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Skannatoio Settembre - Ottobre 2020, "Al cuore, Ramòn, al cuore!" Ma nessuno sentì.

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Marco S. Di Fonzo
view post Posted on 27/9/2020, 01:02 by: Marco S. Di Fonzo

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IL PEZZO MANCANTE

Alberto vide il lampo a ovest e cominciò a contare sulle dita: milleuno, milledue, milletre, millequattro… Tuono. Si avvicina, pensò, scuotendosi in un fremito. Si affrettò sull’antenna, perché l’ultima cosa che gli serviva era rimanere lì appeso e fumante come una falena tra le maglie di una trappola elettrica.
Dall'interno della stazione di servizio una voce sguaiata, che Alberto avrebbe riconosciuto tra mille, continuava a gridargli di sbrigarsi, o si sarebbero persi la partita. Alberto gli urlò di non mettergli fretta, che diamine, o oltre alla partita avrebbero finito con il dire addio anche all’ultimo benzinaio del paese. Maneggiò di nuovo il braccio della parabola e attese. Doveva funzionare, dopotutto i pezzi erano tutti lì al loro posto. Nessun bullone, nessuna vite persa chissà dove. Doveva funzionare e basta.
Era una considerazione doverosa ma rassicurante per Alberto Sartini, ossessionato com’era da tutto ciò a cui mancasse un pezzo. Toccò appena l’asta metallica, una volta, poi una seconda, come se scottasse; ne strofinò l’occhio all’estremità e... Immediato gli giunse da sotto un coro scomposto di “Grande Alby!” e di “Fermo così!”, più una manciata di allegre oscenità da quell’impiastro insistente di Sergio, al diavolo lui e quella sua maledetta voce sguaiata. Alberto scese la traballante scala d’alluminio – era un omone di quasi due metri – e tornò di sotto, borbottando un’imprecazione soddisfatta. Il segnale video era finalmente ripristinato. A Milano un giocatore con la maglia sporca di fango si apprestava a battere un calcio d’angolo, sotto una pioggia scrosciante. Minuto ventidue del primo tempo, punteggio di zero a zero. Sai che palle.
Gli ultimi clienti della giornata presero posto al bancone dell’Albyluna, il minimarket dell'unica stazione di servizio sul tratto della Provinciale 2/1 noto come “Braccio di Torredelmonte”. Alberto, proprietario e gestore dell’impianto, li aveva invitati quella sera per un giro di birre e patatine gratis. La pay-tv trasmetteva il derby Milan-Inter, fuori si era alzato il vento e l’inverno aveva l’aria di voler bruciare le tappe.
Alberto aveva chiuso le pompe e disattivato il self-service mezz’ora prima del solito, subito dopo che la Freemont di Sergio Malesi aveva varcato il passo di accesso e si era fermata sullo sterrata accanto all’officina. Per qualche minuto, quella sera, l’intero Braccio si era ritrovato al buio per un corto alla centralina pubblica, e le luci d’emergenza del minimarket AlbyLuna avevano brillato debolmente per centinaia di metri, come le ultime stelle visibili in quel cielo che andava gonfiandosi di pioggia. Alberto era quasi impazzito all’idea di rimanere senza corrente – un guasto, un fusibile bruciato, chissà dove recuperare il pezzo rotto, chissà quando – ma aveva cercato di non darlo a vedere; poi per fortuna la luce era tornata. Adesso era stata la volta dell’antenna, ma anche quell’imprevisto era stato risolto. Si domandò se avrebbe visto qualche macchina passare di lì.
Non c’erano altre strade tra la Statale 16 e il paese di Torredelmonte. Intorno all’AlbyLuna era tutto un susseguirsi di capannoni agricoli, interrotti qua e là da un supermercato, uno sfasciacarrozze e un’officina che negli anni Ottanta era stato un locale a luci rosse.
A Torredelmonte la mentalità dell’uomo di mondo era merce rara. I giovani avevano cominciato a togliere le tende da un pezzo, tranne quelli che erano cresciuti sotto i portici del bar centrale e ne occupavano i tavolini quando gli anziani, finito il loro turno di scopone, glielo consentivano. Qualcuno ogni tanto moriva, qualcun altro si ostinava a non farlo; al bancone si servivano caffè all’anice e il sabato sera si azzardava qualche cocktail per i ragazzi del posto, diretti alla movida della riviera, o da qualunque altra parte, lontano da lì, dove poter smaltire la noia senza vergogna.
Alberto era arrivato a Torre all'età di nove anni, e adesso che stava per compierne sessantatré era certo di non essersi ancora ambientato del tutto. Amava starsene rintanato nella stazione di servizio perché era tutto quello che gli restava, da quando aveva perso sua moglie, appena due anni prima, in un incidente stradale. Gli amici facevano a turno per trascinarlo fuori da lì, ma Alberto non voleva più cambiamenti: aveva avuto la sua occasione per rendersi conto che li odiava.
Alberto e Luna Sartini non avevano avuto figli, per libera scelta. Avevano passato entrambi i quaranta, prima di scoprirsi incapaci di fare a meno l'uno dell'altra, e il pensiero di un figlio cui non avrebbero avuto le energie di provvedere appariva loro come un esercizio di puro egoismo. Avevano condiviso il desiderio e la promessa di volersi semplicemente bene l'uno accanto all'altra, bastandosi a vicenda per tutto il resto del tempo che gli fosse toccato in sorte.
Dopo la morte di Luna, Alberto iniziò a passare intere giornate al minimarket, rimanendoci ben oltre l’orario di chiusura e a volte perfino di notte. Scoprì che non dover dividere le proprie esigenze tra un luogo e l’altro lo faceva sentire meglio. Così, messi insieme i pochi pezzi necessari, si ricavò un alloggio privato, inviolabile e invisibile da fuori, nel piccolo magazzino dietro il bancone dell'AlbyLuna.
Frank Castigliani, ex comandante dei vigili di Torredelmonte, gli aveva regalato, mesi prima, un piccolo televisore a schermo piatto, che lì dentro stava un amore. Alberto ci passava davanti ore e ore, quando il self-service era acceso; in breve tempo, si innamorò perdutamente di polizieschi e thriller americani. Conosceva tutto della scientifica di Las Vegas, sapeva benissimo che il quartier generale della CIA era a Langley, in uno stato chiamato Virginia, e aveva imparato che in America polizia e pompieri rispondevano allo stesso numero di telefono.
Che regalo gli aveva fatto Frank – si chiamava Piero, in realtà: il nomignolo gli derivava dalla straordinaria somiglianza, in gioventù, con Frank Sinatra. Lui era proprio il migliore di tutti.
Luna era morta nel giorno del compleanno di Frank, ed era una cosa di cui Alberto quasi si vergognava, come se quello che era successo fosse stata una sua responsabilità non soltanto perché Luna era morta sola, ma anche perché quella tragedia aveva impresso, in un modo o nell’altro, un marchio indelebile nell’esistenza dell’amico.
A Frank non importava nulla di quello, lo ripeteva sempre ad Alberto: la sua preoccupazione era sapere l’amico tutto solo a dormire in quella fredda stazione di servizio, dove nessuno lo avrebbe sentito se avesse avuto bisogno di aiuto nel bel mezzo della notte. Ma i miei ricordi mi servono qui, non da qualche altra parte, gli rispondeva Alberto picchiettandosi la fronte. E ne era convinto. I ricordi lo avrebbero sopraffatto se fosse rimasto tutto il giorno chiuso in casa, mentre là dietro, nel suo riparo personale, poteva in qualche modo governarli e tenercisi aggrappato come ad una zattera nel pieno della tempesta. La sua vita era andata in pezzi, ma i pezzi erano tutti lì in bella mostra; non si nascondevano in un cassetto, o nel profumo di una vestaglia dentro l’armadio, o in una scatola da scarpe sotto il letto.

Per tutto il tempo della partita Alberto lavò e asciugò nervosamente tazzine e bicchieri già puliti e asciutti, raccogliendo, di tanto in tanto, i tappi a corona delle bottiglie di birra e spingendoli con il pollice su quelle rimaste vuote. Diceva che era un modo come un altro per rimettere insieme tutti i pezzi che poteva; non era la prima volta che Frank lo vedeva fare una cosa del genere.
Dopo che Sergio se ne fu andato, Frank chiese ad Alberto se poteva rimanere ancora un po’ a fargli compagnia.
«Certo, mi farebbe piacere» gli rispose Alberto. E, dopo qualche secondo passato a rincorrere con lo sguardo un granello di polvere che danzava sul pavimento, aggiunse mestamente: «Domani è il tuo compleanno».
«Non ho nulla da festeggiare.»
«Lo so.»
Rimasero per un lungo momento a fissare ciascuno un punto indefinito davanti a sé, lasciando che pensieri e ricordi sovrastassero il silenzio di quello spazio angusto con i loro schiamazzi. Poi Alberto riprese a passare la pezza sempre negli stessi punti, con indolenza, mentre Frank cercò di distrarsi scorrendo con lo sguardo le copertine dei dischi dei Beatles – la musica era un’altra delle passioni di Alberto – che tappezzavano la parete dietro il bancone. Fuori, folate di pioggia e vento avevano cominciato a sferzare la vetrata del minimarket, facendola vibrare in un ticchettio sommesso.
Alberto fissava l'acqua che defluiva in rigagnoli irregolari dalla tettoia sopra l'impianto, il piazzale esterno e il passo d’accesso erano già per metà allagati. Il sottile strato d’acqua sull’asfalto, mosso dal vento, disegnava lunghi semicerchi che attraversavano l’impianto da un lato all’altro come onde di bassa marea sulla battigia.
«Che pezzo, vero?» disse Frank spezzando l’incantesimo e indicando il poster di Eleanor Rigby alle spalle di Alberto. «E come lo suonavano!»
Alberto annuì e poi rise, come se Frank avesse appena detto qualcosa di comico.
«Che c’è, si può sapere?»
«Niente, ma non sono così sicuro che ai Beatles avrebbero fatto piacere le tue parole.»
«Perché?»
«Perché nessuno di loro suona un solo strumento, in quella canzone.»
Frank arrossì e agitò la mano. «Va bene, va bene, l’esperto sei tu.»

Dieci minuti più tardi il temporale si era calmato, e aveva smesso di piovere. Frank si alzò e fece per chiudersi il cappotto.
«Ti accompagno a casa» disse Alberto.
«Dammi prima cinque minuti di godimento e andiamo… E poi te ne vai a casa tua anche tu. Promesso?»
Alberto scorse il pacchetto mezzo sgualcito di Pall Mall nella mano dell’amico e si strinse nelle spalle, con fare evasivo.
Non ricordava quand’era l’ultima volta che aveva visto Frank con una sigaretta tra le mani. «Quella da dove salta fuori?» Gli domandò.
Frank gli rivolse un’occhiata vivace. «Tu non dirlo a mia moglie.»
Alberto sorrise. Anche Frank era vedovo, e conosceva da più tempo di lui i trucchi del mestiere.
Quando Frank uscì nell’aria fredda, Alberto rimase per un attimo ad osservare la sua figura esile da podista, immaginando un fascio di nervi e tendini guizzanti sotto vestiti che cadevano sempre abbondanti. Non avrebbe avuto un’ultima immagine dell’amico da vivo.
Alberto spense per prima l'insegna, poi passò alle luci interne, nell'ordine che era abituato a seguire ogni sera. Il rombo di un tuono gli arrivò alle orecchie, più lontano dei precedenti, forse segno che il temporale andava esaurendosi da qualche parte.
Frank disse qualcosa che Alberto non capì, e all’improvviso il rombo diventò un ruggito orribile e un lampo di luce illuminò l’interno del minimarket, percorrendolo per tutta la sua lunghezza fino al punto in cui si trovava Alberto. Questi si voltò istintivamente, un attimo prima di vedere Frank, a pochi passi dalla porta a vetri del minimarket, che veniva inondato da una luce bianca e poi spazzato via da un qualche mostro di ferraglia e lamiera che gli piombava addosso. Il botto che ne seguì un secondo più tardi vibrò in tutto il minimarket, fin sotto i piedi di Alberto e da lì in ogni nervo del suo corpo.
Il mondo reale cominciò ad appannarsi e a sgretolarsi. L’uomo ossessionato dalle cose che andavano in pezzi rimase immobile con le chiavi del quadro elettrico nella mano tremante, mentre un’espressione di angoscia, sopita da mesi e ora di nuovo traboccante, gli faceva sobbalzare gli angoli della bocca. Passato e presente si avvolsero l’uno nell’altro in un vortice indistinto e Alberto Sartini balzò fuori dal minimarket urlando disperatamente il nome di sua moglie Luna.
Di colpo fuori fu giorno. Alberto non si trovava più nello spiazzo dell’AlbyLuna ma in una strada di campagna, esattamente due anni prima. Era appena sceso dalla macchina, c’era una coda. Davanti a loro qualcosa ostruiva il traffico.
Scorse dei lampeggianti, poi riconobbe Frank che gli correva incontro; aveva un aspetto stravolto. Gli stava urlando di rimanere fermo, che c’era stato un grosso incidente più avanti ed era pericoloso uscire dalle macchine perché stava per arrivare l’ambulanza. Solo che aveva gli occhi lucidi mentre gli parlava. Stronzate, avrebbe voluto rispondergli Alberto. L’ambulanza è già lì davanti, riesco a vederla. Frank non riuscì a trattenere un gemito e le sue braccia deboli non furono in grado di bloccare Alberto, il quale avanzò a piedi per vedere chi fosse la persona che caricavano nell’ambulanza.
E di nuovo fu novembre. L’AlbyLuna. La sera della partita.
Alberto mosse passi lenti e incerti sull’asfalto viscido, sul quale danzava il riflesso tremulo delle luci rosse degli stop di una grossa auto ferma da qualche parte. Poi le luci si spensero, ma Alberto non vi fece caso. C’era del sangue non lontano dalla porta del minimarket. Alberto pensò a Lilly, la cagnetta randagia che a volte vagava da quelle parti in cerca di cibo. Forse un’auto non l’aveva vista e doveva averla centrata in pieno. Povera bestia.
Alberto provò un senso di vertigine. La nausea lo assalì stringendogli l’inguine in una morsa che si propagò all’intestino e allo stomaco, e vomitò. Si domandò se non fosse per colpa di quello che aveva bevuto con Frank, poi ricordò che era Frank quello che aveva bevuto, non lui. Questo glielo fece tornare in mente. Ebbe una visione improvvisa dell’amico che veniva travolto e divorato da un mostro.
Gli occhi di Alberto continuarono a percorrere l’asfalto, nelle pozzanghere il riverbero di qualche lampione là intorno, poi incontrarono, senza vederla, una piccola sagoma scura e informe, e qualche metro più in là l’auto ferma, con il motore probabilmente andato.
Alberto socchiuse gli occhi nel tentativo di scorgere l’interno dell’abitacolo, mosse passi cauti in direzione dell’auto e, nonostante questo, per poco non inciampò ugualmente. Aveva tra i piedi qualcosa di morbido, un mucchietto di stracci, forse, o la cagnetta Lilly. Abbassò lo sguardo su quell’ammasso indistinto che la sua mente confusa si era rifiutata di registrare in un primo momento. Poi cadde a terra, senza preavviso, senza un lamento, fissando inebetito la mano che usciva da quella cosa. Una delle dita si contrasse, tremò per un istante e poi rimase immobile.
Alberto sentì il cuore dargli strattoni tremendi nel petto, finché non avvertì il rantolo famelico di una creatura familiare, che l'aveva braccato per lunghe notti facendolo urlare come un pazzo nel suo letto; una creatura che credeva scomparsa e che adesso, di nuovo, più veloce e più forte di prima gli abbrancava le caviglie e lo trascinava giù nel posto buio e umido da cui era uscita. Scalciò l’aria, trascinandosi all’indietro e urlando e singhiozzando ad ogni spanna che riusciva a mettere tra sé e la visione insostenibile del corpo martoriato del suo amico.
Aspirando e inghiottendo boccate d’aria gelida, Alberto realizzò che il rantolo soffocato e animalesco che aveva sentito era il suo. Guardò ancora l’auto davanti a sé, la sua enorme sagoma nera contro quella più piccola del cadavere di Frank. Si portò le mani al petto e combatté per lunghi minuti con l'immagine sfilacciata di quella realtà.
E tornò il giorno, quel giorno di due anni prima, l’arancione accecante di un sole basso sull’orizzonte e il riverbero dei lampeggianti dell’ambulanza sui vetri delle auto in coda. Alberto arrivò alla barella e vide che qualcosa vi era disteso sopra, coperto da un telo. In un punto imprecisato alle sue spalle, o forse attraverso un ronzio dentro la sua testa, gli giunse la voce di Frank che lo chiamava per nome. Perché mi chiami, pensò Alberto. C’è una persona che sta male, qua sotto. Perché chiami me, vecchio testone. Perché non c’è nessuno accanto a questa barella? Dove sono tutti?
Uno dei paramedici lo vide e gli intimò di allontanarsi. Alberto guardò la sua bocca che si muoveva come se gli stesse parlando dal fondo del mare e, senza rendersene conto, gli sorrise, raccogliendo con delicatezza un lembo del lenzuolo tra le dita. Frank comparve alle sue spalle e gli afferrò la mano.
«Che sta succedendo?» Farfugliò Alberto senza mollare la presa. Frank lo fissava, con un’implorazione nello sguardo lucido e cerchiato dalle occhiaie. Alberto si divincolò e tirò via il telo, abbassando lo sguardo sulla barella, come al rallentatore. Poi tornò a guardare Frank, che aveva le mani nei capelli e il volto contorto dalla disperazione.
«Frank, amico mio, che cosa ci fa mia moglie distesa qui sopra?»

Le luci del mondo si spensero di nuovo, e Alberto si ritrovò a fissare i pallidi e ciechi bulbi di vetro dei lampioni lungo la Provinciale 2/1. Era seduto a terra, inerme.
Sopraffatto dai ricordi, pianse a lungo come un bambino, tenendo il volto nascosto tra le mani e liberando al cielo buio lunghi e lamentosi singhiozzi. Sua moglie era morta, quello stesso giorno di due anni prima, perché amava passeggiare al sole d’autunno per le strade di campagna che circondavano Torredelmonte. Le piaceva il crepitio familiare delle foglie sotto le scarpe da ginnastica, l’aria fresca e pungente sulle guance e l’odore della prima legna che veniva bruciata nei casolari in mezzo ai campi.
Si alzò in piedi, con una smorfia di dolore, e avanzò verso il cadavere di Frank. Doveva capire, riacquistare padronanza di sé, analizzare la situazione. Il corpo dell’amico giaceva prono, straziato in una posizione impossibile per qualcosa che era stato vivo fino a poco tempo prima, e c’era sangue dappertutto. Alberto si ritrasse velocemente dalla scena e vomitò di nuovo. Quando si riebbe, tornò a contemplare lo scempio ai suoi piedi e d'un tratto, incredulo della propria rinnovata freddezza, si ritrovò a farlo come se dovesse rimettere insieme i pezzi di un puzzle, come se studiare ogni parte di quel che restava dell’amico dovesse servirgli a ricostruire le cause della sua morte. Nei film era così che facevano sulla scena di un crimine, no?
Frank aveva ancora gli occhi aperti, vuoti come i lampioni sulla strada al di là delle pompe. Alberto si chinò sulle ginocchia e, con mano incerta, glieli chiuse per sempre. Era un gesto che nei film sembrava sempre così sentito, così enfaticamente rispettoso, ma nella realtà era solo un orpello inutile e impersonale, come appendere un cartellino all’alluce di un cadavere. Di colpo si sentiva come il personaggio di un film, uno di quei dottori taciturni e asociali che sguazzavano tra brandelli di corpi umani e risalivano all’ultimo pasto della vittima.
La macchina cigolò e sobbalzò, strappandolo alla sua immaginazione. Alberto alzò d’istinto un braccio, come per difendersi da qualcosa. Scrutò attraverso il lunotto bagnato di pioggia; sembrava ci fosse qualcosa, là dentro, che si contorceva e si agitava.
Il pensiero di non essere solo colse Alberto alla sprovvista, ma solo per un attimo. Non gli importava provare ad aiutare chiunque si trovasse là dentro più di quanto gli importasse di avere il culo bagnato. Dentro quella macchina nessuno era più vittima del suo migliore amico, o di sua moglie Luna, la cui schiena era finita spezzata in due contro un albero.
Si avvicinò all’auto, analizzandone il profilo con una lucidità che gli fece tremare le gambe. L’adrenalina che gli irrorava ogni millimetro del sistema nervoso gli faceva vedere pezzi di ogni cosa sparsi ovunque: pezzi della carrozzeria, pezzi dei bidoni contro i quali l'auto aveva arrestato la sua corsa, pezzi di vetro e rivoli di sangue che ne seguivano il profilo frastagliato. Era come se un fulmine incanalato attraverso funi metalliche avesse donato la vita al mostro in catene dentro la testa di Alberto, e ne stesse ora guidando i movimenti con uno scopo preciso. La sua parte razionale, al contrario, continuava a urlargli di rimanere cauto, perché tutto questo era già successo in passato, e quel passato era come uno scoglio destinato a riemergere con la bassa marea mentre lui ci passava sopra con la sua zattera di cartapesta. Nel metterlo in guardia da se stesso, quella parte gli tendeva una mano per aiutarlo a emergere dal fossato, chiamare aiuto con tutto il fiato che gli restava, e piangere ancora, se necessario.
Il mostro che lo abbrancava e lo tirava dentro, al contrario, rifiutava ogni debolezza; l’aveva sempre rifiutata, da due anni a quella parte, con la pazienza del predatore.
Alberto lasciò che l’oscurità che alimentava quel mostro lo pervadesse in ogni anfratto dell’anima, fino a diventare egli stesso il mostro. Con un movimento meccanico, si afferrò al tettuccio dell’auto e guardò l’interno dell’abitacolo. Un volto coperto di sangue comparve nella penombra, ma il mostro non gridò, limitandosi a fissarlo. Poi afferrò la maniglia e strattonò ripetutamente, finché la portiera non cedette aprendosi con un cigolio di lamiera che risuonò in tutto il piazzale. L’uomo dentro l’auto tese una mano verso di lui e disse qualcosa che il mostro non capì. Si chinò per cercare di afferrare le sue parole ma qualcosa di colpo lo fece ritrarre. Drizzò la schiena e guardò l'abitacolo, allontanandosi istintivamente da quel gesto implorante.

Il fulgore del tramonto di un’orribile giornata di due anni prima colse Alberto mentre, seduto su una pietra ai margini di una strada di campagna e circondato da paramedici, guardava le labbra di Frank muoversi velocemente senza produrre alcun suono. Qualcuno lo stava toccando, gli tastava il polso, gli sollevava il mento e lo faceva bere da una bottiglietta di plastica. Frank era inginocchiato davanti a lui e continuava a parlargli senza sosta. Come fanno i poliziotti nei telefilm americani quando ti leggono i diritti, pensò Alberto. Poi la voce di Frank arrivò a un volume altissimo e Alberto si ritrasse cercando di coprirsi le orecchie con le mani. Il suo sguardo andò a una macchina inclinata sul ciglio della strada, poi una sirena inghiottì le parole di Frank e colpì i timpani martoriati di Alberto ancora più forte. Due carabinieri tenevano un tizio per le braccia, mentre un terzo, con una bottiglia di vetro nella mano guantata, passò loro accanto e si diresse a passo svelto verso l'auto con i lampeggianti accesi.
Frank toccò delicatamente il viso di Alberto e si riprese la sua attenzione.
«Alberto… Sai che cos'è successo?»
«Dov'è Luna, Frank?»
«È… È successa una cosa, amico mio.»
«Lo so» rispose Alberto guardandosi i piedi. Non gli piaceva come uno dei lacci delle scarpe fosse lungo il doppio dell'altro.
«Lo sai?»
«Sì, lo so. L’ho capito. Glielo avevo detto a Luna di aspettarmi a casa, dovevo uscire anch’io con lei. Dovevamo stare insieme.»
«Voglio che tu sappia com'è andata, Alberto. Voglio che tu sappia che l'abbiamo preso.»
«Abbiamo preso chi? Non ti seguo, Frank, è così difficile!»
«L’uomo alla guida dell’auto. Era... puzzava d’alcol, Alberto. Non la passerà liscia.»
Alberto tornò a cercare con lo sguardo il carabiniere che aveva visto un minuto prima, quello con la bottiglia tra le mani, ma non lo trovò. Aveva raggiunto l’auto in tempo o era partita senza di lui? Si domandò se quella domanda avesse senso.
«Mi hai capito?» Disse Frank.
Alberto annuì stancamente. Aveva capito che il taxi era partito e l’uomo con la bottiglia era rimasto a piedi. Che peccato. Frank lo afferrò per le spalle e lo tirò forte a sé, stringendolo in un lungo e commosso abbraccio.
«Figlio di puttana» mormorò Alberto. Quello che disse dopo fece perdere un battito al suo amico. «Lo uccideranno, Frank? Uccideranno il figlio di puttana che me l'ha ammazzata?»
Frank balbettò nel tentativo di rispondere qualcosa di sensato, ma dalle sue labbra uscì solo un sibilo incerto. Si concentrò per cercare la risposta. «Marcirà in galera, te lo giuro, amico mio. Morirà come un cane, là dentro.»
Alberto rise, e i singulti di quella risata furono per Frank come dita di ghiaccio strette attorno al suo cuore.
«Non morirà» disse Alberto. «Troverà il modo di uscire e continuerà a vivere la sua vita.»
«Cerca di non stancarti, adesso. Verrò a casa con te e rimarrò tutto il tempo che vorrai.»
«Grazie, vecchio» rispose Alberto dopo un lungo sospiro. Stavolta fu lui ad abbracciare Frank. «Dimenticavo» disse poi, ritraendosi con delicatezza.
«Dimmi, ti ascolto. Tutto quello che vuoi.»
«Chiama Luna, dille che stiamo tornando a casa. Sarà così felice di vederti che ti chiederà sicuramente di rimanere a cena.»

Alberto fissava la bottiglia di Gordon's vuota sul sedile di fianco al posto di guida, mentre un odore infernale di gin e vomito gli assaliva le narici. L’uomo che gli aveva portato via Frank aveva gli occhi gonfi e inespressivi di una carcassa dimenticata, ma non era lo stesso uomo che aveva ucciso anche sua moglie. Non poteva essere lui.
Alberto lo afferrò e lo strappò di forza dall'auto, scaraventandolo a terra. Poi, in un attimo, gli fu sopra con tutto il peso del corpo e gli serrò le mani intorno alla gola. L'uomo spalancò gli occhi iniettati di sangue e cominciò a rantolare, scalciando l'aria e affondando le unghie nelle braccia di Alberto. Era pesante e muscoloso, le mani come morse, ma Alberto continuava a stringere e a schiacciare tra i pollici il pomo d'Adamo dell’essere. Sentiva sul viso il suo alito caldo e fetido, ma quando vide i suoi occhi rovesciarsi all’indietro e farsi completamente bianchi, Alberto mollò la presa e si gettò di lato sull'asfalto bagnato. L'uomo sussultò e si rotolò in preda a spasmi violentissimi, agitando le braccia come per cercare di mantenersi a galla nell'acqua immobile e fangosa di un lago.
Ma il mostro dentro Alberto tornò alla carica ridestandolo dai sensi di colpa, balzò in piedi e, con un gemito di rabbia ferina, piantò un calcio contro il fianco dell’uomo. Alberto non era mai stato un uomo religioso, ma da quando Luna era morta aveva provato sulla propria pelle l’esistenza dell’inferno – lo stesso inferno che avrebbe condiviso con l’uomo riverso a terra davanti a lui, il cui respiro lento condensava nell’aria fredda. Alberto aveva familiarizzato da tempo con i suoi demoni, e ora doveva lasciare che lo tenessero per mano mentre colpiva.
L’uomo tentò di alzarsi, puntellandosi sui gomiti. Alberto si mosse rapido e gli sferrò un altro calcio nel fianco. L’uomo compì un mezzo giro sul posto e sbatté la bocca sull’asfalto. Il respiro gli morì in gola e un grasso fiotto di sangue gli uscì dal labbro spaccato. Alberto gli girò intorno e con un ultimo calcio alla testa lo tramortì definitivamente.
Se solo avesse deciso di andare fino in fondo… Avrebbe avuto, dalla sua, la notte umida di un giorno qualunque, il silenzio di un intero quartiere. E nessun testimone. La consapevolezza di potersi finalmente vendicare del colpo al cuore subìto, aveva donato al mostro interiore di Alberto una risolutezza malata e contorta, come l'apparente e disperata lucidità che arma la mano dell'ubriaco e lo porta a puntarsi una pistola alla tempia in una folle mano di roulette russa.
La pioggia ricominciò a cadere, silenziosa, senza lampi né tuoni. Alberto respirava a fatica: dalla sua bocca usciva poco più che un debole fischio asmatico. Provò a trarre un respiro profondo, ma questo gli provocò soltanto un violento accesso di tosse. Gli si erano chiusi i polmoni, come quando, nel tepore illusorio del suo rifugio, gli capitava di abbandonarsi alla disperazione, fin quasi a perdere i sensi. Il flacone di Ventolin che teneva sempre accanto alla branda, in quel momento era così lontano da sembrargli appartenere alla vita di un'altra persona. Alla vita di un debole. Ma il suo mostro interiore, che mai più lo avrebbe lasciato solo, colse quella riflessione e in pochi minuti una rinnovata energia fluì nelle vene di Alberto.
L’assassino del suo migliore amico giaceva esanime. Alberto gli si avvicinò, notando appena la chiazza di sangue che si allargava sotto la sua nuca. Lo prese per le braccia e lo trascinò sull’asfalto umido, e da lì attraverso il piccolo rettangolo sterrato che li separava dall’officina, sul quale erano ancora impressi i solchi lasciati dalle ruote della Freemont di Sergio Malesi. L'uomo tentò di protestare, ma era un lamento lontano, comatoso. Alberto lo adagiò vicino a un cespuglio e si diresse verso il casottino basso dell'officina. Raggiunse a memoria un interruttore e un’anonima lampadina si accese con un debole sfrigolio.
Al centro dello stanzino lungo e stretto, sulle cui pareti erano allineate scaffalature in legno di compensato e pannelli portautensili perfettamente ordinati, c’era un tavolo da lavoro colmo di attrezzi e ferraglia, di forme e dimensioni diverse: pinze, chiavi inglesi, chiavi a brugola, cacciaviti, una vecchia targa, un pezzo di paraurti. In un angolo, un lavandino di cemento dal quale fuoriusciva il tanfo delle fognature intasate dalla pioggia.
Alberto aprì uno scaffale e ne tirò fuori un gomitolo di spago e una busta di plastica nera, di quelle che da qualche anno venivano distribuite per la raccolta dei rifiuti indifferenziati. Piegò la busta e la ripose nella tasca posteriore dei pantaloni, quindi uscì di nuovo nella pioggia e trascinò il corpo dell’uomo sul pavimento di cemento levigato dell’officina.
Con uno strattone che lo fece grugnire nella nebbia dell’incoscienza, gli legò mani e piedi con lo spago. Poi, vedendo che la ferita alla nuca dell’uomo continuava a sanguinare, raccolse dal lavandino uno straccio intriso di sporcizia e aprì il rubinetto; l’acqua fuoriuscì a singhiozzo, dapprima di colore giallastro, poi limpida e regolare. Alberto lavò e strizzò la pezza con cura, vi spruzzò sopra con uno smacchiatore e la strizzò di nuovo. Due secondi dopo la cosparse di un detergente incolore, attendendo che gli occhi smettessero di lacrimargli per le esalazioni della sostanza. Si voltò per tornare dall’uomo ma si bloccò subito, dandosi una piccola manata sulla fronte: aveva dimenticato un pezzo del puzzle. Con un movimento meccanico ruotò su se stesso e prese un rotolo di carta assorbente da uno degli scaffali più alti; se ne avvolse freneticamente metà intorno al braccio e inumidì l’involto con un po’ d’acqua. Infine tornò dall’uomo ancora privo di sensi, gli si inginocchiò davanti e gli appoggiò il cuscino improvvisato dietro la testa, mentre con l’altra mano gli premette sul volto lo straccio imbevuto di detergente chimico.
L’uomo prese a sussultare e ad emettere mugugni soffocati, in preda a un dolore bruciante. Spalancò gli occhi, per il terrore. Quando fu sicuro si aver ottenuto la sua attenzione, Alberto gettò via lo straccio e cominciò a parlare.
«Frank è morto.»
L’uomo non rispose. Aveva la mandibola rotta, e sangue e muco su tutta la parte inferiore del volto.
«Anche mia moglie è morta, più o meno nello stesso modo» continuò Alberto, il tono della voce appena incrinato. «E adesso tu sei tutto quello che mi rimane.»
L’uomo non disse nulla, limitandosi a fissare il suo sguardo sanguigno negli occhi di Alberto, il quale, in risposta a quella sfida, gli assestò uno schiaffo improvviso; quindi, senza scomporsi, si alzò e si diresse in un angolo del locale, dove una vecchia pala da neve era appoggiata al muro. Alberto la raccolse distrattamente, mantenendo il contatto visivo con quello che ormai era diventato il suo primo prigioniero, e uscì sotto la pioggia.
Dopo che ebbe girato l’angolo dell’officina si guardò intorno, tirò su con il naso e scelse il punto migliore nel piccolo campo adiacente alla stazione. Quindi tornò dentro all’officina e senza preavviso piantò il suo scarpone sul viso della bestia, facendogli perdere i sensi un’altra volta.
Quando, un’ora più tardi, con il bordo della fossa che gli arrivava già al petto, Alberto si accinse a uscirne, esausto, un ringhio animalesco lo fece trasalire, e si ritrovò a fissare gli occhietti marroni di Lilly, la bastardina che accudiva qualche volta durante le sue notti all’AlbyLuna. Mollò la pala e le si rivolse con tono dolce, rassicurandola e calmandola. La cagnetta cominciò a scodinzolare e ad abbaiare in direzione del vecchio amico, e Alberto cominciò ad agitarsi. Si affrettò verso il corpo di Frank, si chinò su di esso e gli accarezzò il viso. Poi, a voce alta, gli chiese scusa. Si scusò per tutto: per non essere stato lì con lui a fumare l’ultima sigaretta; per la morte di Luna; per la terribile incombenza che gli era toccata quel pomeriggio, proprio nel giorno del suo compleanno.
Pensò di doversi scusare anche per quello che stava per fare.
Mentre Lilly continuava ad abbaiare e a guaire con insistenza ora alla pioggia, ora al cadavere di Frank, ora in direzione dell’officina, Alberto avvolse il corpo di Frank nella busta di plastica raccolta nell’officina e lo prese tra le braccia. Pregò Dio che gli desse la forza di resistere alla sensazione di orrore che quel fagotto così misero e disarticolato trasmetteva, poi, piangendo e gemendo per l’atto che si accingeva a compiere, trasportò l’amico fino al margine della fossa e ve lo lasciò scivolare dentro.
Per la prima volta desiderò sconfiggere anche il mostro che lo divorava dall’interno, morire in quello stesso istante e tornare a ridere con l’amico, ovunque fosse. Cercò di darsi animo canticchiando Eleanor Rigby e facendo scattare la testa mentre imitava con la bocca – zum! zum! zum! – l’arpeggio iniziale degli archi, ma la prima manciata di terra che raccolse con la pala e gettò sul corpo dell’uomo che era stato per lui come un fratello, fu l’ennesimo colpo al cuore. A lui era toccato il ruolo di Padre McKenzie, che seppelliva la sventurata Eleanor, e come loro nessuno dei due, né Frank né Alberto, aveva trovato la salvezza in quella piccola e ipocrita chiesa che era Torredelmonte. Quando ebbe finito di ricoprire la buca, perso nel frastuono di quei pensieri sconnessi, Alberto concesse al mostro un’ultima mano affinché gli restituisse la determinazione necessaria a completare il lavoro.
Prelevò la sua vecchia Focus dal ciglio del Braccio, dove la parcheggiava abitualmente, e la guidò a fari spenti fino alle pompe. Aprì il bagagliaio e distese il telo che usava per proteggere la moquette interna. Poi pensò al cane; raccolse una scatola di biscotti dall’espositore del minimarket e ne sbriciolò qualcuno al centro del piazzale, facendo in modo che Lilly notasse quello che stava facendo. Dieci minuti dopo, spenta la luce e chiusa a chiave l’officina, trascinò il corpo ancora esanime del suo prigioniero fino alla macchina e lo caricò nel bagagliaio. Quindi ripassò mentalmente il piano che avrebbe seguito da lì in avanti.
Non poteva spostare l’auto, né pulire il sangue che la pioggia non aveva lavato via. Non poteva rimettere insieme tutti i pezzi, quindi si limitò all’evidenza dei fatti: qualcuno era entrato a velocità sostenuta nell’area di servizio, si era trovato davanti un animale e non era riuscito a evitarlo. Dove se ne fosse andato il guidatore a quel punto era impossibile stabilirlo, senza telecamere. Magari il suo nome sarebbe saltato fuori comunque, prima o poi, ma solo quello.
Quanto all’animale...
Alberto rimase per un po' a osservare Lilly alle prese con le briciole dei biscotti che aveva disseminato davanti alla porta del minimarket. Le si avvicinò adagio, lasciando che il mostro che aveva dentro le sorridesse. Allungò una mano che odorava ancora di cibo e se la fece leccare, mentre con l’altra rinsaldò la presa un centimetro sopra la lama triangolare della pala da neve.
Poi, con uno scatto fulmineo, calò il colpo con tutta la forza che gli era rimasta.

Edited by Marco S. Di Fonzo - 30/9/2020, 11:22
 
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