Eccomi! Stavolta ci sono anch'io!
Dovrebbero essere 14968k. Escluso il titolo..
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NEL NOME DELLA MADRE
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C'è quella terrazza in centro, all'ultimo piano del palazzo, e Ovidio decide di non buttarsi. Adagiato coi gomiti sulla ringhiera, gli occhi fissi sull'orizzonte spezzato dalla linea irregolare degli edifici, fuma l'ennesima ultima sigaretta.
Un piccolo movimento e la cenere viene spazzata via dal vento il cui sottile sibilo è ormai quanto di più rumoroso Ovidio riesca a percepire.
L'uomo getta la sigaretta dal balcone, strofina le mani per scaldarle e decide di rientrare in casa.
Rientra.
§ELENA§
«Allora? Che devo fare?»
È tua sorella Elena che sta parlando.
«Quello che vuoi», le rispondi.
Vi trovate in campagna e siete avvolti dal verde. L'erba sotto i suoi piedi nudi deve farle il solletico. Lei non se ne cura e il suo sguardo è concentrato su piccoli sciami di farfalle che a intervalli regolari,si levano in volo.
Sta prendendo molto sul serio quello che le hai chiesto e davanti alla telecamera si atteggia come fosse una grande attrice. Ha sempre desiderato recitare. Ha solo vent'anni e fa teatro da una vita. Chissà, un giorno forse la vedrai calcare un importante palcoscenico. O forse no.
Fa delle smorfie che ti fanno sorridere. Ogni tanto accenna sgraziati passi di danza.
«Da grande farò l'attrice», ti rivela.
«Sei già grande».
«Uhm, non esagerare. A vent'anni non si è mica grandi».
Pensi allora che uno che muore a trent'anni, a venti deve essere per forza già vecchio. Ma non lo dici.2
«Sa. Prova».
Ovidio afferra la telecamera e la posiziona sul cavalletto. Regola il treppiede e si siede. Scarta una videocassetta. Getta l'involucro di plastica, scrive sull'etichetta: §OVIDIO§. Inserisce la cassetta nella telecamera e preme il tasto REC. I secondi iniziano a scorrere. Ovidio però decide di uscire a prendere un po' d'aria. Dal balcone, la città si staglia imponente, scivolando tra i suoi vicoli con le molte ombre e le poche, pochissime luci.
Inizia a piovere. Ovidio si arrampica sulla ringhiera e guarda di sotto. Trattiene il respiro e conta fino a dieci. Le gocce d'acqua si perdono nel vuoto e per un attimo Ovidio pensa che anche lui, se si gettasse, riuscirebbe a svanire nella notte. Basterebbe arrivare a dieci.
Guarda l'orologio: mezzanotte. La terra sembra disabitata. Si ricorda di aver lasciato la telecamera in funzione e rientra in casa.
Preme STOP, e poi REWIND. Il nastro si azzera. Preme REC.
Va a sedersi.
Si schiarisce la voce e inizia a parlare.
§ERMANNO§
«Ci devi andare», ti sta dicendo Ermanno.
«Dove?», rispondi mentre lo stai riprendendo con la telecamera.
«Qui, in questi posti. Quest'estate ci prendiamo un paio di settimane e ci facciamo un viaggio, eh?»
«Non posso».
«Ma chi ti trattiene? Il lavoro? La famiglia? Fregatene. Si vive una volta sola, che cazzo!»
«Sì, ti pare facile».
«Che palle! Non puoi morire senza aver visto Praga o Stoccolma, o, che ne so, Berlino».
«Ma io le ho già viste».
«Lascia perdere i tuoi siti del cazzo. Ci devi andare. Hai capito?»
Detto questo, Ermanno riesce a stento a trattenere una risata.
«Che c'è?», domandi.
«Niente».
«No, ora me lo dici».
«Ricordami perché ti chiami Ovidio...»
«Per via delle Metamorfosi...»
«Ah, già. Proprio un bel nome... Ovidio
», dice ridendo.
«Certo che invece Ermanno è il nome più bello del mondo». Anche tu non puoi fare a meno di ridere. «Su, ho quasi finito».
«Ma non era meglio se mi facevo la barba?»
3
Ovidio inizia a parlare.
«Mezzanotte. Quanto silenzio». Si ferma un attimo. Resta in ascolto. Ricomincia. «Poco fa, ho pulito la casa e passato lo straccio. Quindi, ho preparato la cena». Afferra una sigaretta,
l'ultima pensa. L'accende e la poggia nel portacenere. «Ho bevuto il caffè e lavato i piatti. Ho messo a bollire un po' di latte, dopodiché mi sono occupato della telecamera...
Il latte!»
Si alza di scatto e raggiunge la cucina. Il latte si è quasi del tutto versato e ha spento la fiamma, ma col poco che è rimasto riesce comunque a riempire un bicchiere.
Torna a sedere.
Il bicchiere fuma tra le sue mani. Lui soffia e il fumo si disperde.
D'un tratto avverte un forte dolore alla testa. Posa il bicchiere per terra e si prende il capo tra le mani. Non può fare a meno di urlare.
«Adesso passa», ripete. «Adesso passa...»
§MIA MADRE§
«Adesso passa, Ovidio. Stai tranquillo».
«Sì, mamma. Non preoccuparti: è solo un po' di mal di testa».
Tua madre è lì, vicino a te, davanti alla telecamera. Ti sta sfiorando la fronte che, sotto le sue dita, pulsa. Non riesci a sentirne il calore; è come se la tua pelle avesse perso sensibilità.
«Ti ho detto di non preoccuparti».
«Sicuro?»
«Sicuro».
Ti guarda perplessa. Da un po' di tempo, le fitte alla testa si fanno sempre più acute e frequenti.
«Mamma, dai!»
«D'accordo. Tu però non affaticarti troppo».
«Va bene».
Lei va a sedersi ed è pronta a farsi riprendere.
«Cosa vuoi sapere?»
«Allora...», le dici mentre finisci di preparare la telecamera, «mi devi spiegare per quale motivo hai deciso di chiamarmi Ovidio».
«Ma te l'avrò detto decine di volte...»
«Se hai coraggio, ripetilo davanti alla telecamera», dici scherzando.
«E va bene. Ti chiami Ovidio perché da giovane adoravo le Metamorfosi».
«Ovidio è un autore latino, giusto?»
«Sì. La sua opera più bella e famosa sono le Metamorfosi, in cui il poeta narra “il mutare delle forme in corpi nuovi”».
«Come la storia di Aracne».
«Sì, la ragazza mutata in ragno e condannata a tessere per l'eternità».
«Certo che “Ovidio”... Andiamo, mamma...», le dici scherzando.
Lei allora per un attimo dimentica le preoccupazioni. Sorride e ti passa un bicchiere di latte fumante.
4
Finito di bere il latte, Ovidio poggia il bicchiere per terra, accanto alla sedia. Il dolore si è attenuato, ma stenta a parlare. Forse ha un po' di febbre.
«Ho... rifatto il letto». Pausa. «Che cosa inutile... rifare il... letto, sì. Tanto tra poco mi ci dovrò addormentare di nuovo... addormentare. Di nuovo. In questa vita, si fanno un sacco di cose inutili...»
D'improvviso, sembra ricordarsi di qualcosa: fruga nelle tasche e tira fuori una fotografia. La mette davanti all'obiettivo.
«Lei è Giulia». Indica la donna. «E lei, lei è la mia piccola Giorgia: tre anni appena compiuti». Aggiunge indicando la bambina.
Ricorda che la foto fu scattata da Laura, la migliore amica di Giulia. Come tanti pezzi di lego, la scena sembra ricostruirsi davanti ai suoi occhi.
§LAURA§
«La vuoi smettere di giocare con la telecamera?», ti sta domandando Laura.
«Un attimo», le dici. «Ho quasi fatto».
«Ma vuoi spiegarmi perché mi devi riprendere mentre vi fotografo?»
«Così, come ricordo», dici e ti vai a sedere accanto a Giulia e a Giorgia.
«Giorgia! Guarda verso di me!», fa Laura.
Giorgia è una bambina timida. Parla poco, è introversa e tu le vuoi un gran bene. Le dai un bacio sulla gola con un sonoro schiocco e lei finalmente ride.
«Dite formaggio...»
«Formaggio!»5
«Ho lasciato questa fotografia per ultima. Di loro ormai non mi rimane altro. A parte...»
Ovidio si alza. Va alla scrivania, afferra uno dei cassetti e, tornato davanti alla telecamera, lo svuota: ne escono decine e decine di videocassette. Su una è scritto §ELENA§, su un'altra §LAURA§, su un'altra ancora §MIA MADRE§. E poi §ERMANNO§, §ROBERTO§, §LUCA§. Le afferra una per una e di tutte controlla il titolo. Finalmente trova quella che cerca. La mostra alla telecamera. C'è scritto: §GIULIA E GIORGIA§.
§GIULIA E GIORGIA§
«Mamma, perché tu e papà non siete sposati come la mamma e il papà di Claudia?»
«Perché? Beh, non c'è una ragione precisa».
«Perché non c'era bisogno», intervieni mentre le stai riprendendo con la telecamera.
«E perché non c'era bisogno?»
«Quante domande! Perché non la sposi tu la mamma?»
«Tu mi vuoi sposare, mamma?»
«Certo che ti voglio sposare, amore».
«Però, se noi ci sposiamo, papà allora con chi si sposa?»
«Con nessuno, così impara». Giulia scherza, ma la piccola ci rimane male.
«Va bene», dici. «Vuol dire che vi sposo tutte e due. Contenta?»
Giorgia ride. Giulia si alza e viene a baciarti, anche lei è contenta. Quindi va verso lo stereo. Scorre i cd e inserisce "Shining Silver Skies" degli Ashram
. Il dodicesimo brano: Rose and air, la rosa e l'aria.
Ogni accordo è una sferzata. Gli arpeggi si arrampicano sulla tua pelle e ti strappano di dosso i vestiti. Tu resti nudo e senti freddo. Neanche la presenza di Giulia e di Giorgia riesce a scaldarti. Forse perché ora le vedi come se usassi un binocolo al contrario. Sembrano allontanarsi sempre di più lungo i filamenti di una ragnatela.
Un grande botto.
Poi, tutto si fa buio.6
Siete rimasti tu e la telecamera.
Su questa un ragnetto cerca una via di fuga. Lo imprigioni in un bicchiere, lui tentenna, poi cerca di arrampicarsi. Ogni tanto scivola, ma alla fine riesce ad arrivare in cima. Allora, capovolgi il bicchiere e il ragno scivola sul fondo. Riprende la salita, ma tu bagni il bordo e lui scivola di nuovo. Non si arrende. Non può, il suo è un moto inconscio. Inconscio e inconsistente. Prova di nuovo a fuggire e di nuovo si ritrova sul fondo. Aggiungi acqua, ma il ragno si arrampica, Insiste. Finché non ne ha più e si lascia annegare.
E tu... Tu resti nudo. E hai freddo.
Neanche la presenza di Giulia e di Giorgia riuscirebbe a scaldarti.
Loro ormai non sono che punti sparsi su una ragnatela troppo fitta che ti avvolge e ti imprigiona. Tu sei al centro e lontane vedi Giulia e Giorgia. Ma vedi anche Ermanno ed Elena e Laura e tua madre.
Tua madre è lì, in bilico sul filamento più estremo. Ti tende una mano e tu cerchi di afferrarla. Ci riesci per un attimo, ma poi scivoli e torni a essere invischiato nella tela. Allunghi nuovamente la mano: il tuo è un movimento inconscio e inconsistente. Cerchi di arrampicarti. Ti porti le mani alla testa. Di nuovo il buio.
7
Ora hai gli occhi chiusi. Sei disteso su un letto estraneo. C'è qualcuno, riconosci la voce di tua madre.
«Dottore...»
«Si tratta di ESA».
«ESA?»
«Sì, emorragia subaracnoidea».
«Sub...»
«Subaracnoidea. Il cervello è circondato da tre meningi: la
dura madre, la
pia madre, e l'ultima, l'
aracnoide, detta anche
tela di ragno, perché come una ragnatela aderisce alla
pia madre. Quando si rompe un'arteria, a causa di un aneurisma, si ha un'emorragia».
«Mio figlio non ha mai avuto problemi...»
«Il paziente può avvertire sintomi talmente comuni che il più delle volte passano inosservati: mal di testa, diminuzione di sensibilità di una parte della faccia o del corpo, disturbi del linguaggio».
Le parole ti giungono confuse, quasi rallentate, ma percepisci chiaramente il solco che le lacrime scavano sul viso di tua madre.
«Dottore», fa allora tua madre, «io
devo sapere».
«In questi casi, quando il paziente entra in coma, è molto difficile che si risvegli. Mi dispiace...»
Cominci a capire che parlano di te e dello stato in cui hai vissuto in questi ultimi anni. Tutto sembra un sogno e quasi ti dispiacerebbe svegliarti in un mondo che è andato avanti anche senza di te.
Il dottore esce e vi lascia soli. Tua madre ti si siede accanto. Ti accarezza il viso. Quindi passa ad accarezzare quei tubi di plastica che ti tengono in vita.
«Bambino mio...»
Ti sta invocando. Ti prega. Rivolge a te una preghiera che non può più rivolgere ad altri. È strano sentirsi chiamare
bambino a trentacinque anni.
«Ti porto i saluti di Elena e di papà. Vengono più tardi».
La sua voce è calma.
«Ha chiamato Ermanno. Si trova a Stoccolma. Ha quasi concluso il viaggio che avevate programmato di fare prima di...»
Cosa? Prima di cosa, mamma?«Presto arriveranno delle cartoline anche da Praga e Berlino. Voleva tornare, ma gli ho detto di finire quello che avevate deciso».
La sua mano adesso indugia sulla tua guancia. Riesci appena ad avvertire sulla pelle il ruvido stridio della barba di pochi giorni mossa dalle sue carezze.
Dalla borsa, prende un foglio di carta. C'è un disegno: raffigura un uomo, una donna e una bambina, tutti vestiti con abiti da sposa.
«Questo te lo manda Giorgia. Proprio ieri ha compiuto sette anni. Vedessi com'è cresciuta. Mi ha detto di darti un grosso bacio sul collo con un fortissimo schiocco».
Si avvicina e ti lascia sulla pelle il segno delle labbra della tua bambina.
«Giulia è sempre più bella ogni giorno che passa. Abbiamo parlato molto in questi ultimi tempi. Abbiamo parlato di noi, di te, della bambina, di quello che ci è successo. Abbiamo ricordato come eri, i tuoi interessi, la tua passione per i cortometraggi, per lo sport. E abbiamo parlato di... di come sei ora».
Le dita della sua mano si irrigidiscono.
«Dicono che non ti risveglierai e anche se, per miracolo, dovessi farlo, sarai costretto a rimanere a letto, immobile. Per sempre».
Ora la sua mano accarezza il lenzuolo bianco che ti ricopre e che tanto somiglia al sudario di Cristo.
«Dicono che non ci sia niente da fare e che noi non possiamo fare niente per aiutarti...»
Ti toglie il lenzuolo di dosso e tu, ancora una volta, avverti chiara la sensazione di essere nudo. Ma questa volta non hai freddo né paura.
«Bambino mio, in realtà c'è qualcosa che io posso ancora fare...»
Il suo volto si è fatto sereno. Alcune lacrime scendono senza volere ma non scalfiscono minimamente la sua bellezza.
«Ne ho parlato con gli altri e siamo tutti d'accordo. Siamo sereni, perché sappiamo che è quello che tu vuoi. Ci sono qui io, ma avrebbe voluto esserci anche Giulia. Le ho detto che volevo farlo da sola, come quando ti ho partorito. Lei ha capito. Io ti ho dato la vita e io adesso me la riprendo».
Senti la mano di tua madre staccare dal tuo corpo quei tubi che ti tengono legato a una vita di plastica. Hai un sussulto piacevole e, nonostante tutto, non puoi fare a meno di abbandonarti alla preghiera:
Nel nome della Madre, del Figlio e dello Spirito Santo...8
Ti mancheranno le piccole cose di tutti i giorni. Accadono senza che te ne rendi conto.
Qualcuno ti dice di andare a Stoccolma; una ragazzina ti parla del suo sogno; una fotografia congela la tua vita. E ancora: un bicchiere di latte, la moka che tarda a uscire, una telecamera. E poi: la risata di una bambina, gli occhi di una donna, una musica che si spande. E il sorriso di tua madre.
E poi...
E poi.
Il buio.
E poi, torni da loro, ma niente è più come prima. Tutto succede così in fretta: non c'è essere umano che si renda conto di vivere, mentre vive. Il tempo si dissolve e a te interessa solo fermarlo. Archiviarlo. Per sempre.
E allora pensi che non hai speso invano gli ultimi anni della tua vita. Hai ripercorso minuziosamente gesti, volti, espressioni, parole. Hai filmato tutto col tuo cervello malato, impressionando di fotogrammi le pellicole che lo avvolgono.
Ma adesso basta.
Ti alzi.
Raggiungi il balcone. Guardi in basso e vedi il vuoto. È ora di raggiungerlo quel vuoto. Inizi a contare fino a dieci. Uno, due. Vedi qualcosa laggiù: c'è il tuo corpo adagiato sulla strada. Tre, quattro. Accanto al corpo, tua madre ti guarda e ti accarezza. Piange in silenzio. E allora capisci che lei ha appena fatto quello che tu non avresti potuto. Cinque, sei. Da lassù, le urli grazie sperando che ti senta.
Rientri in casa. Sette.
Inserisci un cd allo stereo. Otto.
Premi PLAY:
La rosa e l'aria.
Raggiungi la telecamera. Nove.
Sulla telecamera premi: STOP, FORWARD sino al termine del nastro. Dieci.
TAPE END.
F I N E
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Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.