La colonia
Sono sola, intrappolata tra pareti candide.
Mi muovo come una mosca sotto a una campana di vetro: avanzo senza sapere quali ostacoli bloccheranno il mio cammino. Sbatto senza alcun orientamento, ma proseguirò finché ne avrò la forza. Tasto ancora lo stesso sasso, devo aver girato in tondo un'altra volta.
Vago, in cerca di una via d'uscita, di una traccia che possa riportarmi al rifugio: le mie compagne saranno già lì al sicuro, nel riparo che ho studiato per loro. Tutto sembra scomparso, inghiottito dalla massa bianca che sommerge ogni odore, ogni punto di riferimento.
Non era stato facile dar vita al progetto. Ero debole e malnutrita, per puro caso i denti di mia madre erano finiti sul ventre di mia sorella e non sul mio. Scavando nel fango, ero risalita in superficie guadagnandomi la possibilità di sopravvivere. E di creare la colonia.
Avevo scelto un ingresso difendibile ai piedi di un castagno selvatico, e disegnato cunicoli che scendevano per metri nella terra. Alcuni erano ciechi e sarebbero serviti per ingannare gli intrusi; altri portavano a cellette con vari scopi e dimensioni. Quelle più vicine alla superficie fungevano da magazzino, poi quelle in cui vivere e, sempre più in fondo, quelle per la raccolta dei rifiuti e dell'acqua piovana.
Avevo organizzato tutto nei minimi dettagli, e niente era stato lasciato al caso. Era come se nella mia testa qualcuno mi dicesse cosa fare, sapevo esattamente come sarebbe dovuto risultare la mia costruzione.
Impartivo ordini precisi alle mie compagne, che lavoravano fino allo stremo per portare avanti il lavoro. Giorno dopo giorno, realizzammo un nascondiglio perfetto: nessuno, all'esterno, ne avrebbe captato l'esistenza. All'interno, sarebbe stata morte certa per chi non ne avesse conosciuti i minimi segreti.
Il freddo inizia a penetrarmi, ancora pochi attimi e la notte mi coglierà senza un riparo.
Non riesco più a sentire l'odore che avevo lasciato sfregando il mio corpo sul terreno, qualcosa dentro di me sembra essersi spezzato. Avevo percorso molte volte questa strada, ma al ritorno era forte la traccia dei miei passi. Non oggi.
Gli alberi, i campi e quel che resta del mais hanno perso i loro profili. Sono davanti a un vicolo cieco, mi volto e torno indietro cercando di non cambiare direzione. Tutto sembra uguale e diverso, niente che mi ricordi la via giusta. Mi trovo di nuovo davanti a un bivio; la scelta tra svoltare a destra o a sinistra potrebbe costarmi la vita.
L'estate era trascorsa senza che nessun nemico ci attaccasse, e le alte temperature di luglio non avevano creato troppi problemi: scegliere di edificare l'entrata della colonia ai piedi di un albero era stata un' ottima idea.
Le mie compagne raccoglievano provviste per l'inverno e io progettavo nuovi magazzini, nel caso in cui quelli esistenti non fossero bastati.
Avevo un trattamento di favore viste le mie doti, ma ogni giorno dovevo far rapporto dei progressi della colonia alla nostra Regina: viveva per educare quelle che sarebbero diventate nostre compagne in futuro, ma la sua attenzione sul nostro operato non era mai da meno.
Poi l'odore d'autunno iniziò a farsi largo tra le spighe mature, e la pioggia non si fece attendere a lungo.
Diedi ordine di riparare ogni crepa, ogni minuscola screpolatura delle pareti doveva essere sigillata in modo impeccabile. Era finito il tempo degli amori estivi e della ricerca di cibo, l'inverno iniziava ad allungare le sue gelide dita verso la terra, e noi eravamo in pericolo come qualsiasi altro essere vivente.
I lavori continuavano giorno e notte, sgridavo chi cedeva alla pigrizia e al richiamo del riposo: con attenzione maniacale controllavo ogni angolo, ogni anfratto del nostro rifugio. I cunicoli che avevo progettato erano impressi nella mia mente, le vie di fuga, le pareti da rinforzare, la mia opera avrebbe resistito a qualsiasi intemperia.
Un tonfo sordo, lontano.
Una vibrazione che si diffonde nel terreno, fino alla nostra casa.
La pioggia inizia a battere violenta contro al terreno.
Non dobbiamo aver paura, io ho progettato tutto; io so che non ci sono pericoli.
Passi veloci, sulle nostre teste.
Affondano nella fanghiglia, coperta di foglie morte e ricci.
Sono vicini, troppo.
Qualcosa non regge al piano superiore, scricchiolano i rinforzi, crollano i soffitti.
Sento lamenti e gemiti, devo fare qualcosa.
E' troppo tardi.
Il tempo sembra fermarsi mentre uno squarcio insanabile distrugge la mia costruzione e l'acqua entra inarrestabile: a nulla sono serviti i miei sforzi.
Le urla di morte mi straziano i timpani, qualcosa mi ha ferito il capo. Non capisco come sia possibile, non avverto tracce delle mie compagne.
Ancora quel sasso, rotondo, che credevo di aver seminato. Continuo a camminare, persa in un labirinto nebbioso. Mi basterebbe una lieve scia, e potrei tornare indietro. Costruirei una dimora più resistente, è sempre stata la mia mansione creare edifici.
Chissà per quanto tempo sono rimasta tra le macerie della colonia, i minuti si sono trasformati in ore e forse in giorni. Nessuna compagna mi ha cercata, nessuna mi ha portata al sicuro. Non percepisco più alcun segnale olfattivo, i miei organi di senso devono essersi danneggiati. Che ruolo potrei svolgere in questo stato? Come potrei sopravvivere da sola?
Sono esausta, e il freddo mi intorpidisce. Mi riposerò un attimo qui, vicino a questi funghi.
Ho bisogno di dormire.
Forse, sotto di me, qualche figlia sarà mangiata dalla propria madre. Qualcun'altra, invece, riuscirà a emergere, pronta per costruire un nuovo formicaio.