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Skannatoio, marzo 2013, edizione XVI, Per chi suona la campana
* Campionato pri-est 2013, 1 di 12

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g.f.cassatella
view post Posted on 4/3/2013, 17:28




qualche giorno fa ho provato a unire J. Donne e Orietta Berti, un presagio?
 
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Sol Weintraub
view post Posted on 6/3/2013, 19:03




Una domanda. E' consentito riproporre, ovviamente adattando le specifiche, un racconto già usato per un altro concorso del forum (nello specifico la RR). All'epoca ebbi solo tre commenti e, siccome lo vorrei proporre in altra sede, unteriori pareri non mi dispiacerebbero.
In caso negativo ho già pronto un raccontino alternativo. ^_^
 
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-Peppino-
view post Posted on 6/3/2013, 22:05




@sol:sì puoi riproporlo. Sotto questo aspetto lo Skannatoio è più elastico rispetto alla Macelleria o alla RR.
 
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Sol Weintraub
view post Posted on 6/3/2013, 22:17




Grazie Giuss, lo avevo intuito da alcune risposte di Jackie ma è sempre meglio chiedere.
 
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Nozomi 2.0
view post Posted on 6/3/2013, 22:42




Le campane...oh, mamma mia santa, le campane!
Non mi viene in mente niente, nessuna ispirazione... Quasimodo? No... forse, ah, sì, "din don campanon!", filastrocca che mi recitava sempure mia nonnina, che era veneta!

Credo di aver bisogno di riposo, dormire, mi sento esaurita come il Monte Amiata... niente più cinabro per i vostri termometri, per i vostri stramaledetti catodi cloro-soda Solvay! Tabula rasa, pagine bianche...da domani proverò a dipingere, forse cambio arte...
Ahimè! :wacko:
S' vede che ho bevuto, vero? :p105: :p105: Son così sola... :(
 
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anark2000
view post Posted on 6/3/2013, 23:47




QUOTE (Nozomi 2.0 @ 6/3/2013, 22:42) 
Le campane...oh, mamma mia santa, le campane!
Non mi viene in mente niente, nessuna ispirazione... Quasimodo? No... forse, ah, sì, "din don campanon!", filastrocca che mi recitava sempure mia nonnina, che era veneta!

Credo di aver bisogno di riposo, dormire, mi sento esaurita come il Monte Amiata... niente più cinabro per i vostri termometri, per i vostri stramaledetti catodi cloro-soda Solvay! Tabula rasa, pagine bianche...da domani proverò a dipingere, forse cambio arte...
Ahimè! :wacko:
S' vede che ho bevuto, vero? :p105: :p105: Son così sola... :(

Secondo me avresti bisogno di un bel weekend a Montecarlo, fidati: fa miracoli! :D

(Ma questa è soltanto la mia modesta opinione.)
 
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Jackie de Ripper
view post Posted on 7/3/2013, 12:29




Mancano 12 ore. Forza!
 
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view post Posted on 7/3/2013, 14:55
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Arrotolatrice di boa

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Il primo rintocco

Il primo rintocco, nel buio del sacco di juta, a Joshua parve quasi il boato di uno sparo.
Voltò la testa da un lato, per riuscire a coglierne il suono più attentamente.
Il secondo sembrò squarciare il cielo. Strinse gli occhi, quasi che il buio del cappuccio improvvisato, che gli era stato calato sulla testa non fosse sufficiente, e nell’oscurità rivide l’haudenosaunee. E ricordò quando non era il metallo, ma il sole a scandire il tempo.
Quando i bianchi erano un problema, solo per sentito dire.
Poi arrivarono.
Non ha mai saputo perché, ma fu una notte di quindici anni prima che la campana del villaggio appena sorto iniziò a suonare. E fu come se incitasse i coloni. Come se gli ordinasse di uccidere, distruggere, bruciare.
Il ricordo del fuoco era tanto vivido, che dovette inumidirsi le labbra e arrivò quasi a tossire. La lunga casa era di nuovo in fiamme e la rabbia dei bianchi sembrava non avere fine.
Per un istante il granaio nel quale era rinchiuso scomparve, e non erano le corde a stringergli i polsi, ma le braccia ancora calde del cadavere di sua madre.
Di tutto il massacro ricordava solo questo, poi buio e la campana della chiesa cattolica che non aveva mai smesso di urlare.
Come ora.

Il colpo arrivò dal basso, sentì prima il suono dei suoi denti che sbattevano, poi il dolore, infine il sapore metallico del sangue.
«Alle dodici in punto, indiano bastardo, morirai comunque.» Il tono di Samuel Carrington era più disperato che infuriato, «devi solo decidere se farlo in fretta, o no. Lo sceriffo ha deciso che se non collaborerai sarò io a ucciderti,» con un gesto secco gli sfilò il cappuccio. Joshua impiegò qualche secondo ad abituare gli occhi alla luce, e la prima cosa che vide fu il coltello che Carrington roteava tra le dita, «e mi pregherai di farlo.»
Carrington gettò il cappello qualche metro più in là e si deterse il sudore con la manica della giacca elegante, poi con un gesto deciso afferrò un lembo della camicia del ragazzo e ne fece saltare i bottoni. Quando gliela scese sulle spalle appoggiò la punta del coltello sul petto, ormai nudo, e tracciò il primo segno.

La campana aveva suonato il settimo rintocco.
Joshua aveva il capo riverso sul petto, i capelli neri, tagliati male, scendevano in ciocche scomposte impastate di sangue e sudore.
Carrington aveva gli occhi gonfi di lacrime e il volto paonazzo. La giacca buona gettata sopra alcuni sacchi d’orzo e le maniche della camicia, che un tempo era stata bianca, arrotolate fin sopra i gomiti.
Afferrò i capelli dell’indiano con la sinistra e ne sollevò il viso con uno strattone. Appoggiò il coltello sotto quel volto coperto di sangue e lo strattonò ancora. «Devi dirmi dove hai portato mia figlia, cane rognoso. Dove?»
La mente di Joshua però era lontana chilometri. Non era sicuro nemmeno di essere sveglio perché davanti ai suoi occhi il granaio era scomparso e c’erano solo i campi coltivati dalla gente dell’Orsa.
Ottavo rintocco.
La stanza dal soffitto alto e pieno di ragnatele riprese i suoi contorni con uno scroscio d’acqua gelata.
Scrollò la testa e la tirò indietro, cercando di togliersi i capelli dagli occhi.
Il vecchio proprietario terriero lasciò cadere il secchio a terra e si spinse le maniche ancora più in alto. Aveva pianto, era evidente, come lo era il suo sguardo carico d’odio.
Il nono rintocco, l’ultimo.
Gli occhi di Joshua incontrarono quelli del suo aguzzino e una serie di immagini confuse si sovrapposero tra i due. Era forse Carrington coperto di sangue che faceva incetta di moribondi, quella notte?
Quindici anni di incubi in cui una figura senza volto possedeva sua madre e poi le tagliava la gola. Era solo un bambino, nascosto sotto la legnaia aveva visto il viso gentile di sua madre non mutare espressione, mentre la violentavano. Lei aveva continuato a guardarlo con gli occhi gonfi d’amore. E quando il coltello affondò nella sua pelle ramata riuscì a sorridere e a trascinarsi fino alla catasta di legna, per coprire con il proprio, il corpo del figlio.
E ora forse, sapeva chi era stato.
Nel rossore della fatica, nel tremore della collera e della disperazione si era rivelato. Era quel viso il primo che vide. Quello di chi scostò senza grazia il cadavere di chi colei che gli aveva donato la vita due volte.
«Siete stato voi a uccidere mia madre!»
Il vecchio trasalì, si fece indietro di un paio di passi. «È questo che credi? È per questo che hai rapito mia figlia, per farmela pagare? Io ti ho salvato. I tuoi avevano ammazzato decine di onesti coloni, erano solo un gruppo di tagliagole e hanno avuto quello che si meritavano. Gli altri avrebbero ammazzato anche te se io non ti avessi portato via. È così che mi ringrazi?»
Raccolse una corda dal pavimento e si avvinò di nuovo ma dei colpi ben assestati alla porta lo fecero sobbalzare, la voce del prete arrivava appena attutita, ma comunque distinguibile, «Signor Carrington aprite! Il ragazzo è battezzato, devo dargli la comunione!»
«Questo è un demonio, padre! Ha rapito mia figlia e Dio solo sa cosa le ha fatto!» Saliva e disperazione, sputate fuori insieme in quell’urlo strozzato. Subito dopo, in un nuovo moto di rabbia colpì il ragazzo con la mano aperta, facendolo sbilanciare. La sedia su cui era legato si sollevò da un lato e rovinarono a terra insieme.
«Signor Carrington, devo confessarlo, fatemi entrare!»
Il vecchio sbuffò fuori aria e sconforto e con due dita raccolse la giacca da terra, prima di avvicinarsi alle quattro assi sconnesse che formavano il portone.
Si tirò indietro i capelli radi con entrambe le mani e tolse il chiavistello.
Il prete aveva i paramenti sacri della Quaresima e le mani sudaticce giunte, «signor Carrington? Ma che gli avete fatto?»
Il prete si avvicinò con piccoli passi veloci, le mani ancora intrecciate sul petto e lo sguardo colmo di sconcerto. Estrasse da sotto la tunica un fazzoletto e lo imbibì dell’acqua di un otre.
Joshua ebbe un sussulto non appena la stoffa gli sfiorò le labbra. «Dove è finita la vostra carità signor Carrington? Non prometteste forse a vostra moglie di occuparvi di lui?»
Il vecchio infilò la testa nell’acqua e si deterse il viso, «lo promisi certo, e l’ho fatto! Ho cresciuto questo figlio di puttana, l’ho fatto andare a scuola, al catechismo. Gli ho dato un lavoro!» Sprofondò tra i sacchi d’orzo ammassati alla meno peggio vicino agli otri. «E lui mi ha ripagato rapendo mia figlia. L’hanno pescato a rubare i soldi delle paghe, e di lei non c’era traccia.»
Il giovane parroco aveva quasi del tutto lavato il viso di Joshua e continuava a guardarlo negli occhi con aria paziente, «e come avrebbe fatto signore, a rapire vostra figlia se era in azienda a rubarvi le paghe? Forse è solo un ladruncolo e non un rapitore. Gli indiani hanno fama di essere gente mansueta.»
Il proprietario terriero scattò in piedi, le braccia allargate in un gesto teatrale, «mansueti, come no! E perché non si giustifica? Perché non mi ha detto, “non sono stato io”!»
Il prete mosse appena le labbra, guardando negli occhi il ragazzo, la voce era solo un sussurro, «perché non sei mai stato un bugiardo.» Raccolse il coltello da terra e con lentezza si portò dietro al prigioniero, poi tagliò la corda che gli legava le mani.
Joshua rotolò dal fianco, sull’addome e si sollevò sui gomiti, la testa tra le mani.
«Padre ma che state facendo?»
«È un bravo ragazzo, lo è sempre stato. E poi dove volete che vada? C’è mezzo paese con il colpo in canna, qui fuori.» Sollevò la sedia dal terreno sabbioso e invitò il ragazzo a sedersi. «Allora figliolo, tu sai dove è andata la signorina Lana?»
Il vecchio tuonò dal fondo del granaio, «Lana non è andata! Non sarebbe mai andata da nessuna parte da sola, oggi è il giorno del suo fidanzamento, l’ha presa lui!»
Il prete fece finta di non sentirlo, nemmeno quando si fu avvicinato, continuando a ripetere lo stesso concetto, con voce sempre più roca, «il signor Carrington in fin dei conti ti ha salvato la vita, saresti morto nell’incendio se non ti avesse preso lui. Quello che è accaduto alla tua gente…»
Joshua sollevò lo sguardo, interrompendolo, «si chiama massacro, padre.»
Il sacerdote gli prese le mani allora, e le strinse. I segni della corda erano evidenti sui polsi e sui dorsi escoriati. «Io non sono qui per giudicare questo, non so chi abbia iniziato la faida per primo. Ma so come è finita, e tu sei vivo. Saresti morto se quest’uomo non ti avesse preso con se. Non pensi di dovergli un po’ di riconoscenza? Ti ha insegnato a leggere e scrivere, ti ha permesso di conoscere Dio.»
«Io sapevo già leggere e scrivere, e conoscevo Dio.» Il prete sorrise, anche se l’aria benevola era scomparsa. Additò la cintura di perline che Joshua indossava, poi il sorriso divenne risata. «Le Wrangler scrittura? Quattro perline infilate? Andiamo figliolo, io parlo sul serio. Devi ringraziarlo di averti portato via ai demoni che venerava la tua gente.»
Carrington si era allontanato di qualche passo, lo sguardo fisso sul soffitto e sul disegno perfetto di una grande ragnatela. Solo quando fu sicuro di non incrociare il suo sguardo Joshua parlò, «padre io voglio confessarmi.»
Il prete rispose alla stretta di mano che aveva ricevuto e si rivolse al vecchio, ormai vicino alla porta. «Dovete uscire signor Carrington, la confessione è sacra.» Poi rivolto al ragazzo, «ce la fai a inginocchiarti?» Lo sorresse per le spalle muscolose, lo aiutò a inginocchiarsi solo per avvicinare le labbra al suo orecchio, «… e a correre?»

Lo sceriffo e il suo vice raggiunsero Carrington appena fuori dal granaio, il vecchio si chiuse la porta alle spalle e con un gesto ordinò a due dei suoi uomini di piantonarla. «Allora Carrington? Le squadre di ricerca sono pronte, abbiamo una traccia?»
L’uomo bofonchiò qualcosa che aveva più l’aria di un lamento. Si aggiustò la giacca sul petto cercando di coprire le macchie scarlatte della camicia, «non mi ha detto niente, continua a starsene zitto. Gente fiera quella. Bastardi e fieri.»
Lo sceriffo poggiò una mano sulle spalle del suo vecchio compagno di scuola, amico da una vita, e lo strinse in un abbraccio, «quello di indiano ha solo la pelle ormai, era un bambino quando te lo sei preso. Sei sicuro che sia davvero stato lui?»
I cristalli di sale dello sterrato brillavano del riflesso di un sole ormai alto. Una decina di donne raggruppate davanti alla porta della chiesa cercava di carpire stralci di conversazione, frammenti di discorso, mentre gli uomini parlottavano serrati tra di loro, dopo aver raggiunto Carrington e i tutori della legge.
Una puttana ormai immune alle malelingue e a ciò che non è conforme si insinuò nel capannello, sgomitando sgraziata. «Allora? Questa impiccagione?»
Non le risposero, ansi si spostarono per impedirle di entrare nel cerchio formato dai soli uomini ma lei continuò a incalzare, «a quest’ora sarà prigioniera in qualche villaggio indiano e Dio solo sa quello che le stanno facendo!»
Uno degli uomini al servizio di Currington la spintonò, spostandola di un metro almeno e si avvicinò al suo capo, «signore, non ci sono villaggi Iroquesi fino ai grandi laghi, e ci vogliono almeno due giorni di cavallo per arrivare. Deve tenerla nascosta qui vicino. Magari alle gole.»
Il vecchio ascoltava quasi in modo passivo, il pensiero era lontano, imprigionato dentro una lunga casa dal corpo privo di vita di sua figlia. Anche se la sapeva impossibile, l’immagine ventilata dalla meretrice era vivida davanti ai suoi occhi. Si scrollò infine, con un gesto secco della testa e si stropicciò gli occhi, quasi riuscisse in quel modo a cancellare i propri timori. «Alle gole certo, ma perché non nella foresta? O al fiume? C’è troppo da esplorare senza una traccia. Ma quanto diavolo ci mette quel prete? Clide va a vedere.»
Il più fidato dei suoi uomini, quello che avrebbe dovuto dichiararsi da lì a poche ore, uscì dal granaio di corsa, subito dopo esservi entrato, «è scappato!»

Impiegarono solo pochi minuti a slegare il parroco, meno ancora ad ascoltare le sue risposte evasive, sul perché non avesse dato l’allarme. Le tracce lasciate dietro al granaio erano sufficenti, come lo erano le impronte fresche di due cavalli diretti alle gole.
«Uno con il cavaliere, uno senza, capo. Ve l’avevo detto, la tiene alle gole e pensa di spostarsi, per questo i due cavalli. Se ci sbrighiamo lo riprendiamo prima che possa farle del male. Lana opporrà resistenza, gli ci vorrà un po’ per costringerla a montare.»
Carrington era già in sella, con un’agilità impensata per i suoi anni, le redini strette nella sinistra e il fucile carico nella destra. «Non ci sono andato leggero, è debole e ferito. Non possiamo farcelo scappare. Muovetevi!»
I cavalli furono lanciati al galoppo in una nuvola di polvere giallastra, il terreno vibrò qualche istante, pestato da decine di zoccoli. Il cui frastuono cupo e basso coprì lo scampanio delle dieci.
Le bestie galopparono pancia a terra, lanciate al massimo dello sforzo consentito fino all’imbocco delle gole, poco più a sud dal paese. Solo quando il prato lasciò il posto ai sassi del viottolo rallentarono l’andatura. Gli speroni di roccia brulla svettavano dal manto verde come canini affilati. Solo qualche arbusto striminzito e contorto ne sporcava il grigio, altrimenti compatto. I cavalieri trattennero ulteriormente le bestie che risposero con una serie di sbuffi. «Qui le tracce non si vedono più.»
La scia di grano calpestato di fresco che avevano seguito terminava proprio tra i sassi e le rocce delle Devil’s Gorges. «Non importa, la via è unica. Può solo essere andato avanti.»
Un nitrito dal fondo della gola, parve loro rispondere.
Chi non lo aveva fatto, caricò il fucile e uno alla volta spinsero il proprio cavallo nello stretto budello di roccia.
La fila era comandata da Carrington, Clide lo seguiva a distanza di pochi passi, «signore, ha pensato che se non fosse solo, questo posto sarebbe perfetto per tendere un’imboscata. Se ci fosse qualcuno appostato tra le rocce, non avremmo modo di difenderci.»
Il vecchio abbassò la tesa del cappello e guardò in alto. Le rocce sembravano tumori cresciuti uno sull’altro, lanciate dal divino a grappoli corposi. Ricche di anfratti, buchi, caverne addirittura. E sopra a tutto, il sole splendente del mezzodì che gli impediva di mantenere lo sguardo in alto.
«Certo che ci ho pensato, ma non si sono più visti indiani da quando ci liberammo di quei tagliagole, quindici anni fa. Joshua non è mai uscito dal paese, chi potrebbe aiutarlo? È solo, il bastardo, te lo dico io.»
Clide si voltò indietro, per quanto lo stare in sella glielo consentisse. «Sarà come dite voi, ma io non mi sento sicuro.» Con un gesto fermò la fila e la fece arretrare, come furono di nuovo nel campo aperto, scelse una decina di uomini e gli indicò i costoni ai lati della gola.
Cinque per parte si arrampicarono sulle rocce, fino a portarsi in cima e solo quando furono arrivati diedero agli altri il segnale per entrare di nuovo.
I cavalieri, ormai solo tre persone, si avventurarono nello stretto viottolo sassoso per poche centinaia di metri. Lenti, gli occhi al cielo, cercando di intravedere i compagni, o il pericolo.
Nel caldo del mezzogiorno anche la natura sembrava essersi acquietata, nessun suono oltre il frinire delle cicale, l’acciottolarsi dei sassi sotto gli zoccoli e in lontananza la campana della chiesa.
«Alza le mani, figlio di un cane!»
La piccola carovana si fermò di colpo, gli occhi rivolti in alto, verso il grido intimidatorio che Clide aveva lanciato.
Solo un lieve baluginio sulla canna ne tradì la posizione e pochi metri più in basso, dietro una roccia sporgente, alzava le mani Joshua.

Il ragazzo venne trascinato fino al viottolo, almeno quattro fucili puntati alle spalle. Sul torso nudo i segni del coltello e nel viso quelli dei colpi subiti poco prima. «Ragazzo questa è la tua ultima possibilità,» Carrington sollevò il cane e puntò la sua arma, «dov’è mia figlia?»
Un colpo venne esploso a pochi passi dalle zampe del sauro di Carrington, la bestia scartò da un lato, fermandosi subito dopo. Il vecchio dovette arpionarsi al pomolo per non perdere l’equilibrio, ma rimase comunque in sella.
«Vieni fuori bastardo! Cosa vuoi? Soldi? Va bene, rimandami mia figlia e avrai i tuoi soldi.»
Dal fondo del viottolo, dietro una delle pieghe che formavano il drappeggio lapideo della gola, uscì Lana. Il vestito azzurro delle grandi occasioni sporco e stracciato in più punti, e i riccioli biondo scuro, scomposti e riversi sulle spalle.
Avanzò qualche passo dando a suo padre il tempo di smontare e mentre Clide faceva inginocchiare Joshua le mani di lei scivolarono da dietro la schiena. Imbracciando un fucile.
Carrington barcollò, dovette afferrare uno degli staffili per non cadere, «Lana ma che significa?»
Per tutta risposta la ragazza puntò l’arma verso suo padre, «Joshua, lasciatelo andare!»
L’indiano prese il fucile dalle mani di Clide e pretese che tutti gli altri deponessero a terra le proprie armi. Attese che si allontanassero di nuovo e le raccolse, si caricò in spalla i cinturoni e si diresse verso la ragazza.
«Lana, spiegami!»
«Io non posso sposare Clide, non voglio.»
Il vecchio mosse un passo verso di lei, ma Lana esplose il secondo colpo, sfiorandogli gli stivali. Per nulla intimorito Carrington continuò a camminare.
Dalla posizione raggiunta Joshua teneva sotto tiro il gruppo, e la ragazza permise al padre di avvicinarsi.
«Che follia è questa? È colpa sua? È lui che ti ha messo in testa questa idiozia?»
La ragazza appoggiò il fucile a terra poi afferrò le mani dell’uomo tra le proprie e se le spinse sul petto, «nel cuore, padre…» Cambiò la presa e accarezzò i dorsi rugosi, spingendo con delicatezza le mani fino al ventre, «nonno.»
L’uomo sfilò le mani da quelle della figlia, le trasse a se con un moto di disgusto, e dolore. Un paio di passi indietro e cadde, continuando ad annaspare. «Non è possibile questo! Ti sei fatta…? È un indiano, uno che non sarà mai niente di più che un garzone!» Arrancò ancora all’indietro fino a una piccola roccia piatta, e la usò per aiutarsi a riacquistare la posizione eretta. «Dobbiamo… dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo… non importa, Clide ti sposerà lo stesso, o non avrà una zolla di terra da me. Ora vieni, andiamo a casa, risolveremo questa… cosa.»
Lana raccolse con calma il fucile e appoggiò la destra sulla spalla di Joshua, «sapevo che non saresti mai stato felice per me. Ecco perché sono scappata. E Joshua sapeva che non avrebbe potuto permettersi di farmi vivere come ero abituata, quindi è tornato indietro per rubare le paghe. Ma si sbagliava. A me lui basta.»
L’indiano si avvicinò al vecchio tenendo una delle pistole appena razziate ben stretta in pugno, «andate via adesso.»
L’uomo batté le palpebre, si stropicciò gli occhi anche. Si spostò quindi e diede loro le spalle senza dir nulla. Distingueva appena i suoi compagni all’imbocco della gola, gli occhi velati da un pianto che non riusciva a fermare. Infilò la destra nella giacca e estrasse una piccola pistola da scrittoio. Si voltò pronto a sparare ma il mondo parve oscurarsi. Il coro di grida dei suoi uomini venne coperto dal ruggito dell’orsa che gli si era parata davanti. Come se fosse arrivata dal nulla, la creatura si frappose tra l’uomo e il suo bersaglio e ruggì di nuovo. L’eco fece tremare il suolo e le vibrazioni arrivarono fino ai polmoni e al cuore. Carrington cadde all’indietro, la piccola arma volò, sobbalzando fra i sassi. L’orsa poggiò tutte e quattro le zampe a terra e si portò sopra al vecchio.
«No, per favore, per favore!» La voce di Lana era quasi uno squittio, ma la bestia si voltò come se fosse un grido.
Joshua si portò davanti alla ragazza e le impose di abbassare l’arma. Cercò lo sguardo dell’animale e in quegli occhi tondi e neri gli parve di scorgere una scintilla. Un ricordo forse.
La bestia se ne andò subito dopo, dondolò fino a una delle insenature e vi scomparve dietro.
Lontano il suono della campana era quasi indistinguibile, l’eco faceva somigliare i tocchi delle dodici al suono cadenzato che accompagna i morti.
Il vecchio non si era ancora del tutto ripreso dallo spavento e continuava a rimanere seduto a terra, «è morto qualcuno? Per chi suona la campana?»
Il ragazzo raccolse l’arma di Carringotn e gliela porse.
«Non erano tagliagole, non avevano fatto nulla se non coltivare la terra che volevate per voi. Forse non siete stato voi a uccidere mia madre, qualcuno dei vostri comunque. Non cerco vendetta, voglio solo andare via. La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce perché noi siamo parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.»


voi non sapete la fatica per postare questo maledetto racconto... vi spiegherò!
 
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Sol Weintraub
view post Posted on 7/3/2013, 17:10




LA FAINA



Pochi fiori colorano la bara: garofani, bovardia, l'arancione acceso della calendula. Rami di olivo la circondano come una stola.
Santa Margherita è piena, eppure tutto tace. Solo il rosario sommesso di qualche beghina rompe il silenzio.
Edoardo cerca la mia mano e la stringe. Quando i nostri occhi si incontrano non vedo dolore, ma dolcezza.
I suoi stessi occhi.
La campana suona il vespro e a ogni rintocco un velo cade.
Ritorno indietro a dieci anni fa, al giorno in cui Marisa mi aprì il suo cuore.

- - -



- Ah, sei tü.
Il volto di Marisa scompare oltre le tende tirate e la porta si apre. Quell'uscio di paese mai chiuso, giorno e notte, perché chi u sēra l'è falsu o l'è ladru e il rumore della maniglia abbassata e un sun mî bastano a capire che è entrato un amico.
Ma non il mercoledì.
Me la vedo, china sui fornelli, il grembiule stretto in vita, tendere le orecchie al rumore delle gomme sulla ghiaia del cortile. Un'ultima occhiata alla tv sempre accesa, come a voler dire a Malgioglio «sta a vié», e poi via, a girare svelta la chiave.
La immagino sorridere. Un po' scherzo e un po' sgarro alla fûresta della quale, a distanza di un anno, fa finta di non ricordare il nome.
- Cuma l'è che te ciami?
Sempre in quel dialetto affettato, lascito di una terra francese riconquistata sasso a sasso.
Eppure Marisa l'italiano lo parla, e bene anche; pomeriggi passati in poltrona con un libro o le parole crociate. Edoardo mi raccontava di quando, da bambino, la accompagnava nella vigna, la sera: lei davanti e lui dietro a tirare la gomma, i sandali di plastica pieni di fango, carretto e carrettiere.
- Me ne dici un po'? - e lui via, a mitraglietta, declamare Dante o Guerrini.
Ma anche questo fa parte gioco.
Sarà per la mia pelle scura o gli occhi a mandorla, in un paese dove straniero è il tedesco che vive lì da trent'anni.
Sarà perché ho portato via il suo petitu da una casa troppo grande per riempirla di ricordi.
Plotoni di foto allineate, istantanee di vita in posa: la famiglia riunita, vestita a festa, tra i filari di garofani in fiore.
Dignità contadina scavata in volti aspri come le fasce scoscese a picco sul mare, pendii rocciosi scartavetrati dal vento e dalla salsedine.

Nella stufa di ghisa schiocchi di legna, eco autunnale d'estate.
L'odore forte del sedano.
- Cosa preparate di buono?
- Domani è San Donato.
Mi volta la schiena. Non c'è altro da dire per chi vive da sempre tra i ritmi e i riti di questa terra.
Tiro fuori le fialette per il prelievo e il tester; Marisa mi guarda buttando foglie d'alloro nel brodo, arcigno Mefistofele tra nuvole di vapore.
- Nun ti sai ren - scuote la testa sconsolata. - Si mangia il coniglio. Tu glielo prepari a Edoardo o sei come quelli là che fanno il Ramadan?
- Non sono araba, sono indiana.
Alzo il coperchio, dal liquido ambrato ossa e carne emergono a tratti, come nel calderone di una strega.
- Ma lo fa bollire?
- Ma no, belinuna. Devi prima fare il brodo - mentre parla va verso il lavabo e toglie uno straccio dalla grossa terrina piena di pezzi di carne in ammollo. - Ci metti il sedano, la carota, la cipolla no che non vien bene e dopo la testa del coniglio.
- E poi?
Rimane in silenzio, staccando una a una le foglie dai rametti di aromi, un po' stupita e un po' dubbiosa dall'interesse di quest'inaspettata discepola.
- E poi che?
- Cosa devo fare dopo il brodo?
La mezzaluna vola tra mani esperte, libera il profumo di maggiorana e rosmarino.
- Prepari gli odori e i pinoli. Ma non quelli che compri in bottega eh, me racumandu.
Senza dire nulla infilo uno straccio nella cintura dei jeans e mi metto al suo fianco. Inizio a rompere i gusci uno ad uno, battendoli con la pietra che tiene sul davanzale, come le ho già visto fare altre volte per il pesto.
- Te sei desgurdïa - silenzio. - Sei esperta - per la prima volta si corregge per farmi capire e sorride senza voltarsi. - Metti sul fuoco la casseruola con l'olio, tanto, non come dice l'Antonella in televisione, che poi non sa di niente. Ci butti dentro la carne e la fai rosolare. Gira, gira che si attacca.
Mi mette in mano il cucchiaio di legno, cogliendomi impreparata con quell'improvviso, profondo gesto di intimità domestica.
- Versi del bel vino, u Russese de Dussaiga, lo fai asciugare un po', aggiungi il trito, i pinoli e lasci andare.
- Per quanto?
- Un'ora circa, vedi tu, e pian piano metti il brodo.
Il coperchio si chiude. La magia è compiuta.
La carne sfrigola sul fuoco e noi rimaniamo lì, nell'imbarazzato calore di quell'istante.
Marisa si slaccia il grembiule e si siede in poltrona.
In lontananza le campane suonano il vespro e la sua espressione cambia.
- E le olive? Sbaglio o qui in Liguria le mettete?
Silenzio. Il sobrio borbottio della pentola.
Fuori il tramonto sfuma di rosa gli olivi e disegna scale di luce tra le tapparelle socchiuse.
- Marisa...
Sguardo fisso. Perso oltre il muro dei ricordi.
- Le olive le metti alla fine, poco prima che sia cotto - parla a bassa voce, come in trance. - Lo diceva sempre la Faina che devono restar dure.
I suoi occhi sono laghi increspati dal vento.
Mi siedo accanto a lei, le stringo le mani.
Scende la sera.

- - -



E' un Agosto strano, bizzoso come un Maggio.
Per giorni la pioggia fresca, sottile, ha tirato un velo sulla Colma, nascondendone il calvo cranio roccioso.
- Se continua quest'anno sai che festa.
Le mani di Mara si muovono da sole, secche e contorte, ragni svelti a tessere la tela.
Dalle reti le olive cadono una a una nel tino, mescolano il sordo ticchettio alle gocce, là fuori.
- Duman nun ciöve, ti u digu mi.
Domani non pioverà.
Rosa il tempo lo sente nelle ossa, e non solo quello.
La notte prima che arrivassero i tedeschi si era alzata di corsa per correre in canonica, a avvertire il prete. Non l'aveva ascoltata Don Dino, giovane di città, fresco di seminario, la testa piena di Vangelo.
La montagna parla a quella vecchia, nonna di Marisa, nonna di tutti, curva e salda come gli olivi che a visto seme. Fratelli, sorelle, compagni di vita.
- Va che u ven, me petita.
Marisa si volta, strappa lo sguardo perso dagli scrosci d'acqua.
- Mi u so che te sei pija de l'Angiulin - sorride. Quel sorriso sdentato che ti scalda il cuore, di chi ha conosciuto l'amore e l'abbandono. - Duman u ven.

Il mattino ha il colore dell'oro, biondo miele colato sul verde scuro dei boschi, più in alto. Il Poggio si è alzato all'alba, quasi a voler recuperare i giorni di letargo.
Per i carrugi è tutto un tramestio: si sposta, si toglie, perché il Santo sia comodo a passare.
In Piazza dei Martiri già sbuffano i fuochi che sporcano di grigio il cielo terso. Sulle fiamme la carne canta e le donne con lei; canzoni di paese, pudiche e sconce assieme, per ricordare un tempo senza guerra che sembra ormai lontano.
“Foente cae, foente da læte, mi me veûggiu tanto ben, dîme ûn pö comme son fæte quelle cose ch'ei in sen.”
Poco distanti gli uomini scuoiano i conigli messi da parte per la festa.
“Quelle cose ch'emmo in sen e son fæte a pugnattin; dimme ûn pö vuî, bello zoeno, cuma l'è o be... rettin!”
Le risate e la gioia fanno tacere i pensieri, almeno per un giorno: solo per oggi i mariti e i figli sono qui e non al fronte, o peggio, e ognuno può far finta di scorgerne il volto o il riso tra la folla, anche di quelli che un sorriso non l'hanno più.
Ma la guerra non ha santi.
Cammina tra la gente, che subito tace; anche i fuochi sembrano divenir brace al suo passaggio.
Sorride, la Faina, a quegli occhi chini. La divisa verde scuro stirata di fresco, gli stivali lustri, neri di dignità calpestate.
Al suo fianco Don Franco scodinzola obbediente e attende il suo osso.
Lo chiamano Cagastecchi, l'infame; la tonaca buttata come su un ramo secco, faccia tesa e mani strette, neanche avesse il culo pieno di chiodi. Prete, servo di un dio italiano le cui gesta sputa dal pulpito, con devozione, colpendo il vangelo con il pugno chiuso, quasi volesse piantarle nel sacro quelle parole. Spia, cane del fascio, con un collare a strozzo che indossa meglio della stola, anche nel confessionale, perché se Dio vede lo fanno anche i gendarmi. Meglio.
E' lui a fare un gesto impercettibile, un'occhiata fugace.
- Siete voi Marisa Semeria?
Annuisce, gli occhi abbassati, fissi sulla piastra d'acciaio della feldgendarmerie, lontani da quello sguardo predatore. Non è il soldato che teme, ma l'uomo.
- Conoscete Angelino Lupi?
Passati ricordi d'autunno:uva color della sera, l'odore del mosto, una carezza sul viso; promesse sussurrate tra i tini al ritmo di piedi scalzi.
- Lo conosco.
- Lo conoscete?
Donne e uomini le si fanno intorno, solo qualcuno resta indietro, laddove la paura fa breccia, più forte di quello spirito paesano che rende saldi gli uni agli altri come pietre nei muri.
- Lo conosciamo tutti qui in paese - prende coraggio una voce. - Suo padre è morto. I fratelli in guerra.
Lui si volta e la voce tace. Della Faina basta il nome per zittire molte lingue o farne parlare altrettante, e dove non è sufficiente ci sono altri modi, alla caserma giù in città.
Con noncuranza spilucca qualche oliva dalla casseruola fumante.
- Dicevamo che dunque lo conoscete?
- Ve l'ho detto.
- Tutto qui, lo conoscete e basta?
Don Franco si volta, afferra un pezzo di carne e si macchia di sugo.
Non la guarda, lo spergiuro, perso in quelle fiamme che già sente bruciare.
La Faina sputa i noccioli nel palmo. Si riempie di nuovo la bocca e sputa ancora.
- Lo capite Marisa che se sapete qualcosa dovete dirmelo? Il Lupi e i suoi compari sono nemici della patria, banditi e disertori.
A ogni gesto si succhia il dito unto, quasi fosse sporco della sua paura.
- Se sapeste dove si nasconde e me lo diceste non sarebbe un torto, anzi, fareste il vostro dovere di italiana verso lo stato e il Duce.
Vorrebbe parlare Marisa, negare ancora, ma la gola le si stringe; anche le lacrime stentano a uscire.
Non riesce a distogliere lo sguardo da quella gola pelosa che continua a deglutire.
Poi dalla folla si fa avanti zio Luciano, la roncola in pugno, e come tassi dalle tane pian piano altri lo seguono.
- A petita v'ha ditü che nun sa ren. Andaive.
La Faina tace. Osserva quei vecchi duri come scogli. La Beretta alla cintura.
Apre la mano e lascia cadere i semi tra il coniglio.
- Le avete messe troppo presto, rimarranno tutte molle.
La sua uniforme si confonde tra gli olivi mentre si allontana.
Nessuno ricomincia a cantare.

Le braccia di Angelino la stringono.
Nel tepore della sera un silenzio perfetto, rotto a tratti dallo scalpiccio dei conigli nelle gabbie.
- Non saresti dovuto venire.
Una lama di luce rischiara appena il suo volto.
- Dovevo. Su al rifugio non è rimasto più molto e Nicolino ha bisogno delle medicine.
Mentre parla le accarezza il volto, giocando con le ciocche ribelli che scappano dal fazzoletto.
L'erba fresca sparge nell'aria l'odore terroso della pioggia passata.
- E poi te l'avevo detto che sarei venuto per il tuo coniglio della festa.
- Stamattina...
Una mano le sfiora le labbra.
- Lo so, l'ha visto il Broccolo, per questo sono sceso solo. Presto sarà tutto finito Marisa, qualcosa si sta muovendo. Massabò dice che i tedeschi sono in rotta in tutta Italia, che presto si attaccherà assieme.
- E poi?
- E poi sarà la pace per tutti. Sarà la pace per noi.
Gli brillano gli occhi a quelle parole. Angelino ci crede davvero a quella libertà strappata e a quella promessa d'amore fatta a una donna, a un terra intera.
Sorride Marisa, forse per la prima volta è sicura, lo sente nel cuore come nonna Rosa sente il tempo nelle ossa. Non è la montagna a parlarle, ma la speranza; una speranza da troppo muta, per lei, per tutti.
Gli spinge il fagotto in grembo.
- Vai adesso. Vai veloce e non farti mangiare il coniglio da ü Bertin.
Lui si ferma ancora alcuni istanti a guardarla, la porta della conigliera aperta sul campo punteggiato di lucciole.
Alza il pugno al cielo terso di quella splendida estate. Le campane del vespro suonano lontano.
- ...Contro chi maledetto tradì. Partigiano di tutte le valli, pronto il mitra, le bombe e cammina; la tua patria travolta in rovina, la tua patria non deve morir.

Poi cade a terra.
Fiori vermigli come vino versato.
La Faina abbassa la pistola ancora fumante, mentre i soldati emergono dall'erba alta.
Nel chiarore della luna piena i denti aguzzi risplendono sul sorriso tirato.
Il fagotto è a terra, aperto, la ciotola del coniglio nella polvere.
- Ammazzate queste bestie e portatele in caserma. Al maresciallo faranno piacere.
Si china ad afferrare un'oliva tra le dita. La mangia così: sporca di sugo, terra e sangue.
- Troppo molle.


- - -



Neppure per un istante la sua voce si incrina.
Il volto scolpito nel dolore composto di chi ha guardato in faccia il vero orrore e ne è sopravvissuto. Anzi, lo ha portato in se per anni, sepolto così a fondo non per dimenticare, ma per poter continuare a vivere.
- Quando dopo mi prese, lì tra l'erba, vicino al suo corpo, non me ne accorsi neppure.
Ora mi guarda, occhi negli occhi; mi vergogno di quelle lacrime che le appartengono e invece bagnano il mio viso.
- Non pensavo a me e neppure ad Angiulin. Tutto quello che riuscivo a sentire erano le grida dei conigli. Era come se parlassero, se chiedessero aiuto, loro che in quella guerra non c'entravano niente
Le mie mani tremano e ora è lei a stringerle, a darmi conforto, e io mi sento piccola, meschina, per tutti i miei malcontenti e i miei problemi. Per ogni stupido risentimento.
- Cos'è successo dopo? Alla fine della guerra intendo, lo hanno preso?
- Oh si, mentre scappava in Francia. Avrebbero voluto esserci Massabò e gli altri, ma erano morti - si volta a guardare la mensola del camino. Nelle cornici di legno i giovani volti sorridenti di un'Italia che sperava. - Li ha trovati. Li ha uccisi tutti.
Come se nulla fosse si alza a togliere la casseruola dal fuoco.
- A lui non hanno fatto niente. Pochi anni di prigione e poi via. Non aveva colpa, hanno detto, perché stava seguendo gli ordini; perché se non avesse obbedito avrebbero ammazzato anche lui. Sai, magari era anche vero, ma io non ho dimenticato come ci guardava: per lui conigli lo eravamo tutti.
Rimane per alcuni istanti in silenzio, gli occhi sulla pentola.
- Da quella volta non me la sono più sentita di cucinare queste povere bestie. Ci ho provato sai, ma ogni volta mi vedevo davanti lui, con la bocca piena e le dita unte, venuto a dirmi delle olive.
Ed è come vederlo.
- Poi, proprio ieri ho saputo che è morto, qualche mese fa a Padova, in un ospizio. Allora, dopo così tanto tempo, ho preparato il coniglio, per ricordare. Per essere sicura che lui non ci fosse più.
Prende un pezzo di carne, se lo porta alla bocca, e finalmente una lacrima le attraversa il viso.
La abbraccio di slancio e la sento irrigidirsi per un attimo prima di lasciarsi andare. In quel momento capisco che quel seme, in attesa sotto la terra, è ora sbocciato, sebbene nel dolore del ricordo, in una pianta salda e forte, come gli olivi che reggono la collina.
- Domani venite qui a mangiare che vi faccio la farinata. Il coniglio si è bruciato.
Ora ho davvero trovato una famiglia.

- - -



Le campane suonano l'ultimo saluto. Così tristi. Così distanti da lei.
Il prete si avvicina al pulpito, il turibolo tra le mani. - La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce, perché noi siamo parte dell'umanità - pronuncia con voce grave. - E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
Avevo dimenticato le parole di Marisa sui conigli, sulla loro innocenza. Avevo dimenticato il senso del vero orrore.
Un poeta scrisse: «anche la bestia più feroce conosce un minimo di pietà, ma io non ne conosco, quindi non sono una bestia.»

[Autorizzo Jackie de Ripper all'eventuale pubblicazione su Skan Magazine]

Nota storica:
La Faina è ispirata alla figura di Luciano Luberti (Roma, 25 Aprile 1921 - Padova, 10 Dicembre 2002), tragicamente noto come "il boia di Albenga", responsabile dell'eccidio di più di 60 partigiani tra il 1944 e il 1945.

In Piazza dei Martiri, nella piccola frazione del Poggio di Sanremo, una lapide ricorda le giovani vittime dell'oppressione:
Domenico "Massabò" Basso, Giuseppe "Bertino" Castiglione, Giovanni "Broccolo" Ceriolo, Nicolino Poero, Angelino Lupi e altri eroi caduti per la libertà.


Edited by Sol Weintraub - 7/3/2013, 19:49
 
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anark2000
view post Posted on 7/3/2013, 19:47




SPOILER (click to view)
Questo racconto è tratto da una storia vera.


Presenze


Prologo

Quella mattina Mario era uscito sul terrazzo di camera sua per fumarsi una sigaretta in assoluto relax.
La vista dava sulla piazza centrale del suo piccolo paese sperduto tra i colli, Coldirodi, i cui abitanti passavano a malapena le tremila anime: le solite facce si presentavano fuori dai bar a giocare a carte, mentre alcuni ritardatari si accingevano a entrare in chiesa dove , a breve, si sarebbe tenuta la messa.
A un tratto, la campana iniziò a suonare a morto.
Alcune signore anziane, sedute a prendere il sole intorno alla fontana di pietra, iniziarono a chiacchierare con preoccupazione: il ragazzo non riusciva a capire bene di cosa stavano parlando, a causa della distanza, così decise di rientrare in camera sua per consultare la persona considerata una delle fonti di informazioni più ricca di Coldirodi.
- Mamma, sai chi è morto? - domandò Mario.
A voce bassa, mentre terminava di rifare il letto, lei rispose - Si, è morta Assunta: ti ricordi la nuora di Vincenzino, marito di Giuseppina, sorella della cugina di Giacomino? Me l'ha detto la Ilde, che ho incontrato andando a prendere il pane.
- Lo sai che con i nomi non ho buona memoria, sono quasi sempre in Francia, per lavoro. - spiegò per l'ennesima volta Mario. - Era malata?
- Ma si che la conoscevi: era sempre seduta lì di sotto a parlare con le amiche. Aveva un brutto male e stava in ospedale già da due mesi. - concluse la madre, prima di andare a preparare il pranzo.
Dopo un attimo di esitazione, Mario gridò - Mi stendo a dormire ancora un po', chiamami quando è pronto!
- Vedi di non disfare le lenzuola! - Urlò lei dalla cucina.
Prima di sdraiarsi sciolse la lunga coda di cavallo e i suoi capelli lisci scesero lungo le spalle.
Erano passate solo due settimane dalla morte della sua ex ragazza e sapeva che il tempo non avrebbe cambiato nulla: il ricordo di quanto successo al funerale gli avrebbe fatto visita a ogni suono di campana.


Qualche settimana prima

Lo spettacolo era appena terminato e Mario, in compagnia della sua nuova fidanzata, si accingeva a lasciare il teatro. Il pubblico aveva applaudito per quasi cinque minuti di fila, talmente era soddisfatto dall'esibizione.
- Allora, Cinzia, ti è piaciuto il musical?
- Si, tantissimo, adoro Grease! Come ballavano bene. Peccato solo che fosse in inglese, avrei voluto capire meglio i dialoghi e le canzoni.
Il ragazzo guardò in alto come se stesse cercando la soluzione di un enigma millenario.
- Ti serve solo un po' di pratica, la teoria non basta. Potresti provare a farne un po' con me, ma siccome lo parlo come un cane rischierei di peggiorarti.
Lei sospirò, rassegnata di fronte all'evidenza. - Lascia stare amore, grazie lo stesso. Se solo provo a immaginarti come professore mi viene da ridere.
- Dici così perché sono più grande o perché passiamo la maggior parte del nostro tempo a casa nel letto?
- Scemo! - esclamò lei, infine, mentre uscivano dall'edificio.
Mario sorrise, poi la sua attenzione ricadde su un oggetto all'interno della sua giacca.
- Cosa c'è? - Chiese Cinzia.
- Aspetta, avevo inserito il vibra nel cellulare: durante lo spettacolo qualcuno mi ha chiamato e vedo che mi ha lasciato un messaggio in segreteria. Il numero è sconosciuto, fammi controllare un attimo.
Il giovane ascoltò con molta attenzione la voce, mentre il viso si faceva sempre più scuro.
“Ciao Mario, sono la Rita” la voce iniziava a singhiozzare “scusa se ti disturbo, purtroppo Francesca non sta bene, oggi è stata ricoverata in ospedale e il dottore dice che il tumore ha raggiunto uno stadio critico. Vedi, quel bastardo con cui usciva da un paio d'anni l'ha lasciata e non si vuol più fare sentire. Lo so di chiederti tanto, ma potresti venire a trovarla? Non resisterà molti giorni... lei ti ha sempre voluto tanto bene... le farebbe piacere. Un abbraccio.”
Chiuse il telefonino. L'ammirazione nei confronti di quella donna cresceva sempre di più: dopo tre anni di chemioterapie e risonanze, non aveva ancora perso la forza di sostenere la figlia malata.
La voce preoccupata di Cinzia lo destò in maniera brusca dai suoi pensieri. - Allora?
Mario, con gli occhi pieni di lacrime, rispose. - Ti avevo detto che la mia ex era in cura a causa di un tumore benigno alla testa, vero?
- Si. E ricordo anche quando me la presentasti con il suo ragazzo, Stefano, al pub... era tutta contenta per come procedevano le cure. - rispose lei, portando lentamente la mano davanti la bocca. - Perché me lo chiedi?
- A quanto pare i dottori si sono sbagliati. Le restano pochi giorni di vita.
In pochi secondi era svanita l'euforia acquisita durante tutta la serata.
I due ragazzi si abbracciarono.


Il giorno dopo Mario andò a trovare Francesca all'ospedale.
Aveva provato in tutti modi a convincere i genitori ad andare con lui, ma loro, già testimoni in passato di eventi così spiacevoli, si erano rifiutati: preferivano ricordarsela bella e piena di vita.
Mario era carente in quanto a esperienza sul come comportarsi in una situazione simile; dopo un profondo respiro, aprì la porta ed entrò.
Rita era seduta a lato del letto, al suo fianco c'era la figlia più grande, Tiziana. Dopo un rapido saluto con il capo, il ragazzo si precipitò subito dall'altra parte per afferrare la mano di quella che era stata la sua ragazza per quattro anni: in quel preciso momento, lei, aprì gli occhi verde smeraldo.
- Ciao topolina. - Non aggiunse altro, per parecchi minuti.
Un grosso tubo le entrava nella bocca e non v'era modo che lei potesse rispondere. Il viso era gonfio. Lei continuava a guardarlo e a lui sembrava esser contenta di vederlo.
Tiziana ruppe il silenzio. - Grazie di essere venuto, Mario.
- Non devi ringraziarmi, avrei dovuto esserci già da molto tempo invece di fare finta di accettare che si trovasse bene con Stefano.
La ragazza strinse la mano di sua sorella minore. - No, anche se il male è stato scoperto dopo che vi siete lasciati, tu le sei rimasto vicino quanto bastava... ti sei semplicemente fatto da parte quando si è trovata un nuovo compagno. Nessuno poteva poi immaginare che quel maledetto rimanesse legato a lei solo per chiederle soldi in prestito. La sua vera natura è venuta fuori pochi giorni fa quando è sparito, abbandonandola.
Intanto, Francesca, seguiva con sguardo perso i discorsi dei due.
- A proposito, ho portato delle vecchie foto di noi due insieme, forse le farà piacere vederle. Cosa ne pensate? - disse Mario all'improvviso. - Tu cosa ne dici? Ti va? - concluse poi, con voce gradevole, girandosi verso la sua ex ragazza.
I movimenti di Francesca erano molto limitati, ma tutti, nella stanza, si accorsero di come iniziò a stringergli forte la mano, guardandolo intensamente negli occhi: era un chiaro segno di approvazione.
Non ci mise molto a passare in rassegna tutte le immagini e nonostante cercasse di farlo con cura e precisione, si rese conto che erano pochissime. Provò vergogna per non averne fatte di più.
Il tempo passava veloce, finché non giunse un'infermiera per effettuare un controllo. - Vi chiedo scusa, ma dovreste uscire tutti per una decina di minuti, sta per arrivare il dottore.
Rita, alzandosi, si rivolse alla nuova arrivata in una maniera che al ragazzo parve abituale. - Sembra che soffra parecchio, le darete di nuovo dei tranquillanti?
- Con molta probabilità si, credo che presto potrà dormire e riposare un po'. - Rispose la donna, mentre controllava il livello della flebo.
Mario si intromise nel discorso - Se è così, vorrei sapere se fosse possibile levarle per un attimo il tubo respiratorio, in modo da poterla salutare con un bacio.
- Si, fate in fretta ma non aspettatevi risposte: purtroppo i medicinali hanno fatto gonfiare la trachea e non c'è modo che riesca a comunicare con voi. - detto questo, l'infermiera iniziò a estrarlo.
Mario rimase stupito da quanto fosse lungo quell'arnese: gli sembrava impossibile respirare con qualcosa del genere infilato giù per la gola.
Terminata quell'orribile procedura, il ragazzo avvicinò le labbra a quelle di Francesca ed entrambi riuscirono a produrre uno schiocco acuto. Poi venne il turno di Tiziana e Rita.


Mario era appena uscito dalla chiesa per prendere una boccata d'aria, quando Elena lo raggiunse.
- Ti capisco cugino, anche a me fa impressione vedere, ai piedi dell'altare, l'urna con le sue ceneri e accanto la foto delle torri gemelle.
- Si: dal viaggio che abbiamo fatto a New York, quella città le era rimasta nel cuore. Avrebbe tanto voluto tornarci per studiare al Fashion Institute of Technology, peccato che non l'abbiano accettata per il suo scarso inglese. - Dopo una breve pausa, Mario si accese una sigaretta, poi continuò - Grazie per esserti presa l'impegno di accompagnare Rita in America. Ora le importa solo di esaudire l'ultimo desiderio di Francesca: spargere le sue ceneri nel mare di Manhattan.
- Ma figurati, lo sai che lo faccio con piacere. Anch'io ho dei bellissimi ricordi legati a quel periodo: tu e io a lavorare al ristorante, poi Francesca che è arrivata prima di Natale per il capodanno duemila e via! Tutti e tre a fare i turisti!
- Ricordo che il padre del tuo ex ragazzo non rimase molto contento di come lasciammo il lavoro sotto le feste.
- Si, ma alla fine ha capito la situazione ed è stato più che gentile a lasciarci divertire per un evento più unico che raro.
- Hai ragione. Comunque mi dimenticherei volentieri delle cadute fatte sulla pista di pattinaggio di Rockefeller Center, dove il mio fondo schiena è diventato blu come l'oceano. - commentò Mario.
- Che ridere però... che ci siamo fatti... aspetta un... - All'improvviso Elena si chinò leggermente toccandosi la fronte.
- Ti senti male? - chiese lui, spaventato.
La ragazza si portò entrambe le mani alla testa e chiuse gli occhi azzurri. Sembrava soffocare.
Il tutto durò pochissimi secondi. Poi tornò a calmarsi e a riprendere fiato.
- Elena?
- Elena adesso non c'è. - rispose lei. Si era appena rialzata di fronte a Mario: due grossi iridi verde smeraldo lo fissavano.
- Ma che diavolo sta succedendo... - Disse incredulo e incapace di reagire.
- Ora fai silenzio e ascolta come non hai mai fatto, perché questa possessione mi costa molta fatica e non ho tempo da sprecare in futili spiegazioni: non ti sarà facile credermi, ma sono Francesca. - la voce era proprio quella della sua ex ragazza. - Ti ringrazio per tutto il tempo che hai condiviso con me, topolino, sono stati gli anni più belli di tutta la mia vita. - sorrise. - Goditi la tua e non incolpare Cinzia per la superficialità con cui sta prendendo la situazione: è giovane e non ha esperienza. Ricordati di me e io ti resterò per sempre vicino. Ti amo.
Le campane della chiesa iniziarono a suonare per richiamare i fedeli alla cerimonia funebre e Mario si girò un momento a osservarle, con sguardo attonito; quando tornò a guardare la ragazza si accorse che i suoi occhi erano di nuovo azzurri.
- Che ridere però che ci siamo fatti... ma... che hai? Sembra tu abbia visto un fantasma... - concluse Elena.


Mario aveva appena chiuso la porta di casa e si apprestava a raggiungere il tabacchino, quando incontrò un gruppetto di ragazzini poco lontano dalla fontana. Tra di essi riconobbe suo nipote Andrea, il quale stava già venendo verso di lui.
- Ciao zio, dove te ne vai di bello?
- Ciao piccoletto, vado a fare una commissione per il nonno. Vieni con me?
- Va bene! - tutto contento, Andrea fece un gesto di saluto nei confronti dei compagni. - Dove stiamo andando?
- Al tabacchino, se vuoi ti prendo un pacchetto di caramelle. - rispose Mario, strizzando un occhio.
- Si! - esclamò il nipote. - Basta che non lo dici alla mamma, se no mi sgrida... - aggiunse poi, a bassa voce, girando lo sguardo intorno per controllare se ci fosse qualcuno che lo spiava.
- Stai tranquillo, mica sono scemo: sono io che te le compro. E se mia sorella lo scopre poi sgrida anche me. Fai attenzione tu a nasconderle bene. - lo avvertì lo zio.
Mario si accorse che quel giorno la piazza, a parte gli amici di Andrea, era stranamente deserta; lo trovava molto inconsueto in quanto, alle sei del pomeriggio, molti dei suoi compaesani prendevano l'aperitivo fuori dai bar.
- Che tranquillità oggi. Vero, Andrea? - ma dal nipote, che in quel momento passeggiava al suo fianco, non giunse risposta. - Allora, non mi hai sentito? Parlo con te, ometto.
- Ti ho sentito, topolino. - la voce del bambino, all'improvviso, si era trasformata in quella di Francesca. - Dovresti mettere la testa a posto: non solo fai vedere a tuo nipote che ti compri le sigarette, nonostante lui sappia che tuo padre non fuma, ma gli insegni anche a raccontare le bugie alla mamma... cattivo Mario! - lo rimproverò lei.
- Che hai detto? - balbettò lui, incredulo.
- Farò attenzione, zio. - disse Andrea, tornato normale. - Te lo prometto.


Epilogo

Quella sera faceva veramente caldo e Mario non riusciva a dormire bene, così decise di uscire sul terrazzo per godersi almeno una buona sigaretta.
Il cielo era chiaro, l'alba si stava avvicinando e qualcuno era già in piazza: lo spazzino intento a pulire con la sua scopa di saggina, provocando quel fastidioso rumore che gli ricordava i suoi primi anni di lavoro nelle cucine; la ragazza del bar di fronte che preparava i tavoli e le sedie nel dehors, mentre inveiva contro lo spazzino accusandolo di aver lasciato sporco in quella zona; due persone, di cui non ricordava il nome, in tenuta da muratore che si avviavano verso il tabacchino.
Si accorse dell'arrivo di sua madre solo quando la vide al suo fianco.
- Oggi non lavori, come mai già in piedi? - chiese lei, che poi non era lei.
- C'è troppa umidità, topolina, è tutta la notte che sono sveglio.
- Dai, vedrai che tra poco ci riuscirai. E poi puoi restare nel letto fino a mezzogiorno.
Mario fece un lungo tiro con la sigaretta e trattenne qualche secondo l'aria; soffiò via il fumo verso le stelle ancora visibili.
- Potresti evitare di palesarti nel corpo di mia mamma? Mi fa davvero strano, sai?
La signora si appoggiò al davanzale, guardò su nel cielo, e disse. - Lo sai che posso venire a trovarti solo usando il sangue del tuo sangue, per quanto esso sia presente anche in piccola quantità. Vuoi forse che usi di nuovo tuo padre?
- No, grazie. La tua voce non gli dona proprio. - commentò lui. - Piuttosto, non credi che sia arrivato il momento di andare per la tua strada? Ormai è passato un anno.
- Perché? Non sei felice di poter continuare a parlare con me? - domandò lei, mentre il viso si faceva triste.
- Da un lato lo sono, ma dall'altro mi chiedo come posso riuscire a godermi la vita: sei stata te a dirmi di farlo, la prima volta che ti sei fatta... viva. - sentenziò Mario, con un mezzo sorriso.
- Hai ragione anche te, ma poi ho iniziato a prenderci gusto. Facciamo così: tu mostrami di essere maturato e di aver messo la testa a posto e io me ne andrò via. Basta amanti, basta alcol e basta sigarette.
Il ragazzo si fermò a riflette per qualche secondo, prima di darle una risposta. - Ti ho già chiesto scusa parecchie volte, mi sembra, per averti tradito qualche volta nel periodo in cui stavamo insieme.
- Non è sufficiente. Mi dispiace molto per Cinzia e vorrei che smettessi di approfittare della sua fiducia. In lei rivedo il tradimento che ho subito anch'io, il motivo per cui ti ho lasciato, e se continui ancora la storia si ripeterà.
- Ci proverò.
- Ci dovrai riuscire. E dovrai persistere, oppure io ritornerò.
I due restarono in silenzio per qualche minuto a contemplare le stelle che svanivano nelle prime luci dell'alba, finché la campana della chiesa non suonò a morto.
La donna guardò Mario, gli occhi verde smeraldo più intensi che mai, e concluse. - Chissà a chi la dedica questa, il parroco. Quasi quasi vado a controllare.
Lui si girò e, con asprezza, rispose. - La morte di qualsiasi uomo ci sminuisce, perché noi siamo parte dell'umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
Sull'ultimo rintocco, sua madre tornò cosciente. - Vado a mettere su il caffè, vuoi far colazione, Mario?


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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view post Posted on 7/3/2013, 20:37
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Manca un solo racconto e la gara sarà valida. Chi si farà avanti? <_<
 
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Nozomi 2.0
view post Posted on 7/3/2013, 21:31




Calma, calma, prendo in mano io la situazione!

CITAZIONE
Secondo me avresti bisogno di un bel weekend a Montecarlo, fidati: fa miracoli!

In genere sono io che faccio miracoli :lol:

TRE E TRE QUARTI

Da giovane non conoscevo il gusto della malinconia
Allora mi piaceva salire in soffitta
E salita in soffitta,
cercavo di essere malinconica...
Or la malinconia, oh! Adesso la conosco a fondo!
Vorrei parlarne - ed esito...vorrei parlarne - ed esito...
Mi contento solo di dire:
"Oh, com'è bello questo fresco autunno!"

Come la madeleine per Proust furono per me i rintocchi della campana dell’orologio. Din Din Din don don don. Come avevo potuto dimenticarlo? Le tre e tre quarti. Diciassette Luglio. Trent’anni dopo. Quei rintocchi così simili a quelli della campana a morto. Forse non è stato un caso.
La soffitta e la casa dei nonni a ***, troppe volte sognata, mai veri incubi, mai nostalgia, solo inquietudine per lo più, e tu che in quei sogni non c’eri mai.
E nell’aria di quella soffitta l’odore di caldo, come allora, come allora la polvere, che sapeva di legno, di chiuso, di vecchio e di un altro certo “non so che”, un “non so che” che non riuscivo a definire.
Mi sedetti, cercando di focalizzare, giocando al tempo stesso con i raggi di luce che filtravano dalle tegole del tetto, dove minuscoli granelli di polvere si rincorrevano nel loro tipico moto browniano.
Già. Che odore? Poi, le immagini di noi due in soffitta, i nostri gomiti sudati che si toccavano. Trent’anni prima.
L’odore, l’odore era solo quello del tempo. Il “non so che” era il tempo.
Cosa eravamo io e te, noi per noi, è facile dirlo. Cugini, certo, è palese, questo lo dice il DNA, ma anche preadolescenti undicenni di sessi opposti, ancora troppo impuberi affinché i nostri genitori, o i nostri nonni, pensassero a male nel lasciarci giocare da soli.
Che cosa saremmo potuti essere, dopo, non lo saprò mai.
Tu eri un ragazzo magro, con una frangetta nera, la cosa più carina che ricordo di te oltre al viso, gli occhi celesti e quelle tue ossa della colonna vertebrale che si tendevano sotto la pelle mentre salivi a torso nudo, tu che potevi, i gradini della casa dei nonni, a due a due.
Ed io che ti seguivo, bambina maschia, ribelle e anticonformista fin dall’allora, anche se con una ridicola gonna gialla, germe di quello che sarei diventata e di quello che sarei potuta diventare.
I nostri giochi erano là, dentro quei tre piani, quelle stanze vecchie, vuote, minimaliste, inquietanti, con cassetti da aprire e santini nei sottofondi da scoprire come mappe di un tesoro, lasciati ivi dai nostri avi, che avevamo in comune, chi lo perché e chi lo sa quando.
La “roba”, già, la tendenza dei nostri vecchi ad accumulare, retaggio del senso di ricchezza di una volta. E noi, esploratori della “roba”, spesso anche “roba” sudicia, ma comunque ogni bottone era un tesoro e ogni dado d’ottone era un doblone.
C’era qualcosa tra noi, è impossibile negarlo. Che sentimenti fossero i nostri è difficile dire. Truffaut diceva che gli adolescenti lo affascinavano perché ogni cosa che facevano la facevano per la prima volta.
Già, come noi, quella volta in soffitta.
Ero un maschiaccio, trent’anni prima, certo, ma senza di te, da sola, in soffitta non ci sarei mai entrata. Quel luogo mi metteva molta paura. Di notte, come di giorno. Il solo vedere quella porta grigia, con la grossa chiave nera, mi terrorizzava. Troppo buio quel luogo fatto di legno, dalle assi dure, le due rampette di scale e quelle tegole, nel soppalco, che scendevano giù a quarantacinque gradi, costringendoci ad abbassarci via via che avanzavamo. E, poi, quelle volte inquietanti, anch’esse buie, dove la suggestione mi faceva vedere sempre qualcosa che si muoveva, sistematicamente un fantasma. Ma con te, in soffitta, ci salivo volentieri. Oh, con te quel luogo, inquietante e buio, sembrava complice di un qualcosa che non potevo, che non potevamo ancora capire, ma che sapevo, che sapevamo, essere magico.
Quel giorno ci avventurammo lì, come esploratori, per l’ennesima volta, un primo pomeriggio, le tre e tre quarti, come la campana a morto, e tu mi prendesti improvvisamente la mano, prima dell’ultimo tratto, quello più buio, subito dopo la rampetta, là, ove ai lati del muro erano attaccate grosse pentole in rame dall’uso culinario sconosciuto.
In un lato m’indicasti un cestino dove avevi trovato dei gusci di lumache quasi vi fosse nascosto un cobra reale.
Ed io, quando ancora avevi il dito puntato, lo feci.
Forse fu il movimento del mento, o del collo. O i tuoi occhi. Ma provai per la prima volta, in vita mia, un desiderio sessuale. Un desiderio sessuale grezzo, certo, ancora non definito, forse più mentale che fisico. Ne sono certa, oggi, anche se non potevo esserne certa allora. Fatto sta che ti baciai. Allungai la testa, ero mezza spanna più bassa di te, e ti baciai. Oh, non fu certo un bacio passionale, come quello dei film! Fu un semplice bacio sulle labbra, appena un qualcosa di umido, senza lingua.
Ma il tempo si fermò. Si fermò tutto, compreso il battito del mio cuore. Rimanemmo, una volta staccati, dopo un milione di anni, a fissarci come due stupidi mentre il legno della soffitta schioccava, inquietante, sotto l’azione della variazione della temperatura, quasi avesse commentato quel gesto.
Fu il mio primo bacio. Forse fu il tuo primo bacio.
Fu il nostro ultimo bacio.
Perché il giorno dopo, mentre io ero in campagna con papà, tu rincorrevi un pallone con degli amici, sotto le mura, e un’auto t’investì.
Trent’anni. Il mio primo bacio e quei tuoi occhi, che mi fissarono a lungo senza dirmi niente.
E tu che dicesti qualcosa.
Perché non ricordo quello che mi dicesti?
Le tre e tre quarti. Come le campane a morto.
Diceva Hemingway che la morte di qualsiasi uomo ci sminuisce perché noi siamo parte dell’umanità (“non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”).
Quella campana, oggi come allora, non ha mai smesso di suonare nel mio cuore.


Autorizzo JDR a pubblicare il mio racconto, se selezionato, su Skan Magazine

Edited by Nozomi 2.0 - 7/3/2013, 21:49
 
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