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Skannatoio Novembre-Dicemre 2018, Un connubio di gatti e frasi fatte

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alsan90
view post Posted on 18/11/2018, 23:52 by: alsan90

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IL CANE NERO

Io non sono pazzo! Ve lo giuro! Se avrete la pazienza di ascoltare da me come si sono svolti i fatti, e sentire con quanta precisione e lucidità vi racconterò cos’ho visto e sentito, allora non potrete che definirmi sano di mente.
Tutto cominciò quando fecero uno scavo davanti all’entrata della stradina che portava a casa mia. Si era rotto un tubo di qualcosa, forse della fogna o dell’acquedotto; fatto sta che non potevo più raggiungere la mia casa con la macchina ed ero costretto ad andare a piedi.
La stradina era lunga all’incirca trecento metri e da un lato era costeggiata da una piccola boscaglia: un ultimo avamposto della natura sopravvissuto in quel deserto di cemento che era la periferia cittadina. Dall’altro lato invece, subito prima di casa mia, c’era una casa abbandonata e in rovina da molti anni. Era di proprietà di una coppia di anziani che abitava lì quando ero bambino, ma che dopo la loro morte, non venne più abitata o reclamata da nessuno. Con il passare degli anni divenne un rudere che il comune non poteva abbattere per colpa della sua stessa burocrazia. Presumo fosse una vecchia cascina, costituita dall’abitazione vera e propria e da un vasto cortile che la separava dalle stalle e dal fienile; quest’ultimo era piuttosto ampio ed era l’edificio più alto della cascina. Di per sé la casa non rappresentò mai un problema, ma fu quello che c’era dentro che mi portò a fare quello che ho fatto.
Per fare la guardia alla loro proprietà, i vecchi vicini avevano un cane. Credo fosse una specie di incrocio tra un mastino e un labrador, era di dimensioni enormi, almeno per me che ero un bambino, reso ancora più spaventoso dalla sua indole aggressiva e dal suo colore completamente nero. Aveva la sua cuccia vicino alla porta del fienile e l’entrata era rivolta verso il cancello della cascina, cosicché, se questo era aperto, passando dalla strada lo si poteva vedere affacciarsi e ringhiare.
Una volta da bambino, mentre tornavo da scuola, notai che il cancello dei miei vicini era aperto a metà. Quando gli passai davanti, vidi quel cane uscire dalla sua cuccia e abbaiarmi contro, ma quello che mi terrorizzò di più fu il vedere che non era legato alla sua catena. Paralizzato dalla paura, lo vidi avvicinarsi lentamente, fissandomi insistente con la bava biancastra che gli colava dai lati della bocca. Mi guardai attorno ma non vidi nessuno dei miei vicini nei paraggi. Il cane si avvicinava sempre di più, ora solo più ringhiando sommesso. Poi qualcosa dentro di me scattò e all’improvviso mi misi a correre all’impazzata verso casa mia. Lo sentivo abbaiare furioso mentre mi inseguiva e la ghiaia di quel vialetto scricchiolava sotto il suo peso. A meno di dieci metri da casa mia, mi aveva quasi raggiunto. Potevo percepire il suo alito sui miei polpacci e lo schiocco delle sue fauci quando si chiudevano di scatto cercando di addentarli. Con le lacrime che mi offuscavano la vista, mi buttai sulla porta d’ingresso e la richiusi così in fretta che il cane ci sbatté contro. Abbaiò furioso per qualche secondo poi lo sentii andarsene. Ancora sconvolto raccontai tutto ai miei genitori e ottenni le scuse dai vicini che da quel giorno tennero sempre chiuso il cancello e quel maledetto cane non lo rividi mai più. Fino a qualche giorno fa.
Come ho detto all’inizio, a causa dei lavori di manutenzione delle tubature, ero costretto a parcheggiare la macchina lungo la strada principale e percorrere a piedi, come quando ero bambino, il vialetto che conduceva a casa mia. Da un paio di giorni era scattata l’ora solare, ed era quasi buio quando passai davanti a quella vecchia cascina. In macchina si notava poco il degrado in cui era piombata, i rampicanti avevano coperto tutto il muro perimetrale e la facciata degli edifici al suo interno. La porta d’ingresso dell’abitazione non esisteva più e le persiane di legno marcio si stavano staccando dai cardini lasciando intravedere le finestre buie e sporche. Il cancello divorato dalla ruggine e dalle intemperie era spalancato e anch’esso in parte aggredito dalle erbacce. Lanciai un’occhiata al cortile, il disordine e lo sfacelo facevano da padroni. Solo un elemento era rimasto invariato nel tempo: la cuccia di quel cane. Era nello stesso identico posto di quando ero bambino, sembrava anche nelle stesse condizioni in quanto nessuna pianta o altro elemento l’aveva sfiorata. Restai ancora un attiamo a guardare quell’edificio nel pallido chiarore del tramonto autunnale, quando una strana e immotivata sensazione di essere osservato, si fece strada nella mia testa. Eppure non c’era anima viva nelle vicinanze, il rumore del traffico cittadino era lontano e lì intorno regnava il silenzio più assoluto. Un po’ nervoso ripresi il cammino verso casa, ma prima di voltarmi con la coda dell’occhio vidi una macchia scura uscire dalla cuccia. Quando guardai meglio, però, non vidi niente. Turbato mi affrettai lungo il vialetto, ma, di nuovo, quando avevo già aperto la porta di casa mia e lanciai un’ultima occhiata alla stradina, mi sembrò di vedere una sagoma simile a quella di un cane dove mi ero fermato poco prima. Anche questa volta, quando strizzai di più gli occhi, non vidi più niente e mi dissi che era soltanto una suggestione. Quella notte però faticai ad addormentarmi e quel poco di sonno che riuscì ad ottenere fu sconvolto da incubi orribili sul quel cane nero. Mi svegliai un paio di volte urlando, spaventando mia moglie che non era abituata a vedermi così agitato.
Il giorno dopo, alla luce del sole, ero più tranquillo. Ripassando davanti alla vecchia casa vidi il solito spettacolo di degrado, ma non ebbi più quella sensazione. Al lavoro le cose andavano male da un po’, il fatturato era crollato all’improvviso, l’azienda aveva messo in cassa integrazione metà del personale e nell’aria aleggiava lo spettro del licenziamento per “riduzione del personale”. Mi trattenni di più in ufficio per fare buona impressione ai capi, così, quando finalmente uscii, era buio pesto. Camminando verso casa, mi facevo luce con il cellullare a mo’ di torcia elettrica. Ancora immerso nei problemi di lavoro, sfrecciai davanti al cancello sfondato senza degnarlo di uno sguardo. Non lo avevo ancora alle spalle, quando sentii dietro di me un rumore sommesso e gutturale, che mi distolse dai miei pensieri di soprassalto. Mi voltai di scatto e venni subito colto da stupore e terrore. Dal cancello era spuntato un cane nero, non un cane qualsiasi, ma era esattamente quello che avevano i miei vicini. Ringhiava minaccioso come un tempo, avvicinandosi piano, con le fauci serrate e i denti in vista, dai quali colavano piccole gocce biancastre. Non volevo crederci. Non poteva essere davvero quel cane. Erano passati quanti anni? Venti? Trenta? No, impossibile. Nessun cane sopravvivrebbe per così tanto tempo. Eppure, vi giuro, vi giuro su me stesso, che era davvero lì davanti a me. Superato lo stupore e il terrore inziale, la scossa primordiale della paura mi fece voltare e correre più veloce che potevo verso casa. Il cane iniziò a inseguirmi. Potevo sentire i suoi latrati e la ghiaia scricchiolare sotto il peso del suo corpo, esattamente come quando ero bambino. Anche se questa volta avevo le gambe più lunghe, lo sentivo vicinissimo, talmente vicino che distinguevo il rumore delle fauci che si serravano quando tentava di azzannarmi. Il cuore mi batteva così violento e furioso che temetti di morire prima di raggiungere il mio cancello. Senza più respirare, feci gli ultimi dieci metri, poi mi buttai sulla maniglia e, in unico movimento, aprii la porta, entrai e richiusi. Sentii il cane sbatterci contro e latrare infuriato, graffiando il portoncino metallico. Prima che mi cedessero le gambe, diedi un giro di chiave alla serratura e poi crollai a terra, esausto e coperto di sudore con il cuore che sembrava volermi uscire dalla gola. Mia moglie, sentendo il frastuono che feci chiudendo così forte il portoncino, si affacciò alla finestra e vedendomi a terra, uscì di casa e mi raggiunse.
«Oddio caro, cosa ti è successo?» mi disse mentre mi aiutava ad alzarmi.
«Il cane! Il cane! È qua, qua fuori!» mi alzai in piedi e guardai oltre le sbarre del cancello ma non vidi niente.
«Quale cane?»
«Quello dei miei vecchi vicini, quella bestiaccia che mi ha quasi azzannato quando ero bambino!»
«Aaah ho capito, quello su cui fai ancora gli incubi.»
«Ma quali incubi!? Non lo hai sentito abbaiare? Mi ha inseguito fin qua davanti a casa.»
«Ma io... non ho sentito proprio niente tesoro.»
«Allora sei stata l’unica in tutta lo zona. Domani chiamo il canile, non posso rischiare di essere aggredito tutte le volte che torno a casa.»
L’indomani, in pausa caffè, telefonai al canile municipale che mandò i suoi operai a fare un sopralluogo il giorno stesso. Immaginate la mia sorpresa quando, parlando con l’accalappiacani, mi disse che non solo non avevano trovato nessun cane, ma neanche nessuna impronta, nessun pelo, escrementi, avanzi di cibo o qualsiasi altra cosa che potesse ricondurre alla presenza di un cane. Sbalordito, spiegai di nuovo e con più foga quello che mi era successo, arrabbiandomi e dando dell’incompetente a quell’uomo che continuava a volermi smentire. Furibondo, gli attaccai il telefono in faccia.
Il giorno seguente, di ritorno dal lavoro, si ripeté esattamente la stessa orribile esperienza della sera prima. Mia moglie però sembrava anche lei del parere dell’accalappiacani e litigammo. Per tutta quella settimana chiamai il canile pregandoli ed esigendo un loro intervento. Vennero ancora due volte poi non si fecero più vedere e mi intimarono di non telefonare più. Capii ben presto che quel stramaledetto cane, usciva dal cancello soltanto dopo il tramonto e ancora adesso non so spiegarmi il perché. Esasperato, iniziai a uscire sempre prima dal lavoro, utilizzando tutti i permessi di cui potevo disporre, adducendo con i capi e i colleghi le scuse più disparate, perché temevo che nessuno mi avrebbe creduto o mi avrebbero preso per pazzo. Questa situazione non piacque ai capi che iniziarono a vedere le mie uscite anticipate come scarsa volontà e attaccamento al lavoro. Sapevo che sarei finito di sicuro sulla lista nera di chi doveva essere licenziato, eppure iniziò a non importarmene più, così tanto era il terrore che provavo al pensiero di ritrovarmi ad essere inseguito da quel cane. Per puro miracolo non feci incidenti stradali, guidando come un pazzo nel rientro a casa. Volevo solo arrivare il più in fretta possibile, prima che facesse buio.
Gli incubi si ripresentarono più frequenti e una notte, intorno alle tre, dopo essermi svegliato di soprassalto, sentii un ululato ghiacciarmi il sangue nelle vene. Proveniva da sotto le finestre della camera da letto, così chiaro che per un attimo pensai di sognare ancora. Mi affacciai e lo vidi: più nero del buio in mezzo al vialetto che mi tormentava con i suoi versi infernali, come a volermi dire che prima o poi sarei finalmente stato suo. Svegliai mia moglie.
«Adesso lo senti?!»
«Ma cosa… io… io non sento niente.» non ci vidi più. Pensava che fossi stupido? Cosa credeva? Che mi fossi rincoglionito tutto di un colpo? Perché godeva a provocarmi in quel modo? Litigammo così furiosamente che andai a dormire sul divano, ma in realtà non chiusi occhio.
Qualche giorno dopo, appena arrivato al lavoro, venni convocato nell’ufficio del personale. Sapevo cosa volevano dirmi e non stetti neanche ad ascoltarli. Non mossi un muscolo quando mi dissero di prendere le mie cose di non farmi più vedere. Se furono stupidi da questa mia apatia, non lo notai. Quando raccontai tutto a mia moglie, mi sembrò sconvolta in modo esagerato e più cercavo di minimizzare e più lei se la prendeva.
«Se metessi lo stesso impegno, con cui ora ti scaldi tanto, per risolvere il problema con il cane, a quest’ora sarebbe tutto a posto.» lei smise di parlare all’improvviso e mi guardò come non mi aveva mai guardato prima. Non disse più una parola. Andai a farmi una lunga doccia fredda per distendere i nervi e quando uscii, c’era un biglietto sul suo cuscino. Non lo lessi fino in fondo, ma lo accartocciai e lo gettai via. In sostanza diceva che sarebbe stata da sua madre finché io non avrei ammesso di avere un problema e di accettare un aiuto. Non la rividi mai più.
Le notti seguenti furono un vero inferno, il cane mi tormentava costantemente con i suoi ululati e gli incubi si facevano sempre più spaventosi e reali. Non uscivo più di casa neanche di giorno per timore di incontrarlo. Poi una telefonata della banca mi diede il colpo di grazia: se non avessi provveduto a pagare le ultime rate del mutuo, mi avrebbero pignorato la casa. Fu la goccia finale. Quel cane mi stava portando via tutto quello che avevo. Non avevo altra via di uscita.
Quella notte, con le lacrime agli occhi e fuori di me, uscii in strada urlando all’impazzata, dopo aver preso un coltello da cucina e un grosso bastone.
«Dove sei? Esci fuori! È me che vuoi giusto? Allora facciamola finita una per tutte.»
Diedi un calcio a una metà del vecchio cancello che si staccò dai cardini e cadde a terra con fracasso. Poi entrai come una furia nel cortile degradato, ma del cane nemmeno l’ombra. Urali a squarciagola per richiamarlo, ma niente, sentii solo il silenzio più totale. Immobile, al buio e nel bel mezzo del cortile di quella casa in rovina, non riuscivo a sentire nient’altro che il rumore del mio cuore. Iniziai a perlustrare la zona facendomi luce con il cellullare e tenendo stretto il bastone. Guardai dentro la cuccia: niente. Guardai nel fienile: di nuovo niente. Neanche nella veccia abitazione dei miei vicini non c’era niente. Deluso e arrabbiato mi ripromisi di tornare la sera successiva. Mi stavo già incamminando verso il cancello, quando da un cespuglio di erbacce una macchia scura mi travolse facendomi cadere a terra. Il bastone mi sfuggì di mano e cadde poco lontano. Intontito mi misi a carponi e finalmente lo vidi. Era lì davanti a me che mi abbaiava addosso tutto il suo odio. Mi sollevai in piedi, pronto a battermi, ma mi resi subito conto di aver perso anche il coltello. Venni travolto dal panico come una secchiata di acqua gelida. Il cane mi bloccava l’unica via di uscita da quel cortile così mi voltai e corsi dentro al fienile. Il cane abbaiò selvaggio mentre mi prendeva dietro lungo le scale impolverate di quel vecchio edificio. Arrivai fino in cima al fienile e chiusi la botola che dava sulle scale. Sentii immediatamente il cane graffiare il legno marcio e capii che avevo poco tempo. Cercai come un forsennato qualche probabile arma lì attorno ma non trovai nient’altro che sporcizia. Il cane sfondò un’asse della botola e il suo muso spuntò dal pavimento, frantumandolo ancora di più. Quel fienile si apriva, per tutta la grandezza di una parete, sul cortile interno. Mi sporsi per valutarne l’altezza: erano circa quattro o cinque metri, avrei potuto buttarmi e con un po’ di fortuna non mi sarei rotto niente. Ma la gioia venne presto sostituita dalla disperazione quando notai che sotto di me, c’era una vecchia mietitrebbia con gli aculei arrugginiti. No, non potevo lanciarmi su di essa e sperare di sopravvivere. Ero in trappola.
All’improvviso il cane uscì dal pavimento con fragore di legno spezzato. Sembrava che il mio volergli sfuggire lo rendesse ancora più feroce e determinato, e soltanto a quel punto capii. Gli sorrisi sereno mentre si avventava su di me con le fauci spalancate. Feci due passi indietro, fin sull’orlo del pavimento, chiusi gli occhi e aprii le braccia afferrandolo al volo.
Mentre piombavamo entrambi verso la morte, riaprii gli occhi e, con la massima sorpresa, vidi che fra le mie braccia stavo stringendo nient’altro che aria.
 
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