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Skannatoio Settembre - Ottobre 2020, "Al cuore, Ramòn, al cuore!" Ma nessuno sentì.

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MentisKarakorum
view post Posted on 27/9/2020, 18:23 by: MentisKarakorum
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FRUTTA APPASSITA

La suola imbrattata di sangue si incolla alle pietre che lastricano le scale. Appoggio il peso sulla gamba, il dolore sale come un fulmine fino al cervello. Fisso il guizzo rosso farsi strada tra le maglie della cotta. Sono stato addestrato a resistere al dolore, ma questa freccia piantata in pancia è la madre delle torture. Se la tolgo rischio di sanguinare di più. Posso spezzarla alla radice, così potrò muovermi senza ingombri. Il legno cede. Stringo i denti così forte da far scricchiolare i molari.
Premo sulla ferita e mi appoggio alla parete rocciosa. Cerco un appiglio. Le punte della roccia mi scorticano le dita; il dolore è una carezza al confronto di quello che mi arriva dal ventre.
Un altro scalino. Sono solo altri centodiciotto. Sorrido. Solo altri centodiciotto.
Il sostegno per la lanterna è scolpito con cura a raffigurare il viso di Horel. La torcia infilata nell’anello al naso poggia sulle labbra protese nel bacio della morte. Bagno le labbra di pietra con le dita insanguinate. Mio Signore, presto busserò alla tua dimora.
Centouno scalini rimasti. Rumore di scarpe di ferro che sbatacchiano sulla pietra. Non è il passo di un confratello. Sguaino la spada, pesa una tonnellata; ho perso troppo sangue. Se mi appiattisco al muro magari ho qualche possibilità. I passi sono vicini, spunta un elmo imperiale. Affondo la spada all’altezza dei piedi, proprio sulla fronte del nemico. Il soldato urla e ruzzola sotto. Il ferro della sua armatura stride sulla parete rocciosa.
Un altro fulmine parte dalla ferita, un fiotto di sangue caldo rinnova la colata sulle brache. Devo affrettare il passo prima di morire dissanguato. Gocce appiccicose scendono sulla mia fronte, le asciugo con la mano; per fortuna è soltanto sudore.
Ottantadue, Ottantuno. Mi bruciano gli occhi, ho combattuto nel tempio che ardeva, le statue di legno hanno fatto tantissimo fumo. L’incendio ha tenuto alla larga il nemico, ma ci ha intossicati.
Ho bisogno di una sola sosta. Una sola. Gli occhi chiusi non mi bruciano più.

«Poggiala ai piedi della statua.» Messer Grom mi sorride. Il volto è paterno, gli occhi buoni.
Stringo la mela al petto. Il suo profumo mi arriva alle narici. Ho fame e mi manca la mamma, la sua voce, il suo viso sporco ma fiero. Una lacrima sgorga dall’occhio destro, l’asciugo prima che Messer Grom la veda. Questa è la mia casa, che mi piaccia o no. La mamma è andata, meglio se non fosse mai esistita. Lo stomaco brontola.
«Teleron.» Il vecchio mi incalza. «Guardalo in faccia.»
Le candele illuminano la statua dal basso, la luce tremolante proietta ombre che sembrano fiamme nere. La testa del dio è paffuta, un ghigno evidenzia le zanne dei canini, un enorme anello di ferro penzola dal naso.
Gli occhi di legno mi fissano. Guardami pure, Horel, sono solo un bambino spaurito a cui manca la mamma e che non mangia da giorni. Il cibo ai piedi della statua sta marcendo, il riso cotto è diventato marrone. Puzza di rancido. La rugosa buccia dei frutti ospita colonie di larve.
Indico i rimasugli col dito. «Il dio non la mangia. Il cibo rimane ai suoi piedi e marcisce.»
Messer Grom sospira e si inginocchia al mio fianco.
«Adesso ascoltami bene.» Il suo tono è paziente. «Quello che dici è vero. Il cibo rimane ai piedi della statua e marcisce. Secondo te perché va a male?»
Stringo la mela ancora più forte e rimango in silenzio. Non voglio rispondere: ho paura delle bastonate.
Grom sorride. «Non temere. Dimmi quello che pensi.»
E bastonate siano. «Il cibo marcisce perché nessuno lo mangia.»
Il maestro non fa una grinza. «Pensaci meglio. Cosa succede se metti la mela su un tavolo e la lasci lì?»
Balbetto. «Dopo un po' se la mangiano i vermi e le mosche.»
«Vedi allora che non è vero che nessuno la mangia? I vermi e le mosche vivono e mangiano la frutta marcia.»
«E Horel è il dio delle mosche?»
«Non solo delle mosche. Di tutti.» Grom allunga il braccio e mi mette la mano sulla spalla. «Devi imparare che la vita e la morte sono simili. La vita di qualcuno è sempre la morte di qualcun altro. Il cibo appassisce e Dio vive.»
«Allora.» Riassumo. «Dio mangia il cibo e il cibo marcisce. Proprio come marcisce quando lo mangiano i vermi e le mosche.»
«Esatto. Bravo.» Grom si alza in piedi e con un gesto mi invita a posare la mela sul piedistallo.
«Io ho fame. Horel ha tanto da mangiare e io invece no. Perché devo dargli anche il mio cibo?»
Il tono di Grom è sempre paziente. «C'era una volta un uomo molto povero che camminando per strada vide un ferito steso nella polvere. Aveva poco per aiutarlo, solo un po' di pane secco, ma glielo diede. Il malato aprì gli occhi, prese il pane e lo mangiò, poi gli porse un bracciale d'oro: era un dono di un ricco che si era fermato per dargli aiuto, ma che invece di cibo gli aveva dato quell’oro.» Volge lo sguardo su di me «Ora, cosa ti insegna questa storia?»
Non voglio fare una brutta figura, rifletto a lungo prima di rispondere: «Il malato non aveva bisogno di un bracciale d’oro, ma solo di un po’ di pane per rimettersi in forze.»
Grom è raggiante. «Bravo. Ma c’è di più. Il pane era tutto quello che l’uomo povero possedeva, mentre il bracciale d’oro dell’uomo ricco era qualcosa di valore, ma quasi niente in confronto alle sue ricchezze. Il dono si misura sempre in funzione di quanto il donatore possiede, e più è grande il sacrificio più è grande la ricompensa.»
«Quindi.» Azzardo. «La mia mela è un dono grande per Horel, perché io ho solo questa e ho tanta fame.»
Il mio maestro sorride ancora di più. «Hai imparato una grande lezione.»
Annuisco. Mi avvicino al piedistallo della statua mostruosa e poso la mela ai suoi piedi. Il mio dono sprofonda nel marciume; nubi di moscerini si alzano in volo.
«Bravo, Teleron. Tu farai strada, vedrai.» Grom mi porta fuori dal tempio. La sua mano mi mette qualcosa in tasca. È un sacchetto di nocciole caramellate.

Il cadavere è steso sull’altare di marmo nero. Le candele disegnano ombre che strisciano sulle pareti di pietra. I confratelli circondano l’altare, le loro cappe nere hanno il cappuccio abbassato. Più avanti la statua di Horel mi lancia il suo solito ghigno. Ai lati dell'effigie due bracieri raccolgono tizzoni incandescenti. Odore di resina.
«Avanza, Teleron.»
Cammino verso il centro della sala. Arrivato all’altare estraggo il bisturi dalla valigetta e lacero le vesti del cadavere. Il petto ha un bozzo color porpora che spunta dall’addome. Lo tocco; è caldo. Affondo la lama e incido il ventre dall’alto verso il basso, poi taglio due linee oblique dalle spalle al plesso solare. Rivolto il lembo di pelle del torace sul viso e allargo lo squarcio della pancia. Gli intestini schizzano fuori come coperte pressate in un baule troppo piccolo. Alzo lo sguardo, i miei confratelli sono immobili, solo la punta dei nasi esce dall’ombra dei cappucci.
La puzza arriva alle narici. Respiro a fondo l’aria viziata per abituarmici. Il miasma di sangue e merda mi manda un attimo su di giri. Ripreso il controllo mi concentro di nuovo sul cadavere. Recido la membrana che tiene attaccato l’intestino al suo alloggiamento addominale, taglio il tubo di carne all’estremità e lo spremo. Grumi marroni colano sulla pietra ed emettono vapore.
«Non è morto da tanto.» Descrivo. «Le interiora sono ancora calde.» Nessuno mi risponde.
Il sangue sgorga da tutte le aperture, inclino il corpo per farlo colare; gorgoglia inghiottito dai fori scavati nel marmo.
Una voce profonda interrompe le mie azioni. «Non indugiare in facezie. L’intestino non è di nostro interesse.»
Annuisco, so qual è il mio compito. Cerco la forbice tra gli utensili, i denti di una seghetta mi graffiano le dita. Non sanguino: a furia di lavare piatti con l’acqua ghiacciata la pelle è diventata come il cuoio.
Con la forbice in mano mi inarco sopra al busto. La porzione di costole vicino allo sterno è più sottile; trincio le ossa e mi faccio strada tra i cumuli adiposi, poi recido le grosse arterie. Il cuore cede, lo colgo come un frutto delicato. Il grasso che ricopre la parte superiore ha la consistenza della polenta di mais. Tolgo questa buccia molliccia e soppeso l’organo ripulito. Un confratello si avvicina e lo prende dalle mie mani, prende un vaso da sotto all'altare e ce lo getta dentro. «Lo guarderai dopo, quando completerai il rito. Puoi ora concludere.» Indica il cadavere col palmo aperto.
Mi concentro sul bozzo sull’addome; la massa carnosa è talmente pronunciata da aver sollevato le costole. Il bisturi taglia la carne in circolo, le vene sono marce e vengono via con poco sforzo. Il cancro ha le dimensioni di due pugni, la massa spugnosa è maleodorante. Getto tutto in parte. Ciò che rimane del fegato è un mozzicone simile ad una linguaccia. Vene nere lo penetrano da tutte le parti.
Alzo l'organo come un trofeo e declamo: «Morte per tumore al fegato.»
Un naso si avvicina, il cappuccio dondola avanti e indietro. «Era abbastanza ovvio. Noi usciamo per deliberare, torniamo tra poco.»
Gli uomini procedono verso l'uscita. Rimango solo. Come da tradizione mi siedo sotto all'altare. I canali di scolo dei liquidi corporei riversano sangue, piscio e bile sui miei capelli. I rivoli mi solleticano la cute. L'odore è così nauseabondo che mi è difficile trattenere i conati di vomito. Allungo la mano e trascino vicino a me il vaso col cuore. Pesco il viscido organo e lo espongo alla luce delle candele.
Ho fatto quello che dovevo, Horel. I resti del cadavere sono tuoi. Il tuo spirito ha carne umana da poter divorare. Questo cuore, un tempo pulsante di vita, giace sradicato dal suo petto per mano mia. Non è altro che una pompa, un marchingegno naturale il cui unico scopo è far circolare il sangue. Nelle mie mani sembra un giocattolo. Siamo nulla. Scatole di ossa. Sacche di organi pressati all'inverosimile pronti a schizzare fuori al primo passaggio di una lama. Eppure viviamo, per poi morire. Come marionette balliamo la danza macabra della vita e tu Horel, dio della Morte, sei il burattinaio.
Metto la mano nella tasca e prendo il bisturi. Do un colpo al cuore, e un altro, un altro ancora. È tutto butterato. Lo spremo come un frutto succoso, il sangue impregna le mie mani. Lo spalmo sul volto. Odore di ferro. Mi alzo e mi allontano dall'altare. Raggiungo la statua di legno, dono il cuore svuotato a Dio, come ho imparato a fare quando ero piccolo. Mi raccolgo in silenzio. Il rito è compiuto; rimetto nelle tue mani il mio destino, Horel.
Le mie preghiere vengono interrotte dal rumore di passi alle mie spalle. Non mi muovo.
«Voltati, Teleron, e rimani in ginocchio.»
Obbedisco. I miei confratelli mi stanno di fronte. Il loro cappuccio è abbassato, li posso riconoscere, uno a uno. Il viso solcato dalle cicatrici del vaiolo è quello del Priore. La sua voce rimbomba tra le pareti di pietra: «Non dirai altro che la verità, anche se dovesse costarti la vita. Obbedirai al tuo Ordine, anche se dovesse costarti l'inferno. Curerai i feriti, anche se dovessero maledirti. Raccoglierai i morti, li donerai a Horel. Alzati.»
Il cuore mi batte forte. Ho superato l'esame. Mi metto in piedi. Le gambe mi tremano.
«Liberati dalle tue vesti.»
Obbedisco. La punta della spada si appoggia sul mio petto. Il Priore spinge sull'elsa, la carne mi sanguina.
«In nome di Horel, il cui vero nome è Morte, io ti nomino Cavaliere dell'Ordine del Cuore Nero. Rinasci, Messer Teleron.»
Sorrido. Non dovrò mai più lavare piatti.

Entro nella sala delle udienze. Faccio un cenno ai due novizi di seguirmi. Avanzano a passo di tartaruga: la cassa che trasportano è pesante. Cammino a passo sicuro verso la cattedra dell'imperatore. Alla sua destra il primo ministro gli parla all'orecchio. Poco distante un notaio col tipico abito di ermellino scribacchia con una penna di fagiano non accorciata, la punta si agita come una biscia. L'imperatore mi fissa da capo a piedi e io ricambio il suo interesse. Da vicino appare ancora più grasso, il colletto di pizzo è un tentativo mal riuscito di rendere il viso più presentabile, anche se gli occhi verdi infondono un certo fascino.
L'usciere mi annuncia: «Messere Teleron di Valgon, ambasciatore dell'Ordine del Cuore Nero.»
Mi inchino con la massima educazione. Un tonfo sgraziato alle mie spalle: i novizi hanno posato la cassa senza alcuna delicatezza. Stasera li frusto.
Raddrizzo la schiena. Sia il primo ministro che il notaio sono in attesa che l'imperatore si degni di rivolgermi la parola. Il pingue sovrano continua a fissarmi senza emettere un suono. Soffoco uno sbadiglio.
«Quanti anni avete?» Si decide infine.
«Altezza. Sono nato il ventunesimo anno del regno dell'imperatore Bolor II.»
L'imperatore Bolor III annuisce. «Abbiamo la stessa età.» Allunga le braccia sulla cattedra. «Noi siamo diventati imperatore e voi siete l'ambasciatore dell’Ordine dei Cavalieri del Cuore Nero. Direi che entrambi abbiamo ottenuto risultati notevoli, nonostante la nostra giovane età.»
Solo che io sono partito dal nulla. Sorrido: «Vostra maestà mi lusinga troppo. Non sono degno di essere paragonato a un servo, ancora meno ad un imperatore.»
Il ciccione soffoca una risata. Già mi sta antipatico. Sposto il peso da una gamba all'altra. Non vedo l'ora di lasciare questa città puzzolente.
«Dunque.» Riprende. «Vi è piaciuta la cerimonia di incoronazione di ieri?»
Ho la risposta pronta: «Ho pregato e ringraziato il nostro Signore per avermi donato di assistere a tale avvento durante la mia vita. Spero di meritare questo onore e farò di tutto per conservarne la memoria.»
«Il capo del vostro Ordine? Non è venuto anche lui?»
Ho la risposta anche per questo: «Con l'animo in pena vi devo confidare che Messer Gilon è anziano e infermo. Invero ha centodue anni. Ho qui per voi una lettera dettata da lui in persona al tempio di Valgon, e un dono.»
Prendo dalla tasca la lettera che ho scritto in locanda a nome del vecchio demente che non riesce nemmeno a pisciare da solo, poi faccio un gesto ai ragazzetti. I novizi scoperchiano la cassa e scoprono la scultura: è la riproduzione anatomica in scala da uno a dieci di un cuore umano. La pietra usata è alabastro rosso con venature nere. Rarissima.
L'imperatore mette delle piccole lenti davanti agli occhi, il suo viso diventa ancora meno attraente.
«È il simbolo del vostro Ordine, vero?»
«Sì maestà, come potete vedere.» Mostro il ciondolo nero che porto al collo. «Solo che per voi l'abbiamo fatto rosso; ci siamo informati sul vostro colore preferito.»
Bolor sorride. «Notevole davvero. Un dono degno della mia collezione.»
Fa un cenno a dei servitori che stanno appiattiti alle pareti. Gli ometti sgambettano verso di me, prendono la scultura e la portano via.
L'imperatore allarga il suo sorriso: «Deve esservi costato una fortuna.»
Il notaio intinge la penna nel calamaio e mi fissa in attesa. Mi schiarisco la voce.
«Il suo valore, per quanto notevole, non è comunque degno di vostra maestà.»
Bolor III sbuffa. «Onore, dignità.. non parlate d'altro, prete.»
Il primo ministro ride come una serpe. Nessuno mi aveva mai dato del prete. Incasso l'insulto e mi inchino per nascondere la rabbia.
«Sapete?» Prosegue il sovrano. «Non ci dispiacerebbe attingere alle sostanze del vostro Ordine.»
Eccoci arrivati al punto. So che l'impero è indebitato per miliardi di fiorini, colpa delle spese dell'erario e dei folli lussi in cui viveva Bolor II. So anche che il tesoro del mio Ordine fa gola agli imperatori da innumerevoli generazioni, ma non avevo mai sentito che un imperatore lo desse così tanto a vedere.
«Vostra maestà sa bene che le tasse vengono versate ogni anno con puntualità. Inoltre, noi non chiediamo nulla per tutti i servizi ospedalieri che forniamo da molti secoli, donando un servizio inestimabile al vostro regno.»
Il primo ministro bisbiglia qualcosa all'orecchio del sovrano. Trattengo la voglia di piantare un pugnale in faccia a quel leccapiedi.
«Mi dicono.» Sibila Bolor. «Che il vostro Ordine ha acquisito diverse terre negli ultimi decenni, terreni per cui non versate le tasse. Inoltre non è vero che non chiedete nulla per curare i bisognosi, infatti da loro esigete il pagamento di ingenti somme.»
Sorrido. Se questo ciccione cerca di fregarmi rimarrà deluso: «Vostra maestà sa di certo che i territori acquisiti dall'Ordine nel corso della guerra santa sono nostri soltanto, e sottratti ai regni nemici di vostra maestà. La corona imperiale non amministra tali terre, quindi noi non dobbiamo pagare tasse per il loro possesso. Quanto alle cure mediche: è vero, chiediamo dei compensi, ma proporzionati alle possibilità dei pazienti. I poveri non pagano nulla.»
Il ministro si piega ancora all'orecchio dell'imperatore. Comincio a seccarmi.
«Da come lo spiegate, vi converrebbe curate solo i ricchi e sbattere le porte in faccia ai poveri.»
Adesso non sorrido: «Maestà. Il mio Ordine serve Dio, non il danaro.»
«Già, il vostro dio: Horel. Brutto come un maiale e cattivo come una suocera.»
I cortigiani si piegano dalle risate. Stringo i denti e mi sforzo di rimanere impassibile. «Maestà. Come voi mi insegnate, un sovrano che non incute timore è come un tricheco vestito di velluto. La stessa cosa vale per gli dèi.»
Gelo. Tutti mi guardano con gli occhi sbarrati. L'imperatore apre e chiude le labbra di scatto, sembra un pesce.
«Comunque.» Riprendo. «In nome di Dio perdono le vostre bestemmie, maestà. In cuor mio so che è meglio non scherzare con la morte, Horel non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai sovrani.»
L'imperatore annuisce, i suoi doppi menti ondeggiano: «Tutti moriremo, chi prima e chi dopo.» Sfrega le dita sul velluto rosso del suo abito e finge di tossire. «Ambasciatore Teleron, ringraziate il vostro Ordine per il graditissimo dono. Voi capite che i nostri impegni ci sommergono, tuttavia troverò il tempo di venire a visitare la vostra capitale, Valgon.»
«Vi accoglieremo nel cuore del nostro modesto dominio con canti gioiosi e balli festevoli.»
L'imperatore mi lancia un gesto di congedo. Mi inchino, cammino come un gambero per qualche passo per non voltare le spalle al sovrano, quindi faccio un cenno ai novizi e mi dirigo verso l'uscita.
«Messer Teleron.»
Mi giro verso l'imperatore: «Altezza?»
Le sue parole sono frecce taglienti: «La religione è veleno.»

Odore di pietra e di ferro. Il mio naso è sul pavimento, la guancia appiccicata alla pozza di sangue rappreso. Sono svenuto e ho sognato pezzi della mia vita.
Muovo le braccia, pesano come montagne. Gli spallacci sono inutili, trascino il braccio verso la gola, trovo il nodo di cuoio e lo slaccio. Scrollo il corpo e la corazza rotola giù per le scale. Così va meglio.
Devo rialzarmi. Le gambe rispondono. La ferita alla pancia non fa più male come prima: brutto segno. Spingo con le mani il pavimento, poggio un ginocchio sulla pietra. Il dolore ritorna. Riesco a sollevare il busto.
Un rivolo caldo mi bagna la gamba, ho ancora del sangue in corpo. Mi aggrappo alle pareti, la spada pende dalla cintura; il suo peso mi trascina all’indietro. Sono in una zona senza lanterne. Un passo, uno scalino. Ho perso il conto di quanti gradini mancano.
Una feritoia; posso dare un’occhiata fuori. La luna piena illumina Valgon: non c’è traccia della battaglia. Sbatto le palpebre e stropiccio gli occhi. Ci sono i corpi luccicanti di confratelli e soldati imperiali sulle strade. Tutti morti. L’aria che viene dalla feritoia è fresca, pulita. Respiro a fondo, un po’ di vita mi scorre nelle vene flaccide.
Sono un frutto appassito, dissanguato.
Non posso fermarmi oltre. Dolore alla ferita, scalino, dolore alla ferita, scalino.
C’è un cadavere per terra, ha l’uniforme imperiale. La luce della lanterna sulla parete illumina la corazza dell’armatura. Sorrido alla vista dello stemma imperiale: un cuore rosso col disegno di un’ancora nera. Mi viene da ridere, il cuore stilizzato sembra il contorno di un culo, l’impero non è stato nemmeno capace di imitarci a dovere. Un bagliore lunare si riflette sull'armatura del morto. Sono quasi in cima.
Forza sulle braccia e sulle gambe, ancora pochi gradini. L’aria si rinfresca, la luce lunare sovrasta quella delle lanterne. Una piattaforma. Sono arrivato. Le montagne intorno alla valle sono puntellate di luci, le città dei confratelli sono ancora sveglie.
Modellata secondo la forma di un cuore umano di dodici metri, la campana nera è appesa sopra alla mia testa. Un colpo solo e orde di Cavalieri dell’Ordine del Cuore Nero si riverseranno dalle montagne per spazzare via questi soldatini imperiali.
Il meccanismo è alla mia destra, devo solo trovare la forza di girare l’argano. Barcollo e mi appoggio alla manovella. Giro, il dolore mi fulmina. Il martello sospeso sulla mia testa si sposta verso l’esterno man mano che i contrappesi scorrono sulle pulegge.
Rumore di passi che scalano la torre. Un soldato imperiale fa capolino dalla scala. Non ho tempo di occuparmi di lui. Ancora un giro e tutto sarà finito. Il soldato ringhia qualcosa e punta una balestra dritta su di me. Un altro giro. La freccia mi colpisce al petto, proprio sul ciondolo nero. Il dolore mi toglie il respiro. Cado sul meccanismo, la leva di rilascio si abbassa. Esulto col poco fiato che mi rimane. Il martello prende velocità. Un solo colpo e dalle montagne pioverà l’intera armata di Horel.
La campana vibra: il rumore è quello di un cucchiaio che sfrega una padella. Qualcosa non va: il suono della campana si dovrebbe sentire per diverse leghe; i miei timpani dovrebbero schizzare fuori dalle orecchie.
L’hanno crepata, quei maledetti l’hanno crepata! Che sia stata la catapulta? Ormai non ha più importanza.
Un colpo al Cuore e nessuno a sentirlo.
Una mano guantata di ferro mi scaraventa sulla pietra. Il soldato è su di me. La freccia con cui mi ha colpito ha inchiodato il ciondolo del Cuore Nero al mio petto. Il simbolo del mio Ordine è spezzato.
La balestra punta al mio occhio. Eccomi Horel, sono il tuo frutto appassito.
 
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