Come previsto ho dovuto tranciare un'intera scena, e non è neanche bastato, vabbe'...
La spada della lunaLa tenda della veggente era immersa nell’oscurità, non sapevo se fosse perché era cieca o perché era una veggente. O magari perché aveva finito le candele.
«Attento allo sgabello», fu la prima cosa che mi disse, un secondo prima che il mio ginocchio prendesse in pieno un robusto sedile di legno.
«Aaahh previsto che l’avrei urtato?» chiesi, trasformando l’urlo che non ero riuscito a trattenere in una domanda.
«Lo fanno tutti. Siediti».
Mi sedetti.
I miei occhi si stavano abituando al buio, e iniziavo a distinguere quello che mi circondava. La veggente era seduta a un tavolino. Sul volto portava delle spesse lenti nere.
«Sono qui per...» azzardai.
«SO perché sei qui», mi interruppe, stizzita. «Vuoi diventare un eroe e ti aspetti che io ti dica come fare».
«È davvero brava!»
Lei si strinse nelle spalle, o così mi parve.
«Vengono tutti qui per questo. O per pene d’amore, ma tu...»
Rimase in silenzio.
«Ma io...?»
«Ma tu... no. Ora ascoltami bene, io vedo...»
“Beata te”, pensai, guardandomi bene dal dirlo a voce alta.
«Giovanotto, poca ironia, eh!» mi rimproverò. «Vedo che, nelle lontane terre del nord, l’oscurità strisciante sta avanzando e c’è una cosa sola che possa respingerla».
«Io?»
«No.»
«Ah!»
«Tu dovrai recarti nella caverna delle anime perdute, ove troverai la spada della luna. Solo essa può respingere l’oscurità strisciante».
Mi alzai di scatto, dando una ginocchiata al tavolo per la foga.
«Aaaahhhndrò immediatamente!» esclamai.
«Siediti!» mi intimò lei.
Mi sedetti.
«Prima di andare devi sapere che io... vedo una donna...»
«Una donna?»
«Sì. Lei, buona donna, mi scusi, questa sarebbe una sessione privata».
Colto da un brivido, mi voltai, trovandomi faccia a faccia con una figura esile e ingobbita, avvolta in uno scialle nero che la rendeva quasi invisibile nel buio, non fosse stato per lo sguardo talmente penetrante da sembrare dotato di luce propria. Era appoggiata a un bastone nodoso.
Scattai in piedi.
«Mamma! Che cosa ci fai qui?»
«Non avrai creduto che ti avrei mandato dalla veggente da solo», ribatté lei.
«Pensavo...»
«Caro, non dovresti farli certi sforzi. Su, siediti.»
Mi sedetti.
«La caverna delle anime perdute è a tre giorni di viaggio da qui, oltre il fiume dei sogni infranti, al di là della foresta delle vane speranze» disse la veggente.
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
«Dovrai sbrigarti, perché se la spada non sarà al castello grigio...»
«E basta...?» la interruppi.
«Basta cosa?»
«Io... eh... è il castello grigio e basta? Non il castello della morte in culla o niente del genere, no perché... stona».
Immaginai che, se non fosse stata cieca, al buio e con gli occhiali neri, la veggente mi avrebbe fulminato con lo sguardo. Dovette immaginarlo anche la mamma, perché mi diede uno scappellotto sulla nuca, mi afferrò per un orecchio e mi trascinò fuori.
«Andiamo! Dobbiamo trovare una carrozza decente».
«Una carrozza...?»
«Non vorrai caricarmi su un cavallo come un sacco di patate!»
«Ma per andare dove?» chiesi, confuso.
«A prendere la spada, dove altro?»
«Vorresti... tu... No, mamma, assolutamente no!»
***
«Avresti potuto trovare una carrozza più comoda», protestò mamma dal sedile posteriore mentre cercavo senza troppo successo di convincere il cavallo ad andare verso il fiume.
Azzardai uno sguardo oltre una spalla.
Mamma era seduta tra due sacchi informi, incurvata come sempre sul suo bastone. Gran parte dello spazio davanti a lei era occupato da un grosso baule di legno e alcune cappelliere.
In un angolo c’era il mio bagaglio, uno zaino con dentro cibo, acqua, della corda, un acciarino, tre maglie pesanti e tre paia di mutandoni di lana. Le ultime due cose ce le aveva messe lei mentre non guardavo.
«Forse hai portato troppa roba per un viaggio di tre giorni», mi arrischiai a commentare.
«Non si può mai sapere».
Avrei voluto chiedere cosa, ma sarebbe stato tentare troppo la sorte, perciò tornai a prestare la mia attenzione al cavallo che si ostinava a cercare di cambiare direzione.
«Sembra che il fiume proprio non gli piaccia», mormorai.
«Forse è il rumore che lo spaventa», disse la mamma. In effetti già da un po’ riuscivamo a sentire lo scroscio delle acque impetuose.
Prima che potessi rispondere, il cavallo decise di fermarsi a una biforcazione.
Un cartello nel mezzo della strada recitava “Fiume dei sogni infranti”. Due frecce in direzioni opposte indicavano “Ponte di Mezzo” e “Ponte dei Suicidi”.
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
Cercai di convincere il cavallo a girare a sinistra, ma venni bloccato da uno scappellotto alla nuca.
Mi voltai. Mamma non sembrava essersi mossa.
«Dall’altra parte, scemo!»
«Non voglio andare al ponte dei suicidi», protestai.
«È il più vicino, non vedi?»
Sporgendomi, notai che in effetti il ponte era grossomodo visibile. Dell’altro non vi era traccia.
«Vorrà dire che ci metteremo un po’ di più».
«Non dire eresie, vai a destra e attraversiamo quel ponte».
«No, mamma, assolutamente no!»
***
Il ponte dei suicidi sembrava immerso nella nebbia, sebbene non ve ne fosse stata altrove lungo la strada. Era ricoperto di rampicanti che gli davano un aspetto quasi romantico, ma il cavallo non doveva pensarla allo stesso modo perché, appena mise piede sulla campata, si imbizzarrì.
Feci del mio meglio per calmarlo, senza successo, finché tale fu la foga che riuscì a staccarsi dalla carrozza con uno strattone e mi ritrovai in un istante a volar via dalla cassetta e oltre la balaustra.
Appena toccai l’acqua gelida fui trascinato via dalla corrente.
Cercai di nuotare, ma il meglio che riuscii a fare fu tenere la testa fuori dall’acqua. Rivolsi un ultimo sguardo al ponte, sperando che almeno mamma stesse bene, ma scoprii con disappunto che non c’era più.
***
Il sole era basso sull’orizzonte. Sentivo lo scoppiettio di un fuoco e un odore dolce e speziato.
Ero sdraiato in terra e avevo addosso una coperta. Era quella che era stata sul mio letto da quando avevo cinque anni, e l’avrei riconosciuta ovunque anche solo al tatto.
Voltai la testa verso il fuoco.
«Mamma?» esclamai quando la vidi intenta ad armeggiare con almeno sei pentole.
«Ti ho preparato il tuo piatto preferito, daino speziato», mi disse lei. «Sarai esausto dopo quella nuotata».
«Ma...» attaccai, incerto su che cosa chiedere. Alla fine optai per: «... sei pentole per fare del daino arrosto?»
«Non dire eresie, quelle sono per lo stufato, i contorni e il dessert», sentenziò lei.
Mi guardai attorno.
«La carrozza?»
«È rimasta al ponte».
«E come...» Sei arrivata qui? Hai portato le pentole? Hai trovato del daino? Quelle e altre domande mi si affollavano nella mente, ma dalla mia bocca uscì solo «... stai?»
«Bene, grazie, perché?»
«No... così...»
«Ora mangia. Devi rimetterti in forze, dobbiamo partire per la foresta».
«Ma siamo lontani dal ponte».
«Non importa, siamo già sull’altra sponda».
«E si sta facendo notte».
«Hai di nuovo paura del buio? Pensavo ti fosse passata».
«No, mamma, è che...»
«Ricordo quando da piccolo non volevi mai dormire con la candela spenta».
«Si però...» Quest’ultima frase venne interrotta da un cucchiaio di stufato che mi si materializzò dentro la bocca, e che per poco non finii per masticare posata e tutto.
Deglutii.
«Viaggiare di notte è pericoloso!» riuscii a esclamare, schivando abilmente un pezzo di daino fumante.
«Non dire eresie, non c’è niente in giro di notte che non ci sia anche di giorno».
«Uh, beh, munch...» dissi addentando senza volerlo una pannocchia, «veramente sì: banditi, animali notturni, spettri, amanti clandestini...»
«Oh, per amor degli dei!» esclamò lei. Sapevo che l’ultima voce avrebbe fatto effetto. «Ma non andranno certo in giro a fare le loro cose in una foresta forse anche infestata!»
«A maggior ragione, quale posto più discreto?»
Lei si raddrizzò.
«Non importa, partiremo ugualmente e se sarà il caso li affronteremo!»
Sospirai. Non potevo lasciargliela vincere anche questa volta. «No, mamma», dissi, «assolutamente no!»
***
Pochi luoghi al mondo sono più tetri di una foresta di notte.
I lugubri versi dei rapaci notturni facevano eco a ogni mio passo mentre cercavo di non inciampare nei sassi e nelle radici. Mamma mi veniva dietro sicura come se avesse conosciuto la strada a memoria.
«Non so neanche se sia la direzione giusta», mormorai.
«Stai tranquillo, ci fermeremo a chiedere indicazioni».
In effetti, mi fermai. Di botto. E feci un dietro front tanto immediato che non mi avvidi dell’albero accanto a me e lo presi in pieno col ginocchio.
«Aaahhh chi?» chiesi.
«Alla prima persona che incontriamo, non mi sembra il caso di essere schizzinosi».
«Mamma... siamo in una foresta in piena notte, non c’è anima...»
Non finii la frase perché un omino alto forse un metro e un tappo sbucò in quel momento da dietro un cespuglio e ci passò accanto brontolando.
«Giovanotto!» lo apostrofò mamma. «Sai dirci da dove si va alla caverna delle anime perdute?»
Lui si fermò, si voltò e ci guardò. Aprì la bocca come per rispondere... e scoppiò a piangere.
Mamma entrò subito in modalità consolatoria: poggiò il bastone, abbracciò l‘omino e gli diede piccole pacche sulla schiena.
«Io... speravo che... mi amasse...» mugolò lui. «Volevo... dichiararmi... speravo...»
Imbarazzato, mi inoltrai nella foresta.
Avevo fatto solo pochi passi quando un fruscio alla mia sinistra reclamò la mia attenzione. Mi preparai allo scontro con qualunque bestia feroce potesse esserci tra i cespugli ma, guardando meglio, scorsi solo una ragazza discinta.
«Va... tutto bene?» le chiesi.
«No!» mi urlò contro lei, facendomi balzare all’indietro per la sorpresa.
«Posso...?» azzardai, senza sapere bene cosa.
«Speravo che fosse un vero uomo, uno di quelli che non devono chiedere mai!» strepitò lei. «Invece viene fuori che è un romantico mollaccione».
La guardai senza parlare. Mi sembrava di iniziare a notare uno schema nella vicenda.
Lei si alzò.
«Speravo che sapesse cosa fare», reiterò, cominciando a guardarmi con lo sguardo che di solito riservavo alla torta di zucca e carciofi della mamma. «Però...»
«No», dissi in tono gentile.
«Magari posso sperare...?»
«No, no, mi sembra davvero una pessima idea».
Lei mi parve più confusa che delusa.
«Perché no...?» mi chiese, avvicinandosi.
«Perché... siamo nella foresta delle vane speranze, non si può sperare qualcosa senza che sia vano... voglio dire, non possono fare una foresta delle vane speranze in cui le speranze non siano vane, sarebbe pubblicità ingannevole».
«Ma che razza di idiozie stai dicendo?» sbraitò lei. «Sei peggio di quell’altro!»
«Mamma!»
«Figurati, pure mammone!»
«Mamma, dobbiamo andare!»
«Un momento, caro, finisco di consolare Floberto e arrivo».
“Floberto?” pensai. «Mamma, sono amanti clandestini», dissi, sperando di smuoverla.
«Clandestino ci sarai tu!» mi urlò contro la ragazza. «Io sono nata e cresciuta a un chilometro da qui!»
«Ma non intendevo...»
Non feci a tempo a finire la frase, che Floberto mi si era materializzato davanti.
«Come osi offendere la mia Pergiulia?!»
“Pergiulia?” pensai. «Ma non ho...»
«Scusati immediatamente o ti prenderò a pugni!» insistette lui.
Lo guardai. «Va bene».
Mi guardò.
Lo guardai.
Mi guardò. «Allora?»
«Allora cosa?» chiesi.
«Hai detto va bene, scusati».
«Ah! No, no, intendevo, “va bene, prendimi a pugni”».
Mi guardò. «A calci va bene lo stesso?»
Mi strinsi nelle spalle. «Va bene, però evita le ginocchia, gentilmente. E i testicoli».
Lui fece una smorfia e alzò le mani. «Non serviva dirlo».
Prese la rincorsa e mi sferrò un calcio a uno stinco. Poi si afferrò il piede tra le mani e iniziò a saltellare sull’altro.
«Speravo che così non mi sarei fatto male», piagnucolò.
«Sì, beh, immaginavo».
«Oh Floberto!» si intromise Pergiulia lanciandogli le braccia al collo, col risultato di farlo cadere tra i cespugli. «Sei stato così coraggioso, così impetuoso, così maschio...!»
«Ma allora mi vuoi, io non ci speravo più!»
«Sì beh, ovvio», commentai mentre riprendevo la strada. Io e la mamma facemmo del nostro meglio per ignorare i mugolii che provenivano dal cespuglio.
«Sai,» dissi quando fummo abbastanza lontani, «spero davvero che non riusciremo mai a uscire da questa foresta e arrivare alla caverna».
«Non dire eresie... io...» Tacque quando d’un tratto ci ritrovammo fuori dalla vegetazione, di fronte a una collinetta nel cui fianco si apriva un varco scuro.
Sorrisi. «Credo che siamo arrivati».
***
Impiegammo pochi minuti a raggiungere la caverna. Non avevo dubbi che fosse quella che cercavo, anche perché era chiaramente scritto su un cartello davanti all’ingresso.
Presa una torcia dallo zaino, mi inoltrai nello spazio buio. Accanto all’ingresso, la torcia illuminò una statua a grandezza naturale di un valletto di corte.
“Curioso”, pensai.
«Le donne non possono entrare» disse di colpo la statua, facendomi saltare per la sorpresa.
«E perché?» protestò la mamma.
«Non lo so, signora, io devo solo dirlo», rispose la statua con una strana smorfia.
«Non dire eresie!» protestò la mamma. Fece per entrare, ma si fermò sulla soglia, cercando di avanzare senza successo.
«Le donne non possono entrare», ripeté la statua.
«Credo ci sia una barriera magica», azzardai. «Non preoccuparti, vado e torno».
«Fai attenzione», mi disse lei.
Feci un altro passo. Con la scusa di esaminarla meglio, mi avvicinai alla statua e mormorai: «Dimmi la verità, perché le donne non possono entrare?»
Rifece la smorfia, ma mi sussurrò: «È la caverna delle anime perdute».
«E allora?»
«Chiedono indicazioni! È barare!»
«Ah, giusto», mormorai. Mi fermai un attimo a pensare, poi presi dallo zaino una delle maglie. Strappai un filo coi denti, lo legai a una gamba della statua e alzai lo sguardo verso il suo viso in una domanda muta.
«Nel regolamento non c’è scritto niente in merito», mi rassicurò.
Tranquillizzato, mi inoltrai nella caverna, con la maglia che si sfilava lungo la via.
Mi ero aspettato un labirinto, ma in realtà vi erano ben poche svolte, segnate da statue che non mi rivolsero la parola.
Dopo aver girovagato un po’, mi ritrovai in una stanza circolare. Al centro era disposta un’enorme incudine nella quale era conficcata una spada dall’aspetto ordinario.
La esaminai.
Non sembrava che ci fossero trappole. Dovevo solo sperare che non ci fosse all’opera qualche incantesimo.
Afferrai l’impugnatura dell’arma con entrambe le mani e la sollevai con forza. Si sfilò dal ferro senza opporre resistenza, tanto che mi ritrovai sbilanciato e, per evitare di cadere, mi gettai in avanti, dando una sonora ginocchiata all’incudine.
«AHIA!» urlai. Almeno stavolta non c’era nessuno a sentirmi.
Quasi non riuscivo a credere di avere la spada tra le mani. La sollevai in un gesto di trionfo... e la lama si afflosciò come fosse stata fatta di stagnola.
«Non preoccuparti, sono cose che succedono», disse una voce alle mie spalle.
«Mamma!» esclamai voltandomi. «Ma come hai fatto a entrare?»
Lei mi mostrò una scopa e uno straccio. «Ho detto che ero la donna delle pulizie».
***
Seguimmo il filo fino all’uscita, facendo molte più svolte di quante ne avessi fatte entrando. Quando, una volta fuori, mamma mi porse la maglia di lana intatta, mi rifiutai di fare domande.
Anche perché mi ero appena reso conto di non avere idea di dove fosse il castello grigio.
Trassi un profondo respiro, preparandomi a ricorrere a qualcosa a cui mai avrei voluto dover ricorrere.
Mi affacciai all’ingresso, rivolgendomi alla statua. «Scusa, non è che sapresti da che parte è il castello grigio?»
La statua spalancò gli occhi al punto che temetti le sarebbero rotolati via, aprì la bocca ed emise un urlo lancinante, tale che dal soffitto della caverna si staccarono delle stalattiti.
«ANDAAAATEEEEE VIAAAAAA!» urlò strascicando le vocali.
Poi si ricompose. «Comunque è proprio qui in cima alla collina, svolta a sinistra e poi segui le indicazioni per Casadeimatti, non ti puoi sbagliare».
***
Risalimmo la collina lungo un sentiero scosceso, impiegando molto tempo dato che la mamma si rifiutò categoricamente di farsi trasportare in braccio.
Già da metà strada riuscimmo a vedere il castello grigio che torreggiava sopra di noi. Mi ero atteso un edificio tetro e lugubre, invece aveva pennacchi rosa sulle torri e fiori sui davanzali.
Quando arrivammo, trovammo il ponte levatoio abbassato e la grata alzata.
«È inquietante» dissi.
«Saranno molto ospitali» disse mamma.
«Ma così potrebbe entrare chiunque», obiettai.
«Avranno un cane da guardia».
«Ma mamma, cosa potrebbe fare un cane se arrivassero dei soldati armati?» domandai.
«BAU», rispose il cane.
Mi voltai. Davanti a me c’era una creaturina non più grossa della mia mano, un batuffolo di pelo bianco panna da cui a stento spuntava un adorabile musetto.
«Ma che...?» dissi.
«BAU», ripeté il cane.
Rimasi a fissarlo.
Lui roteò gli occhi.
«Ho detto “BAU”, non mi sembra poi così difficile da capire», disse stizzito.
«Ma è proprio che non avresti dovuto “dirlo”», protestai. «Va bene, non importa...» Feci per avviarmi ma il batuffolo si piantò sulla mia strada.
«GRRRR», disse.
Alzai gli occhi al cielo. «No ma, sul serio, così non va bene, già non fai paura, ma se poi parli per onomatopee invece di emettere suoni...»
Non finii la frase, perché di punto in bianco il batuffolo prese a gonfiarsi come se avesse fatto una brutta indigestione e, in un batter d’occhi, divenne grande abbastanza da occupare l’intero cortile. Non solo, in qualche modo nel crescere aveva perso il pelo in eccesso e adesso assomigliava a un mastino invernale. Sì, inVernale, continuava a essere bianco e soffice dopo tutto.
Lo vidi prepararsi a saltarmi addosso ma, prima che potessi fare qualcosa, una serie di bastonate gli si stava abbattendo sul naso rosa.
«Cane cattivo! Cane Cattivo!» esclamava la mamma, continuando a picchiarlo con foga mentre io cercavo di ricordare quando mi fosse passata davanti e da quando riuscisse a stare dritta e usare il bastone come una mazza da guerra.
«Signora, ma...» protestava inutilmente il mastino, senza riuscire a sottrarsi alla gragnola di colpi.
Poi di botto tornò alle dimensioni originali e scoppiò a piangere. «Così mi fa male!»
La mamma si immobilizzò, coi lucciconi agli occhi e il bastone a mezz’aria. Si inginocchiò ad accarezzare il cucciolo con intento consolatorio e fu allora che quello tornò enorme, facendola cadere a faccia avanti e fermandola in terra con una zampa.
Istintivamente sollevai la spada, che subito si afflosciò come la prima volta.
Alzai gli occhi al cielo.
E fu allora che vidi la ragazza affacciata al balcone.
«Oh, la mia spada!» esclamò questa, calandosi giù agilmente lungo un rampicante.
«La tua spada?» chiesi.
«La tua spada?» chiese il cane.
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Ma certo, la mia spada!» disse la ragazza, avvicinandosi e tendendo una mano. «Credevo non l’avrei più rivista! È stata creata per me anni fa, e incantata perché solo io potessi usarla».
Già che non sapevo cosa farmene, le porsi l’arma. Appena la impugnò, si raddrizzò di scatto.
«Ora capisco perché nelle mie mani facesse così», commentai.
Lei mi guardò. «Ah, no, non l’ha mai fatto prima, deve essere perché ti trova deprimente».
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Fuffi, lasciala», disse la ragazza.
«No, no, va benissimo, non me la sentivo così dritta da secoli, spostati solo un po’ più a destra».
«Ma quindi...» mi intromisi «se non posso usare la spada, come faccio a sconfiggere l’oscurità strisciante?»
«Tu...?» disse il cane incredulo.
«L’ha detto la veggente cieca», spiegai.
La mamma si mise a ridere. La guardai storto.
«La veggente non è cieca, è strabica e si vergogna a farlo vedere, e poi non ha detto così», asserì.
«Ha detto che solo la spada della luna poteva... ah», lasciai la frase in sospeso, rendendomi conto di ciò che stavo per dire.
«Venite, è quasi ora», disse la ragazza.
«Io resto qui se non vi dispiace», replicò la mamma. «Giusto un mezzo centimetro più giù», aggiunse rivolta a Fuffi.
Seguii la padrona di casa fino ai sotterranei del castello, arredati con una mobilia un po’ frivola ma di gusto. Ci fermammo davanti a quella che sembrava una tana di topi, di quelle curiosamente a forma di arco che si vedevano nei disegni umoristici.
Anche se all’interno non vi era luce, riuscivo a vedere con chiarezza qualcosa di più scuro dell’oscurità che si avvicinava molto lentamente al varco, provenendo da dentro il muro.
La ragazza poggiò la lama davanti al buco.
La cosa oscura emerse per un centimetro o due, vide la spada, vi si specchiò, rimase un attimo come interdetta e poi tornò indietro nel buco.
«E quella cos’era?» domandai attonito.
«L’oscurità strisciante», rispose la ragazza.
«Ma come, tutto lì?»
«Si, perché?»
«Non so, non sembrava pericolosa».
«E chi ha detto che fosse pericolosa?» chiese lei stupita.
«La...» iniziai a dire, ma non andai oltre: in effetti non l’aveva detto nessuno.
«Quindi se non avessi portato in tempo la spada e fosse uscita...»
«Ah, non sarebbe uscita, le avrei detto di ripassare domani, come sempre. Ma sono molto contenta che tu mi abbia riportato la spada, sei stato un eroe. Ti fermi a cena?»
Mi guardai attorno. Mi ero messo in viaggio per trovare un’arma potente che mi avrebbe aiutato a sconfiggere un orribile mostro, e mi ritrovavo in un castello un po’ frou frou con un cane massaggiatore che non sapeva abbaiare, una bella ragazza che raddrizzava le spade afflosciate e un invito a cena.
Scossi la testa.
«No», risposi. «Assolutamente no».