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Skannatoio Marzo - Aprile 2021, Mors tua vita mea

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Legno Di Noce
view post Posted on 29/3/2021, 20:35 by: Legno Di Noce
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La midriasi bianca



Tiro su la zip della zanzariera e scosto il telo che copre l’ingresso della tenda. La luce del mattino proietta una linea gialla sul sacco a pelo.
Dov’è finito il cellulare?
Tasto la stoffa umidiccia ma non trovo nulla. Ispeziono la felpa che ho ancora addosso. La mia mano si chiude su un rettangolo duro intrappolato sotto il cotone di una tasca. Eccolo.
Faccio scorrere il pollice sullo schermo. Sono già le otto e mezza. L’ora della colazione sta per finire.
Metto le gambe fuori. L’aria sa di terra bagnata, penetra sotto le calze e mi rinfresca i piedi. Gocce d’acqua gelida mi cadono sulla nuca. Anche stanotte ha piovuto. Speriamo che almeno per la mattinata il tempo tenga. Ma è una giungla pluviale dopotutto.
Capovolgo gli scarponi. Si sono asciugati, bene. Li sbatto uno contro l’altro. Cade fuori una cimice, azzurra come una pietruzza d’acquamarina, con due punti bianchi sulle ali chiuse. Vorrei trovare una di quelle tarantole pelose dal dorso rosso come è successo a Sarah. Si è quasi presa un infarto per così poco.
Mi alzo e mi stiracchio. Una fitta mi arriva al fianco destro come se qualcuno mi avesse tirato un pugno a tradimento nelle costole. Le radici che sporgevano dalla terra mi hanno massacrato tutta la notte. Ho dormito una merda.
La vegetazione è sommersa dai versi delle cicale, sembra sfrigolare come verdura unta sotto il sole d’estate. Mi tolgo la felpa e la annodo alla vita.
Sarah è in piedi davanti alla sua tenda, si sta spazzolando i denti. Si gira verso di me e scosta una ciocca ondulata di capelli rossi dalla fronte. «Era ora» sbiascica col suo accento inglese.
«Hanno trovato qualcosa stanotte?»
«Toboga dice di aver raccolto una specie di uovo. Ha detto che gli servi tu.»
«Non mi dire.» Sono l’unico biologo con una buona competenza in embriologia.
«Tieni.» Sarah mi lancia una saponetta. L’afferro al volo.
Mi metto di fianco a lei, sollevo il mestolo dalla bacinella piena d’acqua e la verso nella lattina d’alluminio appesa al paletto di legno. L’acqua cade dal fondo traforato a mo’ di scolapasta. Mi sciacquo le mani.
Sarah sputa il dentifricio per terra; resta una macchia bianca schiumosa. «Perché ieri sera non sei venuto a cena? C’eravamo tutti. Era anche il tuo turno di esporre il progetto.»
Eccola che riparte. Un altro tentativo di trasformare una ricerca sul campo in una vita comunitaria. «Avevo mal di testa.»
«Mmh.» Mi fissa con i suoi occhietti chiari; fa ruotare tra le dita la stella di David appesa al collo: il talismano in orgonite scompone la luce in un grappolo di puntini che irradia il suo petto.
Passo i polpastrelli sulla barba di due giorni. «Che c’è?»
«Condividere le proprie esperienze crea armonia ed energia positiva nel gruppo. Lima le differenze. Non dovresti stare sempre sulle tue.» Arriccia il naso; le lentiggini si sollevano impertinenti sul viso struccato.
«Ero solo stanco.» Le do le spalle e prendo la borraccia e la borsa a tracolla rimaste nella tenda.
Dio santo, più la conosco più sembra lo stereotipo vivente dell’hipster inglesina. Sciatta, con le sue gambe secche e bianchicce, pronta a sciorinare quella vocazione comunitaria da brava sessantottina. La sua laurea al MIT rende ancora più irritante questo suo atteggiamento progressista.
Ma che cazzo ci vengono a fare persone così in un posto primordiale come questo? Per trasformarlo in una fiera new age di demenza ottimistica e kitsch?
Il richiamo acuto di un uccello attraversa la vegetazione. Sarah indica gli alberi dai tronchi sottili che si sollevano davanti a noi. «Look!»
È una specie dal collo azzurro, con due lunghe piume smeraldo che scendono dalla coda. Vola da un ramo all’altro e si ferma in cima a un albero di caffè. Stacca una bacca rossa dalle fronde e la lascia cadere nel muro di felci che circonda il campo base.
L’uccello mette la testa di profilo e punta quella biglia nera che è il suo occhio sui miei. «Prendila» gracchia.
Il cuore mi salta un battito. Oh cristo, ecco che ricominciano gli animali parlanti. Ogni giorno questa foresta ci fa uno scherzo.
«Prendila.»
Ma dice a me? Mi giro verso Sarah. Lei fa spallucce.
L’uccello lancia un cinguettio acuto e segmentato come una raffica di mitragliatrice. Il gozzo si gonfia e saltella su e giù. «Prendila! Prendila! Pre-pre-prendila.» Sembra molto spazientito. «Prendila, puttanella.»
Mi giro di nuovo verso Sarah.
«Parla con te. Fai come ti dice» sussurra lei.
Ma che cazzo… Perché proprio io?
Faccio qualche passo verso le felci. L’uccello è sopra di me, mi fissa immobile, sembra il corvo della poesia di Poe. Un brivido mi attraversa le spalle così forte da farmi male.
Scosto le foglie.
Dal guscio della bacca è germogliato un fiore dai petali bianchi, si muovono ad onde regolari come i tentacoli di un’anemone.
«C’è un fiore.»
«A flower?»
È lo stesso che ha trovato quel ricercatore francese il mese scorso. La descrizione corrisponde. Ha detto che il fiore si era seccato prima che potesse raccoglierlo.
Allungo la mano. Le dita mi tremano. Passo i polpastrelli sugli stami con le antere a forma di uncino. I petali si dispiegano, sembra che dal centro stia uscendo qualcosa.
Gli stami si avvolgono sulle mie dita. Lancio un urlo. I petali si intrecciano intorno alla pelle. La mia mano si serra in un pugno come se una scarica elettrica mi avesse paralizzato. Qualcosa di caldo è appuntito scorre nella mia carne.
Mi butto sull’erba e rotolo. Grido ancora. La mia testa urta contro una superficie dura. La terra mi entra nei bronchi. Tossisco e sbatto più volte la mano al suolo.
«Luca! Che succede? Cos’hai!?» La voce di Sarah è ovattata.
Sbatto ancora una volta la mano.
Perché non mi aiuta?
Il mio braccio non si solleva più.
Perché sono solo?

***

Tossisco. Qualcosa di ruvido e dal sapore ferroso mi impasta la bocca.
«Luca.» La voce preoccupata di Sarah mi raggiunge. Le sue mani fredde si posano sulle mie guance.
Da quanto sono svenuto?
Apro gli occhi. Sarah è piegata su di me, con un’espressione accigliata. Le punte dei suoi capelli mi solleticano il viso.
Deglutisco. «Cos’è successo?» Spingo sui gomiti per alzarmi.
Sulla mia fronte si posa un’altra mano, più grande e calda, che mi tiene bloccato a terra. «Fermo, fermo.»
È Toboga. È lui.
«Non ti alzare subito. Bevi questo.» Mi passa un bicchiere d’acqua e mi sorride. Le sue labbra scure e carnose creano un contrasto netto con i denti bianchissimi.
Perché ci sono solo loro due? Gli altri stanno ancora dormendo?
Piego la testa in avanti e bevo. L’acqua ha un sapore salmastro. Mi starà dando un medicinale di qualche tipo.
«Cosa ti ha detto la foresta?» Il suo viso si fa serio. I suoi occhi con le sclere gialle mi fissano senza sbattere.
Gli restituisco il bicchiere vuoto. «Ma niente di che. Mi ha preso in giro parlandomi tramite una specie di uccello.»
«Il fiore. Dov’è?»
Il fiore… Il dolore.
Apro la mano. Non c’è nulla. La giro. Niente anche sul dorso. Non ha lasciato segni.
«Non lo so.»
«Hai visto qualcosa quando lo hai toccato?»
Faccio un respiro profondo e mi massaggio la tempia. «Non credo. Non mi sembra.»
Toboga e Sarah si scambiano un’occhiata.
Lei mi allunga la mano e mi aiuta ad alzarmi. La testa mi gira per un momento. Mi sostiene per il braccio. «Ce la fai?»
«Sì.»
«Vieni.» Toboga punta l’antenna del satellitare verso il capannone in legno al centro del campo. «Gli altri sono partiti per una spedizione verso il cratere. Sono state registrate delle attività.»
«Che genere di attività?»
«Una fonte di calore.»
«Che intendi dire?»
«Non lo sappiamo.» Toboga mi sorride di nuovo. C’è una strana luce nel suo sguardo.
Con il sole che mi batte sulla nuca, attraversiamo le coppie di tende, disposte in file concentriche. Raggiungiamo lo spiazzo in terra battuta che circonda la mensa.
I tavoli sotto la tettoia di canne sono vuoti. Il pentolone scuro è sospeso sulla cenere della brace ormai spenta. Accanto, sul banco delle pietanze, ci sono ancora pile di pancake e una bottiglia di miele sul cui orlo si affannano le api. La cuoca se ne sta buttata su una sedia con gli occhi chiusi; muove piano il ventaglio su e giù sulla pappagorgia lucida di sudore.
Quasi mi dispiace che questa calma non durerà per sempre. Vorrei che gli altri ricercatori non tornassero mai. Vorrei essere qui quando la razza umana si sarà estinta, e non ci sarà nessuno sguardo oltre il mio su questi fossili reclamati dalla natura.
Varchiamo la soglia del capannone. Nel corridoio c’è odore di legno umido. Le assi scricchiolano sotto gli scarponi.
Toboga gira le chiavi nella prima porta a sinistra e spinge. L’anta gratta contro il pavimento; un altro spintone e si apre con un rumore sordo.
Su un tavolo di legno scuro c’è un uovo dal guscio grigiastro, steso dentro un panno verde. È grande come quello di uno struzzo.
Guardo Toboga. «È una specie nuova?»
Lui si piega a sedere su uno sgabello, si muove piano, come se fosse improvvisamente invecchiato di venti anni. Abbassa la testa e si passa le dita sul cuoio capelluto sudato. «All’inizio pensavamo fosse una nuova specie e basta. Una delle tante stranezze che vivono in questa misteriosa foresta. Poi l’ho sentita… e ho iniziato ad avere fede.»
«Hai sentito una voce?»
Toboga alza gli occhi sui miei. «Ho sentito la foresta.»
Sarah si avvicina all’uovo e ne sfiora la superficie. Ritrae di colpo la mano. Mi guarda con occhi stupiti. «Prova a toccarlo.»
Toboga si rialza, lo raccoglie e me lo mette tra le mani.
Il suo peso è notevole. La mia mano destra vibra. Una sensazione fredda mi arriva sul palmo, come se ci premesse contro una punta di ferro. C’è una strana energia concentrata all’interno del guscio.
Vediamo se è vivo.
Poggio l’uovo sul tavolo. Prendo il cellulare e accendo la torcia. La stanza dovrebbe essere abbastanza buia.
Controluce, sulla superficie compare un punto scuro da cui si irradiano le venature. È fecondato. «Qualunque cosa sia, è viva. Ci serve un’incubatrice.»
Toboga annuisce. «Andrete in città.» Prende l’uovo e lo avvolge nel panno; lo infila nella tracolla di Sarah. «Portatelo al centro ricerche. Devono fare altri esami. Li ho già avvertiti. La dottoressa Gravieri vi aspetta.»
Di nuovo quella scintilla nel suo sguardo. Come se dopo aver trovato quell’uovo qualcosa in lui fosse cambiato con uno scatto secco.
«Gli altri cos’hanno detto dell’uovo?»
«Nulla.»
«Come nulla?»
Toboga allarga le braccia. «Non abbiamo avuto troppo tempo per parlare. Quello strano calore, quella luce bianca al centro della foresta li ha chiamati.»
«Luce?»
«Basta. Non c’è tempo. Ti spiegherò meglio quando tornerai.»

***

L’autista passa i nostri documenti al soldato nella guardiola.
Forse finalmente sono riuscito a mettere le mani su qualcosa di valore. In tre anni di ricerche nessuno ha mai trovato una cosa così.
Il cancello si apre. I tetti dei palazzi del centro sono a poco più di duecento metri. Nello specchietto retrovisore della jeep gli alberi al margine della foresta si fanno più piccoli.
Forse sarò il primo. Forse finalmente abbiamo qualcosa che può svelare il mistero di questo posto. Ricercatori da tutto il mondo sono venuti e io sarò il primo.
Eppure c’è qualcosa che sento da questa mattina. Una sensazione sgradevole, come un brutto presentimento. Una presenza che non mi lascia. Viscida. Come se avessi la mano di un lebbroso che mi tasta delicatamente in un punto sensibile.
Sarah guarda dal finestrino con aria assorta.
È incredibile la naturalezza con cui abbiamo accettato tutto questo. La foresta è apparsa in una sola notte nel centro della città, fagocitandone un’intera metà. Una vegetazione primordiale popolata da specie mai viste. Mi lascia ancora impressionato la velocità con cui il mondo intero ha accettato questa assurdità.
Lo sterrato lascia posto all’asfalto. Alcune persone escono dall’ingresso del teatro Morlacchi.
Ed hanno imparato ad accettare in fretta l’assurdo anche gli abitanti di Perugia.

Uccidi la ragazza e la dottoressa.

Sussulto. Un’onda fredda si espande nel mio petto.
Sarah si gira verso di me. «Che c’è?»
Ingoio la saliva. «No, niente.» La mia voce trema. «Devo andare in bagno. Ho un po’ di mal d’auto.»

Il marchio che hai sulla mano è il nostro sguardo. Se non le uccidi ti consumerà. Devi proteggere l’uovo.

La voce nella mia testa è diversa da quella dell’uccello di stamattina. Ma è la stessa entità, lo sento.
Chi sei!? Non capisco.

Quando sarà il momento guarda l’occhio. Sarà tutto semplice e veloce. Uccidile o morirai.

Un fischio mi attraversa le orecchie.
La jeep si ferma davanti all’edificio in fondo alla piazza.
Il fischio continua.
Apro la portiera ed esco. La testa mi gira. Ansimo. L’aria calda e secca della città mi riempie di polmoni. L’umidità della foresta è rimasta circoscritta ai suoi margini, ma mi sembra di essere comunque in apnea.
Un odore di carne e spezie riempie l’aria. È la bancarella del porchettaro. I ragazzini appena usciti dalla scuola si accalcano sul cilindro di cotenna dorata, incuranti del caldo. Sembrano saprofagi intorno a una carcassa fumante.
Metto la mano davanti alla bocca per trattenere un conato. Non rimetto niente. Resta solo un bruciore acido in fondo alla bocca. Grazie a dio non ho fatto colazione.
Sto meglio. Sì. Ora va meglio.
La voce di prima mi ha minacciato. Deve essere stato solo uno scherzo della foresta. Uno dei tanti. Non sono il primo a cui succedono cose simili, mi basterà ignorarlo. Una volta a una ricercatrice è capitato di sentire la voce del marito defunto, è andata dallo psicologo per qualche mese ed è stata meglio. Sarà così anche per me, mi basterà ignorare la voce.
L’edificio settecentesco color mattone è davanti a noi. Due camion militari affiancano il portone in legno. Su una targa di ottone di fianco si legge C.R.B.A. Centro ricerche sulla biomassa anomala. Quindi è qui che hanno spostato la sede. In effetti un posto il più vicino possibile alla foresta era necessario.
Attraversiamo il corridoio di marmo e scendiamo nel seminterrato.
Sarah indica davanti a sé. «Il laboratorio della dottoressa Gravieri è la porta in fondo.»
«Ci sei già stata?»
«Sì. Il mese scorso. Dovresti uscire dalla foresta più spesso.»
Invece no che non dovrei uscire. La foresta era l’unico luogo su cui si potesse ancora posare uno sguardo vergine, prima che arrivassero filosofi, religiosi e mistici vari ad addomesticare quell’ignoto con le loro puttanate. Voi costruite favole per proteggervi dal caos. Io non ho paura del caos, è il mio habitat. Quella foresta dovrei studiarla da solo. Se solo fossi l’unico ad averla scoperta…
Gli occhi mi si riempiono di lacrime. La mia mano destra pulsa. Il dolore è come una punta nella carne, simile a quello che ho provato quando ho toccato il fiore.
Sarah va avanti senza di me. La sua schiena scompare oltre lo stipite della porta. Dice qualcosa; una voce femminile le risponde. Non riesco a distinguere le parole; le orecchie mi fischiano. Vuole prendersi tutto il merito la puttanella. È mio, quell’oggetto mi appartiene. Perché Toboga lo ha dato a lei? Traditore.
Sul palmo della mia mano compare uno squarcio orizzontale. Si apre con uno schiocco umido formando una sorta di ellisse. Al suo centro c’è un cerchio bianco come un’iride. Mi guarda piena di desiderio.
Distolgo lo sguardo.
È un’allucinazione. Non guardare.
La gola mi si secca. Cado in ginocchio. Il fischio ritorna più forte.
No, ti prego!
Premo le mani contro le tempie. La mia testa sta per esplodere.

Guarda l’occhio.

Se non lo faccio morirò. Lo so. Lo sento. Toboga aveva ragione. L’ha sentito anche lui. Se guardo l’occhio qualcuno morirà. La voce non mente. Ma devo farlo.
L’iride bianca si espande. La pupilla è di un bianco più intenso.
È bello perdersi al suo interno.
Il fischio scompare. Mi sento scoppiare di energia. Potrei correre per cinque ore senza stancarmi. Stringo i pugni. È questa la pace che cercavo?
Mi rialzo. Ora sto davvero meglio.
Delle grida attraversano il corridoio. Sarah indietreggia sull’uscio dello studio. Fissa qualcosa davanti a sé con un’espressione di terrore. Una secchiata di sangue la investe. Lei si piega in avanti e urla come una madre che vede morire suo figlio.
La dottoressa è morta. Ci sono riuscito. Così come ci è riuscito Toboga con gli altri indegni.
Sarah corre verso di me e scivola cadendo sul fianco. Mi guarda col viso pieno di sangue e il naso che cola. È bellissima.
La sua bocca si apre larga e si chiude più volte, ma non sento nulla.
Si rialza, mi afferra il braccio e mi trascina su per le scale.
Alcuni ricercatori ci superano correndo, si spintonano l’un l’altro attraverso l’uscita; altri rotolano per terra come se andassero a fuoco.
Usciamo dal palazzo. Piazza Grimana è innervata di rampicanti. Nascono da crepe sull’asfalto e si contorcono in spasmi epilettici.
I ragazzini intorno alla bancarella cercano di sollevare una macchina per tirare fuori un loro amico rimasto sotto la ruota. Il porchettaro guarda fisso davanti a sé, con le braccia stese lungo i fianchi, e un sorriso smagliante.
Un soldato sbatte contro la portiera del camion. Con le mani tremanti cerca di infilare la punta della chiave nella serratura. Un altro gli si avvicina, estrae la pistola dalla fondina, gliela punta sulla tempia e gli fa esplodere il cranio. Raccoglie le chiavi ed entra. Le ruote stridono sull’asfalto, ma il veicolo non si muove. Il telone del camion si rigonfia come se dentro si agitasse una bestia con troppe zampe. Quella cosa afferra il soldato e lo trascina sul retro. Uno schizzo di sangue oscura il parabrezza.
Lascio la mano di Sarah e prendo il coltellino svizzero dalla mia tracolla. Lo punto verso il palmo della mia mano destra e premo. La lama non entra. Premo più forte. Non funziona.
Sollevo il braccio e mi preparo a pugnalare con tutta la forza.
Sarah stringe le mani sul mio polso. Grida qualcosa. Gocce di saliva mi bagnano il viso. Ma non la sento, non mi serve.
Lasciami.
Strattono.
Lasciami.
Spingo il braccio nella sua direzione e il coltello si infila nel suo collo.
Lei mi guarda con un’espressione stupita e stanca, come se l’avessi appena svegliata da un sogno. Si accascia per terra, con la schiena poggiata contro la ruota del camion.
Sta facendo buio. Le rampicanti salgono fin sopra i palazzi. Formano una rete tra un edificio e l’altro che esclude il sole dal nostro mondo.
Mi siedo a gambe incrociate sull’asfalto davanti a Sarah. Lei ansima e tiene una mano sul collo; un rivolo di sangue le scorre tra le dita.
Le sirene di un’ambulanza attraversano le strade del centro, o forse è un camion dei pompieri. Chissà.
Tanto non importa. Il tempo del nostro sguardo sul mondo è finito.
Le grida dei ragazzini tacciono; i passi delle prede si quietano. La luce inizia a scarseggiare eppure ci vedo benissimo. Le foglie non sono mai state così vere e l’odore della terra mai così fresco. Ora so cosa cercavo in quella foresta. Questo sguardo. Ora sono fuori.
Finalmente è buio pesto.
Sarah allunga la mano e la poggia sulla mia. La sento sorridere.
Resta solo il suo respiro regolare.
 
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