi si mette a fare un forchettone d’argento con le punte in oro?), ma appare strano che tutta la parte precedente giri intorno al rasoio ma poi il rasoio c’entri poco e niente. Sarebbe apparso più efficace se fosse rimasto quello al centro di tutto, e magari fosse anche stato usato come arma del delitto (o forse quello no, dipende se devono poi fisicamente portarselo via).
Altra cosa che eviterei è il riferimento alle protesi dentarie, perché sì, è verissimo che i nazisti recuperavano l’oro da queste ultime, ma poi viene fuori che stiamo parlando di un bambino, che è assai improbabile avesse una protesi in oro (anche ammesso di avere già parte della dentatura definitiva, a che scopo spendere per una protesi in oro che dovrà poi essere sostituita più e più volte durante la crescita?) e quindi o l’ipotesi di Alberto era “tanto per” (ma allora a che pro mettercela?) o cozza con la rivelazione finale.

Ambientazione: buona e ricca all’inizio, con la descrizione della casa e i primi eventi, poi tende a sfumare per lasciare più spazio ai personaggi, il che di per sé non è un difetto.

Personaggi: non mi è troppo chiara la caratterizzazione del protagonista, che sembra quasi abbozzato un po’ in fretta, in effetti rimarcando la strana impressione di aver cambiato racconto quando si passa dalla prima scena alla seconda. È anche curioso che non si faccia il minimo scrupolo a ostentare il suo sostegno al nazismo, perfino in presenza di un estraneo.

Conclusione: torno su quanto già detto per dire che in un’ipotetica versione definitiva post-skannatoio io farei sparire il forchettone e lascerei il rasoio al centro della scena, e magari darei qualche indizio in merito alle convinzioni di Giulio già nella prima parte, per non farle arrivare come un elemento del tutto estraneo nella seconda scena. A parte quello direi che è un buon racconto.

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Giulio avanzò piano verso la cucina. Lo sguardo fisso sulla maniglia a pochi metri, la mascella serrata e il fiato corto di chi ha paura di farsi sentire.

Serve una virgola al posto del punto dopo “cucina”, altrimenti la proposizione che segue diventa solo una lunga serie di soggetti senza alcun predicato.

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Poggiò delicatamente il piede sul vecchio parquet che cigolò.

E qui ne serve una dopo “parquet”, se no il “che” diventa complemento di specificazione (ovvero stai dicendo che di vecchi parquet ce n’era più d’uno, ma lui poggiò il piede su quello che cigolò)

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Amore tu sei sempre sicura?» Chiese ad alta voce.

“chiese” minuscolo

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Mosse un passo alla sua destra.

Non che sia sbagliato, ma “a destra” basterebbe, non serve specificare che è la sua

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
É normale

Accento sbagliato, “È”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Fissò la punta dei piedi sentendosi in difetto.

“Si fissò”, se no potrebbero anche non essere i suoi

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Ma cosa potevo aspettarmi da uno che fa Esposito di cognome.»

Non dovrebbe essere una domanda?

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
essere la stesa cosa.

Refuso: “stessa”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
nonostante i settantanni trascorsi,

“settant’anni”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Istintivamente se la tolse e la gettò a terra, ma questa era candida come quando l'aveva indossata.

Il “questa” non solo non serve ma è controproducente, si riferirebbe a “terra”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Sollevato espirò buttando fuori tutta l'angoscia.

Serve una virgola dopo “espirò”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Ma il suo riflesso non fece lo stesso. Mostrò i denti in un ghigno sadico.

E qui metterei i due punti dopo “stesso”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
un espressione impassibile.

Manca l’apostrofo

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Non vi è mai interessato.» rispose il bambino.

Non ci va il punto a “interessato”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Le gomme affossarono leggermente

Affossare è transitivo, le gomme possono affossarsi nella ghiaia, ma non affossare nella ghiaia (io direi “sprofondarono” e taglierei la testa al toro)

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
una coppia sui quarantanni attendeva

“quarant’anni”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«L'abbiamo chiamata per questo.» disse Marta

Non ci va il punto

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Mi dispiace per Ester,» il medium poggiò la mano sulla spalla della donna. «ma io ne avevo

se metti il “ma” minuscolo, e ci può stare perché prosegue direttamente dalla battuta iniziale, non puoi mettere il punto dopo “donna”, ci va al più una virgola

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
in pace sua madre..»

O c’è un punto di troppo o ne manca uno

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Il medium mise a soqquadro la casa e spulciò in ogni cassetto.

Si spulcia qualcosa, non “in qualcosa”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
come un ombra.

Manca l’apostrofo

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Nel bagno del piano di sopra Romet si bloccò davanti allo specchio.

Serve una virgola dopo “sopra”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Io.» disse

Non ci va il punto

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Timoroso l'uomo si voltò verso la compagna che alzò gli occhi al cielo e annuì.

Serve una virgola dopo “Timoroso”.

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
Orgoglioso guardò Marta e Romet e sollevò il coperchio.

E qui dopo “Orgoglioso”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
magia celtica.» disse Romet

Non ci va il punto

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
davanti al volto di Giulio che scosse la testa.

Serve una virgola dopo “Giulio”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
La bocca fu inondata

La bocca di chi?

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
La vita scivolò via veloce.

“sua vita” o “gli scivolò”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Sì scusa, ma questo era proprio un coglione.»

Serve una virgola dopo “Sì”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
ci gettò dentro il forchettone che tintinnò a contatto con i suoi vecchi fratelli.

Serve una virgola dopo “forchettone”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
«Del piccolo Guido. Viveva nella baracca affianco alla nostra.»

Meglio “a fianco”

CITAZIONE (Ceranu @ 7/11/2014, 22:44) 
aveva gli occhio gonfi

Refuso: “occhi”. Manca il punto dopo “gonfi”

--
Il giallo è il nero di Reiuky

Specifiche: il titolo rispecchia il racconto, e la sigla c’è, per quanto non mi sembri di aver trovato da nessuna parte la spiegazione del suo significato: non ce l’hai messa di proposito o è sfuggita?

Forma: qualche refuso, diversi punti mancanti e un paio di frasi migliorabili, ma per lo più a posto.

Stile: le scene sono tutte ben rese grazie a uno stile dinamico (che, tra parentesi, funziona molto meglio della scena della rissa spaziale di qualche tempo fa). La confusione che c’è è nella storia e non della storia, dovuta a quello che stai narrando (e necessaria per quello che stai narrando) e il modo in cui la costruisci fa sì che questo sia ben chiaro (bene che tu non vada a impelagarti troppo nei paradossi temporali, che sono terreno minato quasi per chiunque).

Trama: è un po’ un punto debole perché la trama mi piace ma sostanzialmente alla fine ci lasci con più domande che risposte. Sì, sappiamo che in effetti i tre hanno viaggiato nel tempo, e che probabilmente li aspetta un futuro (o passato? O presente? :-P) di avventure alquanto bizzarre, solo che sappiamo anche che non lo vedremo mai perché il racconto è finito, ed è un peccato. Soprattutto non abbiamo risposta a nessuna delle domande che sono sorte nel corso della storia: hai materiale sufficiente a un romanzo, e finisci per darcene solo il prologo.
Bello il modo in cui hai concretizzato il titolo, non esattamente semplice da gestire.

Ambientazione: minimalista, e in effetti avresti potuto arricchirla maggiormente, considerato che hai parecchie scene, scenari ed eventi in cui muoverti, ma mi rendo conto che lo spazio è quello che è.

Personaggi: molto ben caratterizzati, si distinguono bene anche nel modo di parlare e comportarsi

Conclusione: È decisamente un buon racconto, ma vederlo finire così sul più bello, quando c’è tanta carne al fuoco che aspetta di essere mangiata, lascia interdetti, ed è in effetti l’unica ragione per cui non si trova più in alto nella mia classifica.

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Quella domenica il washington museum

Dovrebbe andare con tutte le iniziali maiuscole, “Washington Museum” (ma comunque almeno la W è maiuscola per forza)

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
per lo più profughi dalla calicola che aveva invaso le strade in cerca di refrigerio.

Refuso: “canicola”
Metterei una virgola dopo “strade”, altrimenti sembra che sia la canicola a essere in cerca di refrigerio ^__^;

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Sul divanetto della sala principale Aurora rileggeva

Serve una virgola dopo “principale”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Se l'illuminazione che era venuta un'illuminazione guardando la sezione

Manca un “le” prima di “era” e c’è un “un’illuminazione” di troppo, ci credo che poi sfori i caratteri :-P

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Ehi ragazzi!» esclamò un tipo magrolino, dai capelli biondi scarmigliati e una giacca gialla con strisce bianche.

Se elenchi due cose appartenenti alla stessa persona dovresti usare la proposizione articolata o in entrambi i casi o per nessuno dei due, ergo “dai capelli [...] e dalla giacca” o magari “con i capelli [...] e una giacca” (“e una giacca” può sottintendere di nuovo il “con” senza problemi, non può sottintendere il “dai” perché non avrebbe senso, e quindi non è sorretta da nulla)

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
I tre si voltarono verso il giovane, cercando di capire chi fosse.
«Non... mi riconoscete?» chiese interdetto.

Chiese chi? Ci vuole un “questi” o un “lui” perché intanto il soggetto è cambiato

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Il canadese rimase a guardare il ragazzo sconcertato.

Chi è sconcertato? Se è il ragazzo, è giusto così, se è il canadese, ci vuole una virgola dopo “ragazzo”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
fino al gomito «No, cavolo!

Manca il punto dopo “gomito”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«È tutto da rifare. Tutto!» digitò alcuni comandi e poi premette un tasto appena più grande degli altri.

Non cambia niente ai fini pratici, ma visto che eri stretto di caratteri, “poi” potevi beatamente ometterlo

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Ma... che diavolo...»

Non dovrebbe essere “che diavolo...?”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Aurora si allontanò insieme al detective e il canadese.

“al canadese”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Il detective si guardò intorno «Dove sono le telecamere?»

Manca il punto dopo “intorno”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
insistette l'investifatore.

Refuso: “investigatore”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
La loro versione era suffragiata dalle telecamere:

“suffragata”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Quello che era accaduto non aveva senso, e fu presto evidente che nessun agente volle rischiare il posto per scrivere un rapporto che non aveva senso.

Direi “voleva rischiare”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Olaf Rufos» rispose il canadese. Gli altri fecero segno di continuare.
«Lavoro in una segheria. Ero qui in vacanza.»

Perché a capo? È sempre lui che parla

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Io resto dell'idea che dovremmo dimenticarcene. Però...» dalla giacca estrasse un DVD.

Se scrivi DVD tutto maiuscolo, che è in effetti più corretto, dovresti farlo sempre. La volta prima era tutto in minuscolo

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Aurora sospirò «Tutto

Manca il punto a “sospirò”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
affrancatura d'oltre oceano...

“oltreoceano” attaccato

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
costatò.

Meglio “constatò”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Trovò strano che su una lettera di oltre un secolo fa ci fosse il suo nome.

“un secolo prima”. “fa” va bene quando lo dice lei nel discorso diretto, perché si riferisce al suo qui e ora, ma per il narratore la cosa è diversa, “fa” sarebbe “un secolo prima del momento in cui io narratore sto scrivendo questa frase (che non è il momento in cui si è svolta l’azione)”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Nonostante il proposito di dimenticare tutto, i pensieri non gli avevano dato tregua e il mattino

Direi “al mattino”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Pronto?» boffonchiò con uno sbadiglio.

Refuso: “bofonchiò”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«E quale di grazia?»

Metterei una virgola dopo “quale”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Accetto che sta succedendo qualcosa a cui devo venire a capo»

Si viene a capo “di” non “a” qualcosa

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
qualche gaffes.

“gaffe”
È una parola usata nel linguaggio italiano a tutti gli effetti, non usa il plurale della lingua di provenienza, ma poi, anche se l’usasse, qui va comunque al singolare :-)

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Come se segnalasse dove sono stati aperti varchi temporale.»

Refuso: “temporali”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Il ragazzo vestito di giallo entrò sbattendo la porta nel locale,

Io direi “entrò nel locale sbattendo la porta”, sia perché suona meglio, sia perché è la corretta sequenza degli eventi, prima entra e poi sbatte la porta, se la sbatte prima di entrare resta fuori

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Questa lettera.» Mostrò un foglio di carta spiegazzata,

Ha più senso che sia “spiegazzato” il foglio

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Calma, calma» disse Luck

Manca il punto dopo “Luck”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Poi al ragazzo «Chi ci ha ucciso l'altra mattina.»

Qui ci vogliono i due punti dopo “ragazzo”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
lo disse come se fosse una cosa di poco conto.

“fosse stata”, hai cambiato tempo

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Un te futuro?»
«E quelli che sono morti?» la precedette l'investigatore «Sono versioni future di noi?»

Precedette chi? Aurora? Ma non è Aurora ad aver appena fatto una domanda? Quindi come l’avrebbe preceduta se ha parlato dopo di lei? ^__^;
In ogni caso, manca il punto a “investigatore”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
una raffica di mitra spaccò le vetrine del locale.

Trattandosi di vetrine userei “frantumò” o “infranse”

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
confermò il giallo

Manca il punto

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
«Non lo so...» Aurora scosse la testa spaventata.

Serve una virgola dopo “testa”, se no è la testa ad essere spaventata ^__^;

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
le ricordò l'investigatore

Manca il punto

CITAZIONE (reiuky @ 8/11/2014, 12:40) 
Olaf prese un paletto delle transenna,

Refuso, non so se “della” o “transenne”

--

Il giallo è il nero di Bloodfairy

Specifiche: titolo richiamato correttamente nel racconto e sigla presente e funzionale, OK

Forma: Ci sono delle cose da sistemare, alcune correzioni formali e qualche ripetizione (ho segnalato la più “fastidiosa” ma in effetti ce ne sarebbe qualcun’altra), comunque buona nel complesso. Però vorrei capire perché il fantasma parla a volte senza punteggiatura finale (perfino senza interrogativi) e a volte con (una volta ne usi addirittura tre di interrogativi), e come mai le À le accenti correttamente e le È È e la Ò le apostrofi. :-?

Stile: il testo è fluido e si legge con molto piacere, ha la giusta dose di suspense e ironia ben miscelate, e come nel caso del racconto di Willow appare come una variante divertente, ma non strettamente umoristica, di una ghost story.

Trama: piuttosto originale (OK, in realtà ho scritto un racconto con premesse simili tempo fa, a parte che non c’entrava col te o la rivendita di appartamenti, ma visto che l’hanno letto in due finora non fa testo alcuno :-D) e ben gestita, ma mi ha lasciato qualche dubbio sul finale: non mi è chiaro perché mischiare due tipi di tè per ottenere del tè nero, né perché lo spettro si convinca di star bevendo del tè Peckoe (hai scritto pecko ma a me risulta ci sia la e finale) solo perché il tè è scuro, visto che il peckoe è UN tè nero (e peraltro in foglie, non in filtri) e non tè nero in generale. Non è una cosa che influisca granché sulla vicenda, ma lascia qualche dubbio.

Ambientazione: tutto considerato penso avresti potuto sfruttare di più la casa infestata per lasciarti andare a qualche descrizione d’atmosfera. Non era necessario, ed è parzialmente giustificata la sua assenza dal fatto che in concreto il protagonista sia quasi sempre al buio, ma sarebbe stato un di più che poteva solo migliorare il risultato.

Personaggi: mi piace la caratterizzazione del protagonista, che è anche quasi l’unico personaggio (il fantasma antagonista è giustamente bidimensionale, reitera le proprie azioni e si comporta, come è giusto che sia, da fantasma), anche se sono poco convinto di alcuni passaggi iniziali, nei quali sembra quasi che lui non abbia mai davvero incontrato un fantasma (vedi come si giustifica davanti al capo, quasi fosse al suo primo incarico, e come reagisce inizialmente incontrando lo spettro), quando poi viene fuori che lo fa pressoché di continuo e sempre con successo. Tenterei di aggiustare il tiro in quei punti.

Conclusione: Anche al netto di quanto sopra, ho trovato il racconto molto buono e godibile. Migliorabile sicuramente, ma poche cose al mondo non lo sono, ma davvero di piacevole lettura, e con un ottimo finale (in realtà per me avresti anche potuto chiuderlo al “Sono solo inglese” e avrebbe funzionato benissimo lo stesso, il resto è pressoché scontato, ma anche l’epilogo non appare forzato o superfluo, e quindi ci può stare).

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Ben Covent arrivò negli uffici della D.I.M.P a pomeriggio inoltrato.

Perché non c’è un punto anche dopo la P?

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Il corridoio era deserto e non fosse stato per il ticchettio smorzato di dita agili sui tasti di un computer, avrebbe definito quel posto abbandonato.

Hai chiuso un inciso che non avevi mai aperto, devi aggiungere una virgola prima di “non fosse”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Una ragazza in minigonna gli andò incontro sorridendo, Ben le rivolse il più smagliante dei sorrisi.

Metterei punto o almeno punto e virgola dopo “sorridendo”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
La seguì e mentre gli dava le spalle, gettava uno sguardo alle gambe sode e abbronzate, senza tralasciare il fondoschiena che magistralmente gli agitava davanti agli occhi, stuzzicando il suo appetito.

Serve una virgola prima di “mentre” (anche qui inciso chiuso e mai aperto), e dovrebbe essere “gettò” (“mentre” introduce l’azione in corso che è “gli dava le spalle”, quindi a fronte ci va un’azione fatta e finita, a meno che tu non la renda a sua volta progressiva, es. “gettava ogni tanto uno sguardo”)
Per evitare ambiguità della frase, aggiungerei “lei” dopo “mentre”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
D'altra parte i quadri lugubri appesi alle pareti e il velo di polvere adagiato sulle foglie di plastica delle piante finte, non erano certo uno spettacolo più interessante.

Serve una virgola dopo “parte”, mentre quella dopo “finte” va tolta perché sta in mezzo tra soggetto e predicato (in alternativa potresti aggiungerne una dopo “polvere” e trasformare “adagiato [...] finte” in un inciso)

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«Ben»

Manca il punto

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«Vado subito al punto Ben.

Così pare che vada al “punto Ben”, dopo “punto” serve una virgola

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
quando nessuno voleva comprarle e se c'erano entità poco raccomandabili, chiamavano lui per fare pulizia;

Prima di “c’erano” serve una virgola (anche questo è un inciso orfano di apertura)

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Così la DIMP era divenuta irrinunciabile realtà, sia per lui che per loro.

Prima “D.I.M.P.” era puntato, perché ora non più?

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«Sono già stato pagato» rassicurò.

Direi “lo rassicurò”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
E cosa poteva rispondere? Mosse la torcia, diffondendo la luce da ogni parte per scorgere chi avesse parlato. Naturalmente non trovò nulla. Non sapeva neanche dire da dove arrivasse la voce, sembrava giungere da ogni parte.

Occhio alla ripetizione di “da ogni parte”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Dal tono indispettito, Ben avrebbe giurato che era un fantasma donna, assomigliava alla sua ex.

Metterei punto e virgola o punto dopo “donna”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Innervosito da quell'inatteso botta e risposta, sbottò:
«La tua casa

Non si va a capo dopo i due punti

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
suscettibile e fotofobico!

“fotofobo”, “fotofobico” non è chi soffre di fotofobia ma qualcosa di relativo alla fotofobia (es. “un comportamento fotofobico")

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Se diceva di no,

“avesse detto”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«E ADESSO? SONO UGUALMENTE BELLA?»

Ti sei ispirata a un fantasma giapponese? :-)

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
nei quali l'uomo sentì di poter annegare, se solo glielo avesse lasciato fare.

Se solo le avesse lasciato fare cosa? :-?

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
La kuchisake-onna, donna dalla bocca spaccata,

Sì, decisamente ^__^

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
MONTE DELL'IMPERATORE »

Spazio di troppo

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Ben fu su punto di mettersi a saltare

Refuso, “sul”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«TE' GIALLO?» Gli fece eco.

“gli” minuscolo

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
come vi fosse accesa una luce.

“vi si fosse”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
gli domandò:
«E COSI' SONO BELLA?»

Non si va a capo dopo i due punti

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
un piccolo perno ,

Spazio di troppo

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
La guardò reclinare il capo all'indietro, sospirare con la sua faccia tumefatta, gli occhi neri sfavillavano come stelle nel cielo notturno.

Metterei punto o punto e virgola dopo “tumefatta”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
«Ah... grazie!» Mormorò l'uomo, tirando un sospiro di sollievo.

“mormorò” minuscolo

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Lei riprese le sue belle sembianze ed esplose in una risata cristallina. Prese un secondo contenitore

Il soggetto di “Prese” è ancora “Lei”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Dopo qualche minuto, da giallo, la bevanda divenne scura, quasi nera.

“gialla”

CITAZIONE (Bloodfairy @ 8/11/2014, 18:48) 
Alzò lo sguardo attonito e soddisfatto su di lui: «TU SEI UN MAGO»

Dopo “lui” ci va il punto, non i due punti: il narrato non introduce il dialogo

***
Classifica
Il giallo è il nero – Bloodfairy
Rebbi di sangue – Ceranu
Moto perpetuo – Willow78
Il giallo è il nero – Reiuky
Moto perpetuo – Tonylamuerte
Moto perpetuo – Shanda06

CITAZIONE (shanda06 @ 9/11/2014, 16:44) 
Detartraggio: direi più detartrasi.

Tendenzialmente direi "detartrasi" pure io, anche perché è un termine che per ragioni varie sento di continuo, ma pare sia più corretto "detartraggio", o almeno così si trova nei dizionari medici. ^__^

Grazie di voto e commento
 
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120 replies since 31/10/2014, 15:18   1481 views
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