| PROGETTO SOLITUDE di Alexandra Fischer
Il capo mastro, seduto nel capanno, stava sorseggiando del succo di mela per rinfrescarsi dal caldo torrido e per raccogliere le idee sul progetto che gli stava facendo tirare fuori il peggio di sé. Qualcuno bussò lievissimamente, di certo con ancora nelle orecchie la sua ultima sfuriata. - Che altro c’è? – gridò il capo mastro rivolto alla figura panciuta in salopette. - Abbiamo individuato il guasto nell’impianto dell’acqua. I tubi sono stati messi in modo sbagliato. - E l’architetto, cosa dice? - È un novellino. Il progetto non è il suo. Sta facendo del suo meglio per sostituire la Ackel, ma non ci ha ancora dato l’ultima versione del progetto. Il capo mastro posò il bicchiere sul tavolo pieghevole con la mano che gli tremava dall’ira. - Adesso cos’ha, si è pentito anche lui? L’idraulico gli scoccò un’occhiata remissiva. Anche lui aveva visto avvicendarsi una serie di incidenti all’interno dell’edificio che stavano ristrutturando: i sanitari della misura sbagliata, la ringhiera dello scalone staccatasi in piena notte, l’anta della persiana di una delle porte finestre caduta addosso all’operaio che la stava montando e l’improvvisa infiltrazione d’acqua nei tubi appena montati. Lui e il capo mastro erano i veterani del progetto e avevano visto passare altri due architetti prima di quello venuto da fuori città. L’idraulico tossicchiò e lo guardò da sotto in su. - Veramente, sta consultando direttamente la Ackel. - E come? Per cosa ne so io, è in coma farmacologico al Robert Bosch Krankenhaus. Il livello di collera del capo mastro non aveva ancora superato il livello di guardia, così l’idraulico ne approfittò per dargli la notizia: - Sicuramente lei avrà desiderato tante volte entrare nella testa di Benedikta Ackel. Il suo interlocutore annuì, esausto: - Non immagina quante. - Bene, quelli della Porsche lo hanno appena fatto. Gran parte del progetto è rimasto nella sua mente. - E come? - Miniaturizzazione. Prenderanno tutto il resto del progetto dalla sua mente prima che inizi a collassare del tutto. Il capo mastro disse, sbuffando: - Allora speriamo che l’architetto arrivi presto. Questo posto mi sta esasperando. Sembra che ci viva uno spirito burlone.
Fuori, l’edificio che li stava facendo innervosire tanto, sfolgorava sulla cima della collina in tutto il suo fascino barocco. Era infatti un castello a pianta tonda, verniciato di verde e con le porte finestre a incorniciarne il perimetro. Da sempre vuoto all’interno, mai abitato, portava il nome di Solitude. E la terrazza sul davanti non faceva che accentuare quella sensazione, mostrando all’osservatore il paesaggio di vigneti e casette bianche dai tetti spioventi neri e rossi del quartiere vinicolo.
La torre della televisione si perdeva nell’orizzonte, simile a un palo sottile terminante in una sfera disseminata di finestre, in una delle quali c’era l’ufficio dell’architetto Hegel, il sostituto della Ackel, il quale stava osservando le prime immagini della mente della donna inviategli dai tecnici a bordo della navicella Porsche iniettata nell’orecchio sinistro della Ackel dal primario neurologo, sotto la supervisione degli ingegneri della Porsche e di alcuni esperti informatici. L’architetto si affrettò a salvare i dati, confrontandoli con il progetto della collega più anziana. Nelle intenzioni della Ackel, Solitude doveva diventare il rifugio di una clientela in cerca di un’esperienza elettrizzante. Naturalmente, soltanto una persona alla volta sarebbe potuta entrare a soggiornare lì, trovandosi in una versione del tutto bizzarra di Stoccarda, la città tanto amata dalla Ackel. Reinhart Hegel sorrise nel vedere la stanza del primo piano, arredata in modo da riprodurre la festa del vino novello, con tanto di balle di fieno agli angoli, tavoli imbanditi di bretzeln, kalbsleber, torta di cipolle, brocche di vino bianco. L’effetto era completato da cameriere indaffarate e orchestrina. Qualche elemento d’arredo e speciali telecamere, avrebbero immerso il cliente solitario nella festa, con tanto profumi di carne e vino e suoni di musica campagnola. Non mancava l’angolo del centro città, con i caffè all’aperto, i negozi di libri e di moda, e uno scorcio della metropolitana, con la tabaccheria e il distributore di biglietti. Ai muri, la pubblicità del cioccolato Ritter dalle grandi tavolette quadrate di tutti i colori completava l’impressione di essere lì. La Ackel aveva voluto anche offrire un giro in metropolitana al cliente solitario. Sul convoglio, frasi di Schiller e Goethe accompagnati dagli avvisi di non dimenticare nulla sui sedili a partire dall’ombrello, completava la sensazione di trovarsi lì davvero, insieme al rumore del motore e della voce dell’altoparlante che enunciava le fermate fino al capolinea. Quel vagone portava nel centro, e ai muri, la pubblicità di Mac Donald e i manifesti che esaltavano le attrattive della Foresta Nera, oppure annunciavano spettacoli teatrali a Stoccarda o invitavano a visite allo zoo, gli facevano vedere la città con occhi nuovi. Vivendo lì, non avrebbe mai immaginato che potesse essere così rutilante di immagini. La Ackel gli stava mostrando vari angoli della città: da quello avveniristico, fatto di grattacieli che contenevano saune, palestre, sedi bancarie, fino all’angolo in cui c’erano ancora le facciate delle casette da fiaba della vecchia Stoccarda scomparsa sotto le bombe. L’architetto Hegel vide l’immenso edificio con le grandi torri ai lati, un tempo orfanotrofio pubblico e divenuto poi istituto di lingue per stranieri. All’interno c’era un piccolo parco e un piccolo caffè ispirato a Mozart nell’insegna e nei piatti austriaci. Il suo giro durò poco. La Ackel gli mostrò in rapida successione negozi di gioielleria, di abiti di alta moda, di giocattoli artigianali che andavano dai pelouche Trudi e terminavano in una città di bambole di porcellana ispirate all’Ottocento. Il culmine del viaggio fu la pasticceria del centro, un tempo palazzo nobiliare. Ne aveva tutta l’aria a partire dai pesanti candelabri a goccia, passando per le sedie foderate di velluto verde e i tavoli di marmo grigio sui quali facevano bella mostra tazze di porcellana bianca. Gli stucchi dorati e i medaglioni di fiori dipinti erano molto realistici, come pure le ampie finestre dai vetri quadrettati che davano sul parco interno, dove c’era una fontana di pietra grigia che riversava di continuo acqua spumeggiante. L’immagine successiva andò alla vetrina delle torte. Tagliate a fette e ricomposte su piatti coperti da tovaglioli di carta ricamata, erano piccoli capolavori di simmetria. Ce n’erano di tutti colori, oltre una cinquantina di varietà. Il locale, vuoto all’inizio, si animò, facendo sussultare l’architetto Hegel. Da dietro il bancone era comparsa una donna di mezza età, con il grembiule nero e il colletto bianco da cameriera. Gli sorrise e gli domandò quale tipo di torta volesse con il caffè. Dietro di lei c’era infatti una caffettiera di vetro già piena di liquido bollente, pronto per essere servito, con accanto un bricco di panna. Le parole della cameriera gli giunsero attutite e l’architetto Hegel dovette farsele ripetere. - Quella – confermò lui poco dopo, indicando una fetta di torta ricoperta di cioccolato al latte e decorata di gherigli di noce. I suoi occhi seguirono le mani della donna mentre afferrava la porzione di dolce con la molletta apposita e gliela collocava sul piatto, facendogli pregustare una merenda deliziosa. L’immagine della torta scomparve insieme a quella della pasticceria, sostituita da quella di uno stanzino pieno di mensole dove si potevano contare decine di barattoli, scatole, sacchi di mele e patate, cartoni di latte e succhi di frutta, oltre a qualche bottiglia d’acqua. Quei particolari lo fecero pensare alla tipica dispensa di una delle case grigie fatte progettare negli Anni Trenta da Hitler, talmente robuste da aver superato i bombardamenti. L’architetto passò dalla dispensa in cucina, notando di sfuggita il tavolo, le sedie marroni, il lavello di marmo venato nero e grigio e passò nel corridoietto, cercando di far scricchiolare il meno possibile il parquet. La cucina era deserta, ma non era certo che lo fosse il resto dell’alloggio. Il fatto di stare vedendo le immagini della mente della collega gli stava sfuggendo di mano. Ormai, quel mondo interiore lo aveva catturato, portandolo a chiedersi a cosa volesse arrivare a Ackel mostrando un frammento di vita quotidiana così diverso dall’immagine della Stoccarda americanizzata. L’architetto se lo chiese mentre gli si profilò davanti la porta spalancata che dava su un salotto con tanto di bovindo. Le sedie e le poltrone rivestite di jersey, il tavolo di legno nero coperto di damine e cani lupo, il televisore con sopra un centrino e un vaso di fiori, il mobile libreria con la radio, qualche edizione economica e numeri della rivista Stern gli ispirarono un senso di nostalgia per il passato. Sarebbe potuto essere l’alloggio di suo nonno. Un richiamo proveniente dalla stanza di fronte a lui gli fece aprire la porta d’istinto. La sensazione nostalgica scomparve. La vista di due giovani donne in vestaglia in piedi davanti a una scrivania, lo imbarazzò, facendogli desiderare di poter uscire dalla porta a vetri dell’ingresso, affrontando la scala di legno lucidata a cera d’api. Le due ragazze lo abbrancarono, trascinandolo sul letto più vicino. - Questa è la consumazione che hai scelto – gli disse la maggiore delle due, una brunetta dall’aria fintamente ingenua, mentre cominciava a sbottonargli la camicia. La minore, una bionda dall’aspetto studioso rafforzato dagli occhiali a goccia, gli accarezzò il volto. - Ogni varietà di torta che ordini nella pasticceria è legata a un tipo di sesso diverso. Noi siamo quello che segue alla torta di noci. L’architetto era stupefatto e non solo per via del realismo di quello che stava provando. La Ackel era arrivata a mostrare un lato nascosto di sé. Una pasticceria-bordello a Solitude? Le due ragazze si alternarono per portarlo all’apice del piacere, ma, all’improvviso, dai loro corpi elastici di diciottenni cominciò a colare un liquido nero, mentre gli occhi collassavano all’interno dei loro visetti graziosi. Rimasero distese accanto a lui ridotte a scheletro per alcuni istanti fin troppo lunghi, dopodiché, lo schermo si oscurò. Al Robert Bosch Krankenhaus, Benedikta Ackel aveva appena esalato l’ultimo respiro quando il neurologo appoggiò la siringa all’orecchio destro raccogliendone la navicella miniaturizzata. I suoi occupanti avevano raccolto altre immagini della memoria morente dell’architetto. Hegel le vide subito dopo, saltando sulla sedia. Le immagini serene di poco prima si erano trasformate in un paesaggio da catastrofe: la Torre della Televisione era un moncone e le casette graziose erano diventate cumuli di macerie. La pasticceria si era trasformata in un immondezzaio e il bancone dietro al quale stava in piedi la cameriera era occupato da uno scheletro riverso sul bancone; le torte gustose esposte all’interno erano diventate mucchi di muffa. La metropolitana era una rovina accartocciata e i manifesti pubblicitari mostravano una Foresta Nera dagli abeti cariati. I giocattoli esposti nelle vetrine le avevano spaccate, mettendosi a sgranocchiare le schegge di vetro. L’istituto di lingue non esisteva più, e nemmeno i grattacieli all’americana, ma le casette da fiaba erano di nuovo in piedi, e all’interno ne strisciavano creature senza faccia. Le case a bovindo volute da Hitler erano sventrate e ne pendevano le scale di legno rompigambe. Solitude svettava ancora in cima alla collina, ma con le porte finestre divelte, sparse tutt’intorno. Terrorizzato, l’architetto spense il computer e andò a incontrare i tecnici che avevano compiuto il viaggio neurale. La carrozzeria della navicella era ammaccata, con il motore e la plancia inservibili. Uno dei due tecnici gli disse: - Ci ha portati qui per miracolo. Vorrei vedere cosa sta succedendo a Solitude. L’architetto annuì gravemente, reprimendo la voglia di scappare.
A Solitude, il capo mastro li accolse sulla porta. - Rimanete qui. Non è il caso che entriate ora. All’ultimo piano l’elettricista è rimasto folgorato mentre lavorava all’impianto elettrico. C’ero anch’io, e l’ho visto saltare da un muro all’altro. Sulla parete è rimasto il suo scalpo. Quel castello è maledetto. L’architetto venne colto da un dubbio atroce: - Quando c’è stato l’incidente? Il capo mastro glielo disse e l’architetto lo collegò all’ultima immagine. - Credo che dovremmo sospendere il progetto – gli disse – ormai la Ackel si è vendicata abbastanza. Il tecnico confermò le parole dell’architetto all’incredulo capo mastro. - Proprio così. Io ho montato le immagini come meglio potevo, vista anche la fretta di uscire da un cervello morente, ma la verità era che erano tutte alternate. Alla serenità si susseguiva l’orrore. E sì, gli incidenti sono cominciati da quando siamo partiti. Il capo mastro sussurrò: - Lasceremo tutto com’è. Non possiamo entrare lì. L’eco dell’autoambulanza li rassicurò solo in parte. Avevano tutti una gran voglia di andarsene. Una volta che l’ambulanza fu ripartita con il corteo di furgoni e auto, Solitude fu più che mai degno del suo nome. Nessuno ebbe più il coraggio di visitarlo.
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