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Scannatoio Luglio 2017, ... e non scordarti lo spadone a due mani.

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view post Posted on 5/7/2017, 07:21
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Losco Figuro

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CITAZIONE (Gargaros @ 5/7/2017, 00:29) 
21000 botte e il finale ancora lontano non significa dover accorciare, ma mutilare...

Buona fortuna, Carmè :p100:

Già esatto, di questo passo mi toccherà tagliare un'intera scena :(
Grazie
 
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view post Posted on 6/7/2017, 10:10
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Losco Figuro

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Come previsto ho dovuto tranciare un'intera scena, e non è neanche bastato, vabbe'... :(


La spada della luna

La tenda della veggente era immersa nell’oscurità, non sapevo se fosse perché era cieca o perché era una veggente. O magari perché aveva finito le candele.
«Attento allo sgabello», fu la prima cosa che mi disse, un secondo prima che il mio ginocchio prendesse in pieno un robusto sedile di legno.
«Aaahh previsto che l’avrei urtato?» chiesi, trasformando l’urlo che non ero riuscito a trattenere in una domanda.
«Lo fanno tutti. Siediti».
Mi sedetti.
I miei occhi si stavano abituando al buio, e iniziavo a distinguere quello che mi circondava. La veggente era seduta a un tavolino. Sul volto portava delle spesse lenti nere.
«Sono qui per...» azzardai.
«SO perché sei qui», mi interruppe, stizzita. «Vuoi diventare un eroe e ti aspetti che io ti dica come fare».
«È davvero brava!»
Lei si strinse nelle spalle, o così mi parve.
«Vengono tutti qui per questo. O per pene d’amore, ma tu...»
Rimase in silenzio.
«Ma io...?»
«Ma tu... no. Ora ascoltami bene, io vedo...»
“Beata te”, pensai, guardandomi bene dal dirlo a voce alta.
«Giovanotto, poca ironia, eh!» mi rimproverò. «Vedo che, nelle lontane terre del nord, l’oscurità strisciante sta avanzando e c’è una cosa sola che possa respingerla».
«Io?»
«No.»
«Ah!»
«Tu dovrai recarti nella caverna delle anime perdute, ove troverai la spada della luna. Solo essa può respingere l’oscurità strisciante».
Mi alzai di scatto, dando una ginocchiata al tavolo per la foga.
«Aaaahhhndrò immediatamente!» esclamai.
«Siediti!» mi intimò lei.
Mi sedetti.
«Prima di andare devi sapere che io... vedo una donna...»
«Una donna?»
«Sì. Lei, buona donna, mi scusi, questa sarebbe una sessione privata».
Colto da un brivido, mi voltai, trovandomi faccia a faccia con una figura esile e ingobbita, avvolta in uno scialle nero che la rendeva quasi invisibile nel buio, non fosse stato per lo sguardo talmente penetrante da sembrare dotato di luce propria. Era appoggiata a un bastone nodoso.
Scattai in piedi.
«Mamma! Che cosa ci fai qui?»
«Non avrai creduto che ti avrei mandato dalla veggente da solo», ribatté lei.
«Pensavo...»
«Caro, non dovresti farli certi sforzi. Su, siediti.»
Mi sedetti.
«La caverna delle anime perdute è a tre giorni di viaggio da qui, oltre il fiume dei sogni infranti, al di là della foresta delle vane speranze» disse la veggente.
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
«Dovrai sbrigarti, perché se la spada non sarà al castello grigio...»
«E basta...?» la interruppi.
«Basta cosa?»
«Io... eh... è il castello grigio e basta? Non il castello della morte in culla o niente del genere, no perché... stona».
Immaginai che, se non fosse stata cieca, al buio e con gli occhiali neri, la veggente mi avrebbe fulminato con lo sguardo. Dovette immaginarlo anche la mamma, perché mi diede uno scappellotto sulla nuca, mi afferrò per un orecchio e mi trascinò fuori.
«Andiamo! Dobbiamo trovare una carrozza decente».
«Una carrozza...?»
«Non vorrai caricarmi su un cavallo come un sacco di patate!»
«Ma per andare dove?» chiesi, confuso.
«A prendere la spada, dove altro?»
«Vorresti... tu... No, mamma, assolutamente no!»

***
«Avresti potuto trovare una carrozza più comoda», protestò mamma dal sedile posteriore mentre cercavo senza troppo successo di convincere il cavallo ad andare verso il fiume.
Azzardai uno sguardo oltre una spalla.
Mamma era seduta tra due sacchi informi, incurvata come sempre sul suo bastone. Gran parte dello spazio davanti a lei era occupato da un grosso baule di legno e alcune cappelliere.
In un angolo c’era il mio bagaglio, uno zaino con dentro cibo, acqua, della corda, un acciarino, tre maglie pesanti e tre paia di mutandoni di lana. Le ultime due cose ce le aveva messe lei mentre non guardavo.
«Forse hai portato troppa roba per un viaggio di tre giorni», mi arrischiai a commentare.
«Non si può mai sapere».
Avrei voluto chiedere cosa, ma sarebbe stato tentare troppo la sorte, perciò tornai a prestare la mia attenzione al cavallo che si ostinava a cercare di cambiare direzione.
«Sembra che il fiume proprio non gli piaccia», mormorai.
«Forse è il rumore che lo spaventa», disse la mamma. In effetti già da un po’ riuscivamo a sentire lo scroscio delle acque impetuose.
Prima che potessi rispondere, il cavallo decise di fermarsi a una biforcazione.
Un cartello nel mezzo della strada recitava “Fiume dei sogni infranti”. Due frecce in direzioni opposte indicavano “Ponte di Mezzo” e “Ponte dei Suicidi”.
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
Cercai di convincere il cavallo a girare a sinistra, ma venni bloccato da uno scappellotto alla nuca.
Mi voltai. Mamma non sembrava essersi mossa.
«Dall’altra parte, scemo!»
«Non voglio andare al ponte dei suicidi», protestai.
«È il più vicino, non vedi?»
Sporgendomi, notai che in effetti il ponte era grossomodo visibile. Dell’altro non vi era traccia.
«Vorrà dire che ci metteremo un po’ di più».
«Non dire eresie, vai a destra e attraversiamo quel ponte».
«No, mamma, assolutamente no!»

***

Il ponte dei suicidi sembrava immerso nella nebbia, sebbene non ve ne fosse stata altrove lungo la strada. Era ricoperto di rampicanti che gli davano un aspetto quasi romantico, ma il cavallo non doveva pensarla allo stesso modo perché, appena mise piede sulla campata, si imbizzarrì.
Feci del mio meglio per calmarlo, senza successo, finché tale fu la foga che riuscì a staccarsi dalla carrozza con uno strattone e mi ritrovai in un istante a volar via dalla cassetta e oltre la balaustra.
Appena toccai l’acqua gelida fui trascinato via dalla corrente.
Cercai di nuotare, ma il meglio che riuscii a fare fu tenere la testa fuori dall’acqua. Rivolsi un ultimo sguardo al ponte, sperando che almeno mamma stesse bene, ma scoprii con disappunto che non c’era più.

***

Il sole era basso sull’orizzonte. Sentivo lo scoppiettio di un fuoco e un odore dolce e speziato.
Ero sdraiato in terra e avevo addosso una coperta. Era quella che era stata sul mio letto da quando avevo cinque anni, e l’avrei riconosciuta ovunque anche solo al tatto.
Voltai la testa verso il fuoco.
«Mamma?» esclamai quando la vidi intenta ad armeggiare con almeno sei pentole.
«Ti ho preparato il tuo piatto preferito, daino speziato», mi disse lei. «Sarai esausto dopo quella nuotata».
«Ma...» attaccai, incerto su che cosa chiedere. Alla fine optai per: «... sei pentole per fare del daino arrosto?»
«Non dire eresie, quelle sono per lo stufato, i contorni e il dessert», sentenziò lei.
Mi guardai attorno.
«La carrozza?»
«È rimasta al ponte».
«E come...» Sei arrivata qui? Hai portato le pentole? Hai trovato del daino? Quelle e altre domande mi si affollavano nella mente, ma dalla mia bocca uscì solo «... stai?»
«Bene, grazie, perché?»
«No... così...»
«Ora mangia. Devi rimetterti in forze, dobbiamo partire per la foresta».
«Ma siamo lontani dal ponte».
«Non importa, siamo già sull’altra sponda».
«E si sta facendo notte».
«Hai di nuovo paura del buio? Pensavo ti fosse passata».
«No, mamma, è che...»
«Ricordo quando da piccolo non volevi mai dormire con la candela spenta».
«Si però...» Quest’ultima frase venne interrotta da un cucchiaio di stufato che mi si materializzò dentro la bocca, e che per poco non finii per masticare posata e tutto.
Deglutii.
«Viaggiare di notte è pericoloso!» riuscii a esclamare, schivando abilmente un pezzo di daino fumante.
«Non dire eresie, non c’è niente in giro di notte che non ci sia anche di giorno».
«Uh, beh, munch...» dissi addentando senza volerlo una pannocchia, «veramente sì: banditi, animali notturni, spettri, amanti clandestini...»
«Oh, per amor degli dei!» esclamò lei. Sapevo che l’ultima voce avrebbe fatto effetto. «Ma non andranno certo in giro a fare le loro cose in una foresta forse anche infestata!»
«A maggior ragione, quale posto più discreto?»
Lei si raddrizzò.
«Non importa, partiremo ugualmente e se sarà il caso li affronteremo!»
Sospirai. Non potevo lasciargliela vincere anche questa volta. «No, mamma», dissi, «assolutamente no!»

***

Pochi luoghi al mondo sono più tetri di una foresta di notte.
I lugubri versi dei rapaci notturni facevano eco a ogni mio passo mentre cercavo di non inciampare nei sassi e nelle radici. Mamma mi veniva dietro sicura come se avesse conosciuto la strada a memoria.
«Non so neanche se sia la direzione giusta», mormorai.
«Stai tranquillo, ci fermeremo a chiedere indicazioni».
In effetti, mi fermai. Di botto. E feci un dietro front tanto immediato che non mi avvidi dell’albero accanto a me e lo presi in pieno col ginocchio.
«Aaahhh chi?» chiesi.
«Alla prima persona che incontriamo, non mi sembra il caso di essere schizzinosi».
«Mamma... siamo in una foresta in piena notte, non c’è anima...»
Non finii la frase perché un omino alto forse un metro e un tappo sbucò in quel momento da dietro un cespuglio e ci passò accanto brontolando.
«Giovanotto!» lo apostrofò mamma. «Sai dirci da dove si va alla caverna delle anime perdute?»
Lui si fermò, si voltò e ci guardò. Aprì la bocca come per rispondere... e scoppiò a piangere.
Mamma entrò subito in modalità consolatoria: poggiò il bastone, abbracciò l‘omino e gli diede piccole pacche sulla schiena.
«Io... speravo che... mi amasse...» mugolò lui. «Volevo... dichiararmi... speravo...»
Imbarazzato, mi inoltrai nella foresta.
Avevo fatto solo pochi passi quando un fruscio alla mia sinistra reclamò la mia attenzione. Mi preparai allo scontro con qualunque bestia feroce potesse esserci tra i cespugli ma, guardando meglio, scorsi solo una ragazza discinta.
«Va... tutto bene?» le chiesi.
«No!» mi urlò contro lei, facendomi balzare all’indietro per la sorpresa.
«Posso...?» azzardai, senza sapere bene cosa.
«Speravo che fosse un vero uomo, uno di quelli che non devono chiedere mai!» strepitò lei. «Invece viene fuori che è un romantico mollaccione».
La guardai senza parlare. Mi sembrava di iniziare a notare uno schema nella vicenda.
Lei si alzò.
«Speravo che sapesse cosa fare», reiterò, cominciando a guardarmi con lo sguardo che di solito riservavo alla torta di zucca e carciofi della mamma. «Però...»
«No», dissi in tono gentile.
«Magari posso sperare...?»
«No, no, mi sembra davvero una pessima idea».
Lei mi parve più confusa che delusa.
«Perché no...?» mi chiese, avvicinandosi.
«Perché... siamo nella foresta delle vane speranze, non si può sperare qualcosa senza che sia vano... voglio dire, non possono fare una foresta delle vane speranze in cui le speranze non siano vane, sarebbe pubblicità ingannevole».
«Ma che razza di idiozie stai dicendo?» sbraitò lei. «Sei peggio di quell’altro!»
«Mamma!»
«Figurati, pure mammone!»
«Mamma, dobbiamo andare!»
«Un momento, caro, finisco di consolare Floberto e arrivo».
“Floberto?” pensai. «Mamma, sono amanti clandestini», dissi, sperando di smuoverla.
«Clandestino ci sarai tu!» mi urlò contro la ragazza. «Io sono nata e cresciuta a un chilometro da qui!»
«Ma non intendevo...»
Non feci a tempo a finire la frase, che Floberto mi si era materializzato davanti.
«Come osi offendere la mia Pergiulia?!»
“Pergiulia?” pensai. «Ma non ho...»
«Scusati immediatamente o ti prenderò a pugni!» insistette lui.
Lo guardai. «Va bene».
Mi guardò.
Lo guardai.
Mi guardò. «Allora?»
«Allora cosa?» chiesi.
«Hai detto va bene, scusati».
«Ah! No, no, intendevo, “va bene, prendimi a pugni”».
Mi guardò. «A calci va bene lo stesso?»
Mi strinsi nelle spalle. «Va bene, però evita le ginocchia, gentilmente. E i testicoli».
Lui fece una smorfia e alzò le mani. «Non serviva dirlo».
Prese la rincorsa e mi sferrò un calcio a uno stinco. Poi si afferrò il piede tra le mani e iniziò a saltellare sull’altro.
«Speravo che così non mi sarei fatto male», piagnucolò.
«Sì, beh, immaginavo».
«Oh Floberto!» si intromise Pergiulia lanciandogli le braccia al collo, col risultato di farlo cadere tra i cespugli. «Sei stato così coraggioso, così impetuoso, così maschio...!»
«Ma allora mi vuoi, io non ci speravo più!»
«Sì beh, ovvio», commentai mentre riprendevo la strada. Io e la mamma facemmo del nostro meglio per ignorare i mugolii che provenivano dal cespuglio.
«Sai,» dissi quando fummo abbastanza lontani, «spero davvero che non riusciremo mai a uscire da questa foresta e arrivare alla caverna».
«Non dire eresie... io...» Tacque quando d’un tratto ci ritrovammo fuori dalla vegetazione, di fronte a una collinetta nel cui fianco si apriva un varco scuro.
Sorrisi. «Credo che siamo arrivati».

***

Impiegammo pochi minuti a raggiungere la caverna. Non avevo dubbi che fosse quella che cercavo, anche perché era chiaramente scritto su un cartello davanti all’ingresso.
Presa una torcia dallo zaino, mi inoltrai nello spazio buio. Accanto all’ingresso, la torcia illuminò una statua a grandezza naturale di un valletto di corte.
“Curioso”, pensai.
«Le donne non possono entrare» disse di colpo la statua, facendomi saltare per la sorpresa.
«E perché?» protestò la mamma.
«Non lo so, signora, io devo solo dirlo», rispose la statua con una strana smorfia.
«Non dire eresie!» protestò la mamma. Fece per entrare, ma si fermò sulla soglia, cercando di avanzare senza successo.
«Le donne non possono entrare», ripeté la statua.
«Credo ci sia una barriera magica», azzardai. «Non preoccuparti, vado e torno».
«Fai attenzione», mi disse lei.
Feci un altro passo. Con la scusa di esaminarla meglio, mi avvicinai alla statua e mormorai: «Dimmi la verità, perché le donne non possono entrare?»
Rifece la smorfia, ma mi sussurrò: «È la caverna delle anime perdute».
«E allora?»
«Chiedono indicazioni! È barare!»
«Ah, giusto», mormorai. Mi fermai un attimo a pensare, poi presi dallo zaino una delle maglie. Strappai un filo coi denti, lo legai a una gamba della statua e alzai lo sguardo verso il suo viso in una domanda muta.
«Nel regolamento non c’è scritto niente in merito», mi rassicurò.
Tranquillizzato, mi inoltrai nella caverna, con la maglia che si sfilava lungo la via.
Mi ero aspettato un labirinto, ma in realtà vi erano ben poche svolte, segnate da statue che non mi rivolsero la parola.
Dopo aver girovagato un po’, mi ritrovai in una stanza circolare. Al centro era disposta un’enorme incudine nella quale era conficcata una spada dall’aspetto ordinario.
La esaminai.
Non sembrava che ci fossero trappole. Dovevo solo sperare che non ci fosse all’opera qualche incantesimo.
Afferrai l’impugnatura dell’arma con entrambe le mani e la sollevai con forza. Si sfilò dal ferro senza opporre resistenza, tanto che mi ritrovai sbilanciato e, per evitare di cadere, mi gettai in avanti, dando una sonora ginocchiata all’incudine.
«AHIA!» urlai. Almeno stavolta non c’era nessuno a sentirmi.
Quasi non riuscivo a credere di avere la spada tra le mani. La sollevai in un gesto di trionfo... e la lama si afflosciò come fosse stata fatta di stagnola.
«Non preoccuparti, sono cose che succedono», disse una voce alle mie spalle.
«Mamma!» esclamai voltandomi. «Ma come hai fatto a entrare?»
Lei mi mostrò una scopa e uno straccio. «Ho detto che ero la donna delle pulizie».

***

Seguimmo il filo fino all’uscita, facendo molte più svolte di quante ne avessi fatte entrando. Quando, una volta fuori, mamma mi porse la maglia di lana intatta, mi rifiutai di fare domande.
Anche perché mi ero appena reso conto di non avere idea di dove fosse il castello grigio.
Trassi un profondo respiro, preparandomi a ricorrere a qualcosa a cui mai avrei voluto dover ricorrere.
Mi affacciai all’ingresso, rivolgendomi alla statua. «Scusa, non è che sapresti da che parte è il castello grigio?»
La statua spalancò gli occhi al punto che temetti le sarebbero rotolati via, aprì la bocca ed emise un urlo lancinante, tale che dal soffitto della caverna si staccarono delle stalattiti.
«ANDAAAATEEEEE VIAAAAAA!» urlò strascicando le vocali.
Poi si ricompose. «Comunque è proprio qui in cima alla collina, svolta a sinistra e poi segui le indicazioni per Casadeimatti, non ti puoi sbagliare».

***

Risalimmo la collina lungo un sentiero scosceso, impiegando molto tempo dato che la mamma si rifiutò categoricamente di farsi trasportare in braccio.
Già da metà strada riuscimmo a vedere il castello grigio che torreggiava sopra di noi. Mi ero atteso un edificio tetro e lugubre, invece aveva pennacchi rosa sulle torri e fiori sui davanzali.
Quando arrivammo, trovammo il ponte levatoio abbassato e la grata alzata.
«È inquietante» dissi.
«Saranno molto ospitali» disse mamma.
«Ma così potrebbe entrare chiunque», obiettai.
«Avranno un cane da guardia».
«Ma mamma, cosa potrebbe fare un cane se arrivassero dei soldati armati?» domandai.
«BAU», rispose il cane.
Mi voltai. Davanti a me c’era una creaturina non più grossa della mia mano, un batuffolo di pelo bianco panna da cui a stento spuntava un adorabile musetto.
«Ma che...?» dissi.
«BAU», ripeté il cane.
Rimasi a fissarlo.
Lui roteò gli occhi.
«Ho detto “BAU”, non mi sembra poi così difficile da capire», disse stizzito.
«Ma è proprio che non avresti dovuto “dirlo”», protestai. «Va bene, non importa...» Feci per avviarmi ma il batuffolo si piantò sulla mia strada.
«GRRRR», disse.
Alzai gli occhi al cielo. «No ma, sul serio, così non va bene, già non fai paura, ma se poi parli per onomatopee invece di emettere suoni...»
Non finii la frase, perché di punto in bianco il batuffolo prese a gonfiarsi come se avesse fatto una brutta indigestione e, in un batter d’occhi, divenne grande abbastanza da occupare l’intero cortile. Non solo, in qualche modo nel crescere aveva perso il pelo in eccesso e adesso assomigliava a un mastino invernale. Sì, inVernale, continuava a essere bianco e soffice dopo tutto.
Lo vidi prepararsi a saltarmi addosso ma, prima che potessi fare qualcosa, una serie di bastonate gli si stava abbattendo sul naso rosa.
«Cane cattivo! Cane Cattivo!» esclamava la mamma, continuando a picchiarlo con foga mentre io cercavo di ricordare quando mi fosse passata davanti e da quando riuscisse a stare dritta e usare il bastone come una mazza da guerra.
«Signora, ma...» protestava inutilmente il mastino, senza riuscire a sottrarsi alla gragnola di colpi.
Poi di botto tornò alle dimensioni originali e scoppiò a piangere. «Così mi fa male!»
La mamma si immobilizzò, coi lucciconi agli occhi e il bastone a mezz’aria. Si inginocchiò ad accarezzare il cucciolo con intento consolatorio e fu allora che quello tornò enorme, facendola cadere a faccia avanti e fermandola in terra con una zampa.
Istintivamente sollevai la spada, che subito si afflosciò come la prima volta.
Alzai gli occhi al cielo.
E fu allora che vidi la ragazza affacciata al balcone.
«Oh, la mia spada!» esclamò questa, calandosi giù agilmente lungo un rampicante.
«La tua spada?» chiesi.
«La tua spada?» chiese il cane.
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Ma certo, la mia spada!» disse la ragazza, avvicinandosi e tendendo una mano. «Credevo non l’avrei più rivista! È stata creata per me anni fa, e incantata perché solo io potessi usarla».
Già che non sapevo cosa farmene, le porsi l’arma. Appena la impugnò, si raddrizzò di scatto.
«Ora capisco perché nelle mie mani facesse così», commentai.
Lei mi guardò. «Ah, no, non l’ha mai fatto prima, deve essere perché ti trova deprimente».
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Fuffi, lasciala», disse la ragazza.
«No, no, va benissimo, non me la sentivo così dritta da secoli, spostati solo un po’ più a destra».
«Ma quindi...» mi intromisi «se non posso usare la spada, come faccio a sconfiggere l’oscurità strisciante?»
«Tu...?» disse il cane incredulo.
«L’ha detto la veggente cieca», spiegai.
La mamma si mise a ridere. La guardai storto.
«La veggente non è cieca, è strabica e si vergogna a farlo vedere, e poi non ha detto così», asserì.
«Ha detto che solo la spada della luna poteva... ah», lasciai la frase in sospeso, rendendomi conto di ciò che stavo per dire.
«Venite, è quasi ora», disse la ragazza.
«Io resto qui se non vi dispiace», replicò la mamma. «Giusto un mezzo centimetro più giù», aggiunse rivolta a Fuffi.
Seguii la padrona di casa fino ai sotterranei del castello, arredati con una mobilia un po’ frivola ma di gusto. Ci fermammo davanti a quella che sembrava una tana di topi, di quelle curiosamente a forma di arco che si vedevano nei disegni umoristici.
Anche se all’interno non vi era luce, riuscivo a vedere con chiarezza qualcosa di più scuro dell’oscurità che si avvicinava molto lentamente al varco, provenendo da dentro il muro.
La ragazza poggiò la lama davanti al buco.
La cosa oscura emerse per un centimetro o due, vide la spada, vi si specchiò, rimase un attimo come interdetta e poi tornò indietro nel buco.
«E quella cos’era?» domandai attonito.
«L’oscurità strisciante», rispose la ragazza.
«Ma come, tutto lì?»
«Si, perché?»
«Non so, non sembrava pericolosa».
«E chi ha detto che fosse pericolosa?» chiese lei stupita.
«La...» iniziai a dire, ma non andai oltre: in effetti non l’aveva detto nessuno.
«Quindi se non avessi portato in tempo la spada e fosse uscita...»
«Ah, non sarebbe uscita, le avrei detto di ripassare domani, come sempre. Ma sono molto contenta che tu mi abbia riportato la spada, sei stato un eroe. Ti fermi a cena?»
Mi guardai attorno. Mi ero messo in viaggio per trovare un’arma potente che mi avrebbe aiutato a sconfiggere un orribile mostro, e mi ritrovavo in un castello un po’ frou frou con un cane massaggiatore che non sapeva abbaiare, una bella ragazza che raddrizzava le spade afflosciate e un invito a cena.
Scossi la testa.
«No», risposi. «Assolutamente no».
 
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view post Posted on 12/7/2017, 17:02
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"Ecate, figlia mia..."

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Finito. Lo faccio decantare qualche settimana e correggo.
 
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GENTE DI SEDNA

Di Alexandra Fischer

L’atrio dalle pareti color alluminio è deserto, se si esclude la figuretta seduta su uno dei sedili di ferro rivestiti di plastica nera.
I suoi piedi arrivano appena al pavimento grigio, ma alla sua età può vantare una bella esperienza di viaggi interstellari.
Non guarda neppure il grande tabellone con gli arrivi e le partenze delle navi stellari che collegano i vari pianeti agricoli.

Mamma e papà sono la grande nave rossa.

Questo pensiero gli basta per sentirsi sicuro del loro arrivo.
Gli hanno detto di aspettarlo nella stazione subito dopo averlo fatto sbarcare quando tutte le luci all’interno erano ancora spente.
Forse perché anche lì ci sono il giorno e la notte, proprio come su Sedna.
Ripensando alla cameretta che ha dovuto lasciare laggiù, gli viene un po’ di nostalgia, allora apre la cerniera della borsa e fruga in mezzo ai vestiti, ritrovando la trottola che suo padre gli ha regalato.

Dentro c’è una sorpresa per quando comincerai ad annoiarti. Usala quando sei da solo, però.

Anche la mamma la pensava così.

Non farla vedere a nessuno. Dobbiamo giocarci solo noi.

Il bambino scende dal sedile con la trottola e solleva l’asticella di ferro che la fa partire con un lieve ronzio.
Per qualche secondo, il suo sguardo si alterna dal giocattolo alla porta dell’atrio.
Rassicurato dalla totale assenza di persone, il bambino si sofferma sulla trottola in movimento.
Il giocattolo si apre in due a metà del giro, mostrandogli una mappa stellare e un indirizzo.
C’è anche una scheda di plastica rossa.
I suoi genitori gli hanno detto di farla a vedere a un signore vestito con una tuta argentea come le loro e come quella che indossa a lui.
Le raccomandazioni dei suoi genitori gli tornano nella mente.

Nessun altro deve vederla, capisci? È il nostro gioco con quel signore.

Il bambino richiude la trottola e la rimette nella borsa.
E poi si tasta nella tasca, cercando la piccola scultura grigio verde fatta da suo padre.
La tira fuori, sfiorandone con le dita il corpo massiccio dotato di pinne e la bocca dalle due zanne laterali.
Parole come foca e steatite gli tornano alla mente, facendolo sentire a casa.
Quel giocattolo, che ha preso il mattino della partenza dal comodino, rinnova dentro di lui la speranza di rivedere i suoi genitori.
Lo hanno fatto scendere su quel pianeta dalla grande nave rossa, assicurandogli che torneranno presto.
Deve soltanto aspettare.
Gli olo manifesti pubblicitari con le immagini di sua madre lo convincono a essere paziente.

Il tempo, però, trascorre lento.
Vedendo che l’atrio continua a rimanere deserto, esce dalla stazione, e la luce dei soli artificiali lo abbaglia.
Dura poco.
Quasi avesse percepito la sua presenza, la cupola geodetica del pianeta interviene sul clima, trasformandolo in un mattino primaverile.
Il bambino rivive per un attimo una bella giornata di Sedna, e si aspetta di trovare lo stesso parco giochi nel quale i genitori lo portavano a giocare dopo la scuola.
E gliene compare uno davanti quando la strada che porta allo spazioporto si interrompe per lasciare il posto alla zona residenziale.
C’è un unico gioco: una grossa nave spaziale cargo, con le scritte quasi cancellate.
Ha un che di lugubre per via delle ammaccature che la costellano.
Basta già questo a fargli perdere la serenità del ricordo e a mettergli paura.
Il bambino si pente di non essere rimasto nell’atrio ad aspettare l’uomo dalla tuta argentea.
I suoi genitori lo rimprovereranno di certo.
Sta per tornare indietro quando dalla nave esce un uomo piuttosto anziano, abbigliato con un cappotto nero ornato da mostrine argentee.
- Ti sei perso?
Il bambino scuote la testa.
- Chi sei?
Il piccolo guarda per terra, notando che la terra, lì, appare ingrigita.
- Non dovresti restare qui. Ci sono ancora scorie delle esplosioni. I tuoi non te lo hanno detto?
L’uomo scuote la testa e guarda il cielo.
- Devi essere uno dell’ultima nave. Vai dai tuoi, dì loro di sbrigarsi a tornare nello spazioporto, perché passerà ancora parecchio prima che ne venga un’altra.
Davanti al silenzio del bambino, l’uomo capisce di trovarsi davanti a una storia straziante.
Ecco l’ennesimo figlio di ribelli abbandonato su uno dei tanti pianeti agricoli dimenticati dall’Unione dei Colonizzatori.
Visto che ha molto tempo prima che gli arrivi la comunicazione di servizio, l’uomo lo osserva.
Tuta argentea, lentiggini, capelli ricciuti castano chiari come gli occhi e labbra imbronciate.
Quel piccolo gli sta facendo tornare alla memoria il suo passato di comandante di navi da turismo spaziale.
E anche il suo amico Umiak, di poco più giovane di lui, ma con un carattere molto deciso, tanto da decidere di sposare la diva della pubblicità Magdys Nutter.
L’ex-capitano rivede nella figura sottile del bambino quella della giovane donna, le cui fattezze sono comparse a lungo nei manifesti ologramma per gli acquisti di dolciumi e abbigliamento.
L’unico difetto della diva era di essere una nativa di Iridia e non una terrestre.
Gli occhi a mandorla e la carnagione olivastra del volto gli ricordano invece il suo compagno di navigazione stellare.
- Umiak di Sedna – sussurra l’ex-capitano.
Pur sentendo nominare il cognome del padre, il bambino continua a guardare l’uomo con aria indifferente.
Il suo atteggiamento convince l’ex-capitano solo a metà: Ingo Lennarz è certo di trovarsi di fronte a qualcuno legato alla coppia partita per vie traverse da Sedna prima che il pianeta fosse trasformato in una gigantesca prigione per i ribelli al nuovo ordine voluto dall’Unione dei Colonizzatori.
Trasformare la riserva naturale di Sedna in un gigantesco mattatoio è stata una prospettiva terrificante per gli abitanti di quel pianeta, i quali, a fatica, hanno ricostruito una nuova versione dell’Antartide terrestre originale, ormai scomparsa per via del surriscaldamento planetario.
Ingo Lennarz comprende benissimo i sentimenti dell’amico, ma la sua educazione teutonica gli impedisce di mentire alle autorità.
Vorrebbe che il suo amico Dickie il Grassoccio fosse lì a consigliarlo, ma è morto.
Il dilemma sulla sorte del bambino si somma al dolore per il lutto recente.
- Vieni con me – dice l’ex- capitano al bambino.
- Dove?
- In un posto. Non ci metteremo molto.
Il piccolo annuisce, tenendosi stretta la borsa.
- Nessuno tocca i beni dell’ospite.
Il bambino ritrova il padre nella frase dell’uomo e decide di fidarsi di lui, lasciandosi prendere per mano.
I due arrivano a un binario accanto al quale c’è una fermata con tanto di cartello dotato di display elettronico con dei numeri.
- Sei fortunato. Ti risparmierai un sacco di strada.
Il bambino si guarda intorno.
Il paesaggio è una lunga distesa di sabbia immersa in una luce accecante e con un po’ di immaginazione gli ricorda le distese di ghiaccio del suo pianeta con il mare sullo sfondo e i lastroni di ghiaccio con pinguini, orsi polari e leoni marini identici a quello della scultura che ha con sé.
Anche il mezzo di trasporto sul quale salgono ricorda al piccolo il suo pianeta: vagoni tubolari con i vetri a specchio come quello sono la norma.
Anche il paesaggio ha qualcosa di familiare, con le costruzioni a pianta circolare fatte di mattoni.
Gli ricordano gli igloo.
L’unica vera differenza sono le creature che vede correre nella distesa sabbiosa.
- Derivano dalla famiglia dei varani – gli spiega l’ex-capitano – ma sono stati modificati geneticamente per essere innocui.
Alcune piante dai tronchi spinosi interrompono qua e là la monotonia della distesa sabbiosa.
- Sono riserve d’acqua come quelle terrestri – continua l’ex-capitano – per quanto nelle unità abitative lì vicino ci sia ogni comodità. Credo sia una questione di previdenza.
Il piccolo annuisce, senza staccare gli occhi dal finestrino.
Anche suo padre amava fare provviste di caccia nell’igloo.
Per quanto regolamentata dalle leggi di Sedna, gli consentiva di avere carne per buona parte dell’anno e a lui piaceva.
Non sempre, tuttavia, poteva assaggiarla.
La madre lo riportava in città per la scuola e per il proprio lavoro nella pubblicità.
Il padre, scherzando, paragonava la moglie a quei turisti che amavano girare per le distese di ghiaccio di giorno, per poi rivendicare le comodità dell’albergo di sera.
Non gli avrebbe mai masticato gli stivali da caccia in pelle di foca per renderli comodi come le mogli dei tempi andati.
Il ricordo di quelle battute gli fa desiderare di poter tornare a casa.
E la nostalgia che prova lo fa ripensare alla leggenda di Sedna raccontatagli dal padre.

Vedi, Uqalik, la dea che dà il nome al nostro pianeta presiede l’aldilà e il suo giudizio vale per tutti i morti: ci sarà un paradiso dove le cacce abbonderanno, ma per raggiungerlo occorre attraversare bufere di neve dai cristalli di ghiaccio accecanti, affrontare le mute dei cani infernali e attraversare sentieri di pietre acuminate.

Con questo non vuole dire a se stesso che è successo qualcosa di grave ai suoi, però c’è una sensazione di paura in lui.
L’uomo che lo sta accompagnando non ha parlato di una casa, bensì di un posto da fargli vedere.
Il locomotore, guidato dal computer, si ferma all’improvviso e le portiere si aprono con un suono melodioso.
- Siamo arrivati, scendi – dice l’ex-capitano al bambino.

Dall’altra parte della strada c’è un edificio a pianta circolare come quelli che il piccolo ha visto dal finestrino, solo che è più scuro.
L’ex- capitano lo conduce attraverso le porte scorrevoli mormorando la parola “sacrario”.
È una parola che il bambino non capisce, così come gli appare l’estraneo il luogo in cui è appena entrato.
L’ingresso è costellato di bandiere, targhe, olo ritratti di gente sconosciuta con divise simili a quella indossata dall’uomo accanto a lui.
Arriva a intuire di cosa si tratta quando arriva insieme all’ex-capitano in una piccola stanza rischiarata da una luce morbida.
Avvicinandosi, il bambino la vede cambiare in tante strisce luminose multicolori che gli ricordano il cielo del suo pianeta in certi periodi dell’anno, quando accompagnava il padre a caccia.
Ne risente la voce nella mente provando un grande senso di pace.

Le luci che vedi nel cielo sono gli spiriti dei cacciatori vissuti prima di noi. Ci indicano il sentiero per grazia di Sedna.

Lo stato d’animo del piccolo è stravolto dalla comparsa dell’ologramma di un uomo anziano dalla tuta argentea.
Con voce commossa, l’ex-capitano dice al bambino: - Quello che vedi è il mio amico Dickie, ossia il Grassoccio. Aspettava che arrivasse la nave rossa dalla quale sei sbarcato tu, ma non ha fatto in tempo.
Il bambino osserva l’ologramma dell’uomo come un’apparizione: olivastro e con gli occhi a mandorla, alto circa un metro e ottanta e di fisico robusto, potrebbe passare quasi per suo padre, se non fosse per i capelli bianchi.
Vorrebbe parlare, ma non può.
Ripensa alle istruzioni dei genitori riguardo all’uomo con la tuta argentea e si avvicina al piedistallo.
- Non ci troverai niente su di lui– gli dice l’ex-capitano – Dickie era il suo soprannome. Non si è mai fidato del tutto di me, perché per la sua gente, dire il proprio nome per intero a un’altra persona equivaleva ad affidarle la propria anima.
Il piccolo, disorientato per non poter più obbedire alle istruzioni dei genitori, guarda Ingo Lennarz con apprensione.
L’ex-capitano se ne rammarica: - Scusa se ti ho portato qui, è per via di come guardavi la mia divisa. Così ho pensato…ma no, è impossibile. Aspetterai la prossima nave a casa mia, d’accordo?


A casa dell’ex-capitano c’è una stanzetta piena di immagini olo di distese di ghiaccio, balene, caribù e pinguini.
Su un tavolino c’è una piccola scultura raffigurante un gruppo di cacciatori seduti su un masso con arpioni alla mano.
Su una sedia è appoggiata una giacca di cuoio e pelliccia bianca lavorata con disegni geometrici multicolori.
Lennarz dice al piccolo: - Sono tutto quello che rimane di Nanuq. Era la sua stanza, ora puoi usarla tu.
Nell’angolo c’è un letto perfettamente rifatto.
- L’ho rimesso in ordine dopo il suo funerale. Non chiedermene il motivo.

Rimasto solo, il bambino apre l’armadio e vede pochi indumenti, alcuni simili alla giacca appoggiata alla sedia.
Curiosando nel comodino, trova un paio di stivali di pelle di foca e richiude l’anta, pensando alla gelosia del padre riguardo all’abbigliamento da caccia.
Allora si avvicina alla sedia e la sposta, facendo attenzione a non toccare la giacca.
Il cassetto incassato nel tavolo è una tentazione troppo forte per lui.
Lo apre facendolo scorrere lentamente nelle guide e trova un mini lettore di schede.
Rammentandosi della propria, apre la trottola e prende il documento plastificato che i genitori gli hanno raccomandato di consegnare al signore con la tuta argentea.
Non appena la inserisce nella fessura apposita, la voce profonda da sciamano di un uomo più vecchio di suo padre esordisce: “Piacere di conoscerti. Sono amico di tuo padre, Umiak. Nella nostra lingua significa baleniera. Sì, hai capito bene. Il mio nome, Nanoq, deriva da quello dell’orso polare, e il tuo, Uqalik, è quello della piccola lepre artica. Tuo padre e io, insieme a molti altri, abbiamo tenuto la lingua dei nostri avi terrestri. I bianchi li chiamavano eschimesi, ossia mangiatori di carne cruda, ma è un termine dispregiativo inventato dai nemici. I nostri avi e noi siamo Inuit, la Gente. Il pianeta Sedna è stato reso abitabile ricostruendo a sud l’ambientazione dell’Artide e a nord quella dell’Antartide, ma esistono posti che ricordano da vicino il Canada e la Groenlandia …”.
Il bambino spegne la registrazione premendo rapido un tasto e poi accarezza la giacca da caccia del cacciatore defunto.
L’attesa dei genitori gli sembra meno penosa.
Avrà molto da raccontare loro, dopo aver ascoltato l’intera scheda, ma ora no, preferisce guardare fuori, per vedere di che tipo sarà la nave attesa dall’uomo che lo ospita.
Gli piacerebbe molto se fosse rossa.
 
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kaipirissima
view post Posted on 16/7/2017, 21:29




Ciao ragazzi, dopo un tempo che mi pare lunghissimo sono uscita dal buco nero e oggi ho scritto un racconto per M/C. (Scadenza oggi)

Vediamo se riesco a fare ambo.
Io ci provo!
 
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view post Posted on 17/7/2017, 08:47
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Ottimo, ottimo :)

Vedo che ci sono già parecchi racconti e parecchie partecipazioni. Dai che questo skanna ha ripreso vita :)
 
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view post Posted on 18/7/2017, 08:16
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CITAZIONE (reiuky @ 17/7/2017, 09:47) 
Ottimo, ottimo :)

Vedo che ci sono già parecchi racconti e parecchie partecipazioni. Dai che questo skanna ha ripreso vita :)

E OK che ultimamente era il deserto ma... due racconti sono "parecchi"? :unsure: :p099:
 
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view post Posted on 18/7/2017, 14:48
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Tre racconti, il mio è finito, va solo pubblicato :p109:
 
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Beatrice S.
view post Posted on 24/7/2017, 14:48




Finire questo skanna é stata un'impresa.
Avevo oltrepassato la soglia dei 21.000 caratteri e non avevo raggiunto nemmeno la metá del racconto che avevo in mente
Dolore, disperazione e poi la necessaria mutilazione

Ne é venuto fuori un racconto che é come uno storpio che vorrebbe reggersi in piedi su una gamba sola e fare il giocoliere con un braccio solo
é consapevole che non ce la fará ma ci prova lo stesso
come il mio racconto :1392391933.gif:

UN NUOVO EROE


Era una calda mattina d’inizio autunno. Il sole splendeva, nuvole sottili come fili di fumo da una pipa di cedro si muovevano lente al vento che profumava di erba umida. I tordi cantavano tra i rami, i loro cinguettii sembravano stornelli di bambini. Persino il più infimo elemento della natura annunciava il proprio ringraziamento al nuovo giorno che riluceva tra le foglie rosse delle querce.
Che schifo.
Nemo sbatté le palpebre, accecato dai raggi del sole gonfi della polvere che appestava la stanza. Sua madre avrebbe descritto quella mattina con termini idillici. Lui no. Aveva sempre detestato le mattine. E i termini idillici. E sua madre.
Il rumore di metallo che cozzava contro metallo lo costrinse a sporgersi e a piegare la testa seguendo quel suono familiare. Eccolo, quello sbruffone di suo fratello: tronfio nella sua armatura di cuoio borchiato con finiture d’argento. Si stava allenando con Rob, il nuovo scudiero, la spada dalla guardia dorata e l’elmo a forma di testa di leone rilucevano al sole.
Che schifo.
Nemo soffiò un’imprecazione tra i denti serrati, conficcò le unghie nella pesante tenda rossa e la richiuse, spegnendo il sole.
Barcollò nella semioscurità tinta di scarlatto e si lasciò cadere sul letto.
Nascose la faccia nel cuscino, respirando l’odore di polvere vecchia.
Un acuto cigolio risuonò alle sue spalle, seguito da un canto a labbra chiuse.
Nemo sbuffò e si tirò il cuscino sopra i crespi ricci neri.
“Il giorno splende, tesoro. Alzati e sfavilla!” gorgheggiò la voce.
“Ancora con le tende chiuse? Come puoi sentire il richiamo del mattino così serrato nel buio? Facciamo entrare un po’ di sole in questa stanza!”.
Rumore di tende che venivano mosse, la luce del sole arrivò persino sotto il rifugio del cuscino, i topi squittirono nella loro gabbia.
Nemo mugugnò, serrò gli occhi e si voltò, la schiena rivolta alla finestra.
“Mamma!”
“Tuo fratello è fuori ad allenarsi già da tre ore!”
Nemo si sporse da sotto il cuscino. Fissò sua madre con gli occhi socchiusi: i lunghi capelli biondi erano avvolti in due trecce che si univano dietro la nuca, le braccia erano incrociate al petto, chiaro segno di ostilità materna.
‘Tu che cosa hai intenzione di fare della tua giornata?”
“Quello che sto facendo ora?”
“Rimanere ad appassire in camera tua tutto il giorno? Non se ne parla! Perché non prendi esempio da…”
“Mio fratello. Lo so, lo so” mugugnò Nemo, ficcando ancora la testa sotto il cuscino.
“Oh, fai come vuoi.”
Che è il modo delle madri per dire: passerai una settimana terribile se non ti sbrighi a fare quello che ti dico.
Nemo sbuffò, si costrinse a scendere dal letto mentre sua madre spalancava le imposte, agganciandole agli uncini ai lati del muro. Mormorava un canto senza parole, fatto solo di vocali acutissime, a imitare il trillo degli uccelli.
“Rischierai di infrangere tutti i vetri di casa un giorno o l’altro, mamma” Nemo si stropicciò gli occhi e si diresse verso la piccola gabbia di ferro sulla cassapanca. I tre topolini squittirono. Allungò un pezzo di formaggio attraverso le sbarre e agitò un dito ricambiando il loro saluto.
“Che cos’è questa roba?”
Nemo si voltò. Sua madre era in piedi accanto allo scrittoio, stringeva un plico di fogli con schizzi a carboncino.
“Ora capisco perché non ti vuoi mai svegliare! Stai in piedi la notte a fare queste… queste cose!” Si pulì con disgusto le dita macchiate di nero strofinandole sulla gonna.
Nemo si gettò verso di lei e le strappò i fogli dalle mani.
“Grazie per le tue critiche costruttive, mamma”
Sua madre increspò le labbra, fissando il disegno di un tordo morto. Scosse la testa e indicò la cera incrostata sul legno dello scrittoio.
“Ecco dove finiscono tutte le mie candele. È per questo che le consumi? Lo sai che servono a…”
“Mio fratello. Lo so, lo so.”
“E saprai allora che la notte lucida l’armatura, affila la spada e…”
“Non dovrebbe occuparsene il suo scudiero?”
“Caesar dice che non vuole permettere a nessuno di toccare le sue armi” rispose. Si fermò un istante, sospirando, come a inseguire un ricordo. “Ha preso tutto da suo padre.”
Nemo fece schioccare la lingua contro il palato. “Ci credo che non si fidi dei suoi scudieri. Non ne ha mai tenuto uno per più di un mese. Non può fare a meno di ferirli gravemente o mutilarli ogni volta che si allena.”
“Proprio come suo padre”
“Guarda che è anche mio padre”
“A volte tendo a dimenticarmene” sospirò.
Tolse la coperta dal letto, la sbatté e se la arrotolò intorno alle braccia. “Bene. Ora muoviti a vestirti e vieni giù che prepariamo un bel pranzetto per Caesar. Se non hai niente da fare almeno mi potrai aiutare in cucina” disse e sparì oltre la porta, senza smettere di gorgheggiare.
Nemo abbassò la testa. Aveva preso con tanta foga dalle mani della madre i disegni da stropicciarli. Fissò quei segni nerastri sulla pergamena. Forse aveva ragione. Forse era solo una perdita di tempo.
Appoggiò i fogli sullo scrittoio e li schiacciò con il palmo per togliere le pieghe.
Si girò verso i topolini che squittivano nella gabbia. “Sì, avete ragione. Non la sopporto neanche io”.


Scese le scale a due a due, cercò di saltare gli ultimi tre gradini ma prese male le misure, atterrò sull’angolo dell’ultimo gradino e cadde a terra, sbattendo le ginocchia sul pavimento di coccio.
Trattenne un gemito di dolore, alzó di scatto lo sguardo, pregando che nessuno l’avesse visto.
Una ragazza con i lunghi capelli biondi infilati in una cuffia inamidata era seduta su una sedia accanto al fuoco, sulle cosce aveva un pollo mezzo spennato, nel pugno un mucchio di piume che gettò nel fuoco. Lo fissò, la sua risata cristallina come acqua corrente invase la stanza.
“State cercando qualcosa sul pavimento, Nemo?”
“Molto divertente, Cipolla” gemette, alzandosi in piedi, dolorante. “E grazie per l’aiuto”
“Non ho tempo da perdere. Vostra madre mi ha ordinato di cucinare questo pollo prima che suoni mezzogiorno. Dice che quando vostro fratello…”
“Ho capito. Non aggiungere altro. Vuoi una mano?”
Cipolla ebbe un nuovo scoppio di risa. “Non sono lavori adatti a voi, signorino”
Nemo s’incassò nelle spalle. Fece scivolare una sedia accanto a quella di Cipolla e si sedette. Inspirò il profumo di timo ed erba cipollina che proveniva dalla pentola che bolliva sul fuoco; il rumore sembrava il respiro di una bestia addormentata. Allungò le mani verso le fiamme, il calore sui palmi era tenue, piacevole.
“Vostro fratello si sta allenando ancora più duramente del solito. Non siete emozionato? Fra poco affronterà l’Ordalia e diventerà un eroe, proprio come vostro padre. Potrà aiutare tanta gente, come gli eroi delle fiabe. Sconfiggerà i banditi e ucciderà draghi spaventosi come il terribile Thanatos che uccide con il respiro o Phiros, il mostro fatto di fuoco!”
“Ti è piaciuto quel volume sui draghi che ti ho prestato il mese scorso, vedo” commentò Nemo con un sorriso.
Cipolla abbassò lo sguardo, compunta. “Non finirò mai di ringraziarvi per avermi insegnato a leggere. Devo ancora restituirvi quel libro di fiabe sui cavalieri.”
“Lo sai, Cipolla, a volte vorrei essere un orfano, come i bambini delle favole. Senza nessuno che mi dica cosa dovrei fare o chi dovrei essere. E soprattutto a chi dovrei assomigliare.”
Cipolla lo fissò. Il suo sguardo era insondabile come quello di un gatto. “Non dovete essere invidioso di vostro fratello.”
“Non lo sono mai stato” soffiò, rabbioso.
Cipolla aprì il pugno pieno di piume, avvicinò le labbra al palmo e soffiò; Nemo si ritrovò piume incastrate tra i capelli scuri.
Cipolla rise.
“Sapete, Nemo. Vostro fratello diventerà l’Eroe, ma voi lo siete già. Almeno per me. Lo siete sempre stato.”
Fu il turno di Nemo di scoppiare a ridere.
Un eroe? Non era nemmeno capace di tenere in mano una spada.
Sciocchezze. La mente di Cipolla era piena di favole.
Passi pesanti scesero dalle scale, un canto di guerra intonato da una voce profonda.
Nemo si conficcò le unghie nelle ginocchia.
“Dov’è tuo fratello?” chiese l’omone, accarezzandosi la fitta barba bionda.
Nemo scosse le spalle. “Fuori. Ad allenarsi.”
“Bravo ragazzo, lui. Un vero Nike. Il pranzo è pronto?”
“Quasi, padron Augustus” rispose Cipolla con un piccolo cenno del capo.
La madre salì dalla cantina portando un fusto di vino. Bació l’omone dalla voce profonda sulla fronte e si mise a preparare la tavola.
Cipolla cucinò il pollo, Nemo le stava accanto, chiacchierando fitto.
“Cosa stai facendo, Nemo? Non devi perdere tempo con la servitù. È disdicevole per un Nike” proruppe una voce alle loro spalle.
Nemo sussultò. Si voltò ma rimase con lo sguardo basso.
Uno spiraglio di luce attraversò il pavimento della cucina disegnando un triangolo di sole sulle piastrelle di coccio. Un’ombra si ritagliò in quella luce e avanzò a passi pesanti, metallici.
“Padre! Domani andremo in paese a procurarmi un nuovo scudiero” la voce di Caesar risuonava cupa contro l’interno dell’elmo.
Si lasciò cadere su una sedia in un assordante sferragliare dell’armatura. Cipolla cominciava a riempire i piatti e a versare il vino.
La madre si era seduta accanto al marito, ricamava i bordi di un fazzoletto.
“Non preoccuparti, Caesar. Tutti i ragazzi in paese non aspettano altro che un tuo cenno. Servire l’erede dei Nike è il massimo onore a cui potrebbero aspirare” disse suo padre, ridacchiando e portandosi alle labbra il vino. Nella barba si era incastrato un pezzo di cibo.
“Inoltre credo ci sia bisogno di chiamare un cerusico o quel ragazzo rischia di perdere la mano” aggiunse Caesar.“L’ho lasciato in giardino a cercare di fermare il sangue. Possibile che non ce ne sia uno in grado di tenermi testa?”
Si tolse l’elmo con un solo gesto e scosse la testa. Capelli biondi gli frustarono le guance arrossate per lo sforzo dell’allenamento. I suoi occhi azzurri intercettarono quelli di Nemo.
Lui distolse lo sguardo, conficcando la forchetta in una coscia di pollo.
Che schifo.
“E tu che mi dici, fratello? Cosa hai fatto questa mattina?”
“Cosa vuoi che faccia? Ha dormito” rispose la madre.
“Ho aiutato a preparare il pranzo”
“Hai deciso di diventare una sguattera?”
Nemo fece una smorfia.
“Un giorno dovremmo allenarci insieme, ti farebbe bene.”
“Grazie. Stavo proprio pensando che in effetti non mi servono entrambe le mani.”
“So che non sei un esperto con la spada. Ci andrei piano, fidati. Come quando esercito i bambini del villaggio.”
Il padre rise dando una pacca sulla spalla a Caesar.
“Lo sai, Nemo non può condividere il tuo destino. Solo il primogenito dei Nike può fregiarsi del titolo di Eroe. Così è dall’alba dei tempi. Tu, Caesar sei il figlio primogenito di un figlio primogenito, che sarei io, di un figlio primogenito, che sarebbe mio padre, di un figlio primogenito, che sarebbe mio nonno, di un figlio p…”
“Abbiamo capito, padre, dacci un taglio” sbuffò Nemo.
“Non dovresti essere cosí irrispettoso verso nostro padre”
“Non ho voglia di sentire tutta la genealogia della famiglia per l’ennesima volta. E poi com’è che nessuno si ricorda dei secondogeniti? O dei terzogeniti?”
Caesar rise, batté un tempo di marcia sul tavolo con l’anello d’oro con il simbolo dei Nike, una spada conficcata nel teschio di un drago, che portava sull’indice.
Il padre scosse la testa“Perché solo i primogeniti possono assumere il titolo di Eroe delle terre centrali e prendere sulle loro spalle il gravoso compito di protettori della comunità e garanti dell’ordine. È una missione. Solo i prescelti possono compierla. Sono necessari un duro allenamento e una scrupolosa preparazione. E tu, Nemo, devi essere grato al destino per averti permesso di assistere da vicino a un tanto importante avvenimento.”
“Ringraziare il destino è la prima cosa che faccio nelle mie preghiere mattutine, padre.”
“Bene. Almeno qualcosa di degno di un Nike lo sai fare. Siamo sempre stati fedeli ai nostri dei.”
Non comprendere il sarcasmo doveva essere una dote di famiglia.
Il padre si schiarì la gola, come sul punto di fare un annuncio importante: “Caesar, figliolo, sai bene che tutti i Nike dall’alba dei tempi, il giorno della loro Ordalia hanno indossato sull’elmo il dente del loro primo drago ucciso. Tu non vorrai certo essere da meno”
Gli occhi di Caesar si illuminarono. Saltò in piedi facendo tremare il tavolo.“Grazie padre! Non immagini da quanto attendessi questo giorno.”
“Stanotte ucciderai il tuo primo drago” annunciò, sbattendo il bicchiere sul tavolo. Gocce di vino si sparsero sulla tovaglia, come gocce di sangue.



Nemo sfregò il palmo sulla pergamena, cancellando l’ultimo segno a carboncino. Alzò lo sguardo verso la rana riversa in mezzo al sentiero e ricominciò a disegnare.
“Cosa stai facendo?”
Sussultó e si voltó, in cerca dello sguardo di disprezzo di Caesar.
“Vostro padre mi ha mandata al pozzo a prendere l’acqua, signorino”. Era la voce di Cipolla.
Nemo si alzò, oltre gli alberi Caesar aveva premuto una mano sulla spalla di Cipolla che cercava con rispettoso contegno di ritrarsi al suo tocco.
“Non avere paura” rise Caesar. “so quando mi trovo di fronte a conquiste per cui non è consigliabile usare la forza”
“Devo andare.Vostro padre sará molto contrariato se ritardo” disse Cipolla, aveva la mano sinistra stretta intorno al manico del secchio, la destra nascosta tra le pieghe della gonna.
“E io lo saró se te ne vai con tanta fretta. Ora dovrai decidere chi è meglio non contrariare. Un vecchio orgoglioso del proprio passato o il futuro signore dei Nike?” mentre parlava Caesar faceva scivolare la mano verso la scollatura del vestito di Cipolla.
“Lasciala in pace” disse Nemo facendosi avanti.
Caesar si voltó con un irritante mezzo sorriso sulle labbra. “Che cosa c’è fratello? Non eri a perdere tempo con i tuoi scarabocchi?”
“Ha detto che deve andare. l’hai sentita”
Sorrise.
“L’hai vista prima tu, vero? Ma non c’è nulla che tu puoi avere se non l’ho avuta prima io. Comportati da fratello minore e prendi i miei avanzi. È un ruolo che ti si addice”
“Sei il solito sbruffone”
Caesar lasciò andare la veste di Cipolla che si ricompose in fretta.
Si avvicinò a Nemo giocherellando con l’anello intorno all’indice. Sorrideva.
“Schivalo”
“Che cos…”
Un pugno gli arrivò dritto in faccia mangiandosi via il resto della frase.
Nemo cadde di schiena, il naso ridotto a un grumo di dolore che sapeva di metallo.
“Pensi che m’interessi una serva?” squittì Caesar. “Te la regalo volentieri, fratello”
Una risata gutturale accompagnò lo sferragliare dell’armatura mentre si allontanava. “Folle di dame cadranno presto ai miei piedi.”
Cipolla appoggiò il secchio, corse verso di lui, gli s’inginocchiò accanto.
“Stai bene?” le chiese.
“Non sono una donzella indifesa” disse Cipolla estraendo dalla veste un pugnale. “Se avesse allungato ancora quelle mani se ne sarebbe pentito.”
“E quello quando hai imparato a usarlo?”
“Mio padre era soldato. Voleva un figlio maschio a cui insegnare a combattere. Ha avuto me.”
Nemo spalancò gli occhi.
“Dunque tu sai…”
Cipolla gli premette un indice sulle labbra. “Non farlo sapere in giro”.



“Che cosa ci faccio io qui?” sbuffò Nemo, sistemandosi il sacco sulle spalle e socchiudendo gli occhi per vedere la sottile striscia di sentiero alla luce avara della torcia.
“Perché non voglio perdere la compagnia del mio fratello preferito in un momento così importante.”
“Sono il tuo unico fratello. E tu mi detesti. La cosa è reciproca, tanto perché tu lo sappia”
“Perché volevo il tuo appoggio in…”
“Avanti Caesar, non c’è nessuno da impressionare qui con la tua mielosa magnanimità. Perché sono qui?”
“E va bene, Nemo. Mi serviva qualcuno che mi portava le armi.”
“Che mi portasse” disse con una smorfia. “Che c’è, sono troppo pesanti per te?”
“Non si è mai visto un cavaliere che si porta da solo le armi, giusto? Ogni cavaliere che si rispetti ha uno scudiero con sé che fa al posto suo tutti i lavori più umili e il mio oggi è stato quasi mutilato.”
“Quale onore, messere. E, se posso: non è stato quasi mutilato. TU l’hai quasi mutilato.”
“Non c’è di che. Sei pur sempre mio fratello, Nemo. Sono felice che tu abbia compreso quale onore ti tocca nel prendere questo ruolo quale mio…”
“Ti serve una ripassata al senso dell’umorismo, cavaliere. Non serve solo la spada per sopravvivere là fuori.”
“I draghi non si combattono con il senso dell’umorismo, scudiero.”
“Ehi, non ho mai detto di accettare questo ruolo!”
“Ti dovrò trovare una livrea che si adatti al tuo fisico striminzito. Non sarà facile.”
“Devi essere fiero di poter affiancare tuo fratello nelle sue imprese, Nemo” disse Augustus lisciandosi la barba. “Mio padre si era limitato a far spedire i miei fratelli minori in convento fra le montagne o spaccarsi la schiena alle miniere delle regioni dell’ovest”
“Sappiamo la storia della famiglia, padre” sbuffò Nemo.
Il sentiero si assottigliava, passava rasente la parete trasudante di umidità, poi si perdeva nel buio.
“Zitti. Siamo arrivati. Lo sentite questo suono?”
“Non è il rumore del vento?” domandò Nemo, guardandosi intorno.
“Il respiro del drago” soffiò Caesar, dandogli un pugno su una spalla.
“Ahi” protestò Nemo massaggiandosi il punto colpito con il palmo della mano. “Hai il guanto d’armi! Mi spunterà un livido enorme!”
“Se tu avessi letto i manuali dei mostri del professor De Remotis, sapresti che questa tonalità e questo soffio acuto in sottofondo non possono che essere il respiro di un drago addormentato. E più precisamente di un drago blu delle grotte umide, custode di tesori, amante del freddo e capace di sputare fuoco liquido a sette metri di distanza”
Augustus sorrise. “Questo è il mio figliolo” disse, appoggiandogli una mano sulla spalla con un’espressione soddisfatta.
Nemo roteò gli occhi.
“Bene, mio cavaliere. E c’era anche scritto come sconfiggerlo in quei manuali, per caso?”
“Con il coraggio e con la forza del braccio, naturalmente.”
“Qualcosa mi dice che quel tuo De Remotis non ha mai affrontato un drago in vita sua.”
Augustus scosse la testa. “Zitto Nemo. E ascolta tuo fratello”


“Per tutte le code di ratto!”
Il respiro gli si arrestò in gola. Non aveva mai visto nulla di così maestoso: il corpo squamoso del drago riluceva ai raggi che filtravano dall’alto, attraverso i fori nel soffitto della caverna. Era grosso quanto la ruota di un mulino, steso a terra, un fianco contro una montagna d’oro, la pancia che si gonfiava come un mantice cozzava contro le monete e ne faceva rotolare qualcuna ad ogni respiro. Il caldo arrivava fino a loro. Calore e odore di marcio, come di uova andate a male.
“Nulla di buono qui.”
“Zitto Nemo. E guarda tuo fratello.”
Caesar prese lo scudo dal sacco, estrasse la spada con eleganza, l’acciaio splendeva ai raggi della luna, tanto lucido da far riflettere il grigio delle pietre.
Si sistemò i capelli con un gesto aggraziato e si fece scivolare lungo la parete della grotta fino a raggiungere il punto dove dormiva il drago, pochi metri più in basso. Si avvicinò al mostro addormentato, la spada protesa.
Il drago gemette nel sonno. Caesar si bloccò. Qualche moneta rotolò dalla montagna d’oro. Uno sbuffo di fumo dalle narici del drago. Silenzio. Più nulla.
Caesar continuò ad avanzare.
Ormai era vicino, vicinissimo. Alzó la spada, pronto ad affondarla.
Il drago sospirò nel sonno, diede un colpo di coda, si rigirò sulla pancia, schiacciando Caesar.
Fu un rumore simile a quando si rompe una noce tra le mani premendola contro un’altra. Solo un po’ più metallico.
Non ci fu nemmeno un grido.
Da sotto la pancia del drago, tra la montagna di monete, cominciarono a scivolare rivoli di sangue.
“CAESAR!” urlò Augustus. “Caesar, figlio mio!”



“E quello lì come si chiama?” chiese Cipolla, appoggiando l’indice oltre le sbarre della gabbietta dei topi.
“Quale? Quello bianco con la coda lunga?”
“No. Quello spelacchiato e con la coda mozza. Quello brutto.”
“Quello si chiama Caesar”
“Come vostro…”
“Già.”
Cipolla si appoggiò al bordo dello scrittoio e fissò Nemo.
“Adesso che vostro fratello é… insomma cosa avete intenzione di fare?”
“Io? niente! Assolutamente niente. Ci ha pensato mio padre a uccidere quel drago e a vendicarlo. Tutto quello che rimane di mio fratello non riempirebbe un barattolo di marmellata.”
Cipolla si morse un labbro.
“Non avete pensato che potreste…”
Nemo scoppiò a ridere.
“Io non sono un eroe”
“Lo siete. Dovete solo aiutare gli altri a capirlo”



“Come faremo adesso?” la madre piangeva, i gomiti premuti contro il tavolaccio di legno della cucina.
“Siamo disonorati. La nostra stirpe è perduta!” mormorava il padre stringendo al petto l’elmo dorato a testa di leone.
Nemo era in piedi sull’ultimo gradino, incerto. Cipolla gli diede una gomitata nello stomaco facendogli sfuggire un gemito.
I suoi genitori alzarono lo sguardo e li fissarono. Spalancarono gli occhi, poi si fissarono, poi guardarono ancora verso Nemo.
“Potrebbe funzionare”
“Ma certo!”
“La somiglianza c’é”
“Provare non costa nulla”
Augustus si alzò, si avvicinò e con fare cerimonioso tenne in alto l’elmo dorato.
Infilò l’elmo in testa a Cipolla, i capelli biondi fuoriuscivano a ciocche proprio come quelli di Caesar. “Nessuno noterà la differenza” disse, orgoglioso.
“Perfetta!” gorgheggiò la madre.
 
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view post Posted on 25/7/2017, 22:13
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Custode di Ryelh
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Salute, gente. Posto che riesca a finire in tempo, dato il periodo decisamente problematico, mi sorge un dubbio: uno dei personaggi del mio racconto parla in dialetto: una eventuale traduzione delle sue frasi sarebbe ricompresa nel conteggio dei 21.000?
 
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view post Posted on 26/7/2017, 09:38
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 25/7/2017, 23:13) 
Salute, gente. Posto che riesca a finire in tempo, dato il periodo decisamente problematico, mi sorge un dubbio: uno dei personaggi del mio racconto parla in dialetto: una eventuale traduzione delle sue frasi sarebbe ricompresa nel conteggio dei 21.000?

Io credo che possa essere esclusa: non fa parte integrante del racconto.
(anche se so che un editore li conterebbe visti che a loro importa il numero di pagine che caccia fuori, ma questa è una situazione un poo' diversa :) )
 
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view post Posted on 27/7/2017, 15:30
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Losco Figuro

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CITAZIONE (reiuky @ 26/7/2017, 10:38) 
CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 25/7/2017, 23:13) 
Salute, gente. Posto che riesca a finire in tempo, dato il periodo decisamente problematico, mi sorge un dubbio: uno dei personaggi del mio racconto parla in dialetto: una eventuale traduzione delle sue frasi sarebbe ricompresa nel conteggio dei 21.000?

Io credo che possa essere esclusa: non fa parte integrante del racconto.
(anche se so che un editore li conterebbe visti che a loro importa il numero di pagine che caccia fuori, ma questa è una situazione un poo' diversa :) )

A rigor di logica conta se la metti nel testo, non conta se la metti come nota.
 
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view post Posted on 28/7/2017, 08:08
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Edited by Gargaros - 1/2/2019, 04:04
 
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view post Posted on 28/7/2017, 08:22
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CITAZIONE (CMT @ 27/7/2017, 16:30) 
CITAZIONE (reiuky @ 26/7/2017, 10:38) 
Io credo che possa essere esclusa: non fa parte integrante del racconto.
(anche se so che un editore li conterebbe visti che a loro importa il numero di pagine che caccia fuori, ma questa è una situazione un poo' diversa :) )

A rigor di logica conta se la metti nel testo, non conta se la metti come nota.

Hai pienamente ragione. Ma io non ho voglia di andarmi a cercare la traduzione delle note in fondo al racconto :)
 
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kaipirissima
view post Posted on 29/7/2017, 17:21




Ci sto provando ma per adesso sono alla descrizione iniziale senza un'idea.
 
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