Non sono particolarmente soddisfatta di questo racconto ma, terrorizzata dalle minacce di Pretorian, preferisco che le mie parole siano triturate dalle falci dello Skanna piuttosto che la mia persona. Dunque ecco qui
La bambina era un punto rosso nella nebbia, sperduta come un fiore di papavero in mezzo alla neve. Aveva il viso rivolto verso l’ultimo frammento di cielo che emergeva a stento nell’oscurità di latte che si addensava intorno a lei.
La notte era scura, senza stelle, il cielo ostile.
In quella nebbia lattiginosa non scorgeva altro che ombre. I rumori erano ovattati, come il ticchettio di un orologio avvolto nella bambagia.
Era come se fosse diventata cieca e sorda.
Si guardò intorno. Un gemito le franò dalle labbra, premette le mani al petto, stringendo la felpa rossa.
“C’è qualcuno?”
La nebbia ovattò la sua voce rendendola solo un sussurro spaurito.
Nessuno era lì per risponderle.
Le avevano detto di non allontanarsi troppo ma lei era curiosa e incosciente; due qualità con le quali non aveva mai imparato a convivere.
Aveva continuato a camminare fino a quando non aveva alzato lo sguardo e si era accorta di non sapere niente di quel luogo, nemmeno il modo in cui ci era arrivata.
All’improvviso era arrivata la nebbia. Aveva cominciato a salire dal basso, le aveva lambito i piedi, come il respiro di una creatura sepolta sotto l’asfalto; poi era risalita verso l’alto fino a ricoprire ogni cosa.
Il mondo era diventato in bianco e nero, come un vecchio film.
Non aveva mai pensato che l’oscurità potesse avere il colore del latte.
Non avrebbe potuto esserci un buio più terribile di quell’assenza di colore.
Il cielo era bianco, l’asfalto sotto i suoi piedi era avvolto da una patina impalpabile.
Cominciò a provare un’insolita fitta di gelo al petto e si affrettò ad allacciarsi la felpa fino al mento, coprendosi il capo con il cappuccio scarlatto.
Fece un passo in avanti cercando di controllare il tremore che le percorreva le gambe.
Era sicura che da un momento all’altro, qualcosa sarebbe uscito da quella nebbia e l’avrebbe afferrata alle caviglie per trascinarla nel nulla.
Sua madre le diceva che i mostri non esistevano, che ormai era troppo grande per credere al lupo cattivo o all’esistenza di creature sotto il letto. Ma lei era convinta che sua madre le mentisse; una notte l’aveva sentita piangere. Anche lei aveva paura del buio.
Riprese a camminare, come avanzando nel fango, le gambe che affondavano in quella nebbia fino ai polpacci.
Non aveva paura della nebbia ma dei mostri che vi si celavano.
Scosse la testa, costringendosi a rimanere calma. Mise una mano in tasca e strinse nel pugno un oggetto dal bordo rotondo, reso liscio dai continui sfregamenti. Lo estrasse dalla tasca e lo fece rigirare tra le dita: era una moneta d’argento con un buco nel mezzo. La notte, prima di andare a dormire, la usava per guardare sotto il letto.
Sapeva che quella moneta era magica. L’aveva detto suo nonno. Era stato lui a raccontarle di averla trovata nella tasca del tedesco che aveva ucciso quando c’era la guerra civile, quando lui e i suoi amici erano nascosti tra le montagne. Il tedesco la teneva nella tasca sinistra della camicia, accanto alla foto della propria fidanzata. Il nonno non sapeva dire se la ragazza in quella foto fosse stata bella: il sangue le aveva cancellato il viso.
Nonno aveva rovistato nelle tasche, aveva trovato la moneta con quel buco perfetto nel centro e aveva deciso di tenerla. Sarebbe stata il suo portafortuna. E così era stato. Nonno diceva che quando guardi attraverso quel buco puoi vedere cose che sono nascoste, cose troppo lontane o troppo vicine, cose oltre le cose, cose segrete.
Strinse la moneta nel pugno con tanta forza da sbiancarsi le nocche.
Rivolse uno sguardo anelante verso il cielo sperando di intravederne un frammento; ma fu un tentativo vano. Anche quell’ultimo brandello di notte era scomparso; ora c’era solo il bianco.
sentì qualcosa alle proprie spalle.
Era un rumore sottile, penetrante; non riusciva a definirne i contorni.
Le sembrava di sentirlo nella spina dorsale, come se una creatura informe le stesse risalendo lungo la schiena.
Riprese a camminare, senza più badare alle sensazioni esterne, il freddo sulla pelle era diventato una sensazione di contorno, come se non le appartenesse.
Trattenne il respiro, si bloccò, senza osare voltarsi, rimanendo in ascolto. Se si fosse voltata, lo sapeva con la stessa certezza con la quale sentiva il battito del proprio cuore aumentare d’intensità, avrebbe visto due occhi spalancati, fissi nei suoi.
E allora non sarebbe più stata in grado di scappare.
Il suono dei passi si avvicinava, il rumore di un respiro, roco e pesante.
S’irrigidì, incapace di pensare.
“Hai paura del lupo cattivo?” sussurrò una voce acuta, distorta dalla fame.
Fu come se una molla fosse scattata dentro di lei facendo attivare un meccanismo sepolto nel cuore; la forza con la quale cominciò a correre, facendosi strada nella nebbia con le braccia protese e un urlo imprigionato in gola, non le apparteneva. La moneta stretta nel pugno era fredda.
Era una bambina ma sapeva che cosa significava morire. E non aveva nessuna intenzione di approfondirne il significato.
Inciampò, cadde a terra. Picchiò gomiti e ginocchia, esalò quell’urlo che non riuscì piú a trattenere.
Urlò, di paura e di dolore mentre sentiva il sangue cominciare a scorrerle dalle ginocchia disegnando ricami scarlatti sulla pelle nuda dei polpacci.
Cercò di rialzarsi ma il dolore l’aveva resa debole e insieme al sangue aveva fatto scorrere da lei tutta l’adrenalina.
Si strinse le spalle con le braccia, rannicchiandosi su se stessa come se temesse di cadere a pezzi da un momento all’altro, una bambola di vetro.
Non era il freddo a farla tremare ma quella sensazione di pericolo incombente che le graffiava le pareti del cranio.
Abbassò la testa affondando la fronte nelle braccia e cominciò a piangere, incapace di frenare le lacrime.
“Non esiste il lupo cattivo.” disse. “Non esiste il lupo cattivo.”
“Ti sei persa?” Fece una voce.
La bambina alzò gli occhi pieni di lacrime e li fissò in quelli scuri di un ragazzo, la pelle pallida, il volto, incorniciato da lunghi capelli neri, nascosto da un cappuccio dello stesso colore.
I suoi occhi erano talmente scuri che pareva fossero tutt’uno con le pupille, come se non avesse iridi.
Rabbrividì e cercò di arretrare ma l’unica cosa che poté fare fu continuare a fissare quegli occhi.
“Hai bisogno d’aiuto per ritrovare la strada?” le domandò il ragazzo. La sua voce era dolce ma la bambina sapeva che lo zucchero serve a coprire l’amaro, mamma lo metteva sul bordo del bicchiere quando doveva farle prendere le medicine.
Il ragazzo allungò la mano verso di lei e sorrise.
Fu un gesto automatico: la bambina alzó la moneta e la portó davanti al viso. Chiuse l’occhio sinistro e con l’altro guardò attraverso il buco, verso il volto del ragazzo.
Fu allora che, oltre il sorriso, vide i denti. Erano affilati come quelli di un lupo.
La bambina gridò, alzò un braccio e colpì la mano che il ragazzo le stava porgendo.
Raschiò dal fondo dell’anima le ultime forze e ricominciò a correre; alle sue spalle la voce del ragazzo la chiamava.
No. Non si sarebbe lasciata catturare. Non si sarebbe arresa. Non avrebbe permesso a quegli occhi di ingannarla.
Ogni passo le causava una fitta acuta di dolore alle ginocchia. Se quel lupo l’avesse raggiunta sarebbe stata perduta; quella era l’unica certezza.
La sua corsa fu interrotta da qualcosa contro il quale si scontrò. Cadde, imprecando tra i denti con quella parola che mamma le aveva detto di non usare.
Alzò lo sguardo. Una vecchietta si massaggiava dolorante un fianco, la osservava con un’espressione interrogativa intuibile sotto una ragnatela di rughe.
“Dovresti stare più attenta quando te ne vai in giro, piccolina.” sussurrò con una voce sottile, rauca.
“Mi…mi dispiace.” balbettò la bambina mentre si rimetteva in piedi e gettava uno sguardo alle proprie spalle, con la certezza di vedere il lupo emergere dalla nebbia.
“Qualcosa ti ha spaventata, piccolo tesoro?” le domandò la vecchietta osservandola con i piccoli occhi imprigionati dietro un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi di bicchiere.
Un lupo. Pensò la bambina. C’è un lupo che mi insegue.
“Qualcuno…” gemette. “C’è qualcuno nella nebbia.”
La vecchietta sorrise, un sorriso rassicurante.
“Non ti preoccupare piccola, c’é la nonna ora che ti protegge. Vieni, torniamo a casa.” le sussurrò appoggiandole una mano sulla testa, accarezzandola con garbo. “Nessuno potrà farci del male.”
Le tolse il cappuccio e le appoggiò una mano su una guancia per poterla vedere bene in viso alla luce pallida di un lampione che cercava di penetrare la nebbia.
“Ma che bella bambina che sei.”
“No, lei non capisce” gemette la bambina. “Dobbiamo andarcene. Dobbiamo andarcene subito da qui.” Si voltò, cercando di distinguere le ombre che si addensavano nella nebbia alle sue spalle.
“Fatti guardare, tesoro.” continuò la vecchia. “Fatti guardare. Vuoi una caramella?” continuò rovistando nella borsetta che portava al braccio e tirandone fuori una caramella avvolta in carta argentata.
La bambina sgranò gli occhi, confusa.
“Non fare quella faccia.” sussurrò la vecchietta. “Perché tutti pensano che non sia buona solamente perché è sparsa all’interno di una borsa?”
“Prendila.” disse aprendo la mano della bambina e appoggiandola sul suo palmo.
“Va bene.” si arrese la bambina. “Va bene, ma poi ce ne andiamo.”
“Assaggiala.” fece la vecchia con un sorriso. “Avanti.”
La bambina fece roteare la caramella fra le dita e la scartò. Sapeva di fragola. Era buona.
Si ritrovò a sorridere.
“Buona, vero?” le domandò la vecchietta.
La bambina annuì, sorridendo.
“Ora andiamo via?”
“Che occhi grandi che hai.” disse la vecchietta sorridendo.
“Che cosa…?”
Sua mamma le aveva raccontato una favola come quella. O forse era stato un sogno. Non ricordava, non sapeva, i pensieri cominciavano a farsi confusi.
“Degli occhi bellissimi.” continuò la vecchia. “Proprio bellissimi.”
La bambina cercò di arretrare, di scostarsi dal suo tocco che percepiva viscido e appiccicoso sulla pelle del viso, come se le dita della vecchia fossero delle caramelle mezze rosicchiate.
Ma non riusciva più a muoversi. Non riusciva più nemmeno a parlare.
Riuscì solo a ruotare gli occhi e vide, serrata nella propria mano, paralizzata come quella di un morto, la carta della caramella accanto alla moneta d’argento.
“Starebbero così bene su una bella bambola. Che ne dici? Non ti piacerebbe che i tuoi occhi diventassero quelli di una bambola?”
Gridò ma quel grido era solo nella sua testa.
Non riusciva nemmeno a muovere le labbra.
La vecchia sorrise. E non era più il sorriso di una vecchia. Era una smorfia deforme, che le tagliava le guancie fino ai lobi delle orecchie Dalle labbra sottili stillavano gocce di sangue. I denti si erano allungati e il suo sorriso si era fatto affilato, bramoso.
“Questa non ti serve più.” Disse, facendo per prendere la moneta dalla sua mano.
Ma appena la sfiorò un urlo le gorgogliò dalla gola e una piaga rossa le si aprì sul palmo.
La vecchia gemette di dolore, conficcò le unghie nelle guance della bambina. “Ma che belle guanciotte, che belle guanciotte.”
La bambina sentì che stava piangendo.
“Hai paura del lupo cattivo?” sibilò, la voce deformata dalla fame.
La bambina non poteva fare altro che fissare quegli occhi ingrandirsi, diventare rossi e bramosi mentre dalla bocca troppo grande scivolava un filo di saliva, come da quella di un animale feroce.
Si passò sulle labbra una lingua sottile e biforcuta, come quella di un serpente.
“Per mangiarti meglio!” urlò la vecchia conficcandole più in profondità le unghie nella carne e spalancando la bocca deforme.
Tutti avevano paura di lui.
Perché abitava nel buio, perché la luna era la pietra da cote dei suoi denti, perché con i suoi occhi poteva scrutare nell’anima delle persone, vederne il colore.
Era il lupo. Ed era sempre stato solo.
Non poteva smettere di essere lupo ma poteva provare a smettere di essere solo.
Ma ogni volta che provava ad avvicinarsi alla gente veniva scacciato. Aveva provato a cambiare il proprio aspetto, ma le pecore il lupo lo avvertono dall’odore. E gli umani non sono altro che pecore, la loro anima é bianca: pavida e senza sapore.
Sarebbe stato disposto a diventare una pecora pur di non essere solo. Ma non poteva. Era lupo e la sua anima era nera. Non puoi cambiare colore alle anime.
Le pecore l’avevano cacciato, l’avevano chiamato assassino, nemico.
E lui era rimasto solo. Ancora. E ci avrebbe scommesso la coda: sarebbe stato solo per sempre.
Quella notte era salita una densa foschia da quella terra che gli era tanto ostile. Non gli era mai piaciuta la nebbia: sapeva che vi si nascondono i Cacciatori, esseri dall’anima vuota, senza colore.
Camminava nel bianco della notte. Era stato allora che aveva visto la bambina. La sua anima non era bianca come quella di tutti gli altri umani; era rossa: coraggiosa, viva.
Gli si era avvicinato. Anche lei aveva avuto paura di lui ed era scappata.
Doveva trovarla. Una bambina è una pietanza ghiotta per dei Cacciatori affamati. Quei mostri si fingono pecore nascondendo la loro vera essenza dietro una maschera cordiale.
Ma non sono altro che esseri senza nome fatti di cenere e sangue
Cercava la bambina, i suoi occhi di lupo vedevano oltre la nebbia.
Un bagliore di rosso: eccola! Davanti a lei si stagliava un essere che si confondeva con la nebbia, dall’anima senza colore.
Sentì la propria anima nera ululare e si lanciò contro il Cacciatore.
La bambina sentì il rumore di qualcosa che scattava, come una morsa di ferro, poi un urlo di dolore. Il volto deformato del mostro si contrasse.
Un lupo dal pelo nero stava mordendo la caviglia della vecchia, dalle sua mandibole contratte stillava sangue denso e vermiglio.
La vecchia urlò di nuovo, un urlo disumano; lasciò la presa intorno al suo viso, la bambina sentí l'asfalto cozzarle contro la schiena.
La parte destra del viso era premuta contro il terreno. Non aveva riacquistato il controllo del proprio corpo. Non poteva fare altro che rimanere a guardare.
La vecchia contrasse le dita sottili dalle quali fuoriuscivano artigli affilati, colpì un fianco del lupo che guaì per il dolore, lasciando la presa.
La vecchia sorrise, inclinò la testa.
Il lupo ringhiava, mostrando i denti affilati; sul suo fianco si era aperta una profonda ferita dalla quale gocciolava sangue scarlatto.
“Cucciolo fastidioso.” sibilò la vecchia, gettandosi contro di lui.
Il lupo ululò, fece un balzo in avanti schivando i suoi artigli e cercando di attaccarla alla gola ma la vecchia fu più veloce ed evitò il morso fatale con una rotazione del busto.
Il lupo le piombò sul petto con tutto il suo peso facendola cadere a terra di schianto sulla schiena. Sbatté la nuca contro l’asfalto ed emise un gemito gutturale come se avesse avuto dei chiodi infilati in gola. Non si mosse più.
Il lupo scivoló a terra. La bambina tese le braccia verso di lui.
Lui la fissava con occhi cosí scuri che le iridi non si potevano distinguere dalle pupille. Emise un debole guaito.
La bambina spalancò gli occhi. Le mani della vecchia si erano contratte. Era ancora viva.
Voleva urlare. Ma le labbra erano come cucite con del fil di ferro.
Quella bambina aveva degli occhi cosí grandi. Fu l’ultima cosa a cui riuscì a pensare prima di sentire il dolore. Artigli gli si conficcarono in un fianco, la violenza del colpo lo fece schiantare contro un muro. Scivoló lungo la parete fino a toccare terra.
La vecchia sorrise con quel sorriso che le apriva metà della faccia e si rialzò da terra con i movimenti disarticolati di un burattino.
Scattó verso il lupo che uggiolò di dolore.
Alzò un artiglio, i suoi occhi erano vuoti.
Il lupo guardò verso il cielo. Sperava di poter vedere un’ultima volta la luna prima di morire.
Poi, di colpo un cappuccio rosso coprí quel volto deforme.
La vecchia gridò di rabbia e scosse la testa.
Ringhiò dimenandosi, cercando di scrollarsi dalla schiena la bambina che le aveva coperto il volto con il cappuccio della felpa.
Con una violenta rotazione del busto che le fece scricchiolare le costole, riuscì a staccarsela di dosso costringendola a mollare la presa.
La bambina rovinò a terra, rotolando sull’asfalto, la felpa rossa stretta fra le mani, a brandelli.
La vecchia sorrise.
“Non avere paura!” gridò, era come se migliaia di insetti le stessero ronzando tra le corde vocali.
Alzò un braccio, gli artigli sporchi di sangue.
“Per abbracciarti meglio!”
Il lupo trattenne un guaito di dolore, si alzò, vacillando sulle quattro zampe, fece scattare i denti e si lanciò verso la vecchia.
Il coraggio di quella bambina gli aveva ricordato un’antica promessa: il lupo non si arrende mai al Cacciatore.
La bambina alzó la moneta, chiuse un occhio e con l’altro guardò nel foro.
Quella creatura non aveva piú l’aspetto di una vecchia: era un ammasso grigio, come un mucchio di lanuggine sporca. Era vuota e senza colore, l’unica luce era negli occhi, scarlatta.
“Gli occhi. Devi prenderla agli occhi!”
Il lupo piombò sulla schiena della vecchia, la morse alla gola.
Il mostro si voltó di scatto. Fu quello il suo errore. Il lupo spalancò le fauci e la faccia del mostro scomparve fra quei denti affilati.
Piombò con fragore a terra, schiantandosi contro l’asfalto.
Non si mosse più.
Il lupo emise un guaito e fece uscire dalle fauci un respiro profondo che si addensò in sottili volute di fumo nell’aria gelida.
Scese dalla schiena della vecchia barcollando, incapace di reggersi sulle zampe, cadde a terra. La bambina scivolò verso di lu. S’inginocchiò e accarezzò il suo manto nero; sulle dita avvertiva il calore del sangue.
Usò un brandello della felpa rossa per tentare di fermare il sangue che ancora stillava dalla ferita.
Il lupo alzò una zampa e la appoggiò sul suo braccio con un debole guaito.
La bambina credette di sentire quel guaito trasformarsi in parole, poi in una frase: “Va tutto bene. È finita.”
La zampa si allungò, trasformandosi in una mano sottile, la pelle pallida.
La bambina sussultò mentre il corpo del lupo si mutava in quello del ragazzo dagli occhi scuri che aveva incontrato nella nebbia.
Il ragazzo alzò lo sguardo, la bambina strinse la sua mano.
Gemette, contraendo il volto. La felpa nera era squarciata da lunghi strappi lasciati dagli artigli della creatura. La sua mano si chiuse su quella della bambina che premeva sulla ferita.
“Grazie.” mormorò la bambina.
Il ragazzo si tiró su a sedere sull’asfalto umido, la schiena premuta contro il muro, trattenendo un gemito di dolore.
“Come sapevi dove colpire?”
La bambina gli porse la moneta. Il ragazzo scosse la testa, sorrise. “Non posso. L’argento mi brucerebbe. Tu peró tienila. Ti potrá servire in futuro, se dovessi perderti ancora.”
La bambina fissó la moneta, la rimise in tasca.
“La moneta ha scottato anche lei.” Disse, lanciando uno sguardo all’ammasso grigio che era stato la vecchia. “Tu peró sei diverso.”
“Non tutti i mostri sono uguali.”
“Sei un mostro?”
“Sono un lupo.”
“E non è la stessa cosa?”
“Per voi umani spesso lo é. È un errore comune.”
“E i mostri sotto al letto? Quelli esistono?” domandò la bambina, chinandosi verso di lui.
“Perché me lo chiedi?”
Scrollò le spalle. “Così.”
“No. Quelli non esistono. Ormai ai mostri piace di più nascondersi alla luce.”
“Ah.” La bambina abbassò lo sguardo, tormentandosi il bordo della felpa.
“Stai bene?” domandò il lupo.
Lei annuì, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
“Quello esiste davvero, invece.”
“Chi?”
La bambina si voltò verso l’ammasso che giaceva a terra, quel poco che rimaneva del volto, distorto in quell’espressione grottesca, gli occhi erano stati strappati. La indicò, con la mano che ancora tremava.
“Il lupo cattivo.” disse. “Esiste davvero.”
Il ragazzo sorrise, abbassando la testa.
“Sì, esiste” ammise. “E non è mai quello che sembra.”
Il lupo e la bambina si guardarono negli occhi.
La bambina lo aiuto ad alzarsi.
Il lupo la prese per mano, sorrideva.
Si inoltrarono nella nebbia per cercare la strada di casa, insieme.