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Skannatoio, novembre 2012, speciale XII, A ventiquattr'ore dalla fine
* Campionato aut-inv 2012, 6 di 12

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Jackie de Ripper
view post Posted on 15/11/2012, 08:58




CITAZIONE (Polly Russell @ 14/11/2012, 21:02) 
@Jackie quell'Achille mi andrebbe bene anche vestito con quelle tendine mostruose!

Per chi non sapesse di cosa si parla:

 
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-Peppino-
view post Posted on 15/11/2012, 10:46




@mater:ahahahah! :lol:


@Kaipi:

CITAZIONE (kaipirissima @ 14/11/2012, 22:02)
CITAZIONE (-Peppino- @ 14/11/2012, 11:30) 
@patrizia: la classifica va fatta non tenendo conto del proprio racconto, ma solo quelli degli altri concorrenti

Peccato! Avrei potuto mettermi prima! :P

Anche io mi sto mangiando le mani.
Il Peppino giudice avrebbe messo il racconto del Peppino scrittore in ultima posizione.
Il Peppino scrittore si sarebbe incazzato con il Peppino giudice e avrebbe dato anche tutta la colpa a Kaipi ;)
Voi avreste aperto i pop corn.
Il Peppino scrittore si sarebbe alla fine, come al solito, scusato con tutti.

e questo è lo scenario più semplice, quello con solo due delle personalità di Peppino :P :D

Peppino è Legione! diavolo
 
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view post Posted on 15/11/2012, 10:47
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Di solito da casa mia.

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...no. Peppino è esaurito! :)
 
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-Peppino-
view post Posted on 15/11/2012, 12:33




CITAZIONE (Polly Russell @ 15/11/2012, 10:47)
...no. Peppino è esaurito! :)

Questo è fuori discussione visto che ho persino chiamato mater, nel post precedente ,master_runta

Chissa come sarebbe come madre :lol:
 
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view post Posted on 15/11/2012, 12:48

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@pep: la madre di tutti i guai... :P
comunque ci tengo a precisare che sarei un bravissimo mammo...u.u
 
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view post Posted on 15/11/2012, 13:22

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Marcus

Gloria era sempre più nervosa e irritabile. Durante le ore di lavoro era colta da improvvise crisi di panico che la inducevano a fuggire. Che vergogna! Perché stava capitando proprio a lei, impiegata modello, responsabile, retta, affidabile? Non riusciva a farsene una ragione.
Sapeva solo che stava cambiando irrimediabilmente. C'era una forza irresistibile ed innaturale dentro di lei, che la spingeva a cercare la solitudine. Colpa dello stress. Aveva trascorso troppe ore davanti al computer, troppe ore a fare calcoli, resoconti, operazioni di marketing.
Oppure era colpa di Marcus e di quella maledetta festa...
Il ricordo di quella serata era sempre presente nella mente ossessionata di Gloria.
Tutto cominciò quando Elisa, la sua amica del cuore, conobbbe uno strano dottore e si mise a frequentarlo. Non si vedevano mai da soli ma insieme a tanta altra gente che aveva in comune una inevitabile, fatale attrazione per l'affascinante Marcus.
Lui, il fine settimana, invitava tanti giovani nella sua bellissima villa immersa nel verde della campagna. Là si parlava liberamente di tutto: dal sesso all'omeopatia, dalla cibernetica al buon vino. Nessun tabù a casa di Marcus, promotore di iniziative e ricerche sempre nuove e stimolanti. Gli ospiti lo seguivano fedelmente, pendevano dalle sue labbra.
Elisa era così presa da quella esuberante compagnia, da dimenticarsi di Gloria. L'amica però continuava a telefonarle, a mandarle messaggi per ricolrdarle che era ancora viva, anzi viva e vegeta e desiderava vederla. Così Elisa, colta dai sensi di colpa, una domenica si recò da Gloria e non fece altro che parlare di Marcus.
"Non credi di esagerare? Non hai più sedici anni!", fu la severa critica dell'amica.
"Non mi credi? Allora devi assolutamente conoscerlo. Stasera c'è una festa a casa sua e tu verrai con me", disse Elisa.
"Assolutamente no!".
Ma poi Gloria si lasciò convincere ed indossò addiritttura un abito con i lustrini.
Eccole le due graziose ragazze, in pista a ballare, sotto calde ed avvolgenti luci psichedeliche.
La musica era da sballo, gli invitati carini ed i cocktails una vera favola! Perchè mai avrebbero dovuto rimanere a casa, davanti alla tivù? Molto meglio essere lì, alla corte del Re Sole.
"Eccolo che si avvicina. Viene da noi!", sussurrò Elisa.
Gloria si trovò di fronte un uomo alto e muscoloso, occhi di ghiaccio e folti ricci neri. Era sulla quarantina, bello , elegante e dotato di una forte personalità. Il dottore accolse con entusiasmo
la nuova arrivata, le strinse la mano vigorosamente e la ammaliò.
Intanto la festa impazzava, sempre più vivace ed inebriante. Quei cocktails che marcus aveva preparato con el sue mano erano davvero favolosi. Gloria ne trangugiò addirittura tre, sotto lo sguardo divertito del padrone di casa. Anche Elisa bevve tanto quella sera.
E poi? C'era un vuoto, un doloroso vuoto nella mente di Gloria. Si risvegliò senza nulla addosso in un letto sfatto. Era sola e aveva un buco nel braccio sinistro. La testa le girava vorticosamente, aveva la bocca impastata e una sete terribile. Poi cominciarono le allucinazioni che la indussero a ridere, a piangere, a sudare e a dimenarsi. Si sentiva bruciare dentro, era come tarantolata. Poi, l'effetto di quella maledetta roba svanì. Gloria si rivestì in fretta e corse fuori da quella anonima, angosciante stanza senza sapere chi accusare.
Eppure ciò che le avevano fatto era terribile. Elisa subì la stessa sorte. Erano così ferite, sofferenti e impaurite che non parlarono più di quell'argomento. Relegarono Marcus e i misteriosi fatti di quella notte in una angolino delle loro menti.
Era stata una brutta esperienza e nulla più. Non ci sarebbero ricascate. Continuarono a vedersi come se quella sera non fosse mai esistita. Però la loro vita pian piano cambiava. Divennero entrambe più aggressive, tristi, solitarie. Avevano frequenti crisi di panico e orribili allucinazioni.
Gloria, una cupa sera autunnale, uscì a fare una passeggiata. Camminò spedita finché si ritrovò in una stradina sconosciuta e deserta. Si dimenò come un'ossessa e poi urlò, in preda a strane visioni. Un passante si precipitò in suo aiuto.
"Sta male, signorina?", le chiese l'uomo.
"No. Grazie di essere intervenuto. Mi ha salvata dal mostro!", rispose lei tra le lacrime.
"Sì? E ora dov'è?".
"E' fuggito".
" Strano. Io non ho visto nessuno. Com'era quell'uomo?".
"Non ho mai detto che il mostro fosse un uomo", rispose Gloria con uno strano sorrriso sulle
labbra. Poi cominciò a mutare aspetto fino a tramutarsi im una orribile creatura dagli occhi di brace.
"Ma che accidenti succede?", chiese l'uomo indietreggiando.
"La vita è piena di luoghi comuni, non crede?". disse la ragazza con voce stridula, "Non ho mai detto che il mostro fosse un uomo", ripetè soddisfatta affondando i lunghi artigli nel corpo del suo incauto salvatore.
Quando ritornò in sé, Gloria si spaventò vedendo quel poveretto immerso in una pozza di sangue e rabbrividì al pensiero che era sua la colpa.
Poi, aguzzò la vista e vide, dall'altra parte della strada, nientemeno che Marcus.
Il dottore le si avicinava sorridendo e Gloria lo attese con ansia e con un disperato desiderio di verità e vendetta.
"Cosa mi hai fatto, maledetto?", gli urlò.
"Calma, piccola", le rispose Marcus col solito sorriso bonario.
"Stavolta non attacca, bel tenebroso!", urlò un'altra ragazza indiavolata. Era Elisa.
In quella strada buia e deserta il folle scienziato fu circondato da un esercito di giovani mutanti, orribili creature, vittime dei suoi folli esperimenti.
Marcus si ritrasse spaventato. Le sue creature incombevano su di lui, col chiaro intento di fargliela pagare cara. Il capo di quegli esseri dannati era un albino, avvolto in un mantello nero, con i lunghi e radi capelli bianchi che gli scendevano fin sulle spalle. Dalla sua bocca sottile uscì una profonda voce metallica: "Tu hai segnato per sempre il nostro destino", esclamò puntando l'indice contro Marcus.
Il medico indietreggiò terrorizzato, sudando vistosamente e poi provò a fuggire ma rimase con i piedi incollati al terreno. Allora si inginocchiò e chiese perdono, senza ritegno.
Ma non c'era pietà negli occhi delle sue vittime.
"Questa è la fine. Trattieni il respiro e conta fino a dieci. Senti la terra tremare sotto i piedi e poi ascolta il mio cuore battere di nuovo". Queste furono le ultime parole dell'inquietante albino. Poi, all'improvviso, l'aria divenne gelida. Le chiome degli alberi danzavano freneticamente al ritmo di un vento incalzante. La terra tremò squarciandosi e inghiottì Marcus insieme ai suoi giovani, ingenui adepti.
Poi il vento irrequieto si placò, come d'incanto, lasciando di nuovo ogni cosa al suo silenzio.



Io numero uno. Polly numero due ecc.
Ciao a tutti e grazie per l'aiuto.
Pat
 
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view post Posted on 15/11/2012, 17:26
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È questa la fine?


È questa la fine?
Guardo il cielo da sotto la superficie del lago mentre conto fino a dieci. Poi, dopo un amaro sorriso, chiudo gli occhi e lascio andare l’aria che trattengo nei polmoni, affondando fino a toccare il fondo.
Sento tremare la terra, ma il mio cuore batte ancora.
Possibile che sia tutto qui morire?

– Ciao.
– E tu chi sei?
– Il mio nome è Alma. Ma forse mi conosci come Dama del Lago.
– Io sono uno scrittore.
– Ma ce l’avrai un nome?

Non rispondo è il mio segreto.

– D’accordo scrittore. Tieniti il tuo mistero, ma dimmi, che cosa te ne fai della tua arte sott’acqua?
– Nulla. Son qui per morire.
– O bella. Non sai che per morire in questo lago hai bisogno del mio permesso?
– Allora ti prego, Alma, accordamelo così ch'io possa lasciare questa terra.
– Sei proprio divertente scrittore. Non ti sei accorto che hai già lasciato la terra?
– Vuoi dire allora che son già morto?
– No.
– Non capisco.
– Eppure, se è vero che sei quel che dici di essere, dovresti già avere la risposta. Su. Usa un po’ di fantasia.
– Mi spiace Alma, ma adesso le tue parole mi sono ancora più oscure.

La Dama del Lago non mi risponde. Si allontana avvolta dalle sue vesti leggere mentre raggi di luce cangiante la seguono lasciandomi al buio.
Con i piedi indago il fondo. A tentoni cerco di capire quel che mi circonda, ma tutto quello che riesco a fare è arrendermi all’idea di essere circondato dal nulla.
Non ho idea di quanto tempo passa e alla fine esplodo in un urlo disperato.

– Bestanione!
– Che cosa significa? – chiede Alma d’improvviso riapparsa.
– È il mio nome.
– L’avevo capito, ma che cosa significa?
– Non lo so. L’ha scelto mia madre. Diceva che le piaceva come suonava.
– I gusti non si discutono, ma un nome può trasformarsi in una condanna.
– È quel che penso. E il mio nome ne è la prova. Sono sicuro di aver perso molte occasioni nella vita, solo per come mi chiamo.
– Ed è per questo che vuoi morire? Perché ti chiami Bestanione?
– Forse.
– Forse, perché non ne sei sicuro? Forse perché ci sono altre ragioni che non mi vuoi dire? O forse perché ti vergogni a voler morire per così poco?

Non rispondo. Non mi son tuffato in quest’acqua gelida e nera per farmi prendere in giro.

Alma è di nuovo sparita e io mi accorgo che l’acqua è ancora più fredda, ancora più scura.

Passa ancora un tempo indefinito e di nuovo esplodo in un urlo possente.

– Voglio morire perché amo senza essere amato!

Alma è di nuovo davanti a me e mi sorride.

– Ho capito. Non sai quante volte mi è successo.
– Di morire per amore?
– Sei davvero divertente Bestanione. Intendo dire che mi è capitato molte volte di amare senza essere amata.
– Ma è stato per colpa del mio nome. Altrimenti lo avrei accettato.
– Mmm… lo sapevo che avevi una storia interessante da raccontare. Dimmi.
– Ho scritto un libro di poesie. Un libro in cui ho aperto il mio cuore alla donna che amo. Un libro che le ho fatto avere e che quando la mia bella ha letto l’ha fatta innamorare.
– Ma com’è possibile? Perché non sei corso da lei? Perché non le hai fatto sapere che tutte quelle poesie le avevi scritte tu?
– Ho provato. Eccome se ci ho provato.
– E allora?
– Vedi Alma, la donna che amo è una principessa.
– E allora?
– Beh… non è possibile avvicinarsi a una principessa senza farsi annunciare.
– E allora?
– Ma come? Non capisci? Quando sono andato a palazzo, sono stato annunciato come Bestanione.
– E allora?
– Il libro lo avevo firmato con uno pseudonimo.
– Aaaaah. E che pseudonimo avevi scelto?
– Un nome brutto. Un nome talmente brutto che nemmeno pronunciato al contrario avrebbe potuto piacere all’orecchio di una principessa.
– Dimmelo sono proprio curiosa.

E di nuovo mi chiudo in me stesso e taccio.

Di uovo Alma mi lascia solo e di nuovo vengo avvolto dal freddo e dal buio.

E ancora una volta urlo disperato.

– Nongivor!
– Hai ragione, Bestanione, anche al contrario è proprio buffo. E mi immagino che proprio come il tuo nome non abbia significato.
– Infatti. L’ho scelto solo perché suona male.
– Non capisco però perché? Qual è l’utilità di firmare il proprio amore Nongivor?
– Perché credevo che confessando alla principessa che l’autore del libro ero io anziché lui, anche Bestanione le sarebbe sembrato bello. Quantomeno più bello di Nongivor.

Alma si mette a ridere divertita. Ed io arrossisco di vergogna e ancor più desidero morire. Ma non so più come fare.

– Scusa Bestanione. Ma la tua storia è incredibile e, comunque, ancora non capisco perché vorresti morire. Bello o non bello. Brutto o più brutto… qual è il problema? Perché non le hai detto che eri tu Nongivor?
– Perché glielo aveva già detto un altro. Un altro che mentendo ha colto l'occasione che non avevo saputo cogliere io.

Cerco di allontanarmi.
Adesso sono io a voler stare da solo. Cerco il buio e il freddo, ma Alma non mi lascia andare. Mi trattiene lieve per un braccio. Quindi mi dà una carezza e paziente attende che io torni a guardarla.

– Mi piaci Bestanione. E il tuo nome non m’interessa. Non sai quanto vorrei che quelle poesie tu le avessi scritte per me. Quel che ti è successo è solo una lezione di vita. Hai fatto una scelta che si è rivelata sbagliata, ma questo non vuol dire che non possa tornarti utile nel futuro, sempre che tu voglia vivere ancora.

Alma ha ragione.
Ho fatto una scelta sbagliata. Avrei dovuto recitare di persona le mie poesie alla principessa e forse tutto, senza fraintendimenti, mi sarebbe apparso sotto un’altra luce fin da subito.

– Hai ragione Alma. Non voglio morire.
– Mi fa piacere sentirtelo dire, Bestanione. Sono contenta di averti salvato.

D’improvviso ho bisogno d’aria.
D’improvviso sento di dover nuotare verso la superficie per salvarmi.
Quando arrivo a riva bacio per terra e con piacere lascio che l’aria mi riempia i polmoni.
Ma subito una gran tristezza s’impossessa di me.
Una tristezza che riflette quella che ho letto negli occhi della Dama del Lago prima di tornare in superficie. Ma non ne capisco il perché.

Mi metto in cammino verso il palazzo della principessa, ma dopo pochi passi mi accorgo che è inutile. Non è quello che voglio. Non più.

Torno indietro di corsa e quando arrivo sulla sponda del lago urlo: – Almaaaaa! – Ma non succede nulla.
Urlo più forte, ma per risposta ricevo solo silenzio.
E ancora una volta torno a immergermi.

– Ma come? Sei ancora qui?

Mi limito ad annuire mentre guardo il cielo da sotto la superficie del lago e conto fino a dieci. Poi, dopo un sorriso pieno di gioia, chiudo gli occhi e lascio andare l’aria che trattengo nei polmoni, affondando fino a toccare il fondo.

Sento di nuovo tremare la terra, e il mio cuore che batte ancora.

– Sono contenta che tu sia tornato.
– Sono tornato perché ho capito. Ho capito quel che voglio. Ho capito che ti amo.
– Anch’io Bestanione. Ma se resti con me… non potrai più scrivere.

Non le rispondo.
Ci abbracciamo, ci baciamo e mentre luce e tepore ci avvolgono, il tempo smette d’avere significato.

– È la prima volta che amo venendo amata.

Edited by Rovignon - 15/11/2012, 23:15
 
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Jackie de Ripper
view post Posted on 15/11/2012, 17:44




CITAZIONE (-Peppino- @ 15/11/2012, 10:46) 
Peppino è Legione! diavolo

Allora il TETRA ha scritto
qualcosa su di te:
http://www.latelanera.com/divinita-demoni-...ggio.asp?id=145
 
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Wrong
view post Posted on 15/11/2012, 22:37




Spezzatino al sugo di pomodoro

Una vasca. Piena di sangue.
È stato un lavoraccio. Pezzi di carne galleggianti.
La mia ultima opera d’arte.
“Frammenti di una Musa”.
Andrebbe esposta così com’è. Non una foto, no.
La diapositiva più bella renderebbe la mia opera banale.
L‘arte nasce dal malessere, dalla fatica. Ogni critico dovrebbe annusare, sentire con ogni senso messo a disposizione dal corpo umano l’ essenza di questo capolavoro.
La domanda ricorrente non riguarderà più il sorriso enigmatico della Monna Lisa. Fanculo la Gioconda.
Un nuovo dubbio divorerà gli studiosi e gli studenti d’arte, una sola domanda: perché?
E io risponderò. La mia storia parlerà da sé. Non mi illudo che capiscano. Ci penserà il tempo a ripulire il mio nome ricoperto dal fango.
Perché chiunque sarebbe fuggito. Non io.
Chiunque sarebbe impazzito. Non io.
Io ho fatto di necessità virtù.
E alla polizia che sta per arrivare racconterò la storia della mia Musa.
Non la storia della sua vita. In fondo, non la conoscevo neanche, che potrei mai dire?
No, quella è una parte che lascio volentieri ai TG di bassa levatura.
Tralascerò l’entrata furtiva dalla finestra. Che io mi sia nascosto in salotto dietro la poltrona, in attesa del suo rientro a casa, non importa. Sarà la Scientifica a scoprirlo.
Per la mia storia sarà irrilevante rivelare che ho bevuto dal suo bicchiere, che ho sfogliato i suoi album di fotografie e che ho frugato fra i suoi cassetti.
No, niente di tutto ciò. La mia storia inizia con la Musa che rientra a casa. Immagino sia felice. Non avrebbe motivo per essere triste.
E non sa ancora che sta per diventare leggenda.
Entra in doccia, la spio. Esce dalla doccia.
Mi chiederanno se era ancora nuda o già vestita al momento che l’ho aggredita. Che cazzo vi importa?
Giustificheranno la loro morbosità con la scusa delle indagini. I TG con la scusa della libertà di informazione. Ipocriti.
Dirò agli sbirri che dopo averla scaraventata a terra ho afferrato un cuscino e premuto sulla sua faccia. Si dibatte sotto il mio corpo. Freme alla ricerca di aria, come un minatore che vede morire il proprio canarino. Smette di agitarsi ma continuo a schiacciarle il cuscino sul naso. L’ho imparato dai film. Meglio non fidarsi.
Lavoro finito. Ha avuto ciò che si merita, penso dirigendomi verso la porta.
L’avrebbe pensato chiunque.
A quel punto mi chiederanno perché l’ho fatto. Ma Cristo!, risponderò. Volete capire che c’è dell’altro?
Quando vedo la mia Musa rialzarsi che tenta di aggredirmi con un abatjour potete ben capire il mio sgomento.
La puttana è ancora viva. Si sarà formata una sacca d’aria fra il suo viso e il cuscino, mi dico.
Così schivo il suo tentativo di colpirmi e la spingo a terra.
Stringo le mie mani sul suo collo. I suoi occhi sorpresi si riempiono di terrore. Poi di piccoli capillari rossi. Poi sangue.
Sento qualcosa che si frantuma all’interno del suo esile collo al profumo di pesca.
Continuo a stringere per diversi minuti. In sottofondo, scricchiolii di vertebre spezzate.
Stavolta nessun dubbio.
La posizione innaturale della testa e quella smorfia sono una garanzia sufficiente.
La fisso. È proprio morta, stecchita. E come potrebbe essere altrimenti?
Mi accorgo un istante in ritardo che le sue pupille si stanno muovendo. Mi afferra una caviglia. E urla.
Urla furiose. In un attimo capisco che se non fuggo sarò io a dover morire.
Mi libero dalla presa e mi dirigo in cucina. Impugno una mannaia e quando mi volto lei è lì sulla porta che mi aspetta.
Assatanata.
No, non ha l’aspetto di uno zombie. È bella allo stesso modo in cui lo era uscendo dalla doccia.
Non ho tempo per chiedermi che diavolo stia succedendo. Alla polizia incredula risparmierò i particolari della lotta. Il punto è che alla fine le ho squarciato la gola. Sangue caldo innaffia il parquet. Mi ritrovo inzuppato. Ma non ci faccio caso. Sapete perché? La troia sfida il mio sguardo di ghiaccio. Sciogliendomelo. Continua a urlare infuriata. E il suo corpo non smette di lottare.
Se a questo punto gli sbirri non mi sbatteranno in una cella dalle pareti morbide, finirò di raccontare loro la storia.
Con un colpo da macellaio stacco di netto la testa urlante dal corpo ribelle. E smette di urlare. Cazzo, era ora!
Ma non posso più lasciare niente al caso. Afferro la testa per i capelli e la butto nella vasca da bagno. Metto il tappo allo scarico e la riempio di acqua bollente. Nel frattempo taglio e sfracello braccia, gambe, muscoli, ossa, organi e getto tutto nella vasca.
Spezzatino al sugo di pomodoro.
La testa ghignante riprende vita. Le dita si arrampicano sul bordo come piccoli vermi. L’intestino è un serpente che tenta di attorcigliarsi attorno al mio braccio.
La mia Musa ha appena riacceso l’ispirazione con una scarica di eccitazione che riapre il mondo che lei aveva spento all’improvviso. Arriva come un pugno allo stomaco.
E anche la polizia dovrà avere lo stomaco forte. E tanta pazienza.
Dovranno frugare tra litri di pappa al pomodoro.
Non mi piace l’idea che la mia opera venga profanata dalle loro mani, ma so che sarà inevitabile.
Dirò loro di controllare per bene. Dubito che capiscano subito che cosa manca all’appello.
La mia mano che cerca e rovista nella pozza rossa calda e appiccicosa mentre urta frattaglie vive che cercano di trascinarmi giù, provoca una sensazione che non riuscirò mai a spiegare.
Mi è dispiaciuto. Proprio ora che la Musa aveva ripreso a fare il suo dovere.
Ho tenuto il suo cuore sul palmo della mano per diversi minuti. Stretto, per non sfuggirmi.
Continuava a battere. Settantacinque battiti al minuto.
L’ho mangiato, confesserò. Accompagnato da un buon Chianti.
Ma non sarà la verità. La storia del Chianti, intendo.
Ho trattenuto il respiro. Dieci secondi.
Mi girava la testa. Poi uno, due, tre, dieci morsi. Forse qualcuno in più.
Ha continuato a pulsare fino all'ultimo.
La Musa è morta.
Questa non è la confessione di un omicidio.
Non è il racconto di un pazzo.
Gli agenti che stanno per sfondare la porta saranno testimoni dell’unico vernissage del mio ultimo capolavoro.
Testimoni della mia immortalità. È la storia di come sono diventato un dio.
 
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Fini Tocchi Alati
view post Posted on 15/11/2012, 22:52




Eccomi! Stavolta ci sono anch'io!
Dovrebbero essere 14968k. Escluso il titolo.




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NEL NOME DELLA MADRE






1



C'è quella terrazza in centro, all'ultimo piano del palazzo, e Ovidio decide di non buttarsi. Adagiato coi gomiti sulla ringhiera, gli occhi fissi sull'orizzonte spezzato dalla linea irregolare degli edifici, fuma l'ennesima ultima sigaretta.
Un piccolo movimento e la cenere viene spazzata via dal vento il cui sottile sibilo è ormai quanto di più rumoroso Ovidio riesca a percepire.
L'uomo getta la sigaretta dal balcone, strofina le mani per scaldarle e decide di rientrare in casa.
Rientra.


§ELENA§


«Allora? Che devo fare?»
È tua sorella Elena che sta parlando.
«Quello che vuoi», le rispondi.
Vi trovate in campagna e siete avvolti dal verde. L'erba sotto i suoi piedi nudi deve farle il solletico. Lei non se ne cura e il suo sguardo è concentrato su piccoli sciami di farfalle che a intervalli regolari,si levano in volo.
Sta prendendo molto sul serio quello che le hai chiesto e davanti alla telecamera si atteggia come fosse una grande attrice. Ha sempre desiderato recitare. Ha solo vent'anni e fa teatro da una vita. Chissà, un giorno forse la vedrai calcare un importante palcoscenico. O forse no.
Fa delle smorfie che ti fanno sorridere. Ogni tanto accenna sgraziati passi di danza.
«Da grande farò l'attrice», ti rivela.
«Sei già grande».
«Uhm, non esagerare. A vent'anni non si è mica grandi».
Pensi allora che uno che muore a trent'anni, a venti deve essere per forza già vecchio. Ma non lo dici.



2


«Sa. Prova».
Ovidio afferra la telecamera e la posiziona sul cavalletto. Regola il treppiede e si siede. Scarta una videocassetta. Getta l'involucro di plastica, scrive sull'etichetta: §OVIDIO§. Inserisce la cassetta nella telecamera e preme il tasto REC. I secondi iniziano a scorrere. Ovidio però decide di uscire a prendere un po' d'aria. Dal balcone, la città si staglia imponente, scivolando tra i suoi vicoli con le molte ombre e le poche, pochissime luci.
Inizia a piovere. Ovidio si arrampica sulla ringhiera e guarda di sotto. Trattiene il respiro e conta fino a dieci. Le gocce d'acqua si perdono nel vuoto e per un attimo Ovidio pensa che anche lui, se si gettasse, riuscirebbe a svanire nella notte. Basterebbe arrivare a dieci.
Guarda l'orologio: mezzanotte. La terra sembra disabitata. Si ricorda di aver lasciato la telecamera in funzione e rientra in casa.
Preme STOP, e poi REWIND. Il nastro si azzera. Preme REC.
Va a sedersi.
Si schiarisce la voce e inizia a parlare.


§ERMANNO§


«Ci devi andare», ti sta dicendo Ermanno.
«Dove?», rispondi mentre lo stai riprendendo con la telecamera.
«Qui, in questi posti. Quest'estate ci prendiamo un paio di settimane e ci facciamo un viaggio, eh?»
«Non posso».
«Ma chi ti trattiene? Il lavoro? La famiglia? Fregatene. Si vive una volta sola, che cazzo!»
«Sì, ti pare facile».
«Che palle! Non puoi morire senza aver visto Praga o Stoccolma, o, che ne so, Berlino».
«Ma io le ho già viste».
«Lascia perdere i tuoi siti del cazzo. Ci devi andare. Hai capito?»
Detto questo, Ermanno riesce a stento a trattenere una risata.
«Che c'è?», domandi.
«Niente».
«No, ora me lo dici».
«Ricordami perché ti chiami Ovidio...»
«Per via delle Metamorfosi...»
«Ah, già. Proprio un bel nome...
Ovidio», dice ridendo.
«Certo che invece Ermanno è il nome più bello del mondo». Anche tu non puoi fare a meno di ridere. «Su, ho quasi finito».
«Ma non era meglio se mi facevo la barba?»


3



Ovidio inizia a parlare.
«Mezzanotte. Quanto silenzio». Si ferma un attimo. Resta in ascolto. Ricomincia. «Poco fa, ho pulito la casa e passato lo straccio. Quindi, ho preparato la cena». Afferra una sigaretta, l'ultima pensa. L'accende e la poggia nel portacenere. «Ho bevuto il caffè e lavato i piatti. Ho messo a bollire un po' di latte, dopodiché mi sono occupato della telecamera... Il latte!»
Si alza di scatto e raggiunge la cucina. Il latte si è quasi del tutto versato e ha spento la fiamma, ma col poco che è rimasto riesce comunque a riempire un bicchiere.
Torna a sedere.
Il bicchiere fuma tra le sue mani. Lui soffia e il fumo si disperde.
D'un tratto avverte un forte dolore alla testa. Posa il bicchiere per terra e si prende il capo tra le mani. Non può fare a meno di urlare.
«Adesso passa», ripete. «Adesso passa...»


§MIA MADRE§


«Adesso passa, Ovidio. Stai tranquillo».
«Sì, mamma. Non preoccuparti: è solo un po' di mal di testa».
Tua madre è lì, vicino a te, davanti alla telecamera. Ti sta sfiorando la fronte che, sotto le sue dita, pulsa. Non riesci a sentirne il calore; è come se la tua pelle avesse perso sensibilità.
«Ti ho detto di non preoccuparti».
«Sicuro?»
«Sicuro».
Ti guarda perplessa. Da un po' di tempo, le fitte alla testa si fanno sempre più acute e frequenti.
«Mamma, dai!»
«D'accordo. Tu però non affaticarti troppo».
«Va bene».
Lei va a sedersi ed è pronta a farsi riprendere.
«Cosa vuoi sapere?»
«Allora...», le dici mentre finisci di preparare la telecamera, «mi devi spiegare per quale motivo hai deciso di chiamarmi Ovidio».
«Ma te l'avrò detto decine di volte...»
«Se hai coraggio, ripetilo davanti alla telecamera», dici scherzando.
«E va bene. Ti chiami Ovidio perché da giovane adoravo le Metamorfosi».
«Ovidio è un autore latino, giusto?»
«Sì. La sua opera più bella e famosa sono le Metamorfosi, in cui il poeta narra “il mutare delle forme in corpi nuovi”».
«Come la storia di Aracne».
«Sì, la ragazza mutata in ragno e condannata a tessere per l'eternità».
«Certo che “Ovidio”... Andiamo, mamma...», le dici scherzando.
Lei allora per un attimo dimentica le preoccupazioni. Sorride e ti passa un bicchiere di latte fumante.


4



Finito di bere il latte, Ovidio poggia il bicchiere per terra, accanto alla sedia. Il dolore si è attenuato, ma stenta a parlare. Forse ha un po' di febbre.
«Ho... rifatto il letto». Pausa. «Che cosa inutile... rifare il... letto, sì. Tanto tra poco mi ci dovrò addormentare di nuovo... addormentare. Di nuovo. In questa vita, si fanno un sacco di cose inutili...»
D'improvviso, sembra ricordarsi di qualcosa: fruga nelle tasche e tira fuori una fotografia. La mette davanti all'obiettivo.
«Lei è Giulia». Indica la donna. «E lei, lei è la mia piccola Giorgia: tre anni appena compiuti». Aggiunge indicando la bambina.
Ricorda che la foto fu scattata da Laura, la migliore amica di Giulia. Come tanti pezzi di lego, la scena sembra ricostruirsi davanti ai suoi occhi.


§LAURA§



«La vuoi smettere di giocare con la telecamera?», ti sta domandando Laura.
«Un attimo», le dici. «Ho quasi fatto».
«Ma vuoi spiegarmi perché mi devi riprendere mentre vi fotografo?»
«Così, come ricordo», dici e ti vai a sedere accanto a Giulia e a Giorgia.
«Giorgia! Guarda verso di me!», fa Laura.
Giorgia è una bambina timida. Parla poco, è introversa e tu le vuoi un gran bene. Le dai un bacio sulla gola con un sonoro schiocco e lei finalmente ride.
«Dite formaggio...»
«Formaggio!»


5



«Ho lasciato questa fotografia per ultima. Di loro ormai non mi rimane altro. A parte...»
Ovidio si alza. Va alla scrivania, afferra uno dei cassetti e, tornato davanti alla telecamera, lo svuota: ne escono decine e decine di videocassette. Su una è scritto §ELENA§, su un'altra §LAURA§, su un'altra ancora §MIA MADRE§. E poi §ERMANNO§, §ROBERTO§, §LUCA§. Le afferra una per una e di tutte controlla il titolo. Finalmente trova quella che cerca. La mostra alla telecamera. C'è scritto: §GIULIA E GIORGIA§.

§GIULIA E GIORGIA§



«Mamma, perché tu e papà non siete sposati come la mamma e il papà di Claudia?»
«Perché? Beh, non c'è una ragione precisa».
«Perché non c'era bisogno», intervieni mentre le stai riprendendo con la telecamera.
«E perché non c'era bisogno?»
«Quante domande! Perché non la sposi tu la mamma?»
«Tu mi vuoi sposare, mamma?»
«Certo che ti voglio sposare, amore».
«Però, se noi ci sposiamo, papà allora con chi si sposa?»
«Con nessuno, così impara». Giulia scherza, ma la piccola ci rimane male.
«Va bene», dici. «Vuol dire che vi sposo tutte e due. Contenta?»
Giorgia ride. Giulia si alza e viene a baciarti, anche lei è contenta. Quindi va verso lo stereo. Scorre i cd e inserisce "Shining Silver Skies" degli
Ashram. Il dodicesimo brano: Rose and air, la rosa e l'aria.
Ogni accordo è una sferzata. Gli arpeggi si arrampicano sulla tua pelle e ti strappano di dosso i vestiti. Tu resti nudo e senti freddo. Neanche la presenza di Giulia e di Giorgia riesce a scaldarti. Forse perché ora le vedi come se usassi un binocolo al contrario. Sembrano allontanarsi sempre di più lungo i filamenti di una ragnatela.
Un grande botto.
Poi, tutto si fa buio.


6



Siete rimasti tu e la telecamera.
Su questa un ragnetto cerca una via di fuga. Lo imprigioni in un bicchiere, lui tentenna, poi cerca di arrampicarsi. Ogni tanto scivola, ma alla fine riesce ad arrivare in cima. Allora, capovolgi il bicchiere e il ragno scivola sul fondo. Riprende la salita, ma tu bagni il bordo e lui scivola di nuovo. Non si arrende. Non può, il suo è un moto inconscio. Inconscio e inconsistente. Prova di nuovo a fuggire e di nuovo si ritrova sul fondo. Aggiungi acqua, ma il ragno si arrampica, Insiste. Finché non ne ha più e si lascia annegare.
E tu... Tu resti nudo. E hai freddo.
Neanche la presenza di Giulia e di Giorgia riuscirebbe a scaldarti.
Loro ormai non sono che punti sparsi su una ragnatela troppo fitta che ti avvolge e ti imprigiona. Tu sei al centro e lontane vedi Giulia e Giorgia. Ma vedi anche Ermanno ed Elena e Laura e tua madre.
Tua madre è lì, in bilico sul filamento più estremo. Ti tende una mano e tu cerchi di afferrarla. Ci riesci per un attimo, ma poi scivoli e torni a essere invischiato nella tela. Allunghi nuovamente la mano: il tuo è un movimento inconscio e inconsistente. Cerchi di arrampicarti. Ti porti le mani alla testa. Di nuovo il buio.

7



Ora hai gli occhi chiusi. Sei disteso su un letto estraneo. C'è qualcuno, riconosci la voce di tua madre.
«Dottore...»
«Si tratta di ESA».
«ESA?»
«Sì, emorragia subaracnoidea».
«Sub...»
«Subaracnoidea. Il cervello è circondato da tre meningi: la dura madre, la pia madre, e l'ultima, l'aracnoide, detta anche tela di ragno, perché come una ragnatela aderisce alla pia madre. Quando si rompe un'arteria, a causa di un aneurisma, si ha un'emorragia».
«Mio figlio non ha mai avuto problemi...»
«Il paziente può avvertire sintomi talmente comuni che il più delle volte passano inosservati: mal di testa, diminuzione di sensibilità di una parte della faccia o del corpo, disturbi del linguaggio».
Le parole ti giungono confuse, quasi rallentate, ma percepisci chiaramente il solco che le lacrime scavano sul viso di tua madre.
«Dottore», fa allora tua madre, «io devo sapere».
«In questi casi, quando il paziente entra in coma, è molto difficile che si risvegli. Mi dispiace...»
Cominci a capire che parlano di te e dello stato in cui hai vissuto in questi ultimi anni. Tutto sembra un sogno e quasi ti dispiacerebbe svegliarti in un mondo che è andato avanti anche senza di te.
Il dottore esce e vi lascia soli. Tua madre ti si siede accanto. Ti accarezza il viso. Quindi passa ad accarezzare quei tubi di plastica che ti tengono in vita.
«Bambino mio...»
Ti sta invocando. Ti prega. Rivolge a te una preghiera che non può più rivolgere ad altri. È strano sentirsi chiamare bambino a trentacinque anni.
«Ti porto i saluti di Elena e di papà. Vengono più tardi».
La sua voce è calma.
«Ha chiamato Ermanno. Si trova a Stoccolma. Ha quasi concluso il viaggio che avevate programmato di fare prima di...»
Cosa? Prima di cosa, mamma?
«Presto arriveranno delle cartoline anche da Praga e Berlino. Voleva tornare, ma gli ho detto di finire quello che avevate deciso».
La sua mano adesso indugia sulla tua guancia. Riesci appena ad avvertire sulla pelle il ruvido stridio della barba di pochi giorni mossa dalle sue carezze.
Dalla borsa, prende un foglio di carta. C'è un disegno: raffigura un uomo, una donna e una bambina, tutti vestiti con abiti da sposa.
«Questo te lo manda Giorgia. Proprio ieri ha compiuto sette anni. Vedessi com'è cresciuta. Mi ha detto di darti un grosso bacio sul collo con un fortissimo schiocco».
Si avvicina e ti lascia sulla pelle il segno delle labbra della tua bambina.
«Giulia è sempre più bella ogni giorno che passa. Abbiamo parlato molto in questi ultimi tempi. Abbiamo parlato di noi, di te, della bambina, di quello che ci è successo. Abbiamo ricordato come eri, i tuoi interessi, la tua passione per i cortometraggi, per lo sport. E abbiamo parlato di... di come sei ora».
Le dita della sua mano si irrigidiscono.
«Dicono che non ti risveglierai e anche se, per miracolo, dovessi farlo, sarai costretto a rimanere a letto, immobile. Per sempre».
Ora la sua mano accarezza il lenzuolo bianco che ti ricopre e che tanto somiglia al sudario di Cristo.
«Dicono che non ci sia niente da fare e che noi non possiamo fare niente per aiutarti...»
Ti toglie il lenzuolo di dosso e tu, ancora una volta, avverti chiara la sensazione di essere nudo. Ma questa volta non hai freddo né paura.
«Bambino mio, in realtà c'è qualcosa che io posso ancora fare...»
Il suo volto si è fatto sereno. Alcune lacrime scendono senza volere ma non scalfiscono minimamente la sua bellezza.
«Ne ho parlato con gli altri e siamo tutti d'accordo. Siamo sereni, perché sappiamo che è quello che tu vuoi. Ci sono qui io, ma avrebbe voluto esserci anche Giulia. Le ho detto che volevo farlo da sola, come quando ti ho partorito. Lei ha capito. Io ti ho dato la vita e io adesso me la riprendo».
Senti la mano di tua madre staccare dal tuo corpo quei tubi che ti tengono legato a una vita di plastica. Hai un sussulto piacevole e, nonostante tutto, non puoi fare a meno di abbandonarti alla preghiera: Nel nome della Madre, del Figlio e dello Spirito Santo...

8


Ti mancheranno le piccole cose di tutti i giorni. Accadono senza che te ne rendi conto.
Qualcuno ti dice di andare a Stoccolma; una ragazzina ti parla del suo sogno; una fotografia congela la tua vita. E ancora: un bicchiere di latte, la moka che tarda a uscire, una telecamera. E poi: la risata di una bambina, gli occhi di una donna, una musica che si spande. E il sorriso di tua madre.
E poi...
E poi.
Il buio.
E poi, torni da loro, ma niente è più come prima. Tutto succede così in fretta: non c'è essere umano che si renda conto di vivere, mentre vive. Il tempo si dissolve e a te interessa solo fermarlo. Archiviarlo. Per sempre.
E allora pensi che non hai speso invano gli ultimi anni della tua vita. Hai ripercorso minuziosamente gesti, volti, espressioni, parole. Hai filmato tutto col tuo cervello malato, impressionando di fotogrammi le pellicole che lo avvolgono.
Ma adesso basta.
Ti alzi.
Raggiungi il balcone. Guardi in basso e vedi il vuoto. È ora di raggiungerlo quel vuoto. Inizi a contare fino a dieci. Uno, due. Vedi qualcosa laggiù: c'è il tuo corpo adagiato sulla strada. Tre, quattro. Accanto al corpo, tua madre ti guarda e ti accarezza. Piange in silenzio. E allora capisci che lei ha appena fatto quello che tu non avresti potuto. Cinque, sei. Da lassù, le urli grazie sperando che ti senta.
Rientri in casa. Sette.
Inserisci un cd allo stereo. Otto.
Premi PLAY: La rosa e l'aria.
Raggiungi la telecamera. Nove.
Sulla telecamera premi: STOP, FORWARD sino al termine del nastro. Dieci.
TAPE END.


F I N E


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Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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simolimo
view post Posted on 15/11/2012, 23:01




CITAZIONE (Fini Tocchi Alati @ 15/11/2012, 22:52) 

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NEL NOME DELLA MADRE


FATTI IL SEGNO DELLA CROCE!!!
...quasi tutti dialoghi :o: ... :shifty: ora te ne plagio qualcuno :p099: ihih!

Non vedo l'ora di leggermelo ;) !
 
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view post Posted on 15/11/2012, 23:29

Alto Sacerdote di Grumbar

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Addio

L’impulso balistico ad alta frequenza volò sopra il piccolo sprinter a induzione lanciato a tutta velocità tra i canyon minerali del pianeta Hazz.
L’onda d’urto si abbatté violenta sullo stretto camminamento che rappresentava la loro unica via di fuga, il sottile ponte di pietra cedette di schianto in un’esplosione di polvere e schegge scarlatte di minerion cristallizzato.
Loucifer, in un riflesso rapido quanto il pensiero, piegò le leve di comando nel disperato tentativo di evitare di finire nel vuoto. Conosceva bene il territorio e sapeva che li avrebbe aspettati una caduta di quasi tremila metri.
La retrospinta dei deceleratori geiser fu violenta, Kat non fece a tempo a reagire e tutta l’inerzia del suo corpo la premette con forza sulle bande elastiche di sicurezza. In uno schiocco sentì la clavicola sinistra spezzarsi a metà e una fitta profonda e implacabile le tolse il respiro.
Gli stabilizzatori laterali si attivarono in automatico ma neppure la loro spinta riuscì a impedire al veicolo di ribaltarsi. Loucifer e Kat videro la pietra rossa girare attorno a loro più e più volte, mentre il sistema di sicurezza interna li avvolgeva in un campo di stasi inerziale, ultimo baluardo tra loro e una morte certa.

Loucifer si trascinò con fatica fuori dal veicolo, ridotto dall’urto a un informe cartoccio di sintolamine stropicciate:
«Vieni fuori di lì, Kat, dobbiamo fare in fretta, tra meno di un uts li avremo tutti addosso.»
In risposta udì solo un gemiti e un pianto singhiozzato che gli attanagliò il cuore. La paura di perderla gli annebbiò la vista, l’istinto lo guidò sull’unica strada che avesse mai trovato naturale percorrere.
L’onda psichica corse lungo i nervi con la violenza di un fiume in piena e si sprigionò dagli avambracci materializzando due lame di densa energia vibrante. La furia lucida che si era impossessata di lui non lasciò scampo a quanto rimaneva dello sprinter: rapidi e precisi fendenti tagliarono le sintolamine come fossero aria.
Kat si stringeva il braccio sinistro mentre le lacrime le scavavano solchi rosei sul volto impolverato.
Da sotto il sintotex aderente, la frattura alla clavicola appariva in tutta la sua deforme gravità.
«Kat, mi senti? Riesci a muoverti?»
Loucifer le sganciò le bande di sicurezza e fece per prenderla in braccio quando, con la coda dell’occhio, vide che il flypack sulla sua schiena era spezzato in due: doveva essere successo nell’urto.
La trascinò fuori dall’abitacolo cercando di muoverla il meno possibile. Sapeva che non avrebbe mai urlato ma, a giudicare dalle ferite, il dolore doveva essere lancinante. Ne tastò rapido il corpo: oltre alla clavicola, le si erano fratturate anche due costole, di cui una doveva averle perforato un polmone.
Tossì, e un rivolo di sangue le colò dalle labbra.
«Kat, ascoltami, tieni duro. Ho ancora una fiala di nanomed, ma non c’è tempo anche per l’anestetico. Farà male ma, ti prego, non mollare.»
La donna alzò lo sguardo su di lui, non riuscì a proferir parola, ma gli occhi neri erano decisi, determinati, roventi.
Gli si aggrappò alla giacca con il braccio sano e, raccogliendo le ultime forze, prese fiato e si irrigidì preparandosi al dolore.
L’ago della fiala autoiniettante si aprì la strada attraverso il sintotex della tuta, in corrispondenza dell’arteria femorale. In pochi istanti, una colata di miliardi di nanomacchine si riversò nel circolo sanguigno e prese a lavorare su ogni lesione interna che riuscì a trovare.
Il dolore cominciò non appena i primi naniti raggiunsero la clavicola e cominciarono a intervenire per ridurre la frattura.
Kat si strinse con forza al collo di Loucifer e gli morse il bavero della giacca per impedirsi di urlare: senza l’anestesia il dolore era insopportabile.
«Forza, amore mio, tra poco sarà tutto finito.»

Kat lottava da quasi mezza uts per mantenersi vigile e cosciente, gli occhi serrati e gli addominali tesi nell’inutile tentativo di contenere le fitte che le squassavano il petto.
Sfruttando il momento, Lou staccò il flypack dalla tuta della compagna e lo sostituì con il proprio.
Aprì un canale di comunicazione e parlò nel colletto della sottotuta da volo.
«Codice 117711, nuove coordinate di estrazione 123TX 457NN. Estrazione per uno. Radiofaro sul mio flypack, codice standard. Presenza di impulsi balistici ad alta frequenza dalla torre di sud-ovest, mantenersi sotto il livello del terreno. Passo e chiudo.»
Non diede alla plancia della Odette nelle Stelle il tempo di ribattere o di fare domande, sapeva cosa doveva fare e non voleva che qualcuno dell’equipaggio cercasse di dissuaderlo.
Con la mano libera afferrò il fucile di precisione dall’abitacolo e se lo caricò in spalla, poi, inspirando a pieni polmoni il profumo di Kat, si alzò e si diresse a passo spedito verso il limitare del dirupo, ancora avvolto in una densa nuvola di polvere.

Loucifer diede una rapida occhiata allo schermo sull’interno del proprio polsino: il conto alla rovescia correva inesorabile verso il momento in cui si sarebbe dovuto separare da lei. Alzò lo sguardo sul viso della ragazza, persino ora, sporco, insanguinato e rigato dalle lacrime, lo trovava bellissimo. Gli si strinse il cuore a pensare che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe potuta guardare, tentò di fissare nella memoria ogni dettaglio, ogni smorfia, ogni linea.
Le si avvicinò e, con un filo di voce, le sussurrò dolce:
«Kat, amore mio, grazie per ogni istante, per i sorrisi, le carezze. Grazie per essere la mia pace. Di’ a Nikka che mi dispiace, so che gliel’avevo promesso ma non credo che riuscirò a portarla su Xeron V. Prenditi cura di lei anche per me.»
Kathrine spalancò gli occhi neri in una smorfia spaventata e li fissò in quelli azzurri di Loucifer che le sorrisero pacati. Provò a stringerlo a sé ma il dolore non glielo permise.
Lui si scrollò dalla sua presa e, sporgendola sul dirupo, le infilò in mano un’unità di memoria.
«Consegnala al capitano e fate che ne sia valsa la pena.»
Lo sguardo terrorizzato di Kat non riusciva a staccarsi dall’amato. Gli fece segno di no con la testa, non voleva lasciarlo, non voleva che lui la lasciasse.
Le passò attorno al collo la tracolla del fucile e le sorrise per un’ultima volta.
«So che non mi avresti mai perdonato se avessi dimenticato di prenderlo dallo sprinter. E ora prendi un bel respiro, amore mio dolce, la caduta sarà lunga.»
Il terreno sotto i suoi piedi iniziò a tremare lievemente, i mezzi corazzati della marina sarebbero arrivati da un momento all’altro. L’uomo cominciò a espandere i propri sensi: la battaglia sarebbe stata senza via d’uscita, ma avrebbe dovuto guadagnare più tempo possibile, doveva farlo per lei.
Kat, in un impeto disperato, ingoiò il dolore e lo abbracciò stretto, il tempo di un singolo, caldo, potente battito del cuore. Loucifer lo sentì nitido, gli esplose nella mente come la più crudele delle sentenze.
«No.» ebbe la forza di sussurrargli all’orecchio Kat.
«Ti amo.» rispose lui, secco, prima di emettere una debole onda psichica che la fece cadere all’indietro, nel vuoto che era la sua unica salvezza.
La spia di prossimità sul suo schermo da polso si accese, in perfetto orario.
«Addio.»

Il tremore sotto i suoi piedi si fece più forte, si voltò di scatto e, da uno dei budelli di pietra di quel mondo dimenticato, vide sbucare un’intera divisione corazzata della marina.
Mentre la nube di polvere finiva di diradarsi, i cannoni particellari si puntarono tutti su di lui.
Padre delle Stelle, dopo tante volte che non mi hai voluto portare a te, oggi mi sa che ti tocca.
Loucifer sorrise al cielo con l’ironia di chi non ha più nulla da perdere, fece un respiro profondo e, in un lampo viola, materializzò le lame psichiche.
«E va bene, imperialisti bastardi, vediamo di che pasta siete fatti.»


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo racconto su Skan Magazine.




@Polly: dai, per farti compagnia anche io ho scritto una storia dai connotati molto simili a quelli dello skannatoio regolare... :)
Cioè, non ci azzecca una cippalippa come tipo di storia, ma c'è lo stesso protagonista. :P
 
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White Pretorian
view post Posted on 15/11/2012, 23:56




Per la canzone "Swet Death" ringrazio gli Shattered Ways, ossia i miei colleghi Paolo Saladino, Giuseppe Gradillo e Lorenzo Marzoli.
Stay Brutal!!


Canzone d’addio

-Meno di un’ora all’inizio, Ronnie: sei pronto?-
Luke aprì la porta del camerino e provò a dare un’occhiata all’interno: Ronnie di Maio sedeva al centro della stanza, la sua “Still Rose” appoggiata sul tavolo e la testa persa tra le mani
-Ti senti bene, Ronnie?- Disse l’uomo, avvicinandosi e mettendogli una mano su una spalla –Ancora quel mal di testa? Te l’avevo detto che a Providence non dovevi cantare sotto quell’acquazzone: ora ti sarai preso sicuramente una bella influenza!-
Il volto del cantante uscì finalmente dalla stretta delle sue mani, ma nei suoi occhi verde smeraldo non c’era traccia della solita euforia pre-concerto e il suo mento tremava leggermente.
-Diamine, ragazzo, ma che cos’hai?- Luke si inginocchiò davanti a lui in cerca dei suoi occhi –C’è qualcosa che non và? Ti senti male?-
Ancora nessuna risposta.
-Oh, al diavolo.- Disse, alzandosi in piedi -Non puoi presentarti in pubblico in queste condizioni: vado a comunicare che il concerto è sospeso.-
Prima che potesse fare un passo, però, Ronnie lo afferrò per la giacca e lo obbligò a voltarsi di nuovo
-No!- La sua presa era malferma, tremante, ma il suo sguardo era sicuro –Sto bene, non c’è bisogno di sospendere il concerto.-
-Ne sei sicuro? Non hai proprio una bella cera.-
-È ancora quel diavolo di mal di testa, ma adesso è passato.- Si affrettò a rispondere l’altro, per poi soggiungere –E poi, tornare a casa dopo tutti questi anni… mi vergogno a dirlo, ma mi sento emozionato come se fossi al primo spettacolo. –
Un sorriso timido comparve tra la folta barba castana e il suo amico scoppiò in una sonora risata
-Oh, questa è bella: non mi dirai che ti metterai a piangere sul palco vero?- Assunse una posa ridicola e cominciò a parlare in farsetto –Guardatemi: sono Ronnie di Maio e canto vero metallo, ma dietro questa dura scorza si cela un vero signorino! Guardate come mi commuovo mentre canto davanti a mamma e papà!-
Ronnie si unì alla sua risata e Luke gli diede una sonora pacca sulla schiena
-Avanti, Ron, smettila di fare il piagnone e preparati al concerto: giuro che se non la smetti, ti ammazzo e poi divento io il leader del gruppo: diventeremmo i “Luke Turli’s Epic Symphony”… cosa ne dici, ti piace il nome?-
-Mi fa ribrezzo semplicemente a sentirlo pronunciare.-
-Allora muovi il culo: tra mezz’ora ti voglio su quel palco pronto a spaccare il mondo.-
Luke uscì dalla stanza e il sorriso sulle labbra di Ronnie degradò fino a restituire un volto corroso dalla disperazione.
“Perdonami, Luke, non sono riuscito a dirti la verità…” Pensò, mentre una nuova fitta trapanava il suo cranio e lo obbligava ad appoggiarsi al muro “Avrei dovuto farlo, ma a cosa sarebbe servito? Nemmeno tu puoi aiutarmi contro la mia bestia…-
Il dolore si intensifico e Ronnie scivolò lentamente lungo il muro, fino a crollare a terra quasi in posizione fetale.
Era cominciato tutto come un semplice mal di testa, un pungolo di sofferenza puntato contro il suo cervello che aveva preso a far capolino sempre più spesso e con sempre maggior forza.
Inizialmente aveva voluto parlare con un dottore, un infantile sfiducia verso i camici bianchi che risaliva ai tempi della prima vaccinazione, ma quando l’ennesima fitta lo aveva quasi ucciso, facendogli perdere il controllo della moto su cui stava viaggiando e facendolo finire fuori strada, la visita medica era stata obbligatoria.
Era stata una risonanza magnetica a evidenziare quell’ombra scura nel suo cranio e ogni test successivo non aveva fatto altro che aggiungere nuovi pezzi alla sua condanna: un cancro grande come un’oliva nel suo cervello e un’aspettativa di vita compresa tra le due settimane e il mese e mezzo.
Il dolore cominciò lentamente ad attenuarsi, ma non scomparve, limitandosi a rintanarsi in quello spazio buio che si era conquistato nella sua carne, fremente di poter uscire nuovamente a dilaniare l’anima del suo ospite.
“Come posso cantare in queste condizioni?” Pensò, rialzandosi in piedi in un precario equilibrio “come posso uscire sul palco se a malapena riesco a camminare?”
Il suo sguardo cadde sulla Still Rose e ne seguì le sinuose curve nere con la febbrile eccitazione con cui un altro avrebbe guardato il corpo nudo di un amante.
E in fondo quella chitarra poteva essere considerata la sua amante, la sua compagna, l’unica che non l’avesse mai tradito e che gli sarebbe rimasta accanto in ogni circostanza.
Allungò una mano e l’accarezzò con dolcezza, poi la imbracciò e pizzicò alcune note: frammenti di musica vibrarono nell’aria e il suo cuore prese a battere all’unisono con essa.
Al di sotto di quelle note Ronnie poteva sentire il richiamo lontano della folla, che da ogni angolo dello stadio urlava a gran voce il suo nome e quello della sua band.
Per la prima volta in vita sua, il cantante si domandò cosa avesse spinto tutta quella gente a venire in quel posto: alcuni di loro avevano fatto centinaia di chilometri di viaggio per raggiungere il luogo del concerto, altri avevano dormito all’agghiaccio pur di avere i primi posti, ma se era solo la musica ciò che volevano non avrebbero potuto semplicemente ascoltarla da internet o comprarsi il cd?
Pizzicò qualche altra nota e nella melodia trovò le risposte che cercava.
Non erano lì per sentire la musica, erano lì per viverla, per vivere un sogno fatto di note e parole, dove ogni uomo è uguale e l’unica cosa che conta è il cuore che batte a mille nel tuo petto e ti fa sentire che sei vivo.
Lui e i suoi compagni erano gli artefici di quel sogno e Ronnie non avrebbe mai deluso la sua gente.

***

-Ancora un minuto di ritardo e avrei fatto il colpo di stato.- Disse Luke, pizzicando le corde del suo basso –Senti come ci chiamano, Ronnie? Vogliamo regalare a questa folla un po’ di sano metallo?-
Ronnie annuì
-Facciamo tremare la terra, ragazzi!- Ringhiò –Andiamo a scrivere questo concerto nella storia del Rock!-
Un ruggito poderoso accolse il loro ingresso sul palco e migliaia di mani si alzarono al cielo nel segno del metallo.
Ronnie afferrò il microfono e lo trasse a sé
-I cancelli del Rock stanno per spalancarsi: siete pronti a entrare nella leggenda?-
Un coro di incitazioni proruppe dalla platea
-Non ho sentito bene: avete abbastanza coraggio per addentrarvi in questo viaggio senza ritorno?-
Un boato ancora più forte esplose dalla marea di spettatori , accendendo un radioso sorriso sul volto del cantante: la bestia si era risvegliata e stava mordendo nella sua testa come mai prima, ma lui non la sentiva nemmeno.
Con la chitarra in mano, i suoi amici accanto a lui e la folla oceanica che acclamava il suo nome,
Ronnie si sentiva invincibile e nemmeno il dolore più atroce poteva scalfire la sua sicurezza.
-E allora diamo inizio alle danze, gente!- Disse –Per premiarvi della vostra determinazione gli Epic Symphony apriranno con “Sweet Death”,un pezzo nuovo che non è stato inserito nel nostro ultimo album.-
-Ehi, Ronnie, ma sei impazzito?- Sussurrò Luke – Sweet Death non l’abbiamo provata abbastanza, non siamo ancora pronti a suonarla in un concerto…verrà un casino!-
-Voi badate a starmi dietro e date il meglio: vi assicuro che sarà un successo.- Rispose Ronnie con un sorriso –E comunque è troppo tardi per discutere: pronti o no, io attacco.-
Alzò il plettro al cielo, poi diede inizio alla sua danza sfrenata

It was written since the day i was born
that i would have been suffering so
pouring painful tears of blood
without being heard.

Obliged to stay alive,trapped into myself
sometimes nature needs somebody...
sometimes nature needs someone…
sometimes nature needs somebody to damn.

Close please my eyes (don't want to see myself)
free me from pain (please stop my breath)
take me by hand (I'm scared of what I want)
let me sleep now (I hope I'll never wake)

Le sue mani si muovevano incessantemente sulla Still Rose, la sua bocca cantava al mondo le emozioni che aveva racchiuso in quel testo, ma la sua mente era altrove, catturata ancora una volta da quella magia che lo rapiva all’inizio di un concerto e lo teneva prigioniero per tutto il tempo in cui restava sul palco.
La sua mente si fece improvvisamente più leggera e i suoi sensi più attenuati: da qualche parte c’era un Ronnie di Maio che cantava e che suonava davanti a migliaia di persone, con un'ombra maligna nel cervello che lo schiacciava sempre più a ogni secondo che passava, ma in quel momento tutto ciò per lui semplicemente non esisteva.
Il suo mondo ora era composto solo da lui e dalla sua musica.

I've never been alive though
i'm not even able to die on my own
how could a heart still beat without a soul…
my skin is crawling, on the edge of my life.

It's not the fear of falling
it's not the fear of jumping
it's not the fear but my will to fly.

Close please my eyes (don't want to see myself)
free me from pain (please stop my breath)
take me by hand (I'm scared of what I want)
let me sleep now (I hope I'll never wake)

Si, la musica, quella canzone che lui aveva scritto la sera stessa in cui aveva scoperto di essere malato e in cui c’era l’ultimo messaggio da lasciare al mondo.
Era cominciata come un estremo atto di protesta, un foglio bianco su cui riversare tutte le sue paure, le sua angosce e il suo dolore, mentre il suo corpo si sarebbe a poco a poco riempito di whiskey e di alcolici vari, ma nell’istante stesso in cui aveva poggiato la penna sul foglio tutto era cambiato.
Le bottiglie erano rimaste sigillate, mentre la pagina bianca aveva rigettato il malumore con cui aveva iniziato a scrivere e aveva cominciato a riempirsi dei suoi sogni, delle sue speranze e di ciò che non aveva mai avuto occasione di dire.
Quando aveva finito, il foglio era pieno di cancellature, scarabocchi ed errori, ma in quelle righe era riassunta la parte più profonda del suo pensiero, la sua vera ed estrema sfida a quel male che voleva privarlo di ogni cosa.
Era il suo testamento spirituale.

I don't need to be forgiven, God
I'll never forgive you
I'm just taking whatI think to deserve
and the one who, now, will shut my eyes
won't still from me as much as you did
keeping me alive.

I don't need to be forgiven, God
I'll nee forgive you
I'm just taking whatI think to deserve
and the one who, now, will shut my eyes
won't still from me as much as you did
keeping me alive.

Gli strumenti tacquero e dalla marea di persone sotto il palco emerse un solo, prolungato, grido di gioia.
-Ce l’abbiamo fatta, ragazzi!- Esclamò Lukas, stupefatto –Non…non avevamo mai cantato così! Avevi ragione, Ronnie, questa è stata la nostra canzone più bella.-
Ronnie sorrise e alzò in alto la mano con il segno del metallo, lanciando l’urlo di guerra alla sua gente.
Fu abbassando la mano che si accorse del sangue che aveva preso a fuoriuscire dal suo naso e quella magia che fino a quel momento l’aveva tenuto in piedi svanì di colpo.
La vista gli si annebbiò e ogni percezione perse i suoi connotati, diventando lontana, distorta, confusa.
Qualcuno urlò e le sue gambe dovettero cedergli, poiché improvvisamente gli sembrò di essere disteso a terra.
-Un medico, presto!- Urlò la faccia di Luke immersa in una foschia sempre più informe -Qualcuno chiami un fottutissimo medico, non riesco a sentire il polso!-
Ma perché tutti si affannavano? Nulla aveva più senso, nemmeno il dolore nella sua mente, così devastante eppure così lontano.
“Sto morendo.” Pensò Ronnie “Dovrei lottare, dovrei difendere ogni singola scintilla che mi resta… ma è così bello abbandonarsi, così dolce andarsene nel modo in cui ho sempre sognato…”
Una strana, bellissima melodia risuonò nella sua mente e Ronnie capì che era il momento di seguirla, di andare lì dove la musica non lo avrebbe più abbandonato.
-Let me sleep now- mormorò, chiudendo gli occhi per l’ultima volta -I hope I'll never wake.-


Autorizzo Jakye a pubblicare questo racconto sullo Skan

Edited by White Pretorian - 16/11/2012, 00:05
 
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Miksi
view post Posted on 15/11/2012, 23:57




Little girls


Kyoko si svegliò come in preda al panico. Non riuscì a ricordare che cosa avesse sognato: si mise a sedere sul letto; era madida di sudore e un peso le bloccava il respiro.
Guardò fuori dalla finestra nella speranza di ritrovare un po’di calma nel blu del cielo estivo, ma le nuvole, che nei giorni precedenti avevano coperto la città, non si erano ancora del tutto dissolte.
I consueti rumori del mattino, provenienti dal resto della casa, la fecero rilassare un poco. Kyoko sorrise ricordando l’ottima colazione che sua madre usava preparare con pazienza ogni mattino: riso, zuppa di miso, uova, alghe e polpo o pesce.
Da quando il cibo veniva ripartito in razioni, però, vi erano state ben poche occasioni di lasciarsi andare a quell’abbondanza che, solo qualche anno prima, veniva considerata la normalità.
Per quanto la madre della ragazza cercasse di conservare le usanze quotidiane della famiglia, affinché il tempo continuasse a scorrere nel modo più naturale possibile, Kyoko ne intuiva la sofferenza e il senso di impotenza dai profondi occhi neri; desiderava con tutta se stessa poter vedere presto il giorno in cui la donna non avrebbe più dovuto fingere tranquillità per amore della figlia e del marito.
Kyoko non voleva dimenticarsi ciò che un tempo era stato: la vita felice prima che gli allarmi cominciassero a scandire le giornate, prima del buio dell’anima e prima che la paura prendesse fissa dimora nel petto di ciascuno.
Si alzò dal letto e si diresse in cucina, ancora turbata dal sogno perso nelle acque torbide dei suoi pensieri;
suo padre si apprestava, come ogni giorno, a uscire per il lavoro, col volto irrigidito da un’espressione mesta.
“Dov’è la mamma?”, chiese Kyoko.
“È già uscita per le mansioni di volontariato”, mugugnò l’uomo.
L’operosità era l’unica parvenza di normalità rimasta loro, pensò la ragazza: la puntualità tiene in movimento l’intero Paese.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, le conversazioni si erano ridotte a brandelli di frasi, i discorsi si erano diradati fino a divenire nulla più che cenni nervosi: spesso il silenzio era riempito solo dal bollettino radio.
Kyoko consumò la propria colazione ascoltando il notiziario: pareva che i radar avessero rilevato un esiguo numero di aerei nemici in avvicinamento alla zona meridionale del Paese, i quali tuttavia non costituivano nemmeno una minaccia tale da giustificare il contrattacco.
La ragazza visualizzò un velivolo sfrecciare nel cielo. Fu solo per un attimo, ma lo ricondusse subito a un frammento del sogno da cui si era svegliata in stato d’agitazione.
“Stupida guerra”, pensò, “nemmeno la notte ti lascia da sola”.
Nel momento in cui stava per alzarsi da tavola sentì qualcuno bussare con dolcezza alla porta.
“Chi è?”, chiese la ragazza.
Da dietro l’uscio le rispose una voce argentina: “sono io, Sachiko”.
Kyoko si precipitò ad aprire, la figlia della vicina era proprio l’unica persona con cui avrebbe voluto parlare quel mattino.
Sachiko non indugiò nell’entrare in casa, abbracciò di slancio l’amica quasi con le lacrime agli occhi.
“Che succede, Sacchan?”, usò il nomignolo affettuoso, d’improvviso si era ritrovata a dover offrire conforto, piuttosto che riceverlo.
“Ho fatto un sogno terribile”.
Kyoko cercò di nascondere il proprio stupore: “su, calmati, è stato soltanto un sogno, racconta e respira, vedrai che ti passa”.
“Ecco, mi sembrava di essermi appena svegliata, ma stavo ancora sognando, quando all’improvviso ho sentito l’allarme di attacco aereo, seguito da una smentita. Ma io lo sapevo che si stavano sbagliando e provavo a urlare, ma non mi usciva la voce, volevo urlare di non ritirare l’allarme, di avvisare tutti di nascondersi, perché io lo sapevo che stava per accadere qualcosa di molto brutto, qualcosa che nessuno di noi aveva mai nemmeno potuto immaginare”.
Kyoko cominciò a ricordare: il suo stesso sogno veniva dipinto immagine per immagine dalle parole dell’amica, il rombo della battaglia aerea era così forte nella sua mente da sembrare reale.
“E poi, cosa è successo, Sachiko?”, anche Kyoko cominciò a farsi prendere dall’angoscia, le sue mani tremarono nello stringere quelle dell’amica. la coincidenza dei fatti le inondò a poco a poco il cuore di un timore sempre più doloroso.
“Una bomba, un’unica bomba, ha raso al suolo la città con un boato tremendo. Il fumo ha fatto una nuvola enorme, con una forma strana, ed era come fosse fatta di fumo solido”.
Kyoko capì cosa intendeva l’amica: aveva visto quella nuvola, aveva visto i templi crollare tutti insieme. Aveva visto piovere nero sulla sua città.
Abbracciò forte Sachiko, non riuscì a trattenere le lacrime; l’abbracciò perché era sicura che non ci sarebbe stato più tempo per farlo.
L’orologio segnava le 08.15.

Da qualche parte sopra le loro teste un aereo sganciò il congegno denominato “Little Boy”.

Hiroshima,
6 agosto 1945



 
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simolimo
view post Posted on 16/11/2012, 01:20




Non ho letto altri scritti, ma... FTA mi ha fatta rimanere così
(ahahah! dal tablet non si leggeva la scritta :P ... btw, un saluto al forum lo lascio con piacere ^_^, quindi: spoilero :D
senza parole :p112:
Davvero c0291

Edited by simolimo - 16/11/2012, 10:59
 
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144 replies since 12/11/2012, 14:19   2459 views
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