Opportunità
Questa fichetta, Laura o Aurora mi pare, stringe la canna del fucile in una mano. Il calcio dell’arma se l’affonda nella spalla e ci poggia la guancia sopra. I capelli rossi scivolano a coprire calcio e spalla. Laura o Aurora sfiora il grilletto con l’indice e osserva tra le tacche di mira. Ogni respiro pare che lo debba ragionare, come fosse qualcosa imparato.
Questa fichetta preme il grilletto e lo sparo fa il suono di uno sputo, l’ultimo barattolo sulla mensola vola via con un Deng!
Lo zingaro dietro il bancone accenna un inchino. “Brava siniora!”
Laura o Aurora ridà il fucile allo zingaro, che le allunga un peluche, un serpente a strisce gialle e nere ripescato in chissà quale discarica dello Zingaristan. La fichetta stringe il pupazzo al petto e mi spara un sorriso da adolescente. “Visto Giorgio?”
Giorgio. Mi devo ricordare che mi chiamo Giorgio. Le ridò lo zainetto che mi ha chiesto di reggere, «te la cavi con quel coso.»
«Papà cacciatore. Ti lascio immaginare una domenica pomeriggio tipo.»
Laura o Aurora si guarda intorno, la sagra ribolle di cafoni che si arrapano nel tirare pugni al punchball con la voce registrata che gli urla “ma sei ercole!” e trogloditi che sono appena scesi da un trattore per lanciarsi su qualche montagna russa sgangherata che ‘sti zingari trascinano da un posto all’altro quando ancora c’era Gorbaciov.
«Un giro su qualche giostra?»
«Hai in mente qualche giostra in particolare, su cui farmi fare un giro?»
Troia.
Indico la boscaglia oltre la sagra, in lontananza. «Facciamo quattro passi?»
Laura, o Aurora, si mette il serpentello davanti alla faccia, come una maschera e poi lo fa annuire.
Niente, niente arrapa queste studentelle come una sagra di provincia. Una volta qui venivano solo i bifolchi con le sgualdrinelle su cui cercavano di far colpo. Adesso la metà delle persone qui intorno sono studentesse di antropologia, dottorandi di sociologia, psicologi. Metà sono contadini e meccanici. L’altra metà infiltrati metropolitani con un CV da sedici pagine che si fanno ore di macchina per immergersi nella cultura dei nativi. Come gli antropologi che vanno a vivere con le tribù selvagge, questi arrivano per studiare le moderne forme di rituali prima di un giro in giostra o di come le forme di corteggiamento siano influenzate dal livello di istruzione.
La boscaglia è punteggiata di cartacce di merendine e lattine di Peroni. Niente luna romantica che filtra dai rami, ma lo strobo ritmico che ci illumina ora sì ora no al tempo di musica degli 883, techno e Carrà. Sincretismo acustico che funesta gli animali.
Camminiamo finché la luce strobo è troppo lontana per illuminare e il sentiero si distingue appena. E allora che la fichetta mi stringe la mano. Quando anche la musica è troppo lontana per arrivarci, la fichetta mi si stringe e mi bacia sulla guancia.
Continuo a camminare come se niente fosse, non la bacio, non tocco il culo, non mi stringo. La voglia di una donna si costruisce sul negare ogni gratificazione, e la voglio lasciar fare, voglio che sia così vogliosa da sentire l’odore dell’umido delle sue mutandine.
Il sentiero del boschetto si tronca su un campo di grano. Rispetto al bosco, con la luce lunare qui è pieno giorno.
«Oddio che spettacolo,» e mi si stringe di nuovo.
Avanzo nel grano lasciandola sul margine del bosco e prendo ad abbattere le spighe col piede. Le spighe vanno giù a scrosci e abbattute pavimentano una nicchia. «Hai portato un telo mare?»
Laura o Aurora mi raggiunge e stende il telo. Con quei bei piedini finisce di livellare il telo togliendo tutti i bozzi delle spighe e si siede, poi batte la mano invitandomi a sedere.
Mi allontano invece, quanto basta per vederla tutta. “Convincimi.”
Fa un sorrisetto di sfida e passa le mani dietro la schiena. Sgancia il reggiseno e lo sfila senza togliere la canotta. Me lo lancia.
Lo prendo al volo e me lo premo sul viso. Odora di crema corpo. «Tutto qua?»
Con una faccia a metà tra l’offeso e il divertito mi fa «Chiudi gli occhi, allora.»
Al buio tutto ciò che resta è l’odore del grano, della crema corpo sul reggiseno e il suono debole della stoffa mossa.
«Al volo!»
Smanaccio in avanti sfiorando qualcosa che mi sbatte in faccia. L’odore di umori di donna copre tutto il resto e lo inspiro a fondo. Apro gli occhi e mi tolgo le mutandine di questa troietta dal viso. Non ha più vestiti, i capezzoli gonfi, scurissimi rispetto alla pelle chiara che brilla alla luna. Seduta a gambe divaricate, con il peluche che le nasconde la passera e nient’altro addosso.
«Convinto?»
Visto? Come dicevo, tiratevela un po’ e la troia dentro di loro viene fuori.
«Che fai?» Accarezza il serpentello sulla testa, «Vuoi far divertire solo lui?»
«Chiudi gli occhi tu adesso.»
Obbedisce.
Faccio un paio di passi verso lei e al suono del grano che si spezza, sussulta.
Mi chino e sollevo l’orlo del pantalone. Sfilo il coltello
Mi chino un po’ alzo il pantalone. Sfilo il pugnale dalla fondina della caviglia. Sollevo la lama e di luna come la pelle di questa fichetta.
Un altro passo verso Laura, verso Aurora.
Mi inginocchio sul telo e monto cavalcioni su una sua gamba. Accarezzo il ginocchio, trascino le dita sulla coscia che si è costruita in chissà quante ore di palestra ed estetista. Con gli occhi chiusi, si mordicchia le labbra. Respira come dovesse sparare ancora. La ipnotizzo con le dita che danzano nella piega dell’inguine. L’altra mano, col coltello, la sollevo in aria.
Spalanca gli occhi, un’istante prima che possa squarciare il suo collo da troietta e tira su il ginocchio della gamba su cui mi sono messo frantumandomi le palle. Cado di lato, piegato in due con la vista piena di stelline bianche e il dolore che si arrampica dallo scroto fin dentro lo stomaco, a ondate sorde.
Rotolo di lato, la lama mi è caduta e lei grida come un’ossessa. Rotolo ancora e finisco per arrotolarmi nel telo mare e nelle spighe spezzate. E quella troia comincia a riempirmi di calci nella schiena e sulla testa.
Nero.
Il nero non so quanto dura. L’unica cosa che l’interrompe è un rombo, come se un milione di mestoli di ferro battessero tra loro mentre ti strappano i muscoli dall’osso e slegano le articolazioni.
Poi altro nero.
Un consiglio non richiesto. Se mai vi troverete faccia a faccia con un serial killer, cercate di fare tutto quel che vi dice. Impegnatevi per carità. Cercate di capire se gli piace il pianto oppure non lo sopporta. Gli piace trovare resistenza o che fingiate di essere già morti? Il controllo assoluto, l’aderenza perfetta alle sue fantasie, questo è ciò che un serial killer cerca. E se lo trova, l’omicidio magari non gli interessa più.
Oddio, con me non funzionerebbe comunque, perché alla fine vi ammazzo. Però provateci, che vi costa?
Un altro consiglio, stavolta per aspiranti killer. Se lo siete è probabile che sentendo questa storia vi sia venuta una gran voglia di infilare l’uccello dentro il cadavere di una troietta universitaria. Per convincerle, all’inizio, dovete puntare sul brutto rapporto che hanno col papà. Giocate di fino. Andate al bar di qualche facoltà e guardatevi attorno. Vi interessano fichette vestite in modo sciatto. Ragazze con mille euro di paghetta ma che indossano i Jeans del mercato. Braccialetti da negro parcheggiatore che coprono tatuaggi da seicento euro. Tesi sul capitalismo devastatore di popoli, scritte tirando abbastanza cocaina da permettere ai narcotrafficanti di comprarsi una portaerei nucleare.
Entrate nel bar con un libro e leggetelo in bella vista. Niente Kindle per carità. Hemingway o Proust in edizione economica. Quando pagate il caffè buttate lì una citazione. Marx è perfetto a lettere e filosofia. Qualcosa tratto dall’Iliade e avrete spianato la strada che vi separa dalle mutandine di una fuori corso in lettere antiche o storia. Wittgenstein a lingue.
Se avete strappato un appuntamento, mi raccomando, niente cinema o museo o ristoranti buoni. L’ho già detto: sagre di paese, motoraduni, la roba meno intellettuale è la più intellettuale.
Anche il nero dopo il rumore dopo il nero non so quanto dura, ma mi ritrovo in un letto d’ospedale con tubicini che mi entrano e mi escono da ogni buco.
Ai piedi del letto, sotto le coperte, c’è il rigonfiamento di un solo piede, il sinistro. E per controllare dov’è il mio piede destro faccio per sollevare la coperta ma non si muove nulla. Il braccio che muovo, il sinistro, non si muove. Perché non c’è più, solo un fagotto di bende aggrappato alla spalla. Sollevo le coperte con la destra e anche il piede mancante è un moncherino bendato.
Una bella infermiera con l’accento slavo e il dottor Luzzi mi spiegano che una mietitrebbia mi a maciullato braccio e piede. Magari l’avrebbero anche potuti riattaccare, mi dicono, ma a quanto pare era tutto ridotto a carne macinata.
Certo, domandano anche perché me ne fossi andato a dormire in un campo di grano in pieno agosto, al che mi limito a dire che avevo bevuto parecchio.
Nessuno tira fuori questioni sul coltello, nessuna denuncia da Laura o Aurora.
Fossimo nel millenovencentoequalcosa avrei forse qualche possibilità di continuare a uccidere qualche infermierina mossa a compassione. Non ho nemmeno la scusa di essere un negro reduce da una tremenda migrazione. Sono uno stronzo bianco, privilegiato e senza pezzi.
Non che non ci abbia riprovato. Ma se provo a leggere nei bar, non riesco a tenere il libro con una mano sola e divento una barzelletta. I camerieri si fanno in quattro per aiutare, addio fascino dell’uomo forte e indipendente. Cito qualche filosofo e sulla faccia delle ragazze lo vedi proprio apparire il pensiero:
“Peccato che sia a metà.”
“Chissà se avrà ancora l’uccello?”
“Sarà infettivo?
Mi siedo alle panchine del campus e le tipe mi lasciano i centesimi vicino al bastone. Il caffè nemmeno ci provo più a pagarlo, c’è sempre qualcuno che fa cenno al barista che offre lui. Un uomo a cui tutti offrono e l’ultimo sulla lista delle persone che ti scoperesti se fossi donna.
L’unica consolazione è a casa, la mia collezione. La tengo nello scantinato, in un freezer dietro una tenda. Un freezer a pozzetto che uso come scarpiera. Sollevo il coperchio e sfioro le scatole di scarpe impilate come in un negozio. Spazzo via la brina e mi lascio ispirare dal momento. Ogni scatola con la sua data e una ciocca di capelli appiccicata sul coperchio. Oggi prendo quella con i riccioli nerissimi. Giulia o forse Gianna. La apro e il suo piedino ha ancora un po’ di abbronzatura sbiadita. Lo smalto rosso copre ancora le unghie. Persino le rughette che vengono dopo troppo tempo in acqua marcano la pianta. Sarà stato maggio o giugno, era la sagra del pesce fritto in spiaggia credo. L’afferro, lo annuso e me lo infilo in bocca, il sapore mi fa venire l’acquolina.
La voglia che ho non smette di crescere, monta e monta che potrei scoppiare di voglia.
Rimetto il piede nella scatola e accarezzo le altre e chiudo il freezer.
Non mi resta che ricorrere ai mali estremi.
La voce al telefono è di un ragazzo del sud, un accento che aggiunge troppe “u” a “buono” e “nuovo”. Gli dico che cerco un’escort ma ho bisogni particolari e lui mi mette in contatto con una tipa che ha il suo stesso accento e pare si occupi di clienti strani.
Non la faccio parlare nemmeno, le dico che mi manca un piede e un braccio, quella mi gira un secondo numero.
Chiamo un paio di volte ma squilla a vuoto.
La campanella di una notifica WhatsApp. “Ciao!”
Chi mi scrive ha l’avatar con un angelo che osserva il paio di ali che gli si sono staccate dalla schiena. La firma del suo profilo: Venere.
Non faccio in tempo a rispondere che arriva un altro messaggio:
–Cerchi qualcosa di particolare vero? Ti avviso che io non frusto né tiro pugni alle palle o cose così.
–Va bene. Più che altro io ho bisogni particolari nel senso che ho avuto un brutto incidente.
–Capisco, questo non dovrebbe essere un problema. Anche io sono un po’ speciale da quel punto di vista.
–Spero non i piedi!
–Hai capito tu! No, non ti preoccupare per i piedi, anzi sono la mia specialità.
–Benissimo. Avrei un’altra richiesta.
–Spara.
–Voglio che sembri un appuntamento, ci siamo conosciuti per caso e ti sono subito piaciuto.
–...Va bene... insomma, facciamo finta che mi hai rimorchiato.
–Perfetto.
–Facciamo stasera?
–Ok. Mandami la posizione che mando un taxi. 😙
–😙
Arrivare al luna park in taxi è poco appariscente come entrare in chiesa in accappatoio. Il tassista si ferma e io vado ad aprire la porta.
Apro la porta e, santo cielo, non ha le braccia. Le cazzo di braccia.
Uno spacco sul vestito corre sul fianco, dalle costole ai fianchi. Come tira su il collo per guardarmi, mi sorride, e non avendo le braccia posso vedere le costole che disegnano linee sottili, e il lato di un seno piccolo e sodo. Faccio perno sul piede buono e la cingo col braccio per aiutarla a scendere, la scollatura si allarga e sotto non ha reggiseno né mutande. Mi sa che conveniva iniziare da subito con le professioniste, molto meno lavoro per convincerle.
In piedi mi arriva al mento, il vestito nero che indossa si chiude attorno al colo con un anello di stoffa tenuta da un gancetto.
Se aprissi quel gancetto, il vestito scivolerebbe giù. Una Venere di Milo.
Mi affianca ed entriamo nel luna park. Nonostante la protesi al piede zoppico e mi serve il bastone, la protesi per il braccio non l’ho ancora.
Ogni sguardo ci si appende addosso, scrutano la coppia in cui mancano tre braccia. Un'attrazione migliore di qualunque merdosa casa dei fantasmi.
La mia Venere di Milo, per mostrarmi affetto, mi si struscia addosso come i gatti in cerca di carezze o, quando siamo fermi, mi sfiora il piede finto coi suoi bei piedini nei sandali alla schiava.
La metà di questi giostrai è la stessa di sempre, è una fortuna che si ammazzino di canne da non ricordarsi di avermi visto almeno una dozzina di volte con ragazze diverse.
Indico il chiosco dello zingaro coi fucili. “Facciamo a chi colpisce più barattoli?”
Sorride e mi dà una spallata. “Si ma dopo. Adesso voglio dare due pugni al punchball, hehe.”
Ridiamo come scemi da piegarci in due col fiatone.
«Poi magari facciamo quattro tiri a canestro.» E mi dà una spintarella.
«Per caso vuoi farmi notare che il luna park non è stata una gran scelta?»
«Naa, siamo perfetti come attrazioni.»
Come accidenti fa a scherzarci così? Con tutti che guardano i moncherini lei non fa niente per nasconderli. Si mette un abito da sera! Come se io andassi in giro in infradito. «Mangiamo un boccone?»
«Andata.»
Ci sistemiamo su delle panche intorno a un tavolaccio di legno così macchiato che il legno è un’ipotesi. Uno di fronte l’altra, con due hot dog fumanti nel vassoietto, potremmo essere una foto dal fronte della prima guerra mondiale. Una cartolina: saluti da Caporetto.
Strizzo l’hot dog nella mano e mi chino sul vassoietto. Tiro un morso da staccarne un bel pezzo e tutta l’acquetta mista a ketchup scola e mi inzuppa le dita. Mastico e tiro su lo sguardo, Venere mi fissa.
Che coglione che sono.
Poggio il resto dell’hot dog e con la bocca mezza piena le dico «Scusa, non ci avevo pensato,» e mentre lo dico pezzettini di pane volano verso di lei.
«’Fa niente.»
Davvero un’ottima imitazione di ragazza ad un appuntamento.
Struscio la mano unta sul tovagliolo e prendo il suo hot dog. Glielo porgo davanti alla bocca. Venere schiude le labbra e con la lingua accarezza il wurstel che sbuca dal pane. Fa dei cerchi concentrici con la lingua e non stacca gli occhi dai miei. Tira un morso e si ritrae a masticarlo, e pur masticando le si legge un sorriso divertito sul viso. Chissà che faccia avrò fatto.
La creatura con meno potere al mondo, senza braccia, prostituta, eccola che mette in soggezione un killer solo usando gli occhi.
Per un po’ stiamo in silenzio. Faccio un boccone e poi aiuto lei a mordere in un ciclo ritmico. Uno mastica e osserva l’altro mordere il panino. Una conversazione di sguardi. E per un po’ non vedo altro che le sue labbra, i suoi occhi, i suoi capelli. Per un attimo questa donna di cui non conosco nemmeno il nome mi fa scordare tutto. Per la prima volta dimentico perché sono qui, e solo quando mi muovo, quando il coltello batte sul sostegno della panca, ricordo.
Ricordo e mi alzo di scatto, afferro il bastone. Lei è sorpresa tanto che per poco non si ribalta all’indietro.
«Scusa, non ti volevo far impaurire. Vado alla toilette.»
«Be’, vedi di non guardare le altre, mi raccomando,» e scoppia a ridere.
Me ne vado dietro uno spiazzo dove sono parcheggiati alcuni Tir, una schifezza di terra battuta e paglia e cemento frantumato. Da qui posso vederla senza essere visto.
Intorno a lei le altre donne sembrano sbiadire. È così sensuale che per poco crederesti che sia la normalità non avere le braccia, che siano tutti gli altri quelli deformi. Donne le passano accanto e introno, chi si siede, chi si alza. Tutte scrutano impressionate, ma io lo so che in cuor loro non è raccapriccio. È invidia. Perché se una senza braccia riesce a essere così bella, allora per tutti gli altri non c’è davvero nessuna scusa.
Sfilo il pugnale dalla fondina e lo butto a terra. Questa storia finisce qui, da oggi ho di meglio.
Rialzo lo sguardo. L’ennesima donna passa accanto alla mia Venere. È di spalle, coi capelli ramati che ricadono su uno zainetto. E allo zainetto è appeso il peluche di un serpente a bande gialle e nere.
La rossa parla con Venere, ma da qui non posso sentire cosa si dicono. E alla fine Laura, o Aurora, si allontana.
Raccolgo la lama e la rimetto nel fodero. Aggiro un paio di tir per non essere visto e non perdo di vista i capelli ramati nella folla. Passo dietro una auto-scontro e a ogni passo la protesi fa più male e devo fare sempre più forza sul bastone. La gente tende a schivarmi e devo buttarmici addosso perché il qualche modo mi coprano alla vista di Venere.
Raggiungo l’altra estremità del luna park e lei è lì sotto l’insegna lampeggiante che le fa i capelli ora verdi, ora gialli, ora blu. Laura, o Aurora, esce e se ne va verso la pinetina che a quest’ora sarà il paradiso dei tossici.
La seguo.
Non supero nemmeno il quinto albero lungo il sentiero che le luci intermittenti alle mie spalle già non illuminano più niente. E stanotte non è luna piena.
«Devi essere proprio un amante di giostre, tu.» La sua voce.
Mi guardo intorno ma ogni ombra potrebbe essere un tronco tagliato, un palo, o la maledetta Aurora. La fottuta Laura. «Voglio solo sapere che è successo quella notte.»
Alle mie spalle qualcuno apre una zip.
«Dimmi solo che cos’è successo!»
Un colpo in piena faccia, come un pugno flaccido. Perdo la presa sul bastone e cado di culo sul tappeto di aghi secchi che ricopre il sentiero. A tastoni cerco nel pacciame finché tocco qualcosa di molliccio e umido. L’afferro e sotto la superficie molla c’è una roba dura. E come stringere una seppia avvolta intorno a un sasso. Me l’avvicino al viso: puzza di formalina come quella che usavo qualche volta coi piedi.
Perché... è un piede.
«Piaciuta la sorpresa?»
Getto via quella schifezza.
«Una mia idea. All’inizio ti volevamo togliere entrambe le braccia, però siccome sapevo della tua passione o fatto un cambio dell’ultimo momento.»
Il mio piede, il mio piede reciso e conservato in formaldeide.
«Pensavamo capissi. Era una seconda chance. Ti abbiamo tolto il potere di fare del male, di affascinare, di uccidere. Tu, il killer della scarpetta di cristallo. Undici vittime e l’ossessione per il controllo. Hai assaggiato il tuo piatto avvelenato, ma non hai imparato lo stesso. Se sei cambiato, è stato in peggio.»
«Giuro di no. Non sono quella persona, non dopo stasera.»
Laura o Aurora fischia. «Niente movimenti strani. Sei sotto tiro.» Intorno a me scalpiccio di passi, sagome si avvicinano. Non so quante mani prendono a rovistarmi nella camicia e nei jeans. E una mano sfila il coltello. A un centimetro dal mio orecchio qualcuno grida «Trovato. È il solito coltello.»
Come sono arrivati, i passi si allontanano.
Altri passi, di una sola persona, si avvicinano. La sagoma sottile, e dove non è coperta è pallida da sembrare un fantasma. «L’altra volta il braccio te l’abbiamo veramente ficcato in una mietitrebbia. Il piede invece l’abbiamo segato. Tanto il braccio era ridotto così male che poteva esserci in mezzo anche un piede. Poteva esserci qualsiasi cosa. Stavolta sarà peggio.»
Un pizzicore al collo, calore che si spande in ogni direzione, come mi avessero appena fatto l’anestesia dal dentista, solo un milione di volte più potente e veloce.
Steso a terra, tutto ciò che posso vedere sono le stelle tra le chiome e Laura, o Aurora, che mi sovrasta.
«Bungarus Fasciatus, o serpente dai due passi. Lo chiamano così perché se ti morde puoi fare due passi al massimo prima di morire.» Mi sputa in faccia. «Per tua sfortuna è una leggenda.»
Mi piazza il peluche del serpente accanto alla testa. Provo a girare il collo ma non mi muovo di un centimetro. Provo a urlare ma i muscoli della bocca sono cemento secco.
«Il peluche è per ricordo.»
Venere mi viene a trovare ogni giorno. Ho scoperto che si chiama Giorgia. So che sta per venire perché sento il tg della sera. Nel letto d’ospedale in cui vivo, la tv scandisce ogni cosa, come le preghiere scandiscono la vita in convento. Lode e mattutino, prima ora, terza ora, vespro... io ho l’oroscopo, i programmi di Magalli, il Tg, i cartoni animati...
Entra e si viene a sedere accanto a me. Qualche volta piange, altre volte allunga il tronco su di me, ed è bellissimo perché alla fine sincronizziamo il respiro ed è come fare l’amore. Ogni tanto parliamo, cioè lei parla. Io batto le palpebre: una volta è sì, due volte no.
I dottori e i poliziotti mi hanno spiegato che la neurotossina del Bungarus è uno dei pochi veleni conosciuti a poter causare la locked-in syndrome. La sindrome del vincolato. I miei sensi funzionano tutti. Posso respirare. Posso battere gli occhi. Tutti gli altri muscoli volontari sono ko, andati, fottuti, bruciati. Sono un cetriolo di settanta chili con cinque sensi. Sono intrappolato dentro me stesso.
L’assoluta mancanza di controllo. Balia di ogni mosca che decide di passare sei ore sulla punta del mio naso, senza che io possa fare nulla.
Eppure non c’è nulla di tutto questo che mi preoccupi sul serio. L’unica cosa che mi terrorizza è il mio congelatore. Qualcuno ficcherà il naso prima o poi. Magari la polizia cerca la droga in casa mia, perché crede che sia stato un regolamento di conti. O un bel giorno se ne andrà la luce o il freezer smetterà di funzionare e allora i piedi inizieranno a marcire.
E se anche nulla di tutto ciò sarà, prima o poi Laura o Aurora deciderà di fare una soffiata. E questo lo so perché qualcuno, mentre dormivo, ha lasciato il peluche di un serpentello giallo e nero sul comodino.
Chiuso in me stesso, prigioniero, passeranno anni con la minaccia che mi tolgano anche Giorgia, la mia Venere, e allora sarò prigioniero e solo. Balia di tutto.
Fine