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Skannatoio Marzo - Aprile 2021, Mors tua vita mea

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Marco S. Di Fonzo
view post Posted on 30/3/2021, 19:08 by: Marco S. Di Fonzo

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Pronti!
Eccomi a riprovarci con il mio testo di 23mila e rotti caratteri.

LA VOCE DELLE FOGLIE

Donnie fissò il suo sguardo di indifferenza negli occhi del vecchio, e il vecchio ricambiò.
Il vento si andava rinforzando, foglie secche turbinavano intorno ai polpacci nudi di Donnie e gli pungevano la pelle, ma lui non se ne curò e riprese a scavare. Un brontolio familiare, simile a uno sbuffo, gli arrivò da dietro, ma ignorò anche quello. Continuò ad affondare la pala nel terreno umido, a ripetere il gesto con sempre maggiore veemenza, per un tempo che parve rallentare fino a fermarsi del tutto. Gli fischiavano le orecchie. Appena ebbe finito, scagliò via l’attrezzo, si arrampicò oltre il bordo della fossa e si fermò a scrutare in ogni direzione il vuoto pezzo di terra nel quale si trovava. Era solo.
Di nuovo lo sbuffo contrariato alle sue spalle. Donnie si voltò. «Va tutto bene, Jack. È solo il vento. Calmati, bello.»
Ma Donnie comprendeva lo stato d’animo del suo cavallo. Doveva sbrigarsi a tirare giù dal carro quell’ultima cassa, o Jack l’avrebbe abbandonato lì in compagnia di un morto che non voleva restare morto.
Devi imparare ad avere più rispetto per quello che fai, amico.
«Non è il momento, Billy» disse Donnie alla voce di bambino che gli parlava nella testa. «Lasciami in pace.»
Non è colpa mia se vedi quello che vedi.
Donnie sospirò. Billy aveva ragione, vedeva delle cose e nessuno poteva farci niente. Mestamente, scrollò via il fango dalle scarpe, raccolse la pala e la conficcò nel terreno. Quindi scaricò a terra la cassa (non senza accertarsi prima che il coperchio fosse ben inchiodato) e la trascinò sul fondo della fossa. Dai giovani muscoli in tensione sotto la blusa pulsavano lampi di dolore, un formicolio persistente si riverberava fino ai palmi delle mani. Dodici anime aveva consegnato alla terra in un solo pomeriggio, e ciascuna di esse gli stava presentando il conto.
Donnie si domandò se era questo che suo padre voleva davvero, quando saltava sulla sedia a ogni offerta di lavoro pesante e ben pagato per quel suo possente figliolo. «Prestami quel portento di ragazzino» gli dicevano, «e ti do un extra se finisce prima del previsto». Era stata gente di parola, per la maggior parte. Il resto, contava meno dei vermi che brulicavano a ogni colpo di pala.
«Donalbain è un nome troppo complicato per quelli come te, figliolo» gli ripeteva spesso suo padre. «Quella santa donna di tua madre è morta con quel nome sulle labbra, quando sei nato. Ma per me Donnie è perfetto. Donnie è quello che sarai d’ora in avanti, e imparerai a farti portare rispetto dalla gente, anche con quel nome.»
Donnie non aveva mai capito se prenderlo come un complimento, ma fare lo scavafosse per tutto il Territorio gli aveva fatto guadagnare, se non altro, la considerazione dei morti. «Sono un papa» disse, lasciando che il vento gli rinfrescasse il viso. «Se mai incontrerò un altro scavafosse su questa stessa terra, vorrà dire che il morto da sotterrare sarò io.»
Jack levò un nitrito basso e gutturale.
È ora di muoversi, Santità, disse Billy nella sua testa. Lo senti?
Donnie tirò su con il naso. Odore di pioggia. «Merda, hai ragione.»
Guardò il cielo pesante, poi il viottolo da cui era arrivato, poco più che un ammasso di pietruzze che il fango avrebbe inghiottito in pochi minuti. Se fosse rimasto bloccato lì, con le ruote del carro impantanate fino ai mozzi, suo padre gli avrebbe spaccato la testa in due e fatto uscire anche l’ultima eco di quella vocina indiscreta.
«Prima devo fare una cosa.»
Donnie...
«Devo, ho detto.»
Lo sai come andrà a finire.
Ma a Donnie non importava. Raccolse la pala e ricoprì l’ultima fossa, poi indugiò davanti alla bassa lapide. Si portò tre dita della mano destra sulla fronte, da lì alla bocca e infine al centro del petto. Era il segno distintivo dell’antica Chiesa degli Uomini di Gareth, di cui suo padre era stato per molti anni un importante esponente. Professava il credo del Territorio, uno spoglio altopiano al di sotto del quale si allungavano a perdita d’occhio le lussureggianti colline dell’Enclave Elfica. Laggiù erano soliti seppellire i loro morti nei tronchi cavi degli alberi più vecchi, perché con le piante vivevano una sorta di simbiosi; agli uomini di Gareth, invece, non era rimasta che una nuda terra da riempire e nutrire con i metodi antichi. E a Donnie, in fondo, andava bene così.
Saltò sul carro per riprendere la strada di casa, accolto da un nitrito vivace di Jack, e si voltò a guardare un’ultima volta il campo che si accingeva a lasciare. Una piccola folla di spiriti lo fissava imperturbabile, chi seduto sulla propria lapide, chi in piedi con un moschetto tra le mani o appoggiato a esso a mo’ di bastone, chi semplicemente a braccia conserte. Donnie sapeva che non si sarebbe mai abituato a tutto quello. Percorse lo stretto viottolo in una sorta di parata silenziosa, dondolando sul sedile e ricambiando gli sguardi vuoti di uomini e donne di ogni età ed estrazione. Pensò ai loro corpi, a come si stessero consumando in quella terra arida, alcuni soltanto da giorni, altri probabilmente da prima che lui nascesse. Si abbandonò a un lungo e misurato sospiro, stringendo le redini fino a farsi diventare le mani esangui, pronto a rispondere a uno scarto improvviso da parte di Jack, o a qualunque altro segnale che gli comunicasse che il povero animale stava per cedere al panico.
«I cavalli sanno essere più espressivi degli esseri umani» era stato un altro degli insegnamenti di suo padre. Subito dopo aver pronunciato quelle parole, gli aveva mostrato gli impercettibili movimenti delle orecchie del suo Jack, quei piccoli scatti avanti e indietro che sembravano del tutto involontari. «Lo fa perché è nervoso, non ti conosce ancora» gli aveva detto. «Adesso calmalo.»
E Donnie aveva imparato a calmarlo. Ora, in quella passerella all’inferno, era come se entrambi sapessero di poter contare solamente l’uno sull’altro.
La pioggia iniziò a picchiettare le braccia di Donnie come una miriade di minuscoli strali roventi. Il ragazzo si massaggiò la pelle, scoprendola gelata.
Una donna con un bambino in fasce emerse da dietro un cespuglio, tagliò loro la strada e si dissolse in un fruscio di foglie secche dall’altro lato del viottolo. Jack levò un nitrito lungo e dolente e per un attimo Donnie temette il peggio. «Sono qui, amico mio. Sono qui con te.»
Ha paura.
«Lo so.»
Tu no?
«Non me lo posso permettere. Devo prima fare una cosa.»
La pioggia iniziò ad appesantire il terreno, fagocitando le anime e disperdendole in un velo d’acqua che diventava sempre più spesso. Donnie fletté i muscoli e sporse la testa in avanti, come la polena minacciosa su un vascello da guerra in mezzo alla tempesta.
Non farlo, disse la vocina dentro la sua testa.

***

«Vedi di non dirlo a nessuno» disse Donnie, tossicchiando e sputacchiando ai piedi di Billy pezzetti di roba marrone.
Billy era rimasto a fissare l’amico intento ad arrotolare un pezzo di carta e a infilarvi dentro qualcosa che assomigliava a ciuffi d’erba scura, ma quando l’aveva visto accendere un fiammifero e portarsi la sigaretta alla bocca, aveva sgranato gli occhi.
Si erano nascosti nel loro posto segreto, un muro senza spigoli che aveva sentito fantasie di ogni tipo, nelle quali Donnie e Billy entravano nell’Enclave Elfica come eroi provenienti da un altro mondo. Era il muro perimetrale del vecchio abside della Chiesa degli Uomini, oltre il quale una striscia di terra incolta si allungava fino a diventare uno sperone roccioso che sovrastava i boschi dell’Enclave.
In lontananza, dalla parte opposta, i festeggiamenti per l’ufficialità del fidanzamento di zia Beth, sorella del padre di Donnie, giunta a Gareth dalla lontana Portomagno, arrivavano ai due ragazzi come un’accozzaglia scoordinata di suoni, grida e risate.
Billy drizzò la schiena e assunse un’aria solenne. «Sono grande anch’io, adesso, che cosa credi?»
Donnie sapeva che in un certo senso era vero; quell’anno Billy aveva compiuto dieci anni e ricevuto il suo primo cavallo, come tutti i figli maschi del Territorio raggiunta quell’età, e come lo stesso Donnie due anni prima di lui. Guardò Billy con studiata supponenza, la sigaretta stretta tra due dita. Roteò il polso con un gesto teatrale e la offrì all’amico. «Vediamolo, quanto sei grande. È tutta tua.»
Billy non se l’era aspettato. Deglutì rumorosamente, si guardò intorno e allungò la mano, esitante.
Donnie ritirò subito la sua e scoppiò a ridere. «Ma finiscila!» Strappò un mucchietto di foglie e lo lanciò in aria, incapace di trattenere le risate.
Billy si ritrasse deluso. Poi, in un lampo d’orgoglio, si tastò il fianco e ricambiò l’occhiata di scherno di Donnie. «Tanto questa ce l’ho io» disse, serrando la mano sull’elastico che gli pendeva lungo la coscia.
Donnie gli aveva sempre invidiato quella fionda. Tirò un’altra boccata e gettò via la sigaretta, disgustato. «Di’ un po’» disse in un tono cospiratorio, mentre Billy gli si sedeva accanto. «Lo sai che cosa potremmo farci, con quella?»
Billy abbassò lo sguardo sulla fionda e sfidò l’amico. «Potrei farci».
Donnie alzò gli occhi al cielo. «D’accordo... che cosa potresti farci.»
Billy era tutt’orecchi.
«L’hai sentita la storia che va raccontando il vecchio Jebediah?»
«Quello che se ne sta sempre a bere?»
«Sì, ma stavolta è tutto vero, pare. Dice che un mostro alto quanto tre uomini si è mangiato le teste delle sue pecore. Tutte! Dalla prima all’ultima.»
Billy emise un sonoro bleah! e Donnie gli tappò la bocca. «Zitto!» gli disse, guardandosi attorno. «Nessuno deve scoprirci quando andremo a cercarlo.»
«Andremo a cercare chi?»
«Mio nonno... Quel mostro! E chi, se no?»
Billy spalancò la bocca e Donnie tornò a farsi serio. «Comunque, secondo me, Jeb Vuotatazze era talmente ubriaco che ha visto un orso e l’ha scambiato per chissà cos’altro. Ma la storia delle pecore decapitate è vera, lo sanno tutti.»
«Decapitate...» ripetè Billy, perso nella sua immaginazione. Si portò una mano al collo. Donnie osservò la scena divertito, ma quel particolare si era inchiodato in testa anche a lui, quando l’aveva saputo.
All’improvviso, un grido lancinante disperse i loro pensieri. Proveniva dalla festa di zia Beth. Donnie e Billy si guardarono, e senza dirsi una parola si lanciarono in quella direzione. «Aspettami!» gridò Billy, tastandosi il fianco e rinsaldando la presa sulla sua fedele fionda.
Sul banchetto della festa sembrava essersi abbattuto un ciclone. La gente era come impazzita; correva in ogni direzione, rovesciava tavoli e si spintonava a vicenda. «Attenti!» gridava qualcuno. «Scappate!»
Un potente ruggito si levò nell’aria, ergendosi al di sopra delle grida di panico, e Donnie vide il motivo di tanto trambusto. Un enorme orso nero come la notte stava ritto sulle zampe posteriori, le fauci grondanti di sangue, sulle quali pendeva ancora un brandello di tessuto di colore bianco. Donnie abbassò lo sguardo ai piedi dell’animale e vide il corpo. Non poteva scorgerne il volto, ma riconobbe per primo il vestito. Zia Beth.
Non provò nulla. Non la vedeva da anni, per lui era poco più che una sconosciuta, ma sapeva che sarebbe stata l’ennesima mazzata per suo padre, e provò una pena infinita per lui. Chissà dov’è, adesso. Chissà se mi sta cercando.
«Donnie, aiutami!» La voce di Billy. Donnie si voltò e lo scorse tra i corpi delle persone che si avvinghiavano e si affannavano per mettersi al sicuro. Era a terra, carponi. Donnie si precipitò nella sua direzione, e un istante dopo l’orso si mosse all’inseguimento.
«Andiamo a prendere i cavalli!» gridò Donnie, aiutando Billy a rialzarsi.
«Attento!»
Donnie seguì lo sguardo atterrito di Billy e vide l’orso che avanzava a una decina di metri da loro.
Un colpo di moschetto rimbombò nell’aria. L’orso scartò di lato all’ultimo secondo, li superò e andò a ripararsi nella bassa boscaglia che divideva il Territorio dall’Enclave Elfica. Donnie mise a fuoco il volto del padre dietro il moschetto fumante. Vide che aveva ancora gli occhi arrossati dal pianto.
«Prendi il ragazzo con te e tornatevene a casa.»
«Papà...» disse Donnie con voce tremante, indicando ciò che restava di zia Beth.
«Lo so» rispose suo padre, senza voltarsi. Poi se ne andò.
I ragazzi recuperarono i cavalli nel silenzio più totale. Donnie montò Jack e tese la mano all’amico, ma Billy insistette per montare il suo Apollo. ‘Puoi nascere cowboy in una famiglia di cowboy’, pensò Donnie, rievocando una vecchia frase di suo padre, di cui solo ora si rese conto di aver compreso il significato. ‘Possedere un cavallo tuo non è solo cavalcare fuori dal nido: dice agli altri chi diventerai’.
«Era quello il mostro di cui parlava quel vecchio ubriacone di Jebediah, vero?» domandò Billy.
Donnie annuì. Non lo sapeva, in realtà, ma quello che sentiva montargli dentro colmava ogni spazio lasciato, fino a un attimo prima, all’incertezza. «Andiamo a prenderlo?»
Billy fissò un punto indefinito in mezzo a loro. Prese a tastarsi il fianco, e quando ebbe trovato il suo tocco rassicurante, estrasse la fionda dai pantaloni e la sollevò davanti a sé come una reliquia del passato. «Io ho solo questa.»
Senza dire nulla, Donnie sollevò un lembo della bisaccia che teneva appesa alla sella di Jack, e ne estrasse per metà una Colt con il calcio d’osso. Cercò lo sguardo di Billy e sorrise. La sua mascella caduta era più eloquente di qualunque commento. Donnie richiuse la bisaccia e le diede un colpetto con la mano, come a volerne saggiare la tenuta. «Mio padre non ne sa niente.»
Si mossero lungo il sentiero che dal fianco della chiesa scendeva in direzione della boscaglia che cingeva l’Enclave. Era una sorta di territorio franco, anche se gli uomini, sul finire della stagione calda, ne invadevano ogni anfratto per procurarsi legna da ardere. Ma Donnie era sicuro che quel giorno non avrebbero incontrato nessuno. Conduceva Jack con espressione concentrata, le orecchie tese e lo stomaco in subbuglio per l’eccitazione. Billy lo seguiva pochi passi indietro; di tanto in tanto Donnie lo sentiva tirare su con il naso, e in più di un’occasione si ritrovò a domandarsi se stesse piangendo e non volesse darlo a vedere. Tuttavia non si sarebbe voltato per chiederglielo, perché sapeva che se l’avesse fatto avrebbe rischiato di spezzare l’incantesimo. L’imbarazzo di doversi giustificare avrebbe dissolto il coraggio che, per avere dieci anni, Billy gli stava dimostrando.
«Quella laggù è l’Enclave» disse Billy comparendogli sul lato destro, e Donnie sussultò per la sorpresa. Il ragazzino gli stava indicando una fila di alberi dal fogliame più scuro, un centinaio di metri più avanti. Una leggera foschia ne permeava i rami più bassi, e anche l’aria sembrava farsi più calda man mano che si avvicinavano.
Il sentiero iniziò a restringersi, e le fronde degli alberi a farsi sempre più basse e fitte. Donnie fece un cenno all’amico, e Billy diede ad Apollo il comando di rallentare e riportarsi al passo di Jack.
«Donnie, attento!» gridò Billy all’improvviso. Donnie ebbe appena il tempo di accorgersi del ramo che si era abbassato un metro più avanti, bloccando loro il passaggio. Digrignò i denti e tirò le redini a sé. Jack nitrì di disappunto, si sollevò appena sulle zampe posteriori e, in un unico movimento scomposto, finì con l’urtare il fianco contro il tronco di un piccolo albero accanto al quale erano appena transitati. Donnie strinse le gambe per non perdere la presa e si chinò ad accarezzare il collo dell’animale per riportarlo alla calma. Poi trasse un respiro profondo e fissò l’amico negli occhi. «Non l’ho visto... Quel cazzo di ramo prima non c’era!»
Billy inarcò le sopracciglia e si passò una mano tra i capelli. «Porca vacca!»
Donnie smontò da cavallo e accarezzò il muso di Jack. Passò intorno all’animale, si accostò a Billy e gli toccò una gamba. «Dobbiamo legare i cavalli.»
Billy saltò a terra e, imitando l’amico, allungò una mano ad accarezzare il collo di Apollo. Sembrava che gli occhi dell’animale gli stessero restituendo un’implorazione silenziosa e disperata. «No... Io Apollo non lo lascio!»
«Sanno che siamo qui» disse Donnie in tono grave, indicando il ramo che tagliava in obliquo il sentiero davanti a loro. «Mio padre mi ha raccontato delle cose, su questi boschi». Pronunciate quelle parole, Donnie compì un lento giro su se stesso. Un intreccio di foglie e rami gli scorse davanti agli occhi in un’unica chiazza del colore degli smeraldi. Più avanti, il tono di verde diventava più scuro e si confondeva nelle ombre degli alberi più alti; al di sopra di tutto, la luce del sole aveva assunto la colorazione dorata del pomeriggio inoltrato, facendo apparire nere e imperscrutabili le cime imponenti che vi si stagliavano contro.
«Allora andiamo via» disse Billy. «Io voglio tornare a casa.»
Donnie si sentì avvampare le guance. «Ma non possiamo tornare indietro adesso!»
«Lo hai detto tu che ci stanno aspettando» ribatté Billy con un filo di voce. «Non ci voglio più andare, laggiù. Non lo sappiamo nemmeno se è da lì che veniva, quel mostro. Non voglio fare la fine delle pecore di Jeb Vuotatazze, non voglio fare la fine di tua...»
Donnie rimase a guardarlo, sforzandosi di rimanere inespressivo. «Dillo.»
Billy incurvò le spalle e abbassò la testa. Stava per chiedere scusa all’amico, ma poi la rialzò di scatto. «Non voglio più stare qui e basta!». La bocca tremante e il tono stridulo annunciavano che era sul punto di piangere.
«E allora vattene!» tuonò Donnie, producendo un suono rauco che li sorprese entrambi. «Vattene! Prendi quel tuo stupido cavallo e tornatene a casa!» Avrebbe aggiunto volentieri qualcos’altro, ma poi avvertì un prurito nella gola e capì che anche la sua voce era sul punto di incrinarsi. Bello spettacolo che gli stiamo dando, pensò lanciando occhiate furtive in direzione del bosco.
Billy afferrò le redini di Apollo e lo condusse al passo per riprendere la strada di casa.
«Sei uno stronzo» sentenziò Donnie. Billy sembrò sul punto di ripensarci, ma fu solo per un attimo. Invece, affrettò il passo e scomparve nell’intrico dei cespugli.
Donnie aveva le mani doloranti, quasi esangui. Continuava a stringere i pugni, e quando rilasciò le dita, si scoprì a tremare da capo a piedi. Legò Jack a un ramo basso, non senza difficoltà, e superò lo sbarramento che lo divideva da un territorio inesplorato.

Camminava da almeno un’ora. Gli ultimi sprazzi di cielo che aveva intravisto, prima di perdersi sotto una coltre di foglie di un colore innaturale, componevano la tavolozza di tinte pastello dell’imbrunire. In poco tempo, l’aria era diventata ferma e quasi irrespirabile. Eppure, dal labirinto vegetale sopra la sua testa, Donnie sentiva provenire i fruscii tipici del vento che passa di foglia in foglia. Erano sussurri che portavano con sé i segreti di un popolo che poche volte si era manifestato al suo mondo. Il tempo di una schermaglia, di un tacito accordo, e il silenzio aveva ripreso a scrivere le pagine di una storia che gli uomini alimentavano con la falsità dei
loro miti. Ma se era vero che l’antico popolo Elfico era rimasto per secoli nascosto tra le radici dei suoi totem nella foresta, senza mai invadere il Territorio, né dare motivo di credere all’imminenza di una guerra tra le due razze, ora era l’uomo la prima creatura a varcare quella fatidica soglia. Donnie avvertì sulle spalle tutta l’insostenibilità di quel ruolo impietoso. Voleva solo vendicare la sorella di suo padre, e quello era tutto fuorché un proposito di pace.
Il fruscio divenne più forte, e Donnie ebbe la sensazione che un’unica voce scorresse tra quei canali linfatici e pronunciasse il suo nome. Respirava a fatica. Si massaggiò le gambe con vigore per scacciare il formicolio di quel torpore improvviso, ma quando rialzò la testa, si ritrovò faccia a faccia con l’orso che aveva inseguito per tutto il pomeriggio. Sentì il cuore schizzargli dalle orecchie, la pressione gli fece schioccare i timpani. Si portò la mano alla cintura, si tastò il fianco e girò su se stesso. Aveva dimenticato la pistola attaccata alla sella di Jack, in qualche angolo di un mondo a cui aveva appartenuto in passato.
L’orso caricò, sbuffando e ruggendo e mangiandosi a ogni passo ben più della semplice distanza che li divideva. Donnie si sentiva venir meno man mano che le zampe della bestia percuotevano il terreno e gli facevano tremare le gambe. Finché gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito a scappare in tempo. Lasciò che tutta l’aria defluisse dai suoi polmoni e chiuse gli occhi.
Qualcosa gli saettò al lato della testa, e un attimo dopo l’orso emise un ruggito acuto e sincopato. Donnie spalancò gli occhi e lo trovò riverso a terra, il muso fumante intriso del sangue che sgorgava da una cavità oculare. Donnie si voltò e vide Billy, la fionda ancora stretta nel braccio teso. Aveva il viso deformato per l’adrenalina.
«Scappa!» gridò Billy, e Donnie sentì la sua voce riverberarsi tra le foglie in una eco senza fine. Vide l’amico che caricava un altro proiettile e tendeva l’elastico fino allo spasimo. Vide il secondo colpo andare a vuoto, e perdersi tra le foglie come un sasso in uno stagno. Vide l’orso piombare addosso al suo amico, scaraventarlo a terra e calpestarlo e colpirlo con una ferocia inaudita. E mentre l’urlo lacerante di Billy si spezzava di netto insieme al suo collo, Donnie pensò a suo padre. Lo vide tra le foglie e nell’erba alta, il volto inzuppato del sangue del suo migliore amico, e solo allora realizzò che non aveva ancora ripreso fiato. Un gemito eruppe dalla sua bocca seguito da un fiotto di bile rovente.
Corse a perdifiato finché la notte non disperse i ruggiti dell’orso in mezzo alla voce delle foglie. Corse senza focalizzare una meta. Corse, inseguito dallo schiocco del collo di Billy che si riverberava tra gli alberi, corse mormorando i nomi degli invitati alla festa di zia Beth. Corse, mentre il filo dei suoi pensieri si perdeva nella direzione opposta e rimbalzava come il vento tra le foglie. Corse, invocando il nome di suo padre.
Non ti lascerò solo.
Non ti lascerò solo.
Io non ti lascerò solo...

***

«Dove sei?» Gridò Donnie davanti alla tomba di Billy. «Perché non ti fai vedere?»
Jack emise uno sbuffo di disapprovazione.
Le anime del campo apparivano nei loro contorni controluce, e un attimo dopo si dissolvevano in un alito di vento. La pioggia aveva incollato le foglie alla pietra e al marmo, rendendoli lucenti e viscidi.
Donnie guardò le date impresse sulla lapide e ripercorse nella mente quel giorno di quattro anni prima. Rivisse la maledizione che albergava tra quei boschi, che si era presa gioco di lui e lo aveva portato, da allora, a incrociare lo sguardo con vassalli di altre epoche, schiacciati sotto il giogo di un’eternità senza pace. Quella stessa maledizione aveva portato Billy nella sua testa, e l'aveva resa l’unica anima presente e invisibile allo stesso tempo. Donnie compiva il suo consueto giro di inumazioni e lo concludeva lì, a parlare alla lapide di un bambino, nella speranza di vederlo anche solo per un istante e chiedergli perdono. Nella speranza di trovare la sua, di pace.
Ma quella era la condanna di Donnie, il suo purgatorio personale. Billy gli parlava con la stessa voce di allora. E lo consigliava, quasi sempre per il meglio. Più di questo non poteva chiedere. Donnie gli dava ascolto a malincuore, sapendo di aver mancato al dovere di farlo nell’unico momento in cui contava davvero. Billy voleva solo tornare alla sua vita, e lui l’aveva insultato.
«Piccolo Billy» disse Donnie. Si inginocchiò e scostò le foglie secche dalla piccola lapide.
Billy non rispose.
Donnie si rialzò, si avvicinò a Jack e gli posò una mano sul muso. «Torniamo a casa, bello.»

Edited by Marco S. Di Fonzo - 30/3/2021, 21:35
 
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