Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Scannatoio Luglio 2017, ... e non scordarti lo spadone a due mani.

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view post Posted on 13/8/2017, 17:23
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Losco Figuro

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CITAZIONE (Gargaros @ 12/8/2017, 17:12) 
Si possono dare due punti ex aequo a due commentatori?

Credo di no, sarebbe un po' un casotto ^__^;

per me

1 Gargaros

2 Beatrice
 
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Beatrice S.
view post Posted on 14/8/2017, 18:37




CITAZIONE (Gargaros @ 8/8/2017, 20:06) 
Beatrice, hai dato alcuni consigli che trovo molto validi. Li terrò presente qualora dovessi rivederlo... o addirittura riscriverlo.

Assolutamente contrario sulla ricercatezza. Finché campo e nel mio piccolo mi batterò sempre contro la banalizzazione, standardizzazione e appiattimento della lingua italiana. Quante volte avrò sentito frasi tipo "Questa parola è troppo ricercata, costringerà i lettori a correre al dizionario per capirla"... Eh, ma allora leggere a che serve, se non anche a imparare parole nuove?


Finché non sono errori o cadute di stile, e finché non sono frasi effettivamente troppo complesse (come quella alla fine che ha segnalato CMT), preferisco scrivere in questo modo :p109:

D'accordissimo sulla tua battaglia contro la banalizzazione della lingua. Non intendo in generale. mi piacciono le parole complicate. Mi suonavano male in questo caso perché la storia ha il Pov di un bambino.
Non vorrei mai cambiare lo stile di qualcuno u.u E tantomeno non il tuo che mi piace un sacco :1392239620.gif:

Commenti:

Gargaros 1

CMT 2
 
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view post Posted on 21/8/2017, 12:20
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CITAZIONE (Gargaros @ 12/8/2017, 17:12) 
Si possono dare due punti ex aequo a due commentatori?

Preferirei di no. Meglio se dai come sempre 1 e 2 :)
 
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view post Posted on 21/8/2017, 14:57
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Un po' da qui, un po' da lalà

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Ok.

Allora 2 punti a CMT per la miglior serie di commenti, e 1 a Beatrice per il commento al mio testicolo.
 
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view post Posted on 21/8/2017, 19:40
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Bene bene bene bene :)

Siete stati bravissimi tutti quanti.

Allora la mia classifica è:

1) Un nuovo eroe
2) La spada della luna
3) Missione ciclica
4) Gente di sedna

Soffertissima, come immagino sia stata per voi. Tutte le storie erano ugualmente belle e stilare una classifica è stato veramente difficile. Soprattutto vedendo che un po' tutti abbiamo messo all'ultimo posto Shanda, il cui racconto era molto bello e valido, seppur un po' fuori le specifiche e troppo onirico. Spero che Shanda non voglia buttar via questo suo lavoro ma decida di riprenderlo e migliorarlo.

Passo all'assegnazione delle coccarde:

La mamma è sempre la mamma va a CMT, per il suo personaggio parodistico.

Era un mattino sereno e soleggiato va a Gargaros, che inizia il racconto con una pioggia di sangue, un buon modo per rompere un cliché, che era quello che volevo leggere.

Tra l'altro è la prima volta che una coccarda fa passare un racconto dalla terza alla seconda posizione. Complimenti Gargaros

Concludo riportando i punteggi
La spada della luna di CMT 3 + 3 + 3 + 0,5 + 1 + 1 + 3 + 2 = 16,5
Missione Ciclica di Gargaros 3 + 2 + 2 + 0,5 + 0,5 + 2 + 2 = 12
Un nuovo eroe di Beatrice S 2 + 1 + 2 + 1 + 1 + 0,5 + 4 = 11,5
Gente di Sedna di Shanda 1 + 1 + 1 + 1 = 4

Complimenti CMT

A Settembre per il contest di WP!
 
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view post Posted on 22/8/2017, 19:43
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Losco Figuro

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Grazie.
E per chi vuole, questa è la versione integrale del racconto

La spada della luna

La tenda della veggente era immersa nell’oscurità quasi assoluta, non sapevo se fosse perché era cieca o perché era una veggente. O magari perché aveva finito le candele.
«Attento allo sgabello», fu la prima cosa che mi disse, un secondo prima che il mio ginocchio buono prendesse in pieno un robusto sedile di legno.
«Aaahh previsto che l’avrei urtato?» chiesi, trasformando l’urlo che non ero riuscito a trattenere in una domanda.
«Lo fanno tutti. Siediti».
Mi sedetti.
I miei occhi si stavano abituando all’assenza di luce, e iniziavo a distinguere i contorni di quello che mi circondava. La veggente era seduta a un tavolino circolare e aveva davanti a sé quello che poteva essere un mazzo di carte. Sul volto portava delle spesse lenti nere.
«Sono qui per...» azzardai.
«SO perché sei qui», mi interruppe lei, alquanto stizzita. «Vuoi diventare un eroe e ti aspetti che io ti dica come fare».
«È davvero brava!» esclamai.
Lei si strinse nelle spalle, o così mi parve.
«Vengono tutti qui per questo. O per pene d’amore, ma tu...»
Rimase in silenzio più a lungo di quanto fosse apprezzabile.
«Ma io...?»
«Ma tu... no. Ora ascoltami bene, io vedo...»
“Beata te”, pensai, guardandomi bene dal dirlo a voce alta.
«Giovanotto, poca ironia, eh!» mi rimproverò lei comunque. «Vedo che, nelle lontane terre del nord, l’oscurità strisciante sta avanzando e c’è una cosa sola che possa respingerla».
«Io?»
«No.»
«Ah!»
«Tu dovrai recarti nella caverna delle anime perdute, e lì troverai la spada della luna. Solo essa può respingere l’oscurità strisciante».
Mi alzai di scatto dallo sgabello, dando una ginocchiata al tavolo per la foga.
«Aaaahhhndrò immediatamente!» esclamai.
«Siediti!» mi intimò lei.
Mi sedetti.
«Prima di andare devi sapere che io... vedo una donna...»
«Una donna?»
«Sì. Lei, buona donna, mi scusi, questa sarebbe una sessione privata».
Colto da un brivido improvviso, mi voltai, trovandomi faccia a faccia con una figura esile e ingobbita, avvolta in uno scialle nero che la rendeva quasi invisibile nel buio, non fosse stato per lo sguardo talmente penetrante da sembrare dotato di luce propria. Era appoggiata a un bastone nodoso dall’aria più minacciosa che rassicurante.
Scattai in piedi con una mezza torsione del corpo, così da starle di fronte.
«Mamma! Che cosa ci fai qui?»
«Non avrai creduto che ti avrei mandato dalla veggente da solo», ribatté lei.
«Pensavo...»
«Caro, non dovresti farli certi sforzi. Su, siediti.»
Mi sedetti.
«Alzati», disse la veggente.
Mi alzai.
«La caverna delle anime perdute è a tre giorni di viaggio da qui, oltre il fiume dei sogni infranti, al di là della foresta delle vane speranze».
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
«Dovrai sbrigarti, perché se la spada non sarà al castello grigio...»
«E basta...?» la interruppi istintivamente.
«Basta cosa?»
«Io... eh... è il castello grigio e basta? Non il castello della morte in culla o niente del genere, no perché... stona».
Immaginai che, se non fosse stata cieca, al buio e con gli occhiali neri, la veggente mi avrebbe fulminato con lo sguardo. Dovette immaginarlo anche la mamma, perché si alzò sulle punte dei piedi e mi diede uno scappellotto sulla nuca. Prima che potessi aprire bocca, mi afferrò per un orecchio e prese a trascinarmi fuori.
«Andiamo! Ci vorrà del tempo per trovare una carrozza decente».
«Una carrozza...?»
«Non vorrai certo caricarmi su un cavallo come un sacco di patate!»
«Ma per andare dove?» chiesi, confuso.
«A prendere la spada, dove altro?»
«Vorresti... tu... No, mamma, assolutamente no!»

***
«Avresti potuto trovare una carrozza più comoda», protestò mamma dal sedile posteriore mentre cercavo senza troppo successo di convincere il cavallo ad andare verso il fiume.
Azzardai uno sguardo oltre una spalla.
Mamma era seduta rigida tra due sacchi informi, incurvata come sempre sul suo bastone. Teneva le gambe contratte, dato che gran parte dello spazio davanti a lei era occupato da un grosso baule di legno e alcune cappelliere.
In un angolo c’era il mio bagaglio, uno zaino con dentro cibo, acqua, della corda, un acciarino, tre maglie pesanti e tre paia di mutandoni di lana. Le ultime due cose ce le aveva messe lei mentre non guardavo.
«Forse hai portato troppa roba per un viaggio di tre giorni», mi arrischiai a commentare.
«Non si può mai sapere».
Avrei voluto chiedere cosa, ma, conoscendo la mamma, sarebbe stato tentare troppo la sorte, perciò tornai a prestare la mia attenzione al macilento cavallo che si ostinava a cercare di cambiare direzione ogni volta che mi distraevo.
«Sembra che il fiume proprio non gli piaccia», mormorai tra me.
«Forse è il rumore che lo spaventa», disse la mamma. In effetti già da un po’ riuscivamo a sentire lo scroscio delle acque impetuose. «Quando eri piccolo avevi paura dell’acqua che usciva dalla pompa dietro casa, ogni volta che l’azionavo ti nascondevi sotto il letto».
«Mamma... avevo due anni».
«E tu che ne sai di quanti anni ha quel povero cavallo?»
Prima che potessi rispondere, il povero cavallo decise di fermarsi a una biforcazione.
Un cartello piantato proprio nel mezzo della strada recitava “Fiume dei sogni infranti”. Due frecce in direzioni opposte indicavano “Ponte di Mezzo” e “Ponte dei Suicidi”.
«Che allegria!» non riuscii a evitare di esclamare.
Cercai di convincere il cavallo a girare a sinistra, ma venni bloccato da uno scappellotto alla nuca.
Mi voltai di scatto. Mamma non sembrava essersi mossa.
«Dall’altra parte, scemo!» mi intimò.
«Non voglio andare al ponte dei suicidi», protestai.
«È il più vicino, non vedi?»
Sporgendomi dalla cassetta, notai che in effetti il ponte era grossomodo visibile nella bruma. Dell’altro, nella direzione opposta, non vi era traccia.
«Va bene, vorrà dire che ci metteremo un po’ di più».
«Non dire eresie, vai a destra e attraversiamo quel ponte».
«No, mamma, assolutamente no!»

***

Il ponte dei suicidi sembrava immerso nella nebbia, sebbene non ve ne fosse stata altrove lungo la strada. Era ricoperto di rampicanti che gli davano un aspetto quasi romantico, e non sarebbe di sicuro apparso così tetro se non fosse stato per l’omino in piedi sulla balaustra, intento a guardare di sotto.
Fermando il cavallo, senza troppo sforzo visto che era già quasi fermo di suo, saltai giù dalla carrozza e mi lanciai verso l’aspirante suicida, stringendogli le braccia attorno alle gambe e sollevandolo di peso.
«Ma sei impazzito!» protestò questi, agitando le braccia come le pale di un mulino a vento. «Per poco non mi facevi cadere di sotto! Cosa sei, un maniaco?»
Confuso, lo depositai sulla campata del ponte.
«Ma, non stavi per buttarti di sotto?»
«Assolutamente no! Chi ti ha messo in testa un’assurdità del genere?»
«Ma io... il ponte... la balaustra...»
«Stavo misurando l’altezza dalle rocce. E mi hai anche fatto cadere il filo a piombo!»
«Non si preoccupi, glielo recupera lui», disse mamma da dietro le mie spalle. Non l’avevo vista scendere dalla carrozza.
«Ah... certo...» dissi, affacciandomi e cercando di capire dove potesse essere finito il filo. Sotto di me non vedevo altro che rocce aguzze e acqua turbinante. «Ma perché?»
«Perché tu gliel’hai fatto cadere e tu devi riprenderlo», ribatté mamma con un’occhiataccia.
«Sì. No. Volevo dire... perché stava misurando l’altezza dalle rocce?»
«Perché dobbiamo rispettare degli standard, che cosa credi? Serve un’altezza minima garantita per evitare che i potenziali suicidi si facciano male».
«Ma... sono suicidi, vogliono morire...»
«Morire sì, ma non farsi male. Se l’altezza è insufficiente c’è il rischio che sopravvivano, e non hai idea di quanti risarcimenti ci toccherebbe pagare. Non puoi costruire un ponte dei suicidi da cui non si riesce a suicidarsi, è pubblicità ingannevole».
Aprii la bocca per replicare, ma mi resi conto che non sapevo cosa dire.
«Come scendo di sotto?» chiesi infine?
L’omino mi indicò un cartello a stento visibile nella nebbia. Aveva una freccia che puntava verso il basso e recitava “scala dei secondi tentativi”.
«Speriamo sempre che ci riprovino prima di chiamare l’avvocato», precisò.
Senza degnarlo di risposta, scavalcai con attenzione la balaustra e mi avventurai lungo la scala a pioli. All’apparenza era stretta, scomoda e sdrucciolevole, ma si rivelò invece piuttosto salda e agevole. Come se mi avesse letto nel pensiero, l’ometto si affacciò per dirmi: «L’ultima cosa che vogliamo è che qualcuno scivoli dalla scala e si rompa una gamba mentre tenta di tornare su per ammazzarsi meglio».
Arrivato al fondo, misi un piede nell’acqua gelida e per poco non ne venni trascinato via. La corrente era impetuosa e le rocce sul fondo talmente levigate da non potervi stare sopra in piedi senza scivolare.
Passai un braccio attorno a un piolo della scala per tenermi e mi sporsi quanto più potevo verso l’acqua. Al di là della spuma era alquanto limpida, ma del filo a piombo non vi era traccia alcuna.
«Non lo vedo!» esclamai, urlando per farmi sentire oltre il rumore della corrente.
«Ah, non importa», rispose l’ometto. «Ne ho un altro».
A quelle parole, mi voltai verso di lui con tanto impeto che il ginocchio, l’altro, mi cedette per un istante e mi ritrovai a cadere come un sacco di patate. Il braccio si sfilò dalla posizione di ancoraggio e, prima di poter capire cosa stesse accadendo, fui afferrato dalla corrente e trascinato lontano dal ponte.
Cercai di nuotare, agitando le braccia come un ossesso, ma il meglio che riuscii a fare fu tenere la testa fuori dall’acqua, che non per questo evitò di finirmi nel naso e in gola. Rivolsi un ultimo sguardo al ponte, sperando di vedere mamma prima di morire, ma scoprii con disappunto che non c’era più.

***

Il sole era basso sull’orizzonte e tingeva il cielo di sfumature arancio e porpora. Sentivo non lontano lo scoppiettio di un fuoco, e un odore dolce e speziato mi solleticava le narici.
Ero sdraiato sul una coltre di erba soffice e avevo addosso una coperta fatta a mano. Lo sapevo perché era quella che stava sul mio letto fin da quando avevo cinque anni, e l’avrei riconosciuta ovunque anche solo al tatto.
Voltai la testa in direzione del fuoco.
«Mamma?» esclamai quando la vidi intenta ad armeggiare con almeno sei pentole di varie dimensioni.
«Ti ho preparato il tuo piatto preferito, daino speziato», mi disse lei imperterrita. «Sarai esausto dopo quella nuotata».
«Ma...» attaccai, incerto su che cosa chiedere. Alla fine optai per: «... sei pentole per fare del daino arrosto?»
«Non dire eresie, quelle sono per lo stufato, i contorni e il dessert», sentenziò lei.
Mi guardai attorno.
«La carrozza?»
«È rimasta al ponte, il cavallo non voleva saperne di seguire il fiume».
«E come...» Sei arrivata qui? Hai portato le pentole? Hai trovato del daino? Quelle e altre domande mi si affollavano nella mente, ma dalla mia bocca uscì solo «... stai?»
«Bene, grazie, perché?»
«No... così...»
«Ora mangia. Devi rimetterti in forze, appena lavati i piatti dobbiamo partire per la foresta delle vane speranze».
«Ma siamo lontani dal ponte».
«Non importa, siamo già sull’altra sponda».
«E si sta facendo notte».
«Hai di nuovo paura del buio? Pensavo ti fosse passata».
«No, mamma, è che...»
«Ricordo quando da piccolo non volevi mai dormire con la candela spenta».
«Sì, mamma, ma...»
«E appena ti lasciavo correvi nella mia stanza e ti nascondevi sotto il letto».
«Va bene, mamma, ma...»
«Che poi non ho mai capito che senso avesse, visto che anche là sotto era buio».
«Si però...» Quest’ultima frase non venne interrotta da una sua ulteriore spiegazione ma da un cucchiaio di stufato che mi si materializzò dentro la bocca, e che per poco non finii per masticare cucchiaio e tutto.
Deglutii.
«Viaggiare di notte è pericoloso!» riuscii a esclamare, schivando abilmente un pezzo di daino fumante.
«Non dire eresie, non c’è niente in giro di notte che non ci sia anche di giorno».
«Uh, beh, munch...» dissi addentando senza volerlo una pannocchia imburrata, «veramente sì: banditi, animali notturni, spettri, tagliagole, amanti clandestini...»
«Oh, per amor degli dei!» esclamò lei arrossendo. Sapevo che l’ultima voce dell’elenco avrebbe fatto effetto. «Ma non andranno certo in giro a fare le loro cose in una foresta forse anche infestata!»
«A maggior ragione, quale posto più discreto?» rincarai la dose.
Lei si raddrizzò, puntando lo sguardo all’orizzonte.
«Non importa, partiremo ugualmente e se sarà il caso li affronteremo!»
Sospirai. Non potevo lasciargliela vincere anche questa volta. «No, mamma», dissi, «assolutamente no!»

***

Pochi luoghi al mondo sono più tetri di una foresta di notte. La luna crea giochi d’ombra tra le fronde e ogni movimento, anche quello delle foglie spostate dal vento, sembra accennare a una minaccia nascosta tra i cespugli, pronta ad aggredirti non appena abbasserai la guardia.
I lugubri versi dei rapaci notturni facevano eco a ogni mio passo mentre cercavo di non inciampare nei sassi e nelle radici che costellavano il sottobosco. Mamma mi veniva dietro sicura come se avesse conosciuto la strada a memoria, cosa resa ancor più improbabile dal fatto che non vi fosse alcuna strada tra la fitta vegetazione.
«Non so neanche se sia la direzione giusta», mormorai a voce bassa, forse temendo inconsciamente di disturbare... o risvegliare... qualche abitante della foresta.
«Stai tranquillo, ci fermeremo a chiedere indicazioni».
In effetti, mi fermai. Di botto. E feci un immediato dietro front. Tanto immediato che non mi avvidi dell’albero che avevo accanto e lo presi in pieno col ginocchio che ormai tanto buono più non era.
«Aaahhh chi?» chiesi.
«Alla prima persona che incontriamo, non mi sembra il caso di essere schizzinosi».
«Mamma... siamo in una foresta in piena notte, non c’è anima...»
Non finii la frase perché un omino alto forse un metro e un tappo sbucò in quel momento da dietro un cespuglio e ci passò accanto brontolando, senza degnarci della pur minima attenzione.
Al buio somigliava sospettosamente al misuratore di suicidi.
«Giovanotto!» lo apostrofò subito mamma. «Sai dirci da dove si va alla caverna delle anime perdute?»
Lui si fermò, si voltò e ci guardò come se si fosse accorto solo in quel momento della nostra presenza. Aprì la bocca come per rispondere... e scoppiò a piangere.
Mamma entrò subito in modalità consolatoria: poggiò il bastone a un tronco, abbracciò l‘omino, lasciò che gli poggiasse la testa su una spalla e gli diede piccole pacche sulla schiena.
«Io... speravo che... mi amasse...» mugolò lui tra un singulto e l’altro. «Volevo... dichiararmi... speravo...»
Imbarazzato, voltai loro le spalle e mi inoltrai nella foresta.
Avevo fatto solo pochi passi quando un fruscio alla mia sinistra reclamò la mia attenzione. Mi preparai allo scontro con qualunque bestia feroce potesse esserci tra i cespugli ma, guardando meglio, scorsi solo una ragazza discinta seduta in terra.
«Va... tutto bene?» le chiesi, sperando che al buio non si vedesse che ero arrossito.
«No!» mi urlò contro lei, facendomi balzare all’indietro per la sorpresa. No, non per lo spavento, sorpresa ho detto.
«Posso...?» azzardai, senza sapere bene cosa avrei dovuto poter.
«Speravo che fosse un vero uomo, uno di quelli che non devono chiedere mai!» strepitò lei. «Invece viene fuori che è un romantico mollaccione».
La guardai senza parlare. Mi sembrava di iniziare a notare uno schema nella vicenda.
Lei si alzò, scoprendo ancor più pelle di quanta già non ne avessi vista.
«Speravo che sapesse cosa fare», reiterò, cominciando a guardarmi con lo sguardo che di solito riservavo alla torta di zucca e carciofi della mamma. «Però...»
«No», dissi in tono gentile.
«Magari posso sperare...?»
«No, no, mi sembra davvero una pessima idea», ribadii.
Lei mi parve più confusa che delusa, ma vista la poca luce avrebbe anche potuto essere costipata in effetti.
«Perché no...?» mi chiese, avvicinandosi un po’ più di quanto mi fosse congeniale.
«Perché... siamo nella foresta delle vane speranze, non si può sperare qualcosa senza che sia vano... voglio dire, non possono fare una foresta delle vane speranze in cui le speranze non siano vane, sarebbe pubblicità ingannevole».
«Ma che razza di idiozie stai dicendo?» sbraitò lei. «Sei peggio di quell’altro!»
«Mamma!»
«Figurati, pure mammone!»
«Mamma, dobbiamo andare!»
«Un momento, caro, finisco di consolare Floberto e arrivo».
“Floberto?” pensai. «Mamma, sono amanti clandestini», dissi, sperando di smuoverla.
«Clandestino ci sarai tu!» mi urlò invece contro la ragazza. «Io sono nata e cresciuta a un chilometro da qui!»
«Ma non intendevo...»
Non feci a tempo a finire la frase, che Floberto mi si era materializzato davanti.
«Come osi offendere la mia Pergiulia?!»
“Pergiulia?” pensai. «Ma non ho...»
«Scusati immediatamente o ti prenderò a pugni!» insistette lui.
Lo guardai. «Va bene».
Mi guardò.
Lo guardai.
Mi guardò. «Allora?»
«Allora cosa?» chiesi.
«Hai detto va bene, scusati».
«Ah! No, no, intendevo, “va bene, prendimi a pugni”», spiegai.
Mi guardò. «A calci va bene lo stesso?»
Mi strinsi nelle spalle. «Va bene, però evita le ginocchia, gentilmente. E i testicoli».
Solo a sentirmelo dire fece una smorfia e alzò le mani. «Non serviva dirlo».
Prese la rincorsa e mi sferrò un calcio a uno stinco. Poi si afferrò il piede tra le mani e iniziò a saltellare sull’altro.
«Speravo che così non mi sarei fatto male», piagnucolò.
«Sì, beh, immaginavo», commentai.
«Oh Floberto!» si intromise Pergiulia lanciandogli le braccia al collo, col risultato di farlo cadere tra i cespugli e finirgli addosso. «Sei stato così coraggioso, così impetuoso, così maschio...!»
«Oh Pergiulia! Ma allora mi vuoi, io non ci speravo più!»
«Si beh, ovvio», commentai, facendo cenno alla mamma di seguirmi mentre riprendevo la strada. Entrambi facemmo del nostro meglio per ignorare i mugolii che provenivano dalle nostre spalle.
«Sai,» dissi a voce alta quando fummo abbastanza lontani da non sentire più nulla, «spero davvero che non riusciremo mai a uscire da questa foresta e arrivare alla caverna delle anime perdute».
«Non dire eresie...» attaccò mamma, «io...» Ma tacque quando, svoltando attorno a un albero, ci ritrovammo fuori dalla vegetazione, di fronte a una collinetta, nel cui fianco si apriva un varco dall’aria minacciosa.
Mi voltai e le sorrisi. «Credo che siamo arrivati».

***

Impiegammo solo pochi minuti a percorrere il tratto che ci separava dalla caverna. Non avevo dubbi che fosse proprio quella che cercavo, anche perché era chiaramente scritto su un cartello posto proprio davanti all’ingresso.
Evitai di chiedermi il perché del nome.
Presa una torcia dallo zaino, che mamma si era premurata di portarsi dietro, la accesi e mi inoltrai nello spazio buio. Accanto all’ingresso, la torcia illuminò una statua a grandezza naturale di un valletto di corte.
“Curioso”, pensai.
«Le donne non possono entrare» disse di colpo la statua, facendomi saltare per la sorpresa. No, non per lo spavento!
«E perché?» protestò la mamma.
«Non lo so, signora, io devo solo dirlo», rispose la statua con una strana espressione sul volto.
«Non dire eresie!» protestò la mamma, e fece per venirmi dietro, ma si fermò sulla soglia. Vidi che cercava di avanzare, ma senza successo.
«Le donne non possono entrare», ripeté la statua.
«Credo ci sia una barriera magica», azzardai. «Non preoccuparti, vado e torno».
«Fai attenzione», mi disse lei. Annuii.
Feci un altro passo, soffermandomi a guardare la statua. Con la scusa di esaminarla meglio, mi avvicinai e mormorai: «Dimmi la verità, perché le donne non possono entrare?»
Rifece l’espressione strana, ma mi sussurrò: «È la caverna delle anime perdute».
«E allora?»
«Chiedono indicazioni! È barare!»
«Ah, giusto», mormorai. Mi fermai un attimo a pensare, poi aprii lo zaino e ne presi una delle maglie di lana. Strappai un filo coi denti, e lo legai a una gamba della statua, poi alzai lo sguardo verso il suo viso in una domanda muta.
«Nel regolamento non c’è scritto niente in merito», mi rassicurò.
Tranquillizzato, mi inoltrai nella caverna, con la maglia che si sfilava lungo la via.
Mi ero aspettato un labirinto, ma in realtà la caverna proseguiva quasi sempre dritta, con ben poche, chiare svolte, segnate da statue che non mi rivolsero la parola. Non mi sorpresi più di tanto.
Dopo aver girovagato un po’, mi ritrovai in una stanza circolare. Al centro era disposta un’enorme incudine nella quale era conficcata una spada dall’aspetto in realtà alquanto ordinario.
La esaminai con attenzione.
Non sembrava che ci fossero trappole o strani congegni. Dovevo solo sperare che non ci fosse all’opera qualche bizzarro incantesimo.
Feci un profondo respiro, afferrai l’impugnatura dell’arma con entrambe le mani e la sollevai con forza. Si sfilò dal ferro senza opporre la minima resistenza, tanto che mi ritrovai sbilanciato all’indietro. Per evitare di cadere, mi gettai in avanti, dando una sonora ginocchiata all’incudine.
«AHIA!» urlai. Almeno stavolta non c’era nessuno a sentirmi.
Quasi non riuscivo a credere di avere la spada tra le mani. La sollevai verso il soffitto della caverna in un gesto di trionfo... e immediatamente la lama si afflosciò come fosse stata fatta di stagnola.
«Non preoccuparti, sono cose che succedono», disse una voce alle mie spalle.
«Mamma!» esclamai voltandomi. «Ma come hai fatto a entrare?»
Lei mi mostrò orgogliosa una scopa e uno straccio venuti fuori da chissà dove. «Ho detto che ero la donna delle pulizie».

***

Seguimmo il filo fino all’uscita, facendo molte più svolte di quante ne avessi fatte entrando. Quando, una volta fuori, mamma mi porse la maglia di lana perfettamente intatta, mi rifiutai di fare domande.
Anche perché mi ero appena reso conto di non avere idea di dove fosse il castello grigio. Mi ritrovavo un una situazione senza via d’uscita.
Trassi un profondo respiro, preparandomi a ricorrere a qualcosa a cui mai avrei voluto dover ricorrere.
Mi affacciai all’ingresso, rivolgendomi alla statua. «Scusa, non è che sapresti da che parte è il castello grigio?»
La statua spalancò gli occhi al punto che temetti le sarebbero rotolati via, aprì la bocca ed emise un urlo lancinante, tale che dal soffitto della caverna si staccarono delle stalattiti, che caddero in terra infrangendosi.
«ANDAAAATEEEEE VIAAAAAA!» urlò strascicando le vocali.
Poi si ricompose. «Comunque è proprio qui in cima alla collina, svolta a sinistra e poi segui le indicazioni per Casadeimatti, non ti puoi sbagliare».

***

Risalimmo la collina lungo un sentiero scosceso, impiegando molto tempo dato che la mamma aveva difficoltà a inerpicarvisi ma si rifiutò categoricamente di farsi trasportare in braccio.
Già da metà strada riuscimmo a vedere il castello grigio che torreggiava sopra di noi. Mi ero atteso un edificio tetro e lugubre, invece era quasi allegro, con pennacchi rosa sulle torri e fiori sui davanzali delle finestre.
Quando arrivammo, trovammo il ponte levatoio abbassato e la grata alzata.
«È inquietante» dissi.
«Saranno molto ospitali» disse mamma.
«Ma così potrebbe entrare chiunque», obiettai.
«Avranno un cane da guardia».
«Ma mamma, cosa potrebbe fare un cane se arrivassero dei soldati armati?» domandai.
«BAU», rispose il cane.
Mi voltai. Davanti a me c’era una creaturina non più grossa della mia mano, un batuffolo di pelo bianco panna da cui a stento spuntava un adorabile musetto.
«Ma che...?» dissi.
«BAU», ripeté il cane, il cui volume acustico era inversamente proporzionale alle dimensioni.
Rimasi a fissarlo.
Lui roteò gli occhi.
«Ho detto “BAU”, non mi sembra poi così difficile da capire», disse stizzito.
«Ma è proprio che non avresti dovuto “dirlo”», protestai. «Va bene, non importa...» Feci per avviarmi ma il batuffolo si piantò sulla mia strada.
«GRRRR», disse.
Alzai gli occhi al cielo. «No ma, sul serio, così non va bene, già non fai paura, ma se poi parli per onomatopee invece di emettere suoni...»
Non finii la frase, perché di punto in bianco il batuffolo prese a gonfiarsi come se avesse fatto una brutta indigestione e, in un batter d’occhi, divenne grande abbastanza da occupare l’intero cortile. Non solo, in qualche modo nel crescere aveva perso il pelo in eccesso e adesso assomigliava a un mastino invernale. Sì, inVernale, continuava a essere bianco e soffice dopo tutto.
Lo vidi prepararsi a saltarmi addosso ma, prima che potessi fare qualcosa, una serie di bastonate gli si stava abbattendo sul naso rosa.
«Cane cattivo! Cane Cattivo!» esclamava la mamma, continuando a picchiarlo con foga mentre io cercavo di ricordare quando mi fosse passata davanti e da quando riuscisse a stare dritta e usare il bastone come una mazza da guerra.
«Signora, ma...» protestava inutilmente il mastino, senza riuscire a sottrarsi alla gragnola di colpi.
Poi di botto tornò alle dimensioni originali e scoppiò a piangere. «Così mi fa maale!»
La mamma si immobilizzò, coi lucciconi agli occhi e il bastone a mezz’aria. Si inginocchiò ad accarezzare il cucciolo con intento consolatorio e fu allora che quello tornò enorme, facendola cadere e fermandola in terra con una zampa.
Istintivamente sollevai la spada, che subito si afflosciò come la prima volta.
Alzai gli occhi al cielo.
E fu allora che vidi la ragazza affacciata al balcone.
«Oh, la mia spada!» esclamò questa, calandosi giù agilmente lungo un rampicante.
«La tua spada?» chiesi.
«La tua spada?» chiese il cane.
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Ma certo, la mia spada!» disse la ragazza, avvicinandosi e tendendo una mano. «Credevo non l’avrei più rivista! È stata creata per me anni fa, e incantata perché solo io potessi usarla».
Già che non sapevo cosa farmene, le porsi l’arma. Appena la impugnò, si raddrizzò di scatto.
«Ora capisco perché nelle mie mani facesse così», commentai.
Lei mi guardò. «Ah, no, non l’ha mai fatto prima, deve essere perché ti trova deprimente».
«La mia schiena!» protestò la mamma.
«Fuffi, lasciala», disse la ragazza.
«No, no, va benissimo, non me la sentivo così dritta da secoli, spostati solo un po’ più a destra».
«Ma quindi...» mi intromisi «se non posso usare la spada, come faccio a sconfiggere l’oscurità strisciante?»
«Tu...?» disse il cane incredulo.
«L’ha detto la veggente cieca», spiegai.
La mamma si mise a ridere. La guardai storto.
«La veggente non è cieca, è strabica e si vergogna a farlo vedere, e poi non ha detto così», asserì.
«Ha detto che solo la spada della luna poteva... ah», lasciai la frase in sospeso, rendendomi conto di ciò che stavo per dire.
«Venite, è quasi ora», disse la ragazza.
«Io resto qui se non vi dispiace», replicò la mamma. «Giusto un mezzo centimetro più giù», aggiunse rivolta a Fuffi.
Seguii la padrona di casa fino ai sotterranei del castello, arredati con una mobilia un po’ frivola ma di gusto. Ci fermammo davanti a quella che sembrava una tana di topi, di quelle curiosamente a forma di arco che si vedevano nei disegni umoristici.
Anche se all’interno non vi era luce, riuscivo a vedere con chiarezza qualcosa di più scuro dell’oscurità che si avvicinava molto lentamente al varco, provenendo da dentro il muro.
La ragazza poggiò la lama davanti al buco.
La cosa oscura emerse per un centimetro o due, vide la spada, vi si specchiò, rimase un attimo come interdetta e poi tornò indietro nel buco.
«E quella cos’era?» domandai attonito.
«L’oscurità strisciante», rispose la ragazza.
«Ma come, tutto lì?»
«Si, perché?»
«Non so, non sembrava pericolosa».
«E chi ha detto che fosse pericolosa?» chiese lei stupita.
«La...» iniziai a dire, ma non andai oltre: in effetti non l’aveva detto nessuno.
«Quindi se non avessi portato in tempo la spada e fosse uscita...»
«Ah, non sarebbe uscita, le avrei detto di ripassare domani come sempre. Ma sono molto contenta che tu mi abbia riportato la spada, sei stato un eroe. Ti fermi a cena?»
Mi guardai attorno. Mi ero messo in viaggio per trovare un’arma potente che mi avrebbe aiutato a sconfiggere un orribile mostro, e mi ritrovavo in un castello un po’ frou frou con un cane massaggiatore che non sapeva abbaiare, una bella ragazza che raddrizzava le spade afflosciate e un invito a cena.
Scossi la testa.
«No», risposi. «Assolutamente no».
 
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view post Posted on 23/8/2017, 11:37
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"Ecate, figlia mia..."

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Complimenti a CMT.

Colgo l'occasione per ringraziare per le letture e i commenti (già salvati per consultazioni future) :1392239841.gif:
 
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view post Posted on 26/8/2017, 19:10

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Ciao CMT, ho trovato il tuo racconto davvero spassoso e ho gustato anche la scena del Ponte dei Suicidi. Complimenti.

Ciao Reiuky, sì, ho deciso di riprendere il racconto e di migliorarlo, rendendolo meno onirico (devo lavorare molto sulla verosimiglianza). Sono contenta che tu ci abbia trovato comunque del buono.
 
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67 replies since 25/6/2017, 20:20   1009 views
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