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Skannatoio Marzo - Aprile 2021, Mors tua vita mea

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MentisKarakorum
view post Posted on 25/3/2021, 19:24 by: MentisKarakorum
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Cari amici di penna, ecco il mio umile contributo per questo mese: massacratelo più che potete! A presto!
PS: ambisco a tutti i bonus.


In Fondo al Mar / In Fondo al Mar



Il livello dell’acqua sale e raggiunge la mia gola. Come diavolo ci sono finito qui?
Ok. Iniziamo da capo.
Mi chiamo Matthias, sono un ingegnere geotermico, e odio il mare. Strano a dirsi, ma tutto quello che ha a che fare con la fauna della barriera corallina, mi fa una paura fottuta. Gli strizzacervelli danno un nome alla mia condizione: cnidarofobia, la paura di tutto quello che vive sul fondale marino.
Tutto è iniziato quando ero piccolo. Io e i miei genitori andavamo sempre in vacanza al mare. Io l’adoravo, mi piaceva sguazzare nelle acque calde dell’oceano e amavo immergermi con la maschera a contemplare tutto quello che strisciava sul fondale; ma un giorno la mia vita è cambiata. In mare vivono esseri strani, alieni, che con noi non hanno niente a che fare: animali più simili a piante, o a gusci pieni di roba molliccia, e comunque ricoperti di aculei. Ci sono anche cose che a prima vista sembrano sacchetti di nylon, e con quelli c’è poco da scherzare. Insomma, quel giorno, durante una delle mie immersioni, ho visto una caravella portoghese. Non è raro che in Australia quelle porcherie sguazzino libere, raminghe e vagabonde; sono simili a meduse, anche se appartengono a una specie diversa, comunque hanno tentacoli lunghissimi, che possono arrivare a decine di metri, e se ti beccano si può anche morire. Ok, è raro, ma può succedere. Insomma, di colpo la schiena inizia bruciarmi, come se mi stessi rotolando sui carboni ardenti. Risultato? Tre mesi di ospedale, steso a pancia in giù col culo per aria, che anche le lenzuola erano come carta vetrata.
Così è iniziato tutto: a furia di vedermi frignare i miei genitori hanno perso le speranze di convincermi a fare di nuovo un bagno in mare, e da quella volta ho iniziato a frequentare gli psicologi.
Fa ridere, vero? Specie se si considera la piega che ha preso il mondo negli anni successivi, con la migrazione subacquea. Quando era il nostro turno di trasferirci a New Sidney, mia moglie era raggiante: vivere sott’acqua, diceva, era un’esperienza di vita nuova, qualcosa come andare sulla Luna. Essendo io ingegnere, le alte sfere ci hanno anche concesso qualche agevolazione: un appartamento più grande, stipendi più alti, assistenza sanitaria gratuita.. quelle piccole cose che per loro sono nulla, ma per chi ha è sposato e vorrebbe avere bambini è tutto. Così ci siamo trasferiti.
Diciamocelo, sapermi chiuso in un ventre di metallo con fuori l’inferno, non è che mi faccia piacere, ma la convinzione che le paratie sono belle spesse mi ha sempre aiutato ad andare avanti. E poi cosa non si fa, per la propria famiglia? L’alternativa era restare a vivere in un lurido scantinato a Melbourne, con sessanta gradi all’ombra, e passare le giornate ad aspettare nelle file chilometriche per la distribuzione dell’acqua. Almeno, qui sotto, il problema dell’acqua non c’è mai stato. I depuratori sono una meraviglia: sai che goduria è farsi una doccia calda? Poi l’acqua con cui ti lavi è, anche se piena di minerali, pure ottima da bere.
Dicevo che sono un ingegnere specializzato in impianti geotermici. Le città subacquee vanno avanti così: con l’energia che la Madre Terra regala a chi se la prende dai fondali vulcanici dove, infatti, l’acqua dell’oceano è bollente: basta metterci un tubo sopra et voilà, energia elettrica gratis per tutti. Ok, non è proprio così facile, altrimenti l’università non servirebbe a un fico secco, però il concetto è quello.
New Sidney si sviluppa sul fondale oceanico, a centoventi metri, e una delle sue centrali geotermiche è sottoterra, a trenta metri o giù di lì. Il casino è che, qualche volta, possono esserci i terremoti. Avrete senza dubbio sentito parlare degli tsunami, be’, proprio loro. Sul fondale non è che si sentano troppo e, comunque, New Sidney è costruita con tecniche antisismiche; però, una volta su un milione, le misure di sicurezza possono andare a farsi fottere tutte nello stesso momento: ecco cosa succede quando la nostra Madre Terra, che ci regala il suo prezioso mestruo caldo, sanguina un po’ troppo.
Insomma, eravamo tranquilli alla centrale, quand’ecco che tutti gli strumenti iniziano a cinguettare all’unisono. Diciamocelo, visto che sono un nuovo arrivato mi hanno messo di turno con gli sfigati, di notte, quando la richiesta di energia è al minimo. E va bene, saremo stati anche degli scappati di casa alle prime armi, però vorrei vedere chi, nella nostra situazione, si sarebbe comportato meglio di noi.
L’esplosione ci ha fatti tutti saltare a correre verso l’ascensore di emergenza, lasciandoci dietro gli strumenti che friggevano inondati dalla lava. Gli allarmi mi spaccavano le orecchie, le luci rosse intermittenti erano da attacco epilettico e i miei colleghi si calcavano nello stretto corridoio come topi che abbandonano la nave. Non sono un eroe, lo so: solo nei momenti di vera emergenza si scopre quanto si è coraggiosi.
Arrivato di sopra, ho notato che i colleghi giunti per primi avevano fatto partire tutte le capsule di evacuazione. Qualcuno aveva anche aperto il boccaporto di emergenza sul pavimento e mancava qualche tuta da palombaro. Così ho capito: per salvarmi avrei dovuto saltare sul fondale e percorrere a piedi il tragitto fino alla città. La lava stava fondendo la stazione, che sarebbe collassata in pochi minuti.
Senza pensarci troppo mi sono infilato nella prima tuta a disposizione, ho attaccato per bene il casco avvitando i bulloni fino a sentirli stridere sulle loro guide, ho caricato le bombole sulle spalle e poi mi sono avvicinato al boccaporto sul pavimento. Il mare zampillava dall’apertura e allagava tutta la stanza, sintomo che la stazione stava perdendo pressione. Ho guardato dentro il mare, ho visto il fondale e mi sono bloccato. La testa ha iniziato a girarmi e il petto a comprimersi.
I coralli, i dannati coralli si vedevano bene, con tutti i loro colori velenosi: rosso, viola, arancio.. colori cattivi, psichedelici, radioattivi.
Ed eccomi qua, adesso, attaccato alla ringhiera, con l’acqua alla gola. Devo fare un salto e correre verso la salvezza. Tutto trema, il livello dell’acqua sta raggiungendo il soffitto. Il cuore in petto batte così forte che prima o poi mi scapperà fuori dalla gabbia toracica.
Qui si mette male: il soffitto si avvicina, il mare sta schiacciando la stanza.
Mi tuffo, tocco il fondo. Le luci della centrale si spengono. Sono immerso nel nero: è come se il buio sia uno stato della materia. Mi circonda, lo posso toccare. Provo ad accendere la torcia elettrica sul casco. Meno male che hanno pensato a tutto, quando hanno progettato queste tute. Giro l'interruttore e un cono di luce illumina l’esterno della stazione. Mi muovo. Devo scappare, prima che la struttura mi schiacci. L’acqua è calda, la sento anche attraverso la tuta. Qualcosa scricchiola sotto i miei piedi. So cos’è, ma un problema alla volta: adesso devo allontanarmi il più possibile. Mi trascino in avanti, i piedi affondano fino alle caviglie, mi volto: la struttura accartocciata giace sul fondo del mare, bollicine d’aria brulicano tutt’intorno. Non so se è l’acqua che sta bollendo o l’atmosfera artificiale della stazione che si disperde in mare.
Per il momento sono fuori pericolo. Alzo il polso e guardo il quadrante con la lancetta del livello dell’aria. Ne avrò per circa un paio d’ore. Basterà?
Ora arriva la parte più difficile. Illumino i miei piedi. Gli stivali sono affondati in un groviglio organico di coralli. Il cuore riprende a battermi forte. Tentacoli sottili come lingue fameliche danzano sulle mie caviglie, strutture calcificate simili a mille zampette di insetto si contorcono ad avvolgermi i piedi. Alzo la luce, il cono illumina il mare. Milioni di piccoli globuli galleggiano di fronte ai miei occhi. So cosa sono: sono immerso nello sperma dei coralli. Mi viene da vomitare. Inghiotto saliva, se vomito nella tuta è la fine. I suoni del fondale che attraversano il casco mi martellano i timpani: schiocchi e fruscii continui. Cosa diavolo produce questi rumori? Meglio non saperlo.
Occhiata al livello d’aria: merda! Come ha fatto a scendere così tanto in pochi minuti? Deve essere il mio respiro affannoso. Se non mi calmo va a finire che soffoco. Un passo avanti. Il piede affonda, mi sembra di camminare sui cracker. Respiro profondo. Coraggio, un passetto alla volta. Illumino il fondale: un globo verdastro ricoperto di buchi sta a una decina di metri davanti a me, poi i coralli si fanno più alti, come in una foresta. Cazzo, non potrò evitare di guardarli a lungo, presto ce li avrò tutt’intorno. E va bene, sia! Altro passo, affondo, scricchiolii. Raggiungo il globo: è cosparso di peli verdastri che danzano sospesi verso l’alto. Le strutture ramificate mi arrivano ormai al petto, dovrò farmi strada tra loro fino a raggiungere la città. Fisso lo spazio davanti a me, le luci di New Sidney ci sono e non sono troppo lontane, devo solo arrivarci.
Sto ansimando. Non va bene. Devo regolare la respirazione.
Filamenti ricoperti di vermi mi toccano la tuta e al mio passaggio si ritirano dentro i tubi di calcare. Altro conato di vomito. Sfioro una struttura simile a un cervello eradicato dal suo cranio e mi ritrovo in uno spiazzo libero. Sulla sabbia sono adagiate un paio di stelle marine, i loro cinque tentacoli sono ricoperti di aculei e alghe. Per fortuna non si stanno muovendo; quelle dita pelose fanno schifo anche da ferme, figuriamoci se si mettono a camminare. Più in là, alveoli fiammeggianti serpeggiano in alto seguendo ramificazioni nodose dall’apparenza fragile, ma letali quanto le zanne di un cobra. Mi basta un colpo per rovesciarle e farmi strada, ma al solo pensiero di toccarle mi sento morire. Torturo il quadrante del livello dell’aria, sono a metà scorta. Devo calmarmi, manca ancora un bel po’ di cammino prima di arrivare alla città.
Avanti, un passo dopo l’altro. Sfioro gli alberi di calcare, i miei piedi affondano su qualcosa di molliccio, non voglio sapere cosa. Avanti, avanti. Il braccio tocca e manda in frantumi un ramo color porpora.
Aspetta: com’era quella canzone? C’era un cartone animato, vecchio di più di cent’anni, ambientato proprio sul fondale marino: la Sirenetta. Il granchio cantava così, a un certo punto:

In fondo al mar,
ce la spassiamo,
in fondo al mar,



la melodia mi rilassa. Ok.

In fondo al mar,
in fondo al mar,
ce la spassiamo
ta-ta-ta-taa



Sì, funziona. Un riccio di mare grosso come un pallone mi sbarra la strada, gli dò un calcio. Gli aculei si spargono sul fondale e il globo nudo sparisce tra un grumo di anemoni di mare. Sorrido: sì, ce la posso fare.
Cosa sono questi? Merda. Cavallucci marini che mi svolazzano di fronte al casco. Le alette battono così forte che sembrano formare un unico ammasso pulsante. Il tentacolo della coda è arricciato in una spirale e, sui corpi rossastri, un fitto manto di peli ricciuti danza nella corrente. Mi si forma un nodo alla gola. Come si può pensare che questi esseri siano carini? Aspetta, cosa faceva il cavalluccio marino in quel film? Sì! Era il paggio di corte: se ne andava in giro con una trombetta a irritare tutti con la sua vocina squillante. Sorrido e sferzo l’acqua con una manata, gli esseri di fronte al mio casco spariscono fuori dal cono di luce. Così! Avanti!
Ta-ta-ta-taa.. In fondo al mar, in fondo al mar.
La mia voce trema: la luce della torcia mostra una nuvola lattiginosa che si libra sopra a un cespuglio di anemoni di mare. Nella nuvola pulsano una miriade di cuori. Un intricato reticolo di tentacoli brulica trasportato dalla corrente.
Meduse.
Il cuore mi scoppia in petto, tutti i miei muscoli sono pietrificati. Non riesco a muovermi. La nuvola avanza, mi avvolge. I filamenti si spalmano sul vetro del casco. La mascella mi duole: sto stringendo i denti così forte che la radice scricchiola nelle gengive. Calma.
In fondo al mar! In fondo al mar!
Devo andare! Devo muovermi: un passo, un altro. Agito le braccia ma quelle merdacce sono troppe. Se non avessi la tuta dello scafandro la mia pelle cadrebbe a pezzi, arsa da fiamme inestinguibili. Mi faccio strada, i miei guanti urtano i coralli, le strutture si rompono in mille pezzi. Ancora meduse, non finiscono più! Occhiata al livello d’aria: quasi in riserva.
Respira piano! Respira piano! Ok, l’acqua è sgombra, non ci sono più meduse. Abbasso lo sguardo: dei grossi cordoni bitorzoluti mi circondano il petto. Mi giro: i cordoni si portano dietro due buste di plastica con venature bluastre.
Brividi. Spalanco la bocca. Sono caravelle portoghesi!
Scatto in avanti, provo a correre, ma le mie gambe incespicano bloccate dall’attrito dell’acqua. Cado. Il mio casco affonda in anemoni rossi come pomodori, il vetro spiaccica qualcosa di spugnoso. Tossisco. Il liquido del mio stomaco risale l’esofago.
No. Lo ricaccio indietro.
Pianto i guanti a terra e mi rimetto in piedi. Una macchia di materia scura appiccicata sul vetro mi blocca la visuale. Mi volto, i sacchetti sono ancora lì, la loro superficie raggrinzita è attraversata dalla luce: non smettono di pulsare.
Un momento.. non sono caravelle portoghesi, quelle stanno a filo d’acqua: queste schifezze che mi stanno attaccate al culo sono semplici meduse. Prendo un respiro profondo. Passo il guanto sul petto, gratto, sfrego, ma i fili mollicci non si spezzano. E va bene! Me le trascinerò dietro, come fossero paracadute viventi. Un passo, un altro. Il livello dell’aria è basso, la lancetta tocca il fondo del quadrante. Presto perderò conoscenza.
In fondo al mar! Ce la spassiamo! In fondo al mar!
Una luce è vicina. Sono quasi arrivato! L’aria nel casco è calda, puzza di sudore e piscio. Una lucetta lampeggia sul polso. Sono quasi a secco. Magari se mi fermo a riposare un secondo, a riprendere le forze… No! Non posso fermarmi.
Ecco la paratia, batto il metallo col pugno. Aprite! Nulla. Non ce la faccio più.
Mi siedo sul fondo con la schiena appoggiata al muro. Affondo in un groviglio di scheletri calcarei. Colpisco con la nuca il metallo.
Aprite, per l’amor di Dio.
Le meduse allacciate alla mia tuta mi galleggiano davanti. Si avvicinano. Pulsano alla luce della torcia.
Cado all’indietro, mi fanno entrare!
Mi trascino dentro alla camera stagna, la porta si chiude di fronte a me. Il livello dell’acqua si abbassa e le buste mollicce si afflosciano sul pavimento. Si muovono ancora, rantolano per terra e strisciano una sull’altra. Schifose merdacce!
Un tecnico si avvicina, dice qualcosa che non capisco. Armeggia coi bulloni e mi sfila il casco. Prendo un respiro profondo: l’aria è buona, fresca, pulita.
Il viso dell’uomo, ricoperto da una folta peluria, mi sorride.
«Non si preoccupi, è in salvo adesso.»
Alzo il braccio, cui sono aggrovigliati altri tentacoli lattiginosi. Il tizio fa un balzo all’indietro.
«Faccia attenzione, le meduse pungono anche da morte!»
Rido, apro la bocca per ribattere, ma la sola cosa che mi esce è: «In fondo al mar! In fondo al mar! Ah che fortuna, vivere insieme, in fondo al mar!»
Le sopracciglia dell’uomo si inarcano, arriccia le labbra e scuote la testa.
Socchiudo gli occhi: ho proprio bisogno di una vacanza. «Mi dica, dove ci troviamo?»
«Sezione 81/7: reparto di studi zoologici. Lei da dove viene?»
«Centrale 24. C’è stato un incidente, abbiamo evacuato.»
L’uomo annuisce. «Certo. Ecco cos’erano quelle scosse. Niente di grave spero.»
Sorrido e scuoto la testa. «Senta, ho avuto una nottataccia. Voglio tornare a casa.»
«Certo. Ora l’aiuto e poi le mostro la via.»
Mi fa uscire dallo scafandro, mi porge una tuta da lavoro e mi indica un lavandino. Mi risciacquo il viso e mi siedo su una panca a riprendere fiato. Il tecnico attende paziente, il suo viso peloso sorride divertito. Mi porge delle pantofole di gomma, le indosso e mi rimetto in piedi.
Mi conduce in un ampio salone ben illuminato. Ci sono piante ornamentali e pareti di vetro. Poster colorati mostrano disegni di coralli e meduse. Un fiotto caldo mi si rimescola nello stomaco. Inghiottisco saliva.
Il tecnico indica intorno a noi. «Peccato sia capitato qui di notte, il fondale è ben visibile quando c’è luce.»
Rido. «Proprio un vero peccato, da mettersi a piangere.»
L’uomo sorride. «Però, una piccola consolazione c’è.» Mi fa l’occhiolino. «Il tunnel d’uscita è chiuso per lavori, quindi per raggiungere la fermata del treno dovrà per forza percorrere la nostra piscina interattiva.»
«Come?»
«Sì. E le dirò di più! La piscina è la nostra attrazione principale.»
Faccio un respiro profondo, spalanco gli occhi. «Scusi, proprio non me la sento. Non c’è un’altra via?»
«Be’, è notte, e i lavori importanti li pianificano a queste ore perché le attrazioni sono chiuse.» Fa spallucce. «Si tratta solo di un centinaio di metri, poi potrà salire su un mezzo fino alla città.» Mi mette una mano sulla spalla. «Non si preoccupi, l’esperienza della piscina è molto piacevole.»
Stringo i pugni. «Non ho proprio voglia di rimettermi lo scafandro.»
Ride. «Ma quale scafandro, l’acqua è poco profonda.» I suoi occhi scintillano. «In più è tiepida e profumata con sali naturali. Tutto è perfetto per nuotarci in costume da bagno.» Ha lo sguardo perso nel vuoto. «La luce nella stanza è tenue e c’è anche una musica dolce, per massimizzare l’esperienza.»
Musica dolce. Sospiro. «E, cosa c’è nell’acqua?»
Allarga la bocca in un sorriso giocondo. «Un banco di meduse geneticamente modificate: enormi, innocue e socievoli. I bambini adorano accarezzarle.»
Stavolta non riesco a trattenermi. Gli vomito sulle scarpe.
 
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