Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio Speciale Novembre - Dicembre 2020, "When you came to wake me and to wish me merry Christmas in Lovecraft"

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view post Posted on 20/11/2020, 20:49
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"Ecate, figlia mia..."

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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 20/11/2020, 19:46) 
Dai, ragazzi: postate!!

Sono più o meno ancora a un terzo :p101:
 
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view post Posted on 21/11/2020, 21:43

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Faccio il tifo per te, Gargaros.

Speriamo che si aggiunga qualcun altro.
 
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view post Posted on 22/11/2020, 00:56
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"Ecate, figlia mia..."

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Sono a buon punto dalla fine. Potrei finire ora stesso, ma devo immaginare prima la scena finale... se imporvviso rischio di mandare tutto a puuu... a shoggoth.

Ma se siamo solo tre l'edizione salta e quindi amen ¯\_(ツ)_/¯
 
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view post Posted on 23/11/2020, 00:01
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"Ecate, figlia mia..."

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Finito. Lo faccio decantare qualche giorno, poi rileggo e sistemo.

Poi lo cestino :1392239841.gif:
 
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view post Posted on 23/11/2020, 00:24
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Custode di Ryelh
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<3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3 <3
CITAZIONE (Gargaros @ 23/11/2020, 00:01) 
Finito. Lo faccio decantare qualche giorno, poi rileggo e sistemo.

Poi lo cestino :1392239841.gif:
 
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view post Posted on 26/11/2020, 17:53
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Oh grande Maestro, non sono degno di prendere spunto dal tuo lavoro, ma ecco qui il mio indegno omaggio. :p082:
Per la gara mi sono focalizzato su entrambi gli obiettivi facoltativi:

1) Show Don't Tell: dal basso della mia inesperienza ho provato a scrivere tutto usando questa tecnica. Pregherei chiunque di farmi notare eventuali sbavature
2) Capo di vestiario inadatto al contesto: uno dei personaggi gira per una base antartica vestito solo con la divisa della sua squadra del cuore.

Posto qui sotto il mio racconto.
Anche se la gara va a monte, ormai era pronto e tanto vale farlo leggere a chi vuole *^^*



Tu Scendi dalle stelle. di Matteo Mantoani.

Spengo il motore e controllo l’orologio: pochi minuti alla mezzanotte. Esco dal gatto delle nevi cingolato e metto i piedi sul ghiaccio, lego il cappuccio e lo stringo forte sulla testa. Il vento mi colpisce: milioni di piccoli aghi mi puntellano il viso. Sistemo la visiera e la sciarpa, la pelle smette di pizzicare. Il sole è vicino all’orizzonte, la sua timida luce disegna ombre lunghissime. L’immensa pianura mi circonda, un deserto di nulla che si estende per migliaia di chilometri. La base di Amanda è un edificio cilindrico dipinto di bianco, le finestre oscurate che ne percorrono la superficie la fanno somigliare a un dente cariato. L’hangar è aperto, qualcuno viene verso di me e mi punta addosso un mitra. Pianto i piedi a terra e alzo le mani.
L’uomo sposta l’arma sul fianco e mi mostra un palmo guantato. «Scusa. Non volevo spaventarti. Chi sei?»
Abbasso le mani e sospiro. Una nuvola di vapore si forma davanti alla mia bocca. «Sono Salvatore Rizzo. Mi manda la Miskatonic Corporation.»
«Io sono Alfonso Fabris.» Si avvicina e guarda dentro al cingolato. «Scusa ma la radio della stazione è fuori uso da mesi. C’è qualcun altro con te?»
Scuoto la testa. «Sono da solo.»
Fabris annuisce. «Metti in moto, entra nella base e qualunque cosa succeda non scendere dal veicolo.»
Apro la bocca ma le parole mi si strozzano in gola: il ghiaccio esplode alla nostra destra. Qualcosa striscia fuori.
Non può essere.
La massa lattiginosa ha lunghi tentacoli uncinati e bozzi simili a occhi che gli spuntano su tutto il corpo. Grugnisce, ribolle, si trascina verso di noi.
Il cuore mi martella in petto.
La schifezza si avvicina, il vapore che sprigiona dal suo corpo puzza. Ha il tanfo di carogna in decomposizione, di pannolini usati.
Scatto e risalgo nel mezzo.
Guardo attraverso il parabrezza: Fabris punta il fucile verso quella cosa, piccoli lampi di luce accompagnano il rumore degli spari.
Metto in moto e premo l’acceleratore. Il cingolato Investe l’essere melmoso: grumi lattiginosi si spalmano sul vetro del parabrezza.
Le mani mi tremano, non riesco a tenere fermo il volante. Il mezzo arranca nell’hangar.
Fabris corre dentro, preme un pulsante sulla parete, punta il fucile verso l’esterno e spara diversi colpi. Un gorgoglio, un ruggito.
La saracinesca si muove: scorre verso il basso. Fabris si stende sul pavimento e riprende a scaricare l’arma verso il deserto di ghiaccio.
L'hangar si chiude.

Mi accascio per terra. I frammenti lattiginosi sul parabrezza puzzano di merda. Un liquido caldo mi sale dallo stomaco. Stringo i denti. Tossisco e sputo un rivolo di muco.
Qualcuno mi colpisce la schiena. Mi giro. «Giù le mani!»
Fabris si allontana e si toglie cappuccio. Ha la testa rapata e la barba bionda che gli arriva alla gola. I suoi occhi azzurri vispi mi squadrano dall’alto in basso.
«Va tutto bene?»
Mi alzo e raddrizzo la schiena. Anche sulle punte dei piedi gli arrivo a mala pena al petto.
«Che erano quelle cose?» Indico i grumi lattiginosi appiccicati al cingolato.
L’energumeno non si degna di rispondere, sorride e si mette a controllare il carico. Sgancia i lacci, toglie la copertura protettiva e con un balzo sale sul retro del mezzo. Mi avvicino e salgo a mia volta.
Fabris mi dirige uno sguardo indifferente. «Prima volta in Antartide?»
Il suo accento è settentrionale, ma non capisco di dove. Annuisco. L'omone non smette di camminare tra le casse, le guarda una ad una appoggiandoci sopra la mano dalle unghie contornate di nero.
«Il carico sembra a posto.»
«Certo che sì.» Reprimo un altro conato di vomito.
«Va tutto bene?»
«No.» Metto le braccia avanti e respiro a fondo la puzza. Le mie narici si abituano. Così va meglio.
Frugo nella tasca del giaccone. «Tenga, ho una lettera per lei da parte del comando della missione.»
Me la strappa di mano e l’apre. Le sue sopracciglia si increspano. Appallottola il foglio e lo butta via.
Alzo le sopracciglia. «Brutte notizie?»
«Vedi tu. Siamo solo io e te fino a Gennaio.»
Stringo le labbra. «Come prego?»
Fabris mi fissa. Mi sforzo di reggere il suo sguardo di ghiaccio.
I suoi lineamenti si rilassano. «Non ce l’ho con te, è che mi aspettavo più gente, ma quei deficienti dei crucchi mi hanno scritto di aspettare.»
Annuisco. «C’è del personale in addestramento in Germania e la mia missione è solo temporanea.»
«Dimmi qualcosa che non so già.»
Batto un piede. «Vuole per piacere rispondere alle mie domande? Cos’era quella cosa che abbiamo ammazzato?»
Si sfrega il naso. «Non credere che l’abbiamo sconfitto. Si rigenererà e tornerà all’attacco appena metteremo un piede fuori.» Sospira. «Dai vieni dentro, ti faccio fare il giro della base e ti spiego tutto.»
Scrollo le spalle e annuisco. «Non vuole che l’aiuti a scendere il carico?»
«A fare che?»
Mi mordo il labbro. «Intendo a scaricare.»
«Sei siciliano vero?» Si gratta la guancia col pollice e lascia una striscia di sporcizia sulla pelle. «Ci penso io domani col muletto. Adesso è tardi.»
Ho ancora il fuso orario italiano in testa. Sarà dura abituarsi.

«Questa è la sala Google.» Fabris indica la parete colma di libri. «La chiamo così perché c’è la biblioteca: qui internet non va, quindi la ricerca si fa vecchia maniera.»
Fisso la sua maglietta. Non indossa la divisa della Miskatonic Corporation ma l’uniforme di una squadra di calcio, i colori sono quelli della Juve.
Indico l’albero carico di lucette colorate. «Avete fatto gli addobbi di Natale.»
L’omone sorride. «Li ho fatti io. Da un mese sono rimasto solo. Le decorazioni sono un modo per tenere su il morale, specie dopo quello che è successo.»
Mi schiarisco la gola. «A cosa si riferisce? Ha a che fare con la bestia là fuori?»
Fabris mi ignora e cammina verso la porta. Sulla sua maglia il numero 20 ondeggia a ogni passo. Il nome sulle spalle è Bierhoff.
«Sala ristoro. La cucina è lì dietro.» Mostra un bancone sormontato da fornelli. «C’era un cuoco, ma ora dovremo fare da soli.»
Non dico niente. Fabris si volta, il numero riprende a ondeggiare. Cambiamo stanza.
«Sala controllo di Amanda: casa tua Rizzo. Qui monterai i cluster di GPU che mi hai portato.»
«Sarà tutto operativo in pochi giorni.»
«Bravo.» Si volta. Sul suo petto c’è il simbolo della squadra dell’Udinese, non della Juve. Che sia friulano? La sua manona si appoggia sulla mia spalla, pesa una tonnellata. Mi stritola. «Rizzo, se lavori sodo andremo d’accordo. Chiaro?»
Sbuffo e scrollo la spalla per liberarmi dalla stretta. «Non so bene cosa la porti a farmi la predica ancora prima che mi sia messo al lavoro, dottor Fabris.»
Sorride, i suoi denti sono bianchi e aguzzi. «’Scolta, dammi del tu. Voi siciliani siete sempre troppo cerimoniosi.»
Le unghie mi penetrano i palmi. «Vuole ripetere prego?»
Scoppia a ridere. «Mi piaci, hai le palle. Vieni che ti mostro la tua camera.»
La mia faccia avvampa di calore. Lo seguo: saliamo le scale e ci fermiamo in un corridoio. Una porta è socchiusa a rivelare un filo di luce. Sullo stipite penzola una strana bandiera azzurra recante un volatile stilizzato, una specie di stemma medievale. Fabris la indica. «Bandiera del Friuli e camera mia. La tua stanza è quella accanto.»
Si sposta e apre la porta del mio alloggio, entra e alza la tendina della finestra. La luce del sole illumina tutto: il letto addossato alla parete occupa una buona metà dello spazio, una scrivania con vicino un armadietto sta nell'altra metà. Un piccolo corridoio tra i mobili permette di camminare fino alla finestra.
Fabris è ingobbito, il tetto della stanza è troppo basso per lui.
Mi schiarisco la gola. «Mi adatterò.»
L’omone fa qualche passo ed esce, il pavimento trema. «Se avessi bisogno di qualcosa sono qui in parte. Il cesso è fuori, la porta in fondo al corridoio.»
Entro in camera. «Vuole ora, per cortesia, mettermi al corrente di cosa sia successo in questa base? Cosa sarebbe quell’essere che ci ha attaccato poco fa?»
Scopre i denti. «Dormici sopra. Domani ne parliamo con calma. Sei scosso, si vede, riposati e pensa a montarmi le GPU.»
Gli sbatto la porta in faccia e mi siedo sul letto. Guardo la finestra, la distesa ghiacciata è illuminata dal timido sole di mezzanotte. Non c’è alcun essere grumoso a strisciare sul ghiaccio. Quei tentacoli, quella puzza. Il mio stomaco si contorce.

Le lucine della consolle lampeggiano ad intermittenza: il cluster di computer è collegato e le schede GPU sono funzionanti. Accendo lo schermo del pc, avvio l’interfaccia grafica e inizio la procedura di analisi. I grafici di utilizzo delle GPU guizzano in alto. Sorrido e lancio un programma di test che dà il risultato corretto in meno di un minuto. Premo il tasto dell’interfono della stazione. «Alfonso. Vieni a vedere.»
La voce gracchia. «Corro.»
Libero la poltrona e preparo il desktop per la dimostrazione. Fabris entra in sala controllo. Ha indosso la sua maglia dell’Udinese, fa l’occhiolino e si butta di peso sulla poltrona: le rotelline fischiano. La manona trascina il mouse sulla scrivania e sullo schermo le interfacce colorate scorrono in velocità.
Alfonso controlla i valori e annuisce. «Non male.» Si volta e mi guarda. «Ma questo era un gioco da ragazzi. Adesso arriva il lavoro vero.»
Sospiro. «Te pareva.»
«’Scolta.» Si alza e mi afferra entrambe le spalle. «Un motivo c’è se ho chiesto ai crucchi di mandarti qui. Ho letto il tuo curriculum: laurea in informatica e poi otto anni a progettare intelligenza artificiale.»
Scrollo le spalle per liberarmi dalla sua stretta. «Che c’entra questo col mio lavoro qui?»
Si lecca le labbra. «Sapevo che quelli della Miskatonic pensavano che fossi mona: mi hanno mandato i computer nuovi, ma per usarli avrei dovuto aspettare.» Mi guarda dall’alto in basso. «Noi però li fregheremo. Programma una IA per filtrare i dati di visualizzazione di Amanda.»
Arriccio le labbra. «Per fare che?»
Alfonso non smette di sorridere. «Cosa sai di questa stazione? A cosa serve?»
Sbuffo. Ci mancava anche l'interrogazione. «Poco. Sono un tecnico, non un fisico. Sotto il ghiaccio su cui poggia questa stazione ci sono dei rivelatori di particelle subatomiche che servono a vedere cosa c’è sotto la crosta terrestre. Giusto?»
Si accarezza la lunga barba bionda. «Amanda sta per Antarctic Muon And Neutrino Detector Array, le particelle di cui parli si chiamano neutrini. Vengono dallo spazio e attraversano tutto senza mai fermarsi. In questo momento noi stessi siamo attraversati da tantissimi neutrini.» Punta il dito verso il pavimento. «Sotto di noi ci sono più di mille fotomoltiplicatori, servono a raccogliere il segnale che lanciano i neutrini che attraversano il nostro pianeta. Può accadere che il ghiaccio li fermi, e noi li acchiappiamo. Mi segui?»
Annuisco. «Poi i neutrini più utili sono quelli che arrivano dall’altra parte del mondo: dal Polo Nord.»
Fabris batte le mani. «Giusto, quelli portano l'informazione di quello che c'è dentro la Terra. In pratica è come se facessero una radiografia al nostro pianeta. Il loro segnale però è sporcato da una miriade di tracce di rumore, e qui entri in gioco tu.»
Mi batto l'indice sul petto. «Io?»
«Questo è il vero motivo per cui sei qui: usare le GPU che mi hai portato e creare una IA per pulire quei dati.»
Faccio un respiro profondo e mi avvicino alla consolle, afferro il mouse e apro l'interfaccia di raccolta dati di Amanda. «Ma, da qui risulta che qualcuno ha già iniziato a pulire i dati e a visualizzare le radiografie della Terra.»
Alfonso si schiarisce la gola. «Sì, ci ho provato. Ma ecco quello che sono riuscito a ottenere»
Clicca lo storico delle elaborazioni, i dati sono relativi alla radiografia di un volume sferico con diametro di più o meno venti chilometri e alla profondità di seimila. Doppio clic: un’immagine molto sfocata in bianco e nero occupa tutto lo schermo.
Scuoto la testa. Una goccia di sudore mi solletica la guancia. La radiografia mostra una struttura a forma di X: è nera, lunga più o meno dodici chilometri. «Cos'è?» Balbetto e cerco lo sguardo di Alfonso. Lui mi fissa e sorride.
«Un'astronave, nascosta vicino al centro della Terra da chissà quanto.»
Non può essere. Non ha senso. «Come un’astronave?»
«La compagnia lo sapeva.» Incrocia le braccia. «La prima spedizione risale a cent'anni fa, quando la Miskatonic Corporation comprendeva solo l'università di Arkham. Hanno scoperto che l’Antartide è abitato da creature aliene.»
Ho i brividi lungo la schiena. «Quel mostro che ci ha attaccato è un alieno?»
Alfonso sospira. «Di quello parleremo più avanti. Adesso concentriamoci sul tuo compito. Voglio che tu migliori il mio lavoro.» Accarezza lo schermo col dito. «L'immagine è tutta sgranata, e comunque ci sono i dati per visualizzare un volume di nucleo terrestre anche più grande. Vedi, sono un fisico, non un informatico. Ho chiesto espressamente di te ai caporioni crucchi, e l’ho fatto per un motivo.»
Mi viene da ridere. «Perché io? Dovrei conoscere a menadito la struttura dei dati, studiare la teoria delle reti neurali informatiche usate qui, imparare a programmarle, ho bisogno di tempo, di risorse…»
«La nostra biblioteca è piena di testi e manuali di programmazione. Non abbiamo internet, ma ci arrangiamo. Però il tempo scarseggia, quella merdaccia là fuori presto imparerà come entrare.»
«Ma cos'è? Un alieno? Parla, minchia!»
Alfonso mi guarda e sghignazza. «Che squadra tifi, siciliano?»
Digrigno i denti. «Che c'entra adesso?»
«Dai, non dirmi che il calcio non ti interessa.»
«Non molto. Comunque seguo l'Inter.»
Mi dà una sberla sulla spalla. «Lo sapevo! Dai siciliano interista, stasera sei invitato a cena. C'è la partita Udinese-Inter. Che vinca il migliore.»
Mi giro e apro la bocca per rispondere, ma l'omone è già uscito dalla sala controllo.

La poltiglia rosacea puzza di aceto. Rigiro il piatto e guardo Alfonso, il suo viso è raggiante, manda giù cucchiaiate di cibo e ingolla sorsate di birra. L'altoparlante manda una musica natalizia, le luci dell'albero colorano le pareti di rosso, verde e blu. Alzo lo sguardo: alla TV la partita continua, un tiro di destro di Ronaldo e la palla parte come un siluro, ma il portiere riesce a parare.
«Grande! Viva l'Udinese!» Alfonso alza il bicchiere e mi costringe a ricambiare il brindisi. Mando giù un po' di birra: a niente è servito dirgli che non bevo. Alzo la forchetta e metto un po' di brovada in bocca. È aspra come la caponata, ma disgustosa. Mando giù tutto con un altro sorso di birra.
«Ti piace?» Fabris sorride. «Non tutti la mangiano, specie quando scoprono che sono rape macerate nella vinaccia.»
Trattengo un conato di vomito. «Scusa.»
Alfonso allunga il braccio, afferra il mio piatto e versa il contenuto nel suo. «Questo è cibo per uomini duri, mica per quelli come te.»
Batto il pugno sul tavolo. «Hai mai mangiato un panino con la milza? Vediamo se ce la fai.»
Mi fissa divertito. «Cos'è la gara a chi mangia cose più schifose? Dai, aspetta.»
Si alza e va in cucina. All'altoparlante inizia Jingle Bells, Alfonso canticchia note stonate.
«Tra le casse che mi hai portato ce n'era anche una per me. Stamattina mentre lavoravi alla sala controllo ho fatto il pane.» Torna al tavolo con una cesta di pagnotte e un lungo tagliere. «Ho dovuto rubare il lievito a Reinhard Brandt, ma visto che gli ho già rubato quasi tutta la birra ho pensato che ormai tanto valeva finire il lavoro.»
«E chi sarebbe questo Brandt?»
Gli occhi di Alfonso fissano il vuoto. «Uno a cui questa roba non servirà più. Era l’elettricista.»
Sbatte sul tavolo una polpetta ricoperta da granelli giallastri. Puzza di capra. Taglia delle fettine. «Questa deve piacerti. La fanno dalle mie parti. Si chiama pitina
Infilo una fetta di carne tra due pezzi di pane. Il sapore è sempre acido, di pecora, ma passabile.
«Questa è buona.» Lo guardo negli occhi. «Senti, cosa vuol dire che al tuo collega il cibo non servirà più? È andato via?»
Alfonso prende un sorso di birra e ricomincia a guardare la partita.
Appoggio il panino e sospiro. «Non mollo. Devi dirmi la verità. O vuoi continuare a guardare partite di calcio vecchie di trent'anni?»
Grugnisce e muove la mano come a scacciare una mosca: armeggia col telecomando e alza il volume della partita.
Mi sporgo sul tavolo e mi avvicino a lui. «Dove sono tutti gli altri membri dell’equipe? Cosa sono quelle dannate bestie aliene là fuori? Perché ci sono delle astronavi della minchia sepolte vicino al centro della Terra?»
L'omone si alza in piedi e spegne la TV. «E va bene! L'Udinese vincerà due a zero, gol di Bierhoff al quarantaquattresimo e al settantottesimo.» Mi sorride. «Che dici? Andiamo a fare un salto ai piani inferiori? C’è della roba che voglio mostrarti.»
Faccio spallucce. «Come vuoi tu.»

La luce della lampadina illumina le sei bare raccolte in infermeria, una ammassata sull'altra. Alfonso si avvicina e carezza il metallo.
«Eccoli qua, i miei compagni. Di questi sono riuscito a recuperare i corpi. Molti altri, be'. Se li sono mangiati.» Si gira e mi fissa negli occhi. Ho i brividi.
«Quando sono morti?»
Si appoggia sul tavolo operatorio. «Quando abbiamo attivato i rivelatori di particelle di Amanda siamo stati subito attaccati.»
«Da cosa? Da quelle bestie lattiginose?»
Stringe i denti. «La compagnia lo sapeva. La spedizione di cent'anni fa è stata distrutta dagli shoggoth.» Sospira e guarda il vuoto. «Sono bestie aliene, di origine sconosciuta. Compaiono in numerosi antichi testi di magia nera, come il Necro.. Necrolocon.. qualcosa del genere.»
Mugugno e annuisco. «Ora capisco perché la compagnia ha militarizzato la base.»
Tira su col naso. «Quelle cose hanno fatto fuori i miei compagni. Sono rimasto io da solo, assieme a quei mostri.» Batte il pugno sul bordo del tavolo. «Quegli esseri non vogliono che veniamo a conoscenza della verità. Però io non mi arrendo.»
I suoi occhi azzurri sono cosparsi da venuzze rosse. Inghiottisco saliva e aspetto.
Mi si avvicina. «Lavora ai dati, crea un programma per filtrarli, voglio allargare la visualizzazione di Amanda e vedere tutto quello che c'è sotto di noi. Che vadano in mona tutti.»
Il cuore mi batte forte. «Ce la farò. Lo prometto.»

Porto alla bocca la tazza di caffè e prendo un sorso. Il calore mi scalda la gola, bella sensazione. Volto la pagina del manuale e scorro il dito sulle linee di codice. Se questa roba funziona, allora sono nella strada giusta.
Fuori dalla finestra la vista del sole è ostacolata dai vetri appannati. Il deserto bianco è una colata di ricotta zuccherata. Quanto vorrei un pezzetto di cassata, Alfonso ha solo porcherie aspre e liquori.
La musica natalizia dell’altoparlante mi riporta alla realtà. Sospiro e metto il manuale in parte per dopo. Scorro il dito sulle copertine dei libri della biblioteca della sala Google: ci sono vecchi testi sull’ecologia del Polo Sud, trattati di microbiologia e patologia. Prendo il manuale di Python, lo sfoglio.
Alfonso entra, i suoi passi fanno tremare l'albero di Natale.
«Vieni con me.»
Poggio il libro e lo seguo fino all’hangar della base. Alfonso si abbassa e raccoglie un fucile da una cassa. Me lo lancia, lo afferro al volo e lo guardo.
L’omone ride. «Non preoccuparti, gli AK47 li usano anche i bambini, purtroppo.»
Passo le dita sulle levette metalliche e sul grilletto. Scuoto la testa. «Cosa stiamo facendo?»
Alfonso si allaccia il giaccone. «La centrale elettrica ha un guasto. Devo uscire a ripararla. Vieni a coprirmi le spalle: non ci metterò molto, è già successo e so cosa fare.»
Sospiro. Mi tremano le gambe. «Non so se sono pronto per questo.»
Mi lancia un'occhiata di scherno. «Se non sei pronto per questo allora siamo del gatto: siamo fregati. Tieni.»
Mi passa una cintura a cui sono appese delle granate. «Questa è roba buona: tira la spoletta, conta veloce fino a sei e lancia.»
Mi allaccio la cintura e scuoto la testa. Ho lo stomaco in subbuglio, la gola secca. Ci sistemiamo i cappucci e le varie protezioni per il viso. Non voglio uscire, non sono un soldato.
La saracinesca si alza, siamo fuori. Il deserto ghiacciato brilla alla luce del sole. A lungo andare mi accecherei se non avessi gli occhiali protettivi. Nessun segno dello shoggoth.
Alfonso scatta verso la piccola cabina nera col cartello di pericolo. Si appoggia alla porta.
«Tu resta fuori, e per l'amor di Dio, spara appena lo vedi.»
Le mani mi tremano. Alzo il fucile e lo punto davanti a me. Annuisco.
La manona guantata colpisce la mia spalla. «Coraggio! E forza Udinese!»

Il vento soffia e fischia nelle orecchie. Gli spifferi sono piccole coltellate nella carne. Saranno meno venti gradi come minimo. Tremo, ma non per il freddo. Il fucile è carico, basta premere il grilletto. Un gioco da bambini, ha detto. Il sole è alto, brilla senza convinzione, i timidi raggi si riflettono sul ghiaccio. Sono immerso in un oceano fosforescente.
Un ronzio alle mie spalle: Alfonso deve aver riparato la centrale. Le macchine funzionano.
Stringo il fucile, i muscoli mi fanno male. Ho il fiatone e il cuore che mi esplode in petto.
Merda: il ghiaccio si frantuma di fronte a me, lo shoggoth si trascina fuori. Devo sparare. Il dito sul grilletto non si muove. La schifezza si avvicina, una scia di bava ribolle al suo passaggio. Il tanfo di cloaca è insopportabile. Devo sparare. I tentacoli uncinati si allungano.
«Che fai! Muoviti!»
È la voce di Alfonso. Gli scoppi della sua arma mi assordano. Corro. Scappo. Il fucile mi dondola dalla spalla attaccato alla cinghia a tracolla. Una granata esplode alle mie spalle. Mi giro. Un tentacolo acuminato è avvinghiato alla gamba di Alfonso. Impugno il fucile, punto. Sparo. Lo shoggoth emette un ruggito gorgogliante. Sparo ancora. Il tentacolo si spezza. Alfonso barcolla verso di me, una scia di sangue cremisi macchia il ghiaccio immacolato.
«Scappa mona!»
Mi volto e corro. Arrivo alla base, mi appoggio al pulsante e la saracinesca si apre. Mi precipito dentro. Mi giro. Sparo qualche colpo verso la schifezza nodosa. I colpi la rallentano. Alfonso mi raggiunge. Chiudo la saracinesca. Siamo salvi.

Stringo la sua mano. Lui mi guarda con occhi sgranati. Le sue bende sono insanguinate, l'ho ricucito come ho potuto, ma la vena femorale era messa troppo male. Si agita sul lettino dell'infermeria, i tubicini delle sacche di sangue oscillano avanti e indietro.
«I dati, devi lavorare ai dati.»
Annuisco. «Non preoccuparti. Ci penso io.»
Sorride, ha i denti impiastricciati di rosso. Allunga la mano e afferra la mia uniforme all'altezza del petto. Mi tira a sé. «Non abbandonare. Scopri la verità.»
«Ci sono quasi. Non temere.»
Alfonso tossisce. «Resisti fino ai rinforzi. Non mollare mai.»
«Tranquillo.» Sorrido, una lacrima mi riga la guancia. «Ci penso io.»
Mi tira così tanto che mi costringe ad appoggiare il gomito al materasso. «Vai in camera mia.» Il suo alito puzza di sangue «C'è una bottiglia di grappa. Non voglio morire sobrio.»
Le lacrime mi scendono a fiotti. «Te la porto subito.»

Il mio programma ha bisogno di una piccola correzione. I dati pesano centodue terabyte e continuano ad arrivare. Le ventole dei computer girano come pale di elicotteri, l'aria della stanza è la più calda della stazione.
Mi siedo alla poltrona e aspetto. La rete neurale si ricalibra. La barra di completamento raggiunge il cento per cento: l'immagine della radiografia è pronta. Leggo le sue caratteristiche: i dati si riferiscono a un volume di Terra profondo seimila chilometri e spesso cinquecento.
Clicco e apro l’immagine. I dettagli si vedono bene, il materiale che compone l’astronave è filamentoso e attorcigliato. Allargo la visuale.
Il respiro mi si spezza in petto. Le lacrime mi oscurano la vista. Farfuglio.
Sullo schermo non una, ma decine di astronavi aliene a forma di X fluttuano nel nucleo della Terra.

L'albero di Natale è alto fino al soffitto. Le sue lucine intermittenti cambiano colore a velocità vertiginosa. Le palle colorate sono più piccole man mano che salgono verso la punta, mentre i globi vicino al pavimento sono grandi come arance. Sorrido, Alfonso si è proprio impegnato.
Uno schianto sul tetto, l'albero oscilla e le palle dondolano in circolo. Lo shoggoth ha capito che sono arrivato alla verità. Quanto tempo reggerà la base?
Mi siedo sul pavimento e appoggio la schiena alla libreria colma di libri. Poso il grosso testo di microbiologia sulle ginocchia e lo apro, le pagine odorano di inchiostro vecchio e di muffa. Trovo l’immagine di una morula embrionale, al centro del disegno i cromosomi sono piccole X: all’inizio della sua moltiplicazione il nucleo della cellula uovo fecondata si divide in due blastomeri, poi in quattro, in otto e così via fino al completo sviluppo del nascituro.
Prendo in mano la stampa della radiografia prodotta da Amanda. Si vede la flotta di cromosomi e si vedono le linee che suddividono il nucleo della Terra in quattro blastomeri larghi migliaia di chilometri.
All'altoparlante c'è la mia canzone preferita.
Canticchio.
Tu scendi dalle stelle, oh re del cielo.
Mi sganascio dalle risate.
Uno schianto dal piano superiore. Un ruggito. Che puzza di merda!

Edited by MentisKarakorum - 27/11/2020, 08:38
 
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view post Posted on 26/11/2020, 18:55

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Ciao, Mentiskarakorum, forse c'è ancora tempo prima che qualcun altro posti. Nel caso in cui non fosse così, ti commenterei volentieri.

Ciao, White Pretorian, tutto dipende da te.

Ciao, Gargaros, e anche da te.
 
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view post Posted on 26/11/2020, 20:48
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Io posto prima che scada il tempo, tranqui. Ma saremmo comunque in tre...
 
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view post Posted on 27/11/2020, 09:21
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"Ecate, figlia mia..."

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Non mi sono agganciato a nessuna specifica bonus, quindi non cercate il "tacco dodici nella palude" o lo sciou don tel.




IL PRETE



«Ma cosa sta facendo?» chiese Arianna con un fil di voce.
«Che dio mi strafulmini se lo so» rispose Giorgio, seduto accanto alla prima su una panchina del parco.
«Se Dio c'è, se deve strafulminare qualcuno deve essere proprio lui» disse la ragazzina, indicando il prete col mento perché di tirare fuori una mano dalla tasca del piumino non era saggio, in quella notte così atrocemente gelida.
Il prete era infatti uscito da alcuni secondi fuori dalla chiesa che si affacciava sull'ampio parco deserto, e ora pareva dedicarsi a un rito che capiva solo lui.
Arianna e Giacomo stessi erano usciti da quella chiesa, però varie ore prima, coi familiari e con gli altri fedeli, dopo aver assistito alla messa, prima di darsi alla mangiatoia della vigilia di Natale.
La chiesa era risultata però quasi vuota, perché da quando la diocesi aveva mandato quel nuovo prete, come sostituto del dipartito don Gennaro, il numero dei fedeli era andato calando di domenica in domenica. E nella cittadina, soprattutto presso la cerchia dei parrocchiani, si erano via via diffuse strane dicerie, per lo più deformazioni di fonti originarie basate a loro volta sui «sentito dire»; come in quel gioco del passaparola, dove una parola deve essere detta in una fila di partecipanti, partendo da un primo che la spiffera all'orecchio del vicino, e di vicino in vicino giunge all'ultimo della fila, il quale deve dirla ad alta voce, scoprendo per lo più che è diversa rispetto a quella originaria, così forse le dicerie erano state modificate da bocca a bocca, fino ad assumere proporzioni enfatizzate, e alcune mostruose.
Tuttavia don Pasckics – questo l'assurdo nome del prete, di origine forse greca, o di qualche altra nazionalità oscura – non faceva granché per contrastare quelle voci impazzite: fin dal primo passo piazzato nella cittadina aveva mantenuto un atteggiamento riservato e addirittura scostante verso i fedeli e gli abitanti locali; nei discorsi generalmente procedeva a monosillabi, faceva parlare gli altri, se c'era da discutere molto, e interveniva, solo quando necessario, con «Sì», «No», «Forse», e alle domande dirette sulla sua persona allungava con fredde «Preferisco non rispondere», «Non sono affari della comunità», «Sono fatti personali».
Ad accrescere l'antipatia che generava col comportamento era senza dubbio l'aspetto fisico, in equilibrio tra la normalità e una deformità imbarazzante. Di corporatura imponente, aveva però spalle incassate e cascanti, e una schiena rigonfia verso l'alto, non proprio una gobba, ma nemmeno espressione di salute. Per il resto, l'età era indefinibile, e poteva avere quarant'anni come settanta. Il volto aveva lineamenti marcati, duri, ma a caratterizzarlo erano un naso estremamente piatto e largo, un'arcata sopraccigliare molto pronunciata – che gettava quindi un ombra fonda sugli occhi, incassati in quell'oscurità al punto che era difficile scorgerli persino di giorno; quando però li si scorgeva bene, si rimaneva basiti da una accentuata sporgenza dei bulbi, tanto che si generava il sospetto che l'arcata contribuisse al mantenerli incassati nelle orbite.
Questo era dunque don Pasckics. Non meno simpatiche però risultavano le sue orazioni. Si era detto che non parlasse molto in pubblico, ciò che, ovviamente, non era ammesso nelle funzioni. Dopo i preamboli liturgici classici, don Pasckics era costretto a fare delle orazioni, suggerimenti di vita giusta che i fedeli avrebbero potuto seguire, consigli vari e apparentemente saggi, o rassicurazioni sulla salvezza delle anime per i timorati di Dio, e quant'altro; a volte si calava in riflessioni sull'attualità, sulla politica, sulle cronache cittadine, cercando di estrapolare da tutto un senso divino, per ammorbidire nelle coscienze, già sedate in parte dalla fede, la durezza e la brutalità della vita.
Il tono della voce però rimaneva sempre distaccato, persino infastidito, come se mal digerisse il dire cose su cui aveva poca o nulla fiducia. Spesso sembrava recitare un copione che non si adattava al suo personaggio. Si immagini un Hitler che parli di pace nel mondo, agitando teatralmente le braccia e urlando con quella pronuncia tedesca che può esprimere solo macigni e spine; a tal punto don Paskics pareva tradire la sua vera natura pronunciando discorsi a lui alieni.
Erano però forse sensazioni della gente? Magari sensazioni stimolate da un'antipatia e una repulsione eccessive? Ben più di un fedele avrebbe giurato di no. Le prove potevano essere certe specie di sbagli che commetteva, certi lapsus che si insinuavano nelle prediche, a volte singole parole fuori di senso, altre piccole frasi poco chiare, oscure nei significati, ma capaci di far scorrere brividi lungo la schiena dei più sensibili e attenti, perché erano tradimenti sottili della sua posizione nella Chiesa cattolica e della funzione di pastore di anime; piccoli incidenti di percorso su cui il prete poi faceva un leggero sforzo di correggere, per esempio modificando appena appena il tono irritante, e rendendolo un pelo morbido, accorato. Ciò però avveniva nella misura in cui era avvenuto il lapsus, e si trattava quindi di sequenze molto brevi.
C'era anche un altro dettaglio che, forse più degli altri, faceva rabbrividire i sensibili e allibire chiunque altro lo vedesse. Era lo stesso motivo che ora induceva in Arianna un freddo glaciale sulla schiena, pur infagottata nel piumino a prova di temperature siderali.
«Hai freddo?» le chiese Giorgio.
«No... È quel suo modo di camminare!»
I due parlavano a mezza voce, perché non volevano tradirsi al prete, che difatti non si era accorto di essere spiato. Si erano seduti ai limiti del parco, sotto l'ombra di un fila di pini che bloccava la luce diretta dei lampioni più prossimi. Avevano scelto quel cantuccio per tenersi lontani da eventuali passeggianti in quella notte di Natale appena cominciato essendo l'una e mezza, per sbaciucchiarsi e forse toccarsi un po', se la passione avesse sconfitto il freddo. Ma adesso, guardando il prete, le fantasie amorose degli adolescenti erano sparite.
Ciò che don Paskics stava ora facendo contribuiva ad accrescere il senso di stranezza che gli riguardava: agitava le braccia nell'aria, formando forme curve, geometriche; la bocca si muoveva in quelle che parevano invocazioni; la faccia puntata in alto, come a guardare una stella che, pure, la pesante cappa di nubi copriva.
«Chissà come è storpio sotto quella tonaca» disse Giorgio.
«Ma no, uno storpio zoppica... Lui» e il brivido sulla schiena di Arianna si maggiorò «sembra... scivolare.»
«Ora che ci penso» ammise Giorgio «tu l'hai mai visto senza tonaca? Coi pantaloni?»
«No!» La scoperta per Arianna era stata così grande che quasi esclamò la negazione. Si fece allora piccola, temendo di essere stata scoperta.
Ma don Paskics, seppure adesso taceva e aveva smesso di agitare le braccia, continuò a fissare il cielo.
«No» ripeté Arianna, con voce sottile, questa volta. «Hai ragione, non si è mai visto coi pantaloni, o sollevarsi la tonaca. Anzi, non ti sembra strano che ne porti una più lunga del normale?»
«Porca merda se è vero! Il tessuto si affloscia là a terra. Come cazzo fa a non inciampare quando cammina? E poi è sempre bello gonfio, come la gonna di quei tizi che girano come scemi...»
«Ma... cammina? A me pare che scivola... tipo lumaca!»
«Se è messo così male» disse Giorgio «lo credo bene che ha quel caratterino di merda...»
Il prete rimase per un po' a fissare il cielo, la faccia inespressiva. Poi si voltò e rientrò nella chiesa, lasciando l'anta aperta.
Arianna si alzò.
«Vuoi andare via?» chiese Giorgio.
«No. Voglio dare un'occhiata.»
«Sei pazza! E se ci scopre?»
«Diciamo che stavamo passando, abbiamo visto la chiesa aperta e abbiamo pensato di augurargli buon Natale.»
Giorgio la seguì. Cosa diavolo mi prende? si chiedeva in verità lei. Poco prima era rabbrividita per l'orrore che le suscitava quell'uomo, e ora, seppur ancora piena di timore, stava dirigendosi nell'antro della bestia. Giorgio però la rassicurava: anche lui era un pezzo di marcantonio, ed era, al contrario di don Paskics, molto giovane e in salute, non avendo ancora diciotto anni. Inoltre, potevano sempre fuggire, se il prete avesse cercato di catturarli, e quello non sembrava capace di correre granché... Catturarci? pensò di nuovo lei. Ma cosa cazzo mi vado a immaginare? È solo un povero storpio arrabbiato con la vita, non un serial killer!
Arrivarono alla porta. Dentro non si udiva nulla. Una fioca luce si diffondeva nell'anticamera, segno che dovevano essere accesi solo i led che illuminavano i santi nelle navate laterali. Appurarono la cosa appena entrarono a metà, per poter sbirciare. La navata centrale invece era in penombra, una penombra fonda che lasciava solo appena intravvedere i banchi affilati e in ordine. In penombra era anche l'abside. Sembrava che di don Paskics non ci fosse traccia.
«Lo vedi?» alitò lei.
«No. Forse si è andato a infrattare nella sagrestia a spogliarsi. O persino in canonica per dormire.»
«E lascia la porta aperta?»
«Magari si è rincoglionito del tutto.»
Arianna afferrò la mano di Giorgio e se lo tirò dentro.
Non ebbero fatto che cinque passi, quando la voce di don Paskics «Voi due» si accese alle loro spalle, facendoli trasalire. Il prete, evidentemente, li aveva attesi nascosto dietro l'anta semiaperta, uscendo poi solo quando e se fossero entrati in trappola. Arianna fu consapevole di questo agguato, e ne ebbe la mente paralizzata.
«D-don Paskics» fece Giorgio. «Salve. Passavamo di qua, e...»
Don Paskics venne avanti. Nell'ombra cupa la sua tonaca eccessivamente lunga e rigonfia sembrò avere un ondeggiamento scomposto. Si era lasciato la porta alle spalle, eppure questa si chiuse con lentezza. La serratura che si collegava sembrò risuonare eccessivamente nelle navate.
«Passavate di qua?» chiese don Paskics con quella sgradevole voce.
«Sì» proseguì Giorgio, che stava cercando di mostrarsi fermo. «Abbiamo visto la chiesa aperta, e... e ci siamo chiesti se non stavate male... così siamo entrati. Per farle gli auguri di Natale, cioè!»
«Oh» fece il prete, che continuava ad avanzare. Arianna non si era accorta che sia lei che Giorgio stavano, nel contempo, arretrando. È solo uno storpio arrabbiato con la vita affiorò alla sua mente. Si aggrappò a quel pensiero con tutte le sue forze. È solo uno storpio, è solo uno storpio, è solo un povero storpio...
«Io penso» disse quindi il prete «che siate venuti a spiare».
«Ma cosa dice?» La voce di Giorgio si stava incrinando. «E a spiare che?»
«Non stavate già spiando dal parco, prima?»
Giorgio approfittò dell'accusa per manifestare la rabbia dell'offeso, ma era un attacco dettato dalla paura, perché la voce gli tremava mentre diceva: «Non stavamo spiando proprio nessuno! Ce ne stavamo per i fatti nostri, poi lei è uscito e... e...»
A memoria di abitante della città nessuno aveva mai visto don Paskics ridere o anche solo sorridere. La coppietta avrebbe potuto vantarsi di avere un'esclusiva, perché loro soli videro l'evento della bocca larga del prete che si allargò appunto in un sorriso sbilenco.
«E non avete capito nulla» disse don Paskics. «Stavo eseguendo un rito di richiamo, antico più di questo stupido Natale che festeggiate voi stupidi fedeli di una stupida religione. Un rito di richiamo, sì, perché questa è la notte! E le stelle si sono allineate, dopo migliaia di anni, in questa notte che voi chiamate Natale, ma la cui sacralità è ben più antica di quel vostro Salvatore immaginario. Le energie conglomerate dall'allineamento astrale propiziano la via, attraverso cui giungerà... lei
Il prete continuava ad avanzare, molto lentamente, e la coppietta a retrocedere. Erano arrivati quasi nei pressi dell'abside. La voce sgradevole del prete era rintronata sulle pareti, aveva saturando di bestemmia quel sacro luogo, schiaffeggiando i santi e i simboli religiosi, le panche, l'aria tutta della casa di Dio.
«Ma mi avete interrotto. E ho sbagliato a praticarlo fuori, ché non è necessario... ma la nostalgia di casa mi ha indotto a uscire, e guardare... Capitemi, sono migliaia di anni che calpesto questo mondo, prigioniero» proseguì il prete. «Tuttavia non è stato un male, fare sia l'una che l'altra, e non è stato un male che mi abbiate interrotto... Se avessi finito, avreste visto la sua forma reale, appena giunta, e potevate mettermi nei guai. Fortuna quindi che questa puttanella abbia quasi gridato.»
«Pu-puttanella?» disse Giorgio. «Ora sta esagerando! Ari, andiamo via!»
Ed effettivamente Giorgio agguantò Arianna per un braccio, portandosela in direzione del prete, con l'intenzione di scostarlo e oltrepassarlo. Magari dandogli uno spintone... Dare della puttanella ad Arianna!
Ed effettivamente aggirarono il prete, ma qualcosa allacciò i loro piedi, e caddero di muso a terra. Al livello del pavimento era troppo buio per capire cosa fosse successo. Arianna emise un urlo, Giorgio si divincolò ruotando di schiena, si sollevò seduto e cercò di districare le gambe. Afferrò quella che all'inizio gli sembrò una corda di gommapiuma; un'impressione che si sfilacciò dopo i vani tentativi che fece per spezzarla. Invece la corda si strinse vieppiù, formando nuove spire su per le gambe.
Il prete torreggiava a un paio di metri. «La vostra presenza, anzi, cade come quel vostro detto del formaggio sui maccheroni... Questi corpi umani si sformano troppo alla svelta alla nostra reale natura... e io è da anni che sento l'esigenza di cambiarlo. Prenderò un corpo giovane. E lei troverà pronta una nicchia carnale già pronta... Mi avete risparmiato una ricerca che avrei dovuto fare nei prossimi giorni... Finalmente saremo di nuovo uniti, anche se costretti a celarci in corpi umani!»
«Ma cosa cazzo!» Giorgio aumentò la sua forza, ormai disperato, per liberarsi. Ma quella cosa che si avvinghiava a lui pareva tenace come l'acciaio. Cominciò a usare le unghie, nel tentativo si strapparne brani superficiali, ma, sebbene sentisse la materia molliccia cedere, non gli riuscì di produrre alcuno squarcio, anche leggero.
Anche Arianna, riavutasi dalla paralisi della sorpresa, iniziò a divincolarsi, piagnucolando e lamentandosi. Invano disse: «Giorgio, aiutami!», perché nel buio, assoluto al livello del pavimento, non si era accorta che anche il fidanzato lottava per liberarsi.
Il prete si era avvicinato. Incredibile quanto sembrasse più alto e massiccio, visto dal pavimento. Arianna gli lanciava un'occhiata ogni tanto; forse le lacrime distorcevano la scena, perché ebbe l'impressione che l'altezza stesse aumentando, mentre era lì fermo, presso di loro, e li guardava con quegli occhi celati dall'oscurità.
Le spire erano arrivate alla vita, a entrambi i ragazzi. Nuove spire li agguantarono nella parte superiore. «Ari!» urlò Giorgio.
«Mmphffmm» disse Arianna: solo ciò le permetteva una spira che ormai le occludeva la bocca.
Don Paskics aveva ripreso nel frattempo il rito di richiamo. Le braccia divincolate nell'aria, a formare un disegno astruso e occulto, a cui partecipavano le dita, aperte e chiuse in un codice segreto che nessun essere umano avrebbe mai potuto decifrare. E la voce a effondere echeggianti cacofonie nella chiesa, parole aliene e amorfe, ma che essudavano di impressioni cosmiche e indicibili.
Anche Giorgio si trovò completamente arrestato da un groviglio di spire su tutto il corpo, la bocca altrettanto tappata.
Solo gli occhi erano liberi, sia quelli di Giorgio che quelli di Arianna. Avesse voluto il cielo che non fosse stato così! Perché per i pochi minuti ancora di coscienza che avrebbero avuto sarebbero precipitati nell'abisso di un orrore tanto potente da sfaldare ogni ragione umana. Perché poterono guardare cosa li teneva prigionieri sul pavimento insondabile, e da dove si generava quella prigione. Ci fu un lampo, di un secondo appena, quando la presenza che il prete stava richiamando giunse da distanze cosmiche, da una regione dello spazio forse abitata da quella razza; ci fu un lampo che illuminò a giorno le navate, una luce così diffusa da non generare ombre. Non videro la creatura aliena, ma ebbero la sensazione che una quantità d'aria si spostasse per l'arrivo di una massa elefantiaca. Ma la cosa che tenne incollati i loro sguardi, in quell'eterno secondo di luce innominabile, fu don Paskics, e per la precisione la sua tonaca. Non era stata un'impressione, generata dal punto di vista a livello del pavimento, a farlo apparire più alto. L'orlo della tonaca non toccava più il pavimento, ma stazionava a una quarantina di centimetri a mezz'aria. Don Paskics era davvero più alto. Ma non stava volando; semplicemente, si era raddrizzato sulle gambe. O meglio, sui tentacoli, di numero imprecisato e di spessori variabili, alcuni dei quali si arano avvoltolati sui due giovani sventurati.
 
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view post Posted on 27/11/2020, 18:25

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Ciao, White Pretorian, cosa ci consigli di fare? Aspettare che si unisca qualcun altro o cominciare i commenti?
 
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"Ecate, figlia mia..."

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Ma mancano ancora tre giorni alla scadenza, cos'è questa fretta? :p082:
 
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Ambientazione natalizia

Temi tipici
Degradazione di una stirpe
Orrori ignoti
Culti malvagi
Bonus
Show don't tell (forse!)

Maledetto Shakespeare!
di Roberto Masini

Prologo. Mi chiamo Cesare Barolo. Secondo voi, con un nome così, che cosa potevo fare? Anticipo la vostra ovvia risposta: sì, mi occupo di vini, export, soprattutto nei paesi asiatici, o, meglio, mi occupavo. Mio padre ha voluto che mi laureassi in Lingue Orientali e fino a ieri giravo l’est del mondo, proponendo ogni tipo di vino di qualunque colore della mia regione, il Piemonte. Prima di cominciare a raccontarvi questa incredibile storia voglio però rassicurarvi che non sono un alcolizzato. Lo dico perché è questa è una delle accuse che mi ha rivolto la polizia quando ho raccontato la mia storia. Le altre: che sono un pluriomicida e una spia al servizio dell’Occidente. Sono detenuto nella colonia penale lavorativa di Yodok, in Corea del Nord. Vedo tutti i giorni l’ambasciatore svedese che funge da tramite con lo Stato italiano perché l’Italia non ha l‘ambasciata a Pyongyang. Non mi dà molte speranze e mi spinge a confessare i miei delitti ma io non ho commesso alcun omicidio nel senso che non ho ammazzato alcun essere umano.

Uno strano segnalibro. Esattamente un anno fa, era la vigilia di Natale e mi trovavo a Parigi. Mai come in quel tardo pomeriggio il soprannome di ville lumiere mi sembrava azzeccato; stavo bighellonando sulla rive gauche cercando l’ispirazione per il regalo da fare a Melissa, la mia ragazza, quando, intirizzito dal freddo e privo di un ombrello, decisi di ripararmi da un’improvvisa nevicata. Mi rifugiai nel primo negozio che vidi davanti a me e solo dopo essere entrato mi accorsi che mi trovavo nella famosa Shakespeare and Company, una storica libreria situata nel V arrondissement di Parigi. La mia storia incomincia proprio qui. Mi addentrai per quei corridoi che emanavano austera vetustà; risalii antiche scale e mi ritrovai in un piccolo ambiente pieno di libri di ogni genere: rosa, avventura, giallo, thriller e horror. Fui attratto da un libretto giallo che riportava, in lettere gotiche e strane miniature, questo titolo: Biografia di uno scrittore da quattro soldi di H.P. Lovecraft. Proprio il giorno prima, il mio amico Alfred, grande amante dell’horror, mi aveva parlato per un’ora di questo autore, il suo preferito, che lui chiamava il solitario di Providence. Mi aveva molto annoiato perché io detesto l’horror: preferisco i gialli. Su di me quindi agì la seduzione del colore della copertina: l’afferrai, l’aprii e cadde un biglietto. Era scritto in coreano, lingua che conosco poco: maneggio meglio il cinese e il giapponese. Riposi nuovamente il biglietto nel libretto, non prima di averne fatto una foto. Mi ripromettevo di farlo tradurre da qualcuno. E invece me ne dimenticai completamente.
Me ne ricordai di nuovo quando, dopo quasi un anno, ritornai a Parigi per affari. Di lì a poco dovevo ripartire e quindi inviai al mio amico Cho Jun-yong, sudcoreano, naturalizzato francese, docente alla Sorbona di antropologia culturale una mail con il messaggio allegato per ottenere un’esauriente traduzione.
* * *
Dalla finestra del decimo piano dell’hotel Shangri-la di Singapore contemplavo l’enorme piscina sottostante. Salutai con la mano la ragazza texana che avevo conosciuto la sera prima e che mi accingevo a conoscere più nel profondo a fine serata, quando dal mio portatile acceso giunse la notifica di una mail. Era il mio amico Cho che mi avvertiva, prima di leggere l’allegato, che secondo lui si trattava di una bufala. Non ci badai e aprii il file:
“Vostra Grazia Sin Min-ho vogliate prestarmi orecchio! Mi chiamo An Young-Mu vivo a Shunti-mon, un piccolo porto nell’estremo Nord della Corea. Io vengo da Orang e sono laureato in storia delle religioni. Sentii dire di pesche eccezionali e di uomini strani e decisi di andare là per indagare. Il giorno in cui partii il mio amico Zaal Dok-len cercò di dissuadermi. Mi disse che il luogo aveva una cattiva fama; diceva che gli abitanti erano persone schive, che non sopportavano gli stranieri e che quindi non valeva la pena di sprecare là il mio tempo.
Voglio dire in queste righe che li ho visti! Forse morirò per questo. Avevano la pelle rugosa e verdastra, un’andatura saltellante e gli occhi grandi, sporgenti, inespressivi e non sicuramente a mandorla come tutti noi. Ho saputo (anche se risulta assurdo credervi!) che alcuni di loro praticano un rito misterioso in una caverna ai margini del paese, verso l’interno. Ho cercato di partecipare a una loro cerimonia ma sono stato scoperto. Perciò, anche se ancora non mi è successo nulla, so di essere in pericolo. Di notte qualcuno raspa alla porta e si sente un orrendo fetore di pesce.
Anche se diffidate, prego Vostra Grazia Sin Min-ho, quale ambasciatore sudcoreano a Parigi, di voler convincere le Autorità a mandare osservatori ONU a Shunti-mon, prima che sia troppo tardi!
Devo ancora dirvi che”
A me sembrava una storia molto interessante e ne scrissi a Cho che mi rispose che non era più il caso di occuparsene in quanto quel biglietto era puro esercizio letterario: non esiste né la città di Shunti-mon né tantomeno a Parigi l’ambasciatore sudcoreano Sin Min-ho.

Shunti-mon. La perentoria risposta del mio amico professore aveva completamente spento le mie aspirazioni di detective, anche se ogni tanto pensavo che sarebbe stato avvincente indagare sul nome di quella città, poiché di lì a poco sarei andato a Pyongyang per trattare una partita di cento bottiglie di barbaresco.
Purtroppo il lavoro mi aveva costretto ad accettare di andare nella Corea del Nord proprio durante le feste natalizie. Lo comunicai con estrema riluttanza alla mia ragazza.
«Tu non pensi più a me. Tu sei uno stronzo!» mi aveva redarguito Melissa con le sue espressioni pacate e raffinate. E aveva continuato «Solo una merda come te può lasciarmi sola alla vigilia di Natale. Tu e i tuoi sporchi affari! E chi mi dice che non festeggerai là il Natale con le tue puttane coreane?»
Mentre ancora urlava, strattonandomi, risposi:
«Per me è un’occasione unica di fare affari in Corea. Sarei il primo italiano che esporta lì vini piemontesi. Non posso rinunciarvi. Ti ho già chiesto scusa. Al mio ritorno faremo un bel viaggio alle Maldive. come volevi tu!»
«In culo te, la Corea e le Maldive!»
«Cara, guarda che io non andrò a divertirmi. Te l’ho già spiegato. In tutto il mondo il 24 dicembre è la vigilia di Natale. Tranne in Corea del Nord. Per nascondere l’evento della nascita di Gesù Cristo il regime comunista ha riempito di ricorrenze, tutte a sfondo nazionalistico, le date che precedono e seguono il fatidico 25 dicembre. Quando arriverò, resterò in albergo ad aspettare il mio cliente, mentre i coreani celebrano la nascita di Kim Jong-suk, nonna dell’attuale dittatore Kim Jong-un, il “Grande successore”, e madre del “Caro leader” Kim Jong-il, andando in pellegrinaggio nella città di Hoeryong, dove la donna è nata. Non lasciamoci così. Abbracciami!»
Per tutta risposta ricevetti un pugno nello stomaco e la promessa che non l’avrei più rivista al mio ritorno. Ero sicuro mentisse.
Scusate la divagazione sulle mie beghe familiari ma serve a farvi comprendere con che spirito partii.
Giunto nella capitale nordcoreana, dopo aver concluso l’affare con Kan Dung, un grasso commerciante in prodotti ittici, avevo accettato d’incontrarlo, dopo qualche giorno, a cena, nella sua villa sul mare di Unggi, al confine con la Russia. Mi aveva messo a disposizione un’Audi R8 ma io avevo rifiutato: volevo visitare da solo un po’ della Corea, prima d’incontrarlo, e così decisi, proprio il giorno di Natale, di prendere uno scassatissimo treno che risaliva tutta la costa nord orientale, toccando città favolose quali Hamheung, Sinch’ang, Tanch’on e Ch’ongjin. Un vento gelido sferzava la carrozza ma la giornata era soleggiata e si potevano ammirare pittoreschi paesaggi lontani.
Fu proprio quasi alla fine del viaggio, dopo aver visitato Tanch’on, uno dei maggiori porti della costa est della penisola coreana che, risalendo sul treno, incontrai uno strano individuo. Sembrava un anziano monaco con lunghi capelli bianchi annodati dietro in una treccia e con baffi lunghissimi e bianchi. Fino a quel giorno avevo incontrato pochi monaci buddisti completamente rasati.
Mi sedetti vicino a lui e rimasi in silenzio perché il vecchio stava dormendo; quando riaprì gli occhi, mi guardò fisso e mi domandò, parlando in cinese:
«Straniero, dove state andando?»
«A Unggi.» risposi. «E lei?»
«A Shunti-mon.»
«Prego? Dove sta andando?»
«A Shunti-mon!» ripeté il vecchio con un’espressione stupefatta.
«Vorrebbe dire che esiste veramente una città con questo nome, qui, in Corea. Lei non può immaginare ma di questa fantomatica città ne ho parlato proprio alcune settimane fa con il mio amico Cho Jun-yong che mi ha assicurato che non esiste!»
«Il vostro amico si è sbagliato: la prossima fermata è proprio Shunti-mon, che non è una grande città: è solo un paesino. Se ho capito bene voi, vorreste visitarlo. Ve lo sconsiglio: non c’è nulla d’interessante a Shunti-mon e gli stranieri sono malvisti!»
«Lei perché ci va, allora?» chiesi, incuriosito ancor di più per i tentativi del canuto coreano di tenermi lontano.
«Perché io lì sono nato!»
«E… dove abita, se posso chiederlo?»
«Non abito più lì dal 1970!»
«Ah… Scusi, non mi sono presentato: mi chiamo Cesare Barolo, commerciante di vino.»
Il vecchio s’inchinò e, congiungendo le mani, rispose, proiettandomi di colpo in quella libreria francese:
«Il mio nome è Zaal Dok-len.»
Il treno stava rallentando ed io non potevo lasciarmi scappare l’occasione di risolvere il mistero del messaggio. Il vecchio si alzò e mi pregò di non seguirlo ma io gli dissi semplicemente:
«An Young-Mu!»
Lo aiutai a scendere.
Seduti su una panchina della stazione, che Zaal mi disse essere molto distante dal paese, gli raccontai la storia del biglietto.
Il vecchio mi ascoltò con gli occhi chiusi e poi disse:
«Barolo, voi, stando con me, correte un grande rischio perché io devo salvare il mio amico e avrò contro l’intero paese!»
«Che cosa è successo al vostro amico?»
«Non lo so esattamente ma vi devo parlare di Shunti-mon, anche se voi non crederete una sola parola di quello che vi dirò!»
Lo spronai a parlare, rassicurandolo che lo avrei ritenuto un testimone attendibile.
«Bene. Dovete sapere che una volta, tanti anni fa, Shunti-mon era un porto importante di questa parte di costa. Il commercio dei crostacei ne aveva fatto una città fiorente. Nel paese era sorta una fabbrica di produzione e vendita di calamari. Nel giugno del 1950, con l’inizio della guerra, il mio paese rimase sempre più isolato e colpito da una crisi economica senza precedenti che danneggiò ogni tipo d‘industria a cui si aggiunse una strana moria di pesci che ridusse il pescato.
Kim Tu-bong, il padrone della fabbrica stava per chiuderla, quando il figlio Kim Do-yun, che aveva studiato antropologia e mitologia orientale in America, all’Università di Miskatonic, lo convinse ad aprire una strana chiesa all’interno di una vecchia caverna ai margini del paese, in onore di Hluc Hut, un dio dell’acqua che gli avrebbe procurato nuovamente il pesce. Noi siamo una nazione atea ma qui le autorità da tempo non controllano più nulla perché il paese si è spopolato e non aveva alcuna importanza strategica. Non so quali stranì riti si compissero in quella chiesa; sta di fatto che pesci e molluschi tornarono a frotte nel tratto antistante al vecchio porto di Shunti-mon. Questo avvenimento convinse buona parte degli abitanti a partecipare ai riti in onore di Hluc Hut. Poi cominciarono le stranezze. Nacquero bambini un po’ diversi dalla maggior parte della popolazione; avevano gli occhi grandi non a mandorla e quando raggiungevano l’età di vent’anni, la loro pelle diventava rugosa e verdastra. Camminavano con andatura strascicata come se avessero problemi alle articolazioni. Nessun medico li visitò mai.
Trent’anni fa venne a visitarmi An Chin, il padre di An Young-Mu, che era scappato da Shunti-mon. Mi disse che aveva preso questa decisione, dopo aver raccolto la confessione di un ragazzo morente dagli occhi sporgenti che officiava strani riti nella grotta ai margini del paese. Il ragazzo che si chiamava Han Moon-bae mi disse che Kim Do-yun li aveva convinti che i demoni al servizio di Hluc Hut non si accontentavano più dei sacrifici umani e che volevano accoppiarsi con le donne del nostro villaggio; ne sarebbero nati dei figli con un aspetto umano che via via si sarebbe trasformato come il corpo dei demoni, ma sarebbero diventati immortali. Chi si oppose a questi voleri fu sacrificato! An Young-Mu si era laureato in storia delle religioni all’Università di Pechino e un giorno suo padre si lasciò sfuggire una parte della storia. Lui venne da me perché mi considerava la memoria storica di quei tempi passati ma io non volevo avere più niente a che fare con quei degenerati e non gli rivelai quasi nulla. Nonostante gli scarsi indizi e il mio tentativo di distoglierlo da un’indagine pericolosa, minimizzando la terribile storia che riguardava Shunti-mon, egli decise ugualmente di svolgere ricerche mitologiche proprio là. E là deve aver scoperto quanto vi ho rivelato e chissà quali altri orrori ancora! Deve aver trovato qualcuno a cui affidare quel biglietto ma le mani erano sbagliate e nessuno ha saputo più niente di lui. Io l’avevo scongiurato che, se avesse deciso di raggiungere Shunti-mon, almeno avrebbe dovuto avvisarmi circa le sue eventuali scoperte mitologiche. Cosa che non è avvenuta e per questo, nonostante la mia età, per la fraterna amicizia che mi legava a suo padre, avevo deciso di andarlo a cercare, nutrendo però poche speranze di trovarlo vivo!»
Sopraggiunse un altro treno, sferragliando, che proseguì la sua corsa senza fermarsi. Quel rumore interruppe la conversazione e mi fece capire che avevo davanti un vecchio rimbambito che, anziché parlarmi di anomalie genetiche, tirava in ballo demoni e mostri. Avevo fatto male a trastullarmi con l’idea che avrei scoperto chissà che da quel messaggio e ora mi trovavo in un posto sconosciuto a dover gestire un pazzo. Non c’erano treni che proseguivano per Unggi fino al giorno seguente e così decisi che avrei cercato un albergo per trascorrere la notte. Natale era ormai trascorso ma nulla intorno me lo faceva ricordare, se non il datario del mio orologio! Il vecchio Zaal mi pregò inutilmente di andare a dormire nella sua catapecchia dove più nessuno aveva messo piede da quando se n’era andato. Fui irremovibile e, dopo aver appreso che non esistevano taxi, lo trascinai a piedi fino al centro del paese che distava alcuni chilometri.
Tutto quello che aveva detto il vecchio non era vero: incontrai in verità poche persone ma tutte avevano gli occhi a mandorla. Solo un giovane, che avvicinai per un’informazione, nonostante il disappunto di Zaal, aveva gli occhi straordinariamente grandi e acquosi. Rispose in un cinese stentato pieno di strani gorgoglii che non c’erano alberghi a Shunti-mon. Se ne andò con un’andatura strascicata; la cosa non mi preoccupò: maggiori preoccupazioni destava in me l’eventualità di trascorrere la notte nella casa di Zaal.
* * *
La catapecchia fatiscente ci accolse alla periferia del paese; l’unica cosa in buono stato sembrava proprio il robusto portone di pino che si apriva su un cortile che in un lontano passato aveva visto cachi, ciliegi, albicocchi, cornioli, orchidee, crisantemi, fiori di loto e bambù. Zaal si guardò intorno con aria circospetta, mentre infilava la chiave nella toppa. Ma nessuno degli abitanti di Shunti-mon ci aveva in realtà degnato di uno sguardo.
Mi propose dei turni di guardia che io finsi di accettare per calmare la sua crescente inquietudine che gli stava procurando un tremore incontrollabile alle mani. Dopo mezzanotte si addormentò e subito dopo anch’io caddi in un sonno profondo.
Mi svegliai verso le due: sentivo suoni gorgoglianti provenire da portone. Mi alzai; la pancia di Zaal si sollevava e abbassava ritmicamente e dalla bocca spalancata usciva una specie di rantolo. Uscii in cortile; una luna piena rischiarava ogni cosa. Mi avvicinai al portone; udivo sciabordii e suoni gorgoglianti come se dall’altra parte ci fosse una barca che remava nell’acqua e ci fossero rane gracidanti. Un fetore di pesce mi costrinse a premere un fazzoletto sul naso. Da una piccola fessura nel legno riuscii a guardare fuori. Vicino al portone, in una zona non rischiarata dalla luna, si erano radunate non creature mostruose ma persone; mi sembrava di scorgerne le facce, le braccia e le gambe ma c’era qualcosa di sbagliato che non riuscivo a capire. Forse era il modo ciondolante con cui si muovevano, forse era il loro strano linguaggio che non assomigliava nemmeno lontanamente al coreano. In mezzo a tante perplessità si palesò una certezza: avevano cattive intenzioni. E infatti cominciarono a premere tutti insieme il portone e poi cominciarono a tempestarlo di colpi con una specie di bastone ricurvo di cui ognuno era munito.
Tornai sui miei passi.
«Zaal, Zaal, si svegli!» sussurrai. «Mi sembra che qualcuno voglia penetrare in casa. C’è la possibilità di uscire di qui senza passare dal portone?»
«Mi credete, ora?» domandò e poi aggiunse, «Seguitemi!»
Mi condusse in un’altra stanza che sembrava una cucina, e poi un’altra quasi sgombra di mobili. Lì aprì la finestra e la scavalcò. Eravamo al piano terra; non dovetti nemmeno saltare. Scoprimmo che l’orda di figure ciondolanti stava per circondare l’edificio, per cui ci lanciammo dall’unica parte che ancora non avevano raggiunto. Percorremmo una strada parzialmente lastricata e poi udimmo un grido, terrificante, abietto, che ci raggelò le vene.
«Hanno scoperto che siamo scappati!» mormorò Zaal.
Dopo poco li scorgemmo e incominciammo a correre e capimmo in un lampo che con quelle andature non ci avrebbero mai raggiunto. Le case si stavano diradando; eravamo ormai alla periferia del paese. Imboccammo un sentiero e continuammo a correre sotto la splendente luce della luna. Non vedevamo più gli inseguitori ma decidemmo di continuare. Arrivammo in prossimità di una grotta che sembrava buia e deserta. Ricordammo tutt’e due le parole di An Young-Mu sulla cerimonia segreta. Zaal Dok-len m’intimò il silenzio con l’indice sulla bocca: aveva percepito un rumore. Non fece in tempo a dirmi di tornare indietro che, dal nulla, comparve una decina di uomini armati di pistole che ci catturarono. Avevano gli occhi globulari e la pelle sembrava verdastra al chiarore della luna.
Ci condussero all’interno della grotta, tutta disseminata di statue di fattezze orripilanti. C’era un rospo alato con tentacoli al posto del volto, un colossale verme tentacolato, un gigantesco granchio, dotato di proboscide e infine un pesce-rana con piedi palmati le cui fattezze erano simili a quelle dei nostri aguzzini.
In fondo alla grotta, illuminato da una luce verdastra, stava in piedi un uomo di statura superiore ai due metri. Indossava un ampio mantello giallo che lo ricopriva interamente, lasciando scoperta solo la testa.
«Kim Do-yun!» esclamò Zaal Do-tek.
«Mi riconosci dunque!» rispose l’uomo con una voce assurda, liquida e singhiozzante. «Ti avevo detto che non saresti dovuto tornare. Il tuo odio nei confronti di Hlut Huc è grande e quindi il dio ti manda a dire attraverso me che il tempo per te è finito, come è finito il tempo del tuo accompagnatore!»
L’uomo si scostò e comparve, alle sue spalle, una statua ancor più abominevole delle altre: su un corpo umanoide spiccava una testa orribile di calamaro con antenne e tentacoli; s’intravedevano ali membranose sulla schiena.
«Prostratevi davanti a Hluc Hut ed egli aprirà per voi i cancelli delle delizie e dei desideri più sfrenati!»
Nessuno di noi due si prostrò; fummo colpiti alla nuca.

Epilogo. Quando ci svegliammo, eravamo in riva al mare. Nevicava. Onde altissime colpivano la spiaggia. Il vecchio Zaal Do-tek venne preso e gettato in mare, per sacrificarlo a Hluc Hut. Ora toccava a me.
Kim Do-yun mi chiese se volessi abbracciare il culto del dio. Rifiutai.
E allora il gigante sollevò il mantello per dare il segnale ai suoi accoliti. Sollevò il mantello e apparvero due enormi tentacoli con le ventose pulsanti. Inorridito ma deciso a lottare, prima di morire, afferrai la pistola della creatura vicino a me e cominciai a sparare e correre, correre e sparare.
* * *
Mi si accusa di aver ucciso molti uomini nel porto di Shunti-mon, tra cui il famoso commerciante di calamari Kim Do-yun. I corpi non sono stati ritrovati, dicono gli inquirenti, ma c’era sangue dappertutto sul molo.
Io continuo a negare di aver ammazzato un solo essere umano: ho invece eliminato dei mostri.
Ma forse non li ho eliminati tutti. Varrebbe la pena che qualcuno andasse a controllare!
 
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view post Posted on 28/11/2020, 12:06
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"Ecate, figlia mia..."

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view post Posted on 28/11/2020, 12:19
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Ci hai salvati in zona Cesarini! Grandissimo! Benvenuto tra noi! :woot:
 
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