Va bene, originalità prossima allo zero Kelvin, ma considerando che è il primo racconto che scrivo dopo due mesi (abbondanti) di inattività sono relativamente soddisfatto... Se non altro sono felice di essere riuscito a scriverlo, mettiamola così!
L'ultima notte
di Luca Romanello
― Era una notte buia e tempestosa...
― Andrea, lo è tuttora.
― È una citazione ― intervenni, dal sedile posteriore.
Salvatore si girò e mi scoccò quella che doveva essere un'occhiata divertita. ― Ti pare che non lo so, Ciccio? Come se non conoscessi il nostro Andrea, sempre perso dietro a manga e videogiochi.
― Fanculo, Schultz non mi sembra proprio un nome giapponese ― rispose l'amico alla guida.
― Sarà stato un nome d'arte ― lo stuzzicò Salvatore, dal posto a fianco.
Andrea si mise a ridere, e io con lui. ― Sei proprio piciu ― dicemmo quasi in contemporanea.
― Minchia, che coppia di barotti!
La Panda scalcagnata imboccò l'autostrada per Pinerolo. La partita di calcetto era andata bene, avevamo vinto con largo margine e ognuno di noi tre era stato protagonista, a modo suo: Salvo aveva segnato una tripletta, Andrea aveva parato l'impossibile e io... beh, io mi ero fatto male ed ero dovuto uscire alla fine del primo tempo. La caviglia sulla quale il numero 5 della squadra avversaria aveva fatto una carezza di troppo mi faceva ancora male: si era gonfiata, però a occhio e croce non doveva essere rotta. Tenevo la gamba distesa sul sedile, senza scarpa e con un accappatoio piegato subito sotto, in modo che rimanesse sollevata, ma non troppo. La posizione non era comoda ed era peggiorata dal fatto che eravamo stati costretti a sistemare i borsoni in bilico sulla misteriosa rumenta che occupava quasi tutto il bagagliaio di Andrea: a ogni frenata o curva presa con troppo entusiasmo rischiavo di venire travolto dalla sacca più in alto, proprio quella con la cerniera rotta in un attimo di frustrazione per l'infortunio.
La partita era quasi finita quando si era alzato il vento che aveva portato i nuvoloni dai quali, in quel momento, si disegnavano fulmini arrabbiati e minacciosi. Era stato anche quello uno dei motivi per cui avevo declinato la proposta di andare al Pronto Soccorso: non avevo tutta questa voglia di perdere chissà quanto tempo e rientrare a casa sotto la pioggia. Per come si stavano mettendo le cose, però, sarei riuscito solo a non fare troppo tardi: per il temporale non c'era più molto da fare, ormai c'eravamo dentro.
Un lampo illuminò a giorno l'autostrada. Il tuono lo seguì quasi subito, sovrastando il motore della Panda e una canzone dei Def Leppard.
― Porca troia! ― esclamò Andrea.
― Cos'è, paura?
― Ma figurati! È solo che...
― Che i temporali ti fanno strizzare ― concluse Salvatore.
― Beh, era vicino ― provai a giustificarlo.
― Ah, andiamo bene! Barotti e cacasotto!
Dribblammo i tuoni sopra di noi continuando a prenderci per il culo, finché non arrivammo all'uscita per Candiolo. Mentre i tergicristallo spazzavano via i goccioloni che cominciavano a cadere, la Panda rallentò per immettersi nella rotonda.
― Facciamo il puttan tour? ― propose Salvo.
― Siamo un po' cresciuti per queste cose, non ti sembra? ― domandai a mia volta.
― E poi Ciccio deve andare a casa a sistemarsi la caviglia.
― Dai, divertiamoci un po'! Nel caso, Ciccio può anche non usufruire del servizio...
― Scusa? ― esplose Andrea, stupito. ― Stai proponendo di caricarne davvero una?
― Perché no? Magari anche più di una. Hai visto mai che sia la volta buona che batti chiodo?
― Stai scherzando ― ipotizzai.
― C'è la mulatta che se la cava niente male, subito all'uscita della rotonda. Che ne dici, Andrea, eh?
― Non è divertente.
― No, non stai scherzando ― constatai. ― E Chiara sa di queste tue esperienze?
Salvatore sbuffò. ― Come siete noiosi. Mai che ci si possa divertire un po'! Va bene, allora, facciamo solo come i ragazzini e rompiamo i coglioni ai clienti.
Sotto al cavalcavia, i bidoni stavano ritti a sfidare il vento, con il fuoco che ballava una danza indiavolata. Non c'erano prostitute, lì intorno.
All'imbocco della statale che portava all'Istituto per la Ricerca Contro il Cancro, una Seicento era ferma a bordo strada con le doppie frecce. La luce interna era accesa e si intravedeva la sagoma del conducente.
― Bingo! ― esclamò Salvatore. ― Scommetto che è la mulatta!
Andrea rallentò ancora e si fermò a fianco dell'altra auto. L'uomo alla guida aveva un braccio teso sul volante, gli occhi chiusi e il capo contro il poggiatesta. Sembrava non essersi accorto della nostra presenza.
― Guardalo, come se la spassa quel bastardo! ― Salvatore allungò una mano e suonò il clacson.
L'uomo non si mosse.
Suonò una seconda volta, più a lungo.
Il braccio dell'uomo scivolò giù dal volante e un volto trasfigurato dal sangue e dai lineamenti feroci si alzò dal grembo del conducente, puntando su di noi occhi bianchi come neve sporca.
― Porca troia! ― gridò Andrea, imitato da me e Salvo.
― Vai, per Dio, vai! ― ordinai. Quell'essere si era buttato con la faccia e con le mani contro la portiera della Seicento, che aveva resistito. Ma non avrei scommesso un euro sul fatto che sarebbe durata molto: era bastato il contatto con le unghie per far sì che il vetro si crepasse.
Mentre la Panda si lanciava in avanti in una patetica imitazione di un'auto da corsa, realizzai che Salvatore avrebbe vinto la scommessa: l'essere era la mulatta.
― Cos'era? Cos'era? Cosa cazzo era?
― Sembrava qualcosa di uscito da Resident Evil! ― esclamò Andrea.
― Ma che minchia dici? ― sbottò Salvo. ― Che minchia dici?
La vecchia Fiat sobbalzava sull'asfalto malandato, assecondando la guida del suo padrone, fattasi d'improvviso nervosa. Gli anabbaglianti illuminarono alcuni sacchi dell'immondizia lasciati a bordo strada proprio dove la statale curvava: in mezzo, comparvero altri due occhi bianchi.
Andrea girò il volante più del necessario e le ruote finirono sulla striscia di ghiaia che separava la carreggiata dai campi. Salvatore corresse la traiettoria prima che ci capottassimo sulla terra appena dissodata.
Mi voltai per cercare di capire cosa ci fosse in mezzo alla pattumiera, per avere una conferma di quello che pensavo di aver visto, ma il borsone occupava tutto il lunotto posteriore e con quel buio non sarei comunque riuscito a scorgere un granché.
La Panda tornò sull'asfalto, ma Andrea si guardò bene dal rallentare. La strada si infilò nel bosco dietro a Stupinigi. Un vento impietoso flagellava i rami, torcendoli in modo maligno.
Un nuovo lampo squarciò il buio. Tra gli alberi, mi parve di scorgere delle persone. Ma cosa ci facevano, lì?
― Attento! ― urlò Salvo.
Gli occhi bianchi, questa volta, erano in mezzo alla strada, piazzati dentro un volto smunto che sovrastava un camice da dottore.
Quegli stessi riflessi che avevano salvato la porta della nostra squadra fecero muovere il volante a una velocità che la Panda non era progettata a sopportare. Gli ammortizzatori si piegarono con violenza, riuscendo a malapena a tenere a terra l'automobile con tutte le gomme, ma, quando la macchina superò l'uomo, la correzione di Andrea la mandò sulle due ruote di destra. Vidi con chiarezza l'asfalto che si piegava verso di me, prima che per miracolo la Panda con uno scossone tornasse orizzontale.
― Porca tro...
L'aiuola in mezzo alla piccola rotonda che portava all'ingresso dell'ospedale troncò l'esclamazione di Andrea e tutte le possibilità di controllare l'automobile. Che andò a finire contro il muretto che sosteneva l'inferriata di cinta dell'Istituto.
Il sedile posteriore mi scivolò via da sotto il culo e gli schienali di quelli anteriori fermarono il mio volo.
La puzza di benzina è penetrante. Mi è sempre piaciuta, ma in questo momento mi dà solo fastidio. Sarà che è mischiata a qualcosa che non riesco a individuare.
La testa mi fa male, devo averla battuta di brutto. La schiena è compressa tra i sedili, sui tappetini consumati della Panda. Ho qualcosa addosso, qualcosa di umido e maleodorante. La prima cosa che mi viene in mente è la divisa della squadra: di certo nello schianto deve essere uscito tutto dal borsone.
Provo ad aprire gli occhi, ma ho appena il tempo di farlo prima di essere inchiodato da un rumore agghiacciante, lo strappo di qualcosa di molle eppure resistente. Ruoto le pupille alla ricerca dell'origine di quel suono: al di là del sedile del guidatore, la portiera è spalancata. Gocce grosse quanto pistacchi si infrangono contro l'asfalto e un paio di jeans strappati. Chi li indossa è per terra, sdraiato. Si muove a scatti, senza spostarsi, come se venisse strattonato. Un gorgoglio. Un grugnito. Un lungo, straziante lamento.
E poi la cosa peggiore di tutte. Gli altri rumori la coprono, ma non posso sbagliare, è un suono troppo vicino. Il suono di qualcuno o qualcosa che mangia.
Serro gli occhi, ma non serve a niente. Comincio a tremare e mi sfugge un sospiro che, attraverso la gola chiusa dal terrore, echeggia roco nell'abitacolo.
I denti si fermano. Qualcosa striscia contro la carrozzeria. Il silenzio che segue dura per ore, tanto mi sembrano i pochi secondi prima di sentire che qualcuno sopra di me sta annusando.
Non mi succedeva più dalla cresima, dai tempi in cui gli zombi erano solo creature di fantasia dei film di Romero e Fulci: prego. Prego un Dio in cui non ho mai creduto e che in questo momento mi sembra l'unica cosa che mi potrebbe salvare.
E chiunque ci sia lassù mi ascolta.
― Oooh ― si lamenta Salvatore.
Il sedile del guidatore si piega sotto il peso dell'essere che fino a un istante prima mi stava annusando.
― Ma cosa...
Sono le ultime parole che pronuncia il mio amico, prima di mettersi a urlare. I due schienali oscillano con violenza, comprimendomi contro i sedili posteriori. Mi sforzo di non emettere fiato.
Poi si apre la portiera lato passeggero e l'urlo si allontana. Il peso dell'essere si sposta e lo segue, lasciandomi da solo nella Panda.
È il momento.
Rimango combattuto per qualche istante, congelato dalla paura e riscaldato nell'inguine da ciò che mi è sfuggito dalle viscere. Ma è questione di pochi attimi, giusto il tempo di convincermi che a stare rinchiuso qui dentro posso solo fare la fine del topo in gabbia.
Con le ossa che protestano in silenzio, mi sollevo e cerco di ribaltare il sedile del guidatore. Mentre combatto con lo schienale, lancio occhiate impazzite a destra e sinistra. I lampi ormai sono frequenti, ci sono parecchie persone nel giardino oltre all'inferriata contro la quale si è schiantata la Panda: si stanno muovendo dietro a Salvatore, che scappa verso l'ospedale.
Striscio tra il sedile e il montante della portiera ed esco, lasciando dietro di me brandelli di felpa e una sequela di bestemmie, dimenticando le preghiere di poco prima.
Scavalco il cadavere a pezzi, non mi interessa scoprire quello che so già, che è Andrea. Mi lancio in una corsa zoppicante, con un piede in una scarpa da ginnastica e l'altro con la sola calza, rigonfia. La caviglia è un nido di serpenti incazzati che mi affondano i denti nelle ossa.
Mi dirigo verso la città, nell'unica direzione nella quale, pur non avendo certezze, ho un barlume di speranza di trovare aiuto.
Un gruppo di esseri con gli occhi bianchi viene illuminato da un fulmine, poco oltre l'inferriata. Alcuni sono calvi, coperti solo da un osceno camice aperto sul didietro, altri hanno vestiti normali. Non voglio sapere cosa stiano facendo, addossati l'uno all'altro. Uno di loro si accorge di me, mentre passo, e di colpo li trovo ringhianti contro le sbarre, come bestie feroci in gabbia. Ma sono uomini e donne e hanno conservato quel poco di intelligenza bastante a far loro realizzare che gli è sufficiente scavalcare per venirmi dietro.
Stringo i denti. Piango. Insulto la caviglia. Maledico il numero 5 e il suo fottuto intervento da macellaio. Eppure ho l'impressione di riuscire a distanziarli.
Intravedo qualcosa, là in fondo, mentre tra i tuoni si fa strada il rumore di un elicottero.
Sì, sono dei lampeggianti!
Il crepitio delle armi da fuoco mi sembra il suono più dolce che abbia mai sentito.
Un fascio di luce piove dal cielo su decine di individui che vengono falciati, metodicamente, dagli agenti. Quando arrivo a breve distanza da loro, il faro illumina solo cadaveri immobili.
Alzo le braccia per attirare l'attenzione dei militari, per avvisarli che ce ne sono degli altri, di quei mostri. E vengo investito dalla luce dell'elicottero.
Partono di nuovo gli spari. Mi ritrovo con un peso insopportabile sul petto, sollevato da terra, scagliato all'indietro. Sgrano gli occhi, incredulo, ma ormai la vista mi ha abbandonato.
Il buio si fa profondo e la tempesta... La tempesta, non la sento più.