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Skannatoio Speciale Novembre - Dicembre 2020, "When you came to wake me and to wish me merry Christmas in Lovecraft"

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MentisKarakorum
view post Posted on 26/11/2020, 17:53 by: MentisKarakorum
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Oh grande Maestro, non sono degno di prendere spunto dal tuo lavoro, ma ecco qui il mio indegno omaggio. :p082:
Per la gara mi sono focalizzato su entrambi gli obiettivi facoltativi:

1) Show Don't Tell: dal basso della mia inesperienza ho provato a scrivere tutto usando questa tecnica. Pregherei chiunque di farmi notare eventuali sbavature
2) Capo di vestiario inadatto al contesto: uno dei personaggi gira per una base antartica vestito solo con la divisa della sua squadra del cuore.

Posto qui sotto il mio racconto.
Anche se la gara va a monte, ormai era pronto e tanto vale farlo leggere a chi vuole *^^*



Tu Scendi dalle stelle. di Matteo Mantoani.

Spengo il motore e controllo l’orologio: pochi minuti alla mezzanotte. Esco dal gatto delle nevi cingolato e metto i piedi sul ghiaccio, lego il cappuccio e lo stringo forte sulla testa. Il vento mi colpisce: milioni di piccoli aghi mi puntellano il viso. Sistemo la visiera e la sciarpa, la pelle smette di pizzicare. Il sole è vicino all’orizzonte, la sua timida luce disegna ombre lunghissime. L’immensa pianura mi circonda, un deserto di nulla che si estende per migliaia di chilometri. La base di Amanda è un edificio cilindrico dipinto di bianco, le finestre oscurate che ne percorrono la superficie la fanno somigliare a un dente cariato. L’hangar è aperto, qualcuno viene verso di me e mi punta addosso un mitra. Pianto i piedi a terra e alzo le mani.
L’uomo sposta l’arma sul fianco e mi mostra un palmo guantato. «Scusa. Non volevo spaventarti. Chi sei?»
Abbasso le mani e sospiro. Una nuvola di vapore si forma davanti alla mia bocca. «Sono Salvatore Rizzo. Mi manda la Miskatonic Corporation.»
«Io sono Alfonso Fabris.» Si avvicina e guarda dentro al cingolato. «Scusa ma la radio della stazione è fuori uso da mesi. C’è qualcun altro con te?»
Scuoto la testa. «Sono da solo.»
Fabris annuisce. «Metti in moto, entra nella base e qualunque cosa succeda non scendere dal veicolo.»
Apro la bocca ma le parole mi si strozzano in gola: il ghiaccio esplode alla nostra destra. Qualcosa striscia fuori.
Non può essere.
La massa lattiginosa ha lunghi tentacoli uncinati e bozzi simili a occhi che gli spuntano su tutto il corpo. Grugnisce, ribolle, si trascina verso di noi.
Il cuore mi martella in petto.
La schifezza si avvicina, il vapore che sprigiona dal suo corpo puzza. Ha il tanfo di carogna in decomposizione, di pannolini usati.
Scatto e risalgo nel mezzo.
Guardo attraverso il parabrezza: Fabris punta il fucile verso quella cosa, piccoli lampi di luce accompagnano il rumore degli spari.
Metto in moto e premo l’acceleratore. Il cingolato Investe l’essere melmoso: grumi lattiginosi si spalmano sul vetro del parabrezza.
Le mani mi tremano, non riesco a tenere fermo il volante. Il mezzo arranca nell’hangar.
Fabris corre dentro, preme un pulsante sulla parete, punta il fucile verso l’esterno e spara diversi colpi. Un gorgoglio, un ruggito.
La saracinesca si muove: scorre verso il basso. Fabris si stende sul pavimento e riprende a scaricare l’arma verso il deserto di ghiaccio.
L'hangar si chiude.

Mi accascio per terra. I frammenti lattiginosi sul parabrezza puzzano di merda. Un liquido caldo mi sale dallo stomaco. Stringo i denti. Tossisco e sputo un rivolo di muco.
Qualcuno mi colpisce la schiena. Mi giro. «Giù le mani!»
Fabris si allontana e si toglie cappuccio. Ha la testa rapata e la barba bionda che gli arriva alla gola. I suoi occhi azzurri vispi mi squadrano dall’alto in basso.
«Va tutto bene?»
Mi alzo e raddrizzo la schiena. Anche sulle punte dei piedi gli arrivo a mala pena al petto.
«Che erano quelle cose?» Indico i grumi lattiginosi appiccicati al cingolato.
L’energumeno non si degna di rispondere, sorride e si mette a controllare il carico. Sgancia i lacci, toglie la copertura protettiva e con un balzo sale sul retro del mezzo. Mi avvicino e salgo a mia volta.
Fabris mi dirige uno sguardo indifferente. «Prima volta in Antartide?»
Il suo accento è settentrionale, ma non capisco di dove. Annuisco. L'omone non smette di camminare tra le casse, le guarda una ad una appoggiandoci sopra la mano dalle unghie contornate di nero.
«Il carico sembra a posto.»
«Certo che sì.» Reprimo un altro conato di vomito.
«Va tutto bene?»
«No.» Metto le braccia avanti e respiro a fondo la puzza. Le mie narici si abituano. Così va meglio.
Frugo nella tasca del giaccone. «Tenga, ho una lettera per lei da parte del comando della missione.»
Me la strappa di mano e l’apre. Le sue sopracciglia si increspano. Appallottola il foglio e lo butta via.
Alzo le sopracciglia. «Brutte notizie?»
«Vedi tu. Siamo solo io e te fino a Gennaio.»
Stringo le labbra. «Come prego?»
Fabris mi fissa. Mi sforzo di reggere il suo sguardo di ghiaccio.
I suoi lineamenti si rilassano. «Non ce l’ho con te, è che mi aspettavo più gente, ma quei deficienti dei crucchi mi hanno scritto di aspettare.»
Annuisco. «C’è del personale in addestramento in Germania e la mia missione è solo temporanea.»
«Dimmi qualcosa che non so già.»
Batto un piede. «Vuole per piacere rispondere alle mie domande? Cos’era quella cosa che abbiamo ammazzato?»
Si sfrega il naso. «Non credere che l’abbiamo sconfitto. Si rigenererà e tornerà all’attacco appena metteremo un piede fuori.» Sospira. «Dai vieni dentro, ti faccio fare il giro della base e ti spiego tutto.»
Scrollo le spalle e annuisco. «Non vuole che l’aiuti a scendere il carico?»
«A fare che?»
Mi mordo il labbro. «Intendo a scaricare.»
«Sei siciliano vero?» Si gratta la guancia col pollice e lascia una striscia di sporcizia sulla pelle. «Ci penso io domani col muletto. Adesso è tardi.»
Ho ancora il fuso orario italiano in testa. Sarà dura abituarsi.

«Questa è la sala Google.» Fabris indica la parete colma di libri. «La chiamo così perché c’è la biblioteca: qui internet non va, quindi la ricerca si fa vecchia maniera.»
Fisso la sua maglietta. Non indossa la divisa della Miskatonic Corporation ma l’uniforme di una squadra di calcio, i colori sono quelli della Juve.
Indico l’albero carico di lucette colorate. «Avete fatto gli addobbi di Natale.»
L’omone sorride. «Li ho fatti io. Da un mese sono rimasto solo. Le decorazioni sono un modo per tenere su il morale, specie dopo quello che è successo.»
Mi schiarisco la gola. «A cosa si riferisce? Ha a che fare con la bestia là fuori?»
Fabris mi ignora e cammina verso la porta. Sulla sua maglia il numero 20 ondeggia a ogni passo. Il nome sulle spalle è Bierhoff.
«Sala ristoro. La cucina è lì dietro.» Mostra un bancone sormontato da fornelli. «C’era un cuoco, ma ora dovremo fare da soli.»
Non dico niente. Fabris si volta, il numero riprende a ondeggiare. Cambiamo stanza.
«Sala controllo di Amanda: casa tua Rizzo. Qui monterai i cluster di GPU che mi hai portato.»
«Sarà tutto operativo in pochi giorni.»
«Bravo.» Si volta. Sul suo petto c’è il simbolo della squadra dell’Udinese, non della Juve. Che sia friulano? La sua manona si appoggia sulla mia spalla, pesa una tonnellata. Mi stritola. «Rizzo, se lavori sodo andremo d’accordo. Chiaro?»
Sbuffo e scrollo la spalla per liberarmi dalla stretta. «Non so bene cosa la porti a farmi la predica ancora prima che mi sia messo al lavoro, dottor Fabris.»
Sorride, i suoi denti sono bianchi e aguzzi. «’Scolta, dammi del tu. Voi siciliani siete sempre troppo cerimoniosi.»
Le unghie mi penetrano i palmi. «Vuole ripetere prego?»
Scoppia a ridere. «Mi piaci, hai le palle. Vieni che ti mostro la tua camera.»
La mia faccia avvampa di calore. Lo seguo: saliamo le scale e ci fermiamo in un corridoio. Una porta è socchiusa a rivelare un filo di luce. Sullo stipite penzola una strana bandiera azzurra recante un volatile stilizzato, una specie di stemma medievale. Fabris la indica. «Bandiera del Friuli e camera mia. La tua stanza è quella accanto.»
Si sposta e apre la porta del mio alloggio, entra e alza la tendina della finestra. La luce del sole illumina tutto: il letto addossato alla parete occupa una buona metà dello spazio, una scrivania con vicino un armadietto sta nell'altra metà. Un piccolo corridoio tra i mobili permette di camminare fino alla finestra.
Fabris è ingobbito, il tetto della stanza è troppo basso per lui.
Mi schiarisco la gola. «Mi adatterò.»
L’omone fa qualche passo ed esce, il pavimento trema. «Se avessi bisogno di qualcosa sono qui in parte. Il cesso è fuori, la porta in fondo al corridoio.»
Entro in camera. «Vuole ora, per cortesia, mettermi al corrente di cosa sia successo in questa base? Cosa sarebbe quell’essere che ci ha attaccato poco fa?»
Scopre i denti. «Dormici sopra. Domani ne parliamo con calma. Sei scosso, si vede, riposati e pensa a montarmi le GPU.»
Gli sbatto la porta in faccia e mi siedo sul letto. Guardo la finestra, la distesa ghiacciata è illuminata dal timido sole di mezzanotte. Non c’è alcun essere grumoso a strisciare sul ghiaccio. Quei tentacoli, quella puzza. Il mio stomaco si contorce.

Le lucine della consolle lampeggiano ad intermittenza: il cluster di computer è collegato e le schede GPU sono funzionanti. Accendo lo schermo del pc, avvio l’interfaccia grafica e inizio la procedura di analisi. I grafici di utilizzo delle GPU guizzano in alto. Sorrido e lancio un programma di test che dà il risultato corretto in meno di un minuto. Premo il tasto dell’interfono della stazione. «Alfonso. Vieni a vedere.»
La voce gracchia. «Corro.»
Libero la poltrona e preparo il desktop per la dimostrazione. Fabris entra in sala controllo. Ha indosso la sua maglia dell’Udinese, fa l’occhiolino e si butta di peso sulla poltrona: le rotelline fischiano. La manona trascina il mouse sulla scrivania e sullo schermo le interfacce colorate scorrono in velocità.
Alfonso controlla i valori e annuisce. «Non male.» Si volta e mi guarda. «Ma questo era un gioco da ragazzi. Adesso arriva il lavoro vero.»
Sospiro. «Te pareva.»
«’Scolta.» Si alza e mi afferra entrambe le spalle. «Un motivo c’è se ho chiesto ai crucchi di mandarti qui. Ho letto il tuo curriculum: laurea in informatica e poi otto anni a progettare intelligenza artificiale.»
Scrollo le spalle per liberarmi dalla sua stretta. «Che c’entra questo col mio lavoro qui?»
Si lecca le labbra. «Sapevo che quelli della Miskatonic pensavano che fossi mona: mi hanno mandato i computer nuovi, ma per usarli avrei dovuto aspettare.» Mi guarda dall’alto in basso. «Noi però li fregheremo. Programma una IA per filtrare i dati di visualizzazione di Amanda.»
Arriccio le labbra. «Per fare che?»
Alfonso non smette di sorridere. «Cosa sai di questa stazione? A cosa serve?»
Sbuffo. Ci mancava anche l'interrogazione. «Poco. Sono un tecnico, non un fisico. Sotto il ghiaccio su cui poggia questa stazione ci sono dei rivelatori di particelle subatomiche che servono a vedere cosa c’è sotto la crosta terrestre. Giusto?»
Si accarezza la lunga barba bionda. «Amanda sta per Antarctic Muon And Neutrino Detector Array, le particelle di cui parli si chiamano neutrini. Vengono dallo spazio e attraversano tutto senza mai fermarsi. In questo momento noi stessi siamo attraversati da tantissimi neutrini.» Punta il dito verso il pavimento. «Sotto di noi ci sono più di mille fotomoltiplicatori, servono a raccogliere il segnale che lanciano i neutrini che attraversano il nostro pianeta. Può accadere che il ghiaccio li fermi, e noi li acchiappiamo. Mi segui?»
Annuisco. «Poi i neutrini più utili sono quelli che arrivano dall’altra parte del mondo: dal Polo Nord.»
Fabris batte le mani. «Giusto, quelli portano l'informazione di quello che c'è dentro la Terra. In pratica è come se facessero una radiografia al nostro pianeta. Il loro segnale però è sporcato da una miriade di tracce di rumore, e qui entri in gioco tu.»
Mi batto l'indice sul petto. «Io?»
«Questo è il vero motivo per cui sei qui: usare le GPU che mi hai portato e creare una IA per pulire quei dati.»
Faccio un respiro profondo e mi avvicino alla consolle, afferro il mouse e apro l'interfaccia di raccolta dati di Amanda. «Ma, da qui risulta che qualcuno ha già iniziato a pulire i dati e a visualizzare le radiografie della Terra.»
Alfonso si schiarisce la gola. «Sì, ci ho provato. Ma ecco quello che sono riuscito a ottenere»
Clicca lo storico delle elaborazioni, i dati sono relativi alla radiografia di un volume sferico con diametro di più o meno venti chilometri e alla profondità di seimila. Doppio clic: un’immagine molto sfocata in bianco e nero occupa tutto lo schermo.
Scuoto la testa. Una goccia di sudore mi solletica la guancia. La radiografia mostra una struttura a forma di X: è nera, lunga più o meno dodici chilometri. «Cos'è?» Balbetto e cerco lo sguardo di Alfonso. Lui mi fissa e sorride.
«Un'astronave, nascosta vicino al centro della Terra da chissà quanto.»
Non può essere. Non ha senso. «Come un’astronave?»
«La compagnia lo sapeva.» Incrocia le braccia. «La prima spedizione risale a cent'anni fa, quando la Miskatonic Corporation comprendeva solo l'università di Arkham. Hanno scoperto che l’Antartide è abitato da creature aliene.»
Ho i brividi lungo la schiena. «Quel mostro che ci ha attaccato è un alieno?»
Alfonso sospira. «Di quello parleremo più avanti. Adesso concentriamoci sul tuo compito. Voglio che tu migliori il mio lavoro.» Accarezza lo schermo col dito. «L'immagine è tutta sgranata, e comunque ci sono i dati per visualizzare un volume di nucleo terrestre anche più grande. Vedi, sono un fisico, non un informatico. Ho chiesto espressamente di te ai caporioni crucchi, e l’ho fatto per un motivo.»
Mi viene da ridere. «Perché io? Dovrei conoscere a menadito la struttura dei dati, studiare la teoria delle reti neurali informatiche usate qui, imparare a programmarle, ho bisogno di tempo, di risorse…»
«La nostra biblioteca è piena di testi e manuali di programmazione. Non abbiamo internet, ma ci arrangiamo. Però il tempo scarseggia, quella merdaccia là fuori presto imparerà come entrare.»
«Ma cos'è? Un alieno? Parla, minchia!»
Alfonso mi guarda e sghignazza. «Che squadra tifi, siciliano?»
Digrigno i denti. «Che c'entra adesso?»
«Dai, non dirmi che il calcio non ti interessa.»
«Non molto. Comunque seguo l'Inter.»
Mi dà una sberla sulla spalla. «Lo sapevo! Dai siciliano interista, stasera sei invitato a cena. C'è la partita Udinese-Inter. Che vinca il migliore.»
Mi giro e apro la bocca per rispondere, ma l'omone è già uscito dalla sala controllo.

La poltiglia rosacea puzza di aceto. Rigiro il piatto e guardo Alfonso, il suo viso è raggiante, manda giù cucchiaiate di cibo e ingolla sorsate di birra. L'altoparlante manda una musica natalizia, le luci dell'albero colorano le pareti di rosso, verde e blu. Alzo lo sguardo: alla TV la partita continua, un tiro di destro di Ronaldo e la palla parte come un siluro, ma il portiere riesce a parare.
«Grande! Viva l'Udinese!» Alfonso alza il bicchiere e mi costringe a ricambiare il brindisi. Mando giù un po' di birra: a niente è servito dirgli che non bevo. Alzo la forchetta e metto un po' di brovada in bocca. È aspra come la caponata, ma disgustosa. Mando giù tutto con un altro sorso di birra.
«Ti piace?» Fabris sorride. «Non tutti la mangiano, specie quando scoprono che sono rape macerate nella vinaccia.»
Trattengo un conato di vomito. «Scusa.»
Alfonso allunga il braccio, afferra il mio piatto e versa il contenuto nel suo. «Questo è cibo per uomini duri, mica per quelli come te.»
Batto il pugno sul tavolo. «Hai mai mangiato un panino con la milza? Vediamo se ce la fai.»
Mi fissa divertito. «Cos'è la gara a chi mangia cose più schifose? Dai, aspetta.»
Si alza e va in cucina. All'altoparlante inizia Jingle Bells, Alfonso canticchia note stonate.
«Tra le casse che mi hai portato ce n'era anche una per me. Stamattina mentre lavoravi alla sala controllo ho fatto il pane.» Torna al tavolo con una cesta di pagnotte e un lungo tagliere. «Ho dovuto rubare il lievito a Reinhard Brandt, ma visto che gli ho già rubato quasi tutta la birra ho pensato che ormai tanto valeva finire il lavoro.»
«E chi sarebbe questo Brandt?»
Gli occhi di Alfonso fissano il vuoto. «Uno a cui questa roba non servirà più. Era l’elettricista.»
Sbatte sul tavolo una polpetta ricoperta da granelli giallastri. Puzza di capra. Taglia delle fettine. «Questa deve piacerti. La fanno dalle mie parti. Si chiama pitina
Infilo una fetta di carne tra due pezzi di pane. Il sapore è sempre acido, di pecora, ma passabile.
«Questa è buona.» Lo guardo negli occhi. «Senti, cosa vuol dire che al tuo collega il cibo non servirà più? È andato via?»
Alfonso prende un sorso di birra e ricomincia a guardare la partita.
Appoggio il panino e sospiro. «Non mollo. Devi dirmi la verità. O vuoi continuare a guardare partite di calcio vecchie di trent'anni?»
Grugnisce e muove la mano come a scacciare una mosca: armeggia col telecomando e alza il volume della partita.
Mi sporgo sul tavolo e mi avvicino a lui. «Dove sono tutti gli altri membri dell’equipe? Cosa sono quelle dannate bestie aliene là fuori? Perché ci sono delle astronavi della minchia sepolte vicino al centro della Terra?»
L'omone si alza in piedi e spegne la TV. «E va bene! L'Udinese vincerà due a zero, gol di Bierhoff al quarantaquattresimo e al settantottesimo.» Mi sorride. «Che dici? Andiamo a fare un salto ai piani inferiori? C’è della roba che voglio mostrarti.»
Faccio spallucce. «Come vuoi tu.»

La luce della lampadina illumina le sei bare raccolte in infermeria, una ammassata sull'altra. Alfonso si avvicina e carezza il metallo.
«Eccoli qua, i miei compagni. Di questi sono riuscito a recuperare i corpi. Molti altri, be'. Se li sono mangiati.» Si gira e mi fissa negli occhi. Ho i brividi.
«Quando sono morti?»
Si appoggia sul tavolo operatorio. «Quando abbiamo attivato i rivelatori di particelle di Amanda siamo stati subito attaccati.»
«Da cosa? Da quelle bestie lattiginose?»
Stringe i denti. «La compagnia lo sapeva. La spedizione di cent'anni fa è stata distrutta dagli shoggoth.» Sospira e guarda il vuoto. «Sono bestie aliene, di origine sconosciuta. Compaiono in numerosi antichi testi di magia nera, come il Necro.. Necrolocon.. qualcosa del genere.»
Mugugno e annuisco. «Ora capisco perché la compagnia ha militarizzato la base.»
Tira su col naso. «Quelle cose hanno fatto fuori i miei compagni. Sono rimasto io da solo, assieme a quei mostri.» Batte il pugno sul bordo del tavolo. «Quegli esseri non vogliono che veniamo a conoscenza della verità. Però io non mi arrendo.»
I suoi occhi azzurri sono cosparsi da venuzze rosse. Inghiottisco saliva e aspetto.
Mi si avvicina. «Lavora ai dati, crea un programma per filtrarli, voglio allargare la visualizzazione di Amanda e vedere tutto quello che c'è sotto di noi. Che vadano in mona tutti.»
Il cuore mi batte forte. «Ce la farò. Lo prometto.»

Porto alla bocca la tazza di caffè e prendo un sorso. Il calore mi scalda la gola, bella sensazione. Volto la pagina del manuale e scorro il dito sulle linee di codice. Se questa roba funziona, allora sono nella strada giusta.
Fuori dalla finestra la vista del sole è ostacolata dai vetri appannati. Il deserto bianco è una colata di ricotta zuccherata. Quanto vorrei un pezzetto di cassata, Alfonso ha solo porcherie aspre e liquori.
La musica natalizia dell’altoparlante mi riporta alla realtà. Sospiro e metto il manuale in parte per dopo. Scorro il dito sulle copertine dei libri della biblioteca della sala Google: ci sono vecchi testi sull’ecologia del Polo Sud, trattati di microbiologia e patologia. Prendo il manuale di Python, lo sfoglio.
Alfonso entra, i suoi passi fanno tremare l'albero di Natale.
«Vieni con me.»
Poggio il libro e lo seguo fino all’hangar della base. Alfonso si abbassa e raccoglie un fucile da una cassa. Me lo lancia, lo afferro al volo e lo guardo.
L’omone ride. «Non preoccuparti, gli AK47 li usano anche i bambini, purtroppo.»
Passo le dita sulle levette metalliche e sul grilletto. Scuoto la testa. «Cosa stiamo facendo?»
Alfonso si allaccia il giaccone. «La centrale elettrica ha un guasto. Devo uscire a ripararla. Vieni a coprirmi le spalle: non ci metterò molto, è già successo e so cosa fare.»
Sospiro. Mi tremano le gambe. «Non so se sono pronto per questo.»
Mi lancia un'occhiata di scherno. «Se non sei pronto per questo allora siamo del gatto: siamo fregati. Tieni.»
Mi passa una cintura a cui sono appese delle granate. «Questa è roba buona: tira la spoletta, conta veloce fino a sei e lancia.»
Mi allaccio la cintura e scuoto la testa. Ho lo stomaco in subbuglio, la gola secca. Ci sistemiamo i cappucci e le varie protezioni per il viso. Non voglio uscire, non sono un soldato.
La saracinesca si alza, siamo fuori. Il deserto ghiacciato brilla alla luce del sole. A lungo andare mi accecherei se non avessi gli occhiali protettivi. Nessun segno dello shoggoth.
Alfonso scatta verso la piccola cabina nera col cartello di pericolo. Si appoggia alla porta.
«Tu resta fuori, e per l'amor di Dio, spara appena lo vedi.»
Le mani mi tremano. Alzo il fucile e lo punto davanti a me. Annuisco.
La manona guantata colpisce la mia spalla. «Coraggio! E forza Udinese!»

Il vento soffia e fischia nelle orecchie. Gli spifferi sono piccole coltellate nella carne. Saranno meno venti gradi come minimo. Tremo, ma non per il freddo. Il fucile è carico, basta premere il grilletto. Un gioco da bambini, ha detto. Il sole è alto, brilla senza convinzione, i timidi raggi si riflettono sul ghiaccio. Sono immerso in un oceano fosforescente.
Un ronzio alle mie spalle: Alfonso deve aver riparato la centrale. Le macchine funzionano.
Stringo il fucile, i muscoli mi fanno male. Ho il fiatone e il cuore che mi esplode in petto.
Merda: il ghiaccio si frantuma di fronte a me, lo shoggoth si trascina fuori. Devo sparare. Il dito sul grilletto non si muove. La schifezza si avvicina, una scia di bava ribolle al suo passaggio. Il tanfo di cloaca è insopportabile. Devo sparare. I tentacoli uncinati si allungano.
«Che fai! Muoviti!»
È la voce di Alfonso. Gli scoppi della sua arma mi assordano. Corro. Scappo. Il fucile mi dondola dalla spalla attaccato alla cinghia a tracolla. Una granata esplode alle mie spalle. Mi giro. Un tentacolo acuminato è avvinghiato alla gamba di Alfonso. Impugno il fucile, punto. Sparo. Lo shoggoth emette un ruggito gorgogliante. Sparo ancora. Il tentacolo si spezza. Alfonso barcolla verso di me, una scia di sangue cremisi macchia il ghiaccio immacolato.
«Scappa mona!»
Mi volto e corro. Arrivo alla base, mi appoggio al pulsante e la saracinesca si apre. Mi precipito dentro. Mi giro. Sparo qualche colpo verso la schifezza nodosa. I colpi la rallentano. Alfonso mi raggiunge. Chiudo la saracinesca. Siamo salvi.

Stringo la sua mano. Lui mi guarda con occhi sgranati. Le sue bende sono insanguinate, l'ho ricucito come ho potuto, ma la vena femorale era messa troppo male. Si agita sul lettino dell'infermeria, i tubicini delle sacche di sangue oscillano avanti e indietro.
«I dati, devi lavorare ai dati.»
Annuisco. «Non preoccuparti. Ci penso io.»
Sorride, ha i denti impiastricciati di rosso. Allunga la mano e afferra la mia uniforme all'altezza del petto. Mi tira a sé. «Non abbandonare. Scopri la verità.»
«Ci sono quasi. Non temere.»
Alfonso tossisce. «Resisti fino ai rinforzi. Non mollare mai.»
«Tranquillo.» Sorrido, una lacrima mi riga la guancia. «Ci penso io.»
Mi tira così tanto che mi costringe ad appoggiare il gomito al materasso. «Vai in camera mia.» Il suo alito puzza di sangue «C'è una bottiglia di grappa. Non voglio morire sobrio.»
Le lacrime mi scendono a fiotti. «Te la porto subito.»

Il mio programma ha bisogno di una piccola correzione. I dati pesano centodue terabyte e continuano ad arrivare. Le ventole dei computer girano come pale di elicotteri, l'aria della stanza è la più calda della stazione.
Mi siedo alla poltrona e aspetto. La rete neurale si ricalibra. La barra di completamento raggiunge il cento per cento: l'immagine della radiografia è pronta. Leggo le sue caratteristiche: i dati si riferiscono a un volume di Terra profondo seimila chilometri e spesso cinquecento.
Clicco e apro l’immagine. I dettagli si vedono bene, il materiale che compone l’astronave è filamentoso e attorcigliato. Allargo la visuale.
Il respiro mi si spezza in petto. Le lacrime mi oscurano la vista. Farfuglio.
Sullo schermo non una, ma decine di astronavi aliene a forma di X fluttuano nel nucleo della Terra.

L'albero di Natale è alto fino al soffitto. Le sue lucine intermittenti cambiano colore a velocità vertiginosa. Le palle colorate sono più piccole man mano che salgono verso la punta, mentre i globi vicino al pavimento sono grandi come arance. Sorrido, Alfonso si è proprio impegnato.
Uno schianto sul tetto, l'albero oscilla e le palle dondolano in circolo. Lo shoggoth ha capito che sono arrivato alla verità. Quanto tempo reggerà la base?
Mi siedo sul pavimento e appoggio la schiena alla libreria colma di libri. Poso il grosso testo di microbiologia sulle ginocchia e lo apro, le pagine odorano di inchiostro vecchio e di muffa. Trovo l’immagine di una morula embrionale, al centro del disegno i cromosomi sono piccole X: all’inizio della sua moltiplicazione il nucleo della cellula uovo fecondata si divide in due blastomeri, poi in quattro, in otto e così via fino al completo sviluppo del nascituro.
Prendo in mano la stampa della radiografia prodotta da Amanda. Si vede la flotta di cromosomi e si vedono le linee che suddividono il nucleo della Terra in quattro blastomeri larghi migliaia di chilometri.
All'altoparlante c'è la mia canzone preferita.
Canticchio.
Tu scendi dalle stelle, oh re del cielo.
Mi sganascio dalle risate.
Uno schianto dal piano superiore. Un ruggito. Che puzza di merda!

Edited by MentisKarakorum - 27/11/2020, 08:38
 
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