| Ho scritto un pezzo molto splatter e psichedelico. Non è il mio genere ma tant'è. Non è adatto ai minori, avverto.
NOZZGORE
- Chiamatemi stronzo: non ho capito un cazzo. Il Boss si tirò indietro sullo schienale della sedia portando gli stivali sulla scrivania facendo cadere, nel movimento, il ritratto in 3D di Miss Poppe di Finlandia 2003, che non si prese nemmeno la briga di raccogliere. Poi ci fissò con fare da finto ingenuo attraverso la coltre di fumo generata da cancerose sigarette francesi arricchite da THC. “Sei davvero uno stronzo”, pensai ricambiando lo sguardo. Le molecole di acido che mi galoppavano nel sangue come tanti Buffalo Bill esaltavano i bordi dell’immagine quasi fosse un cartone animato prima della singolarità tecnologica. I peli sul suo torace, nudo e villoso, si muovevano come tanti piccoli vermi adescanti, ognuno dotato di vita propria. - Eppure è semplice, Boss - fece Vassilis, biascicando le parole, quasi tirandosele dietro come un sacco di merda. – Dentro la Zona X c’è qualcosa, qualcosa che fa come delle urla. Urla terribili. Il Boss inarcò un sopracciglio smettendo per un istante di dondolarsi, tossì e cercò di afferrare il concetto quasi fosse una mosca appena decollata da una merda. Poi si accorse del ritratto di Miss Poppe Finlandesi, a terra. Lo raccolse con una manovra da yoga, e lo baciò con tenerezza, prima una tetta poi l’altra. - Una così me la sono fatta, una volta. – Sorrise. Poi tornò a bomba. – Urla dalla Zona X. - Ripeté come stesse commentando una frase di una poesia che gli era piaciuta. Scoppiò a ridere, la poesia aveva qualcosa di sarcastico tra le righe. - Già, proprio così. Come delle grida, ma non sono solo delle grida. Fanno ribrezzo, Boss, le abbiamo sentite… E come! Tutti e due. - Rispose Vassilis, annuendo, fissandomi e cercando conforto. Sembrava fiero del proprio lavoro, il greco, riferire il problema, questo lui doveva fare e lui l'aveva fatto, vaffanculo a tutto il resto. Io non sapevo se ridere o dare giù di nervi. Ero stanca, purtroppo ancora abbastanza lucida, anche se l’acido con cui il mio cervello aveva stabilito una tregua mi teneva sotto briglia le tossine dei muscoli. Volevo solo tornare nella mia stanza a sbronzarmi con del rum e drogarmi ancora. Magari aggiungendovi una scopata a valle, per finire in bellezza. Non sarebbe stato difficile. Sulla nave c’era poco da scegliere, eravamo in cinque, tre uomini e due donne, e me li ero fatti tutti, compresa la donna. Nei momenti in cui mi sentivo sola e fatta non avrei distinto il corpo di un uomo, o di una donna, da un casco di banane. Quello che importava era avere, in quei momenti, qualcuno da stringere, da far finta di amare, perché il nostro lavoro era una merda, l’oceano era immenso e ti sentivi troppo uno bello zero tondo. Questo pensavo quando il Boss giocava a rimpiattino con le nostre problematiche, scivolandoci sopra come un surfista sulle rive australiane. Il grande capo spense la sigaretta a terra e sorrise. Poi se ne accese subito un’altra, ovviamente anch’essa taroccata con il THC. Ma non subito, rollandola prima con arte, con gesti calmi e calcolati. La rollava lentamente, piano piano, facendomi venire una voglia così, m’ingrossava la clitoride a vederglielo fare, sbavavo come una scimmia, mi sarei fumata pure il suo cazzo per un tiro di fumo. Fissò, intanto che rollava, Vassilis come se avesse intenzione di continuare a lungo quella manfrina. Il Boss era fatto così, amava il dialogo fine a se stesso, non tanto i contenuti. Dei contenuti se ne fotteva, lo conoscevo fin troppo bene. Una volta, in un altro dei nostri imbarchi del cazzo, nel 2000 o giù di lì, si era messo a parlare di figa quando i proiettili dei pirati malesi ci arrivavano a sfiorare il buco del culo, giù all'equatore, al largo della città aperta di Singapore. Per lui era importante più di tutto la forma. Era come un altro modo di tessere tossicodipendenza. Sbuffai e tentai di afferrare una grossa mosca con delle ali rosa appena apparsa nella stanza. Lui si accorse del mio gesto mentre leccava la canna, ma fece finta di niente. - E che cosa sarebbero mai questi rumori strani? – Disse, rivolgendosi a me, come se Vassilis non avesse più capitolo in merito. Il Boss considerava Vassilis meno di un piccolo pezzo di merda secca, un idiota supremo, persino in quei rari momenti in cui non era fatto. Non lo faceva per odio, per disprezzo, nessuno odiava nessuno in quella fottuta nave, eravamo comunardi, fratelli e sorelle, figli dell'Europa socialista, ma per convinzione, mera e pura convinzione. Era come dire uno più uno vale due, una cosa così. E di certo, non potevo che essere d’accordo con lui. Invece, sapevo che mi apprezzava, non tanto per il mio cervello, quanto perché gliel’avevo data in più di occasione, gratis, l’ultima volta due giorni prima, appena salpati da Mogadiscio, scortati dalle corvette confederali. - Boss, - dissi – forse ti sei perso il nocciolo della questione. Queste urla, come t’ha detto Vassilis, vengono dall’interno della Zona X… - Di nuovo fui distratta dalla mosca dalle ali rosa. Faceva strani disegni nell’aria lasciando strisce luminescenti, come quando si agita una piccola lampadina in aria al buio. Il Boss annuì. - Chiaro. Chiaro. Sei stata chiara. – Ammise, puntandomi contro l’indice. – E nella Zona X non si può entrare… Un bel rompicapo. - Ebbe un momento di esitazione e strabuzzò gli occhi. – O no? - No, non si può entrare, Boss. Queste sono le regole d’ingaggio. – Convenni. Mi sentivo come se il mio corpo stesse diventando troppo grande e l’ambiente dove mi trovavo troppo piccolo. La mosca ingigantiva e sembrava stesse preparandosi a piombare addosso alla testa del boss per divorarne il contenuto. Quando stavo per avvertirlo del rischio, Vassilis mi scosse con una manata. - No! Non si può entrare! Cazzo, è proibito! Ma dentro c’è qualche cazzo che si muove e urla! Questo è il punto! Non è strano? – Era contento perché aveva riattizzato il problema come brace in un focolare, un altro passo verso la chiarezza della definizione. Noi tutti eravamo ottimi segnalatori di problemi, non risolutori di problemi. Amavamo, in fondo, far bene e a pieno il nostro lavoro, in una nave totalmente automatizzata di quasi un chilometro di lunghezza. Il Boss si grattò la testa con fare pensieroso, fissando il greco come fosse un attaccapanni. Poi di nuovo posò lo sguardo su di me e sulle mie tette. Mi ricordai in quel momento che non portavo un reggiseno da due mesi e che dovevo trovarmi in pieno premestruo. - Beh, statemi a sentire. Volete che vi dica il mio parere? Ve lo dico. Fatevi i cazzi vostri e tornate al vostro lavoro. - I cazzi nostri, Boss? Ma nella stiva ci scendiamo sempre, ogni sei ore… E sentire quelle urla…Ecco, è brutto! – Fece il greco. Ora la mosca si era trasformata in una sorta di Campanellino, quella di Topolino, ovviamente zoccola, nuda e lesbica, che mi ammiccava con fare sensuale. - Cerca di essere propositivo, che cazzo! – Fece il Boss, rivolgendosi al greco. Niente lo faceva incazzare come metterlo agli angoli in questioni pseudosindacali o costringerlo a focalizzare il pensiero su un problema specifico. Lui preferiva sorvolare. Vassilis chiese scusa, non aveva certo un carattere competitivo, e abbassò la testa, cercando di capire dove avesse fallito. Poi il Boss si ravvivò, fu preso da altri pensieri, e chiese. - Guzman e la Petersen, dove stanno? - A scopare. – Feci. – Perché? Il Boss mi fissò come l’avessi preso di sorpresa. Si aspettava, forse, che gli avrei detto “non lo so”. - No, niente. Devo essere informato di tutto, io… - Poi si guardò attorno con aria spaesata, si alzò, fece un giro su se stesso e si rimise a sedere. Fissai nella manovra, il petto villoso e piatto. I suoi peli si erano agitati come una foresta nel vento. D’un tratto sentii che si alzava, appunto, il vento nella stanza, un tornado, eppure tutto era immobile, compreso Campanellino, la zoccola ex mosca dalle ali rosa. - Ora andate, figlioli… e ricordatevi… - Ma non concluse la frase. Fissai i suoi occhi annacquati e annebbiati. Era evidente che oltre al THC circolasse nel suo sangue ben altro. Ne sentivo il ritmo, era come se le nostre molecole malsane pulsassero e generassero circuiti di mutua induzione. Chi è tossico comunica con il suo simile in modo quasi telepatico. Appena usciti, Vassilis mi prese per la mano e mi disse: - Senti un po’, ma dobbiamo per davvero fare gli gnorri? Me lo fissai e gli risposi. - Io voglio andare a vedere che cazzo c’è là dentro. Ci vado ora, e tu vieni con me. Vassilis strabuzzò gli occhi e annuì. Qualcosa non gli tornava. Però aveva l’abitudine di obbedire. Sempre. Ecco perché era un ottimo marittimo della compagnia. Pensai, per conto mio, che il mio primo e unico pensiero razionale della giornata fosse l’analogo di un aver appena scelto la direzione sbagliata dopo aver passato un bivio.
2. Io e Vassilis, e anche Guzman e Petersen, che si erano uniti all’avventura, uno accanto all’altra, uno più fatto dell’altra, uno più balordo dell’altra, senza speranze, sogni, niente. Oltre a noi, attorno a noi, un ammasso di ferraglia lungo un chilometro, l’ultima frontiera del trasporto marittimo, orgoglio di quell’accozzaglia ipocrita di nazioni interagenti chiamata Stati Uniti Socialisti Democratici d’Europa, faro di perbenismo decadente in un mondo cibernetico devastato da guerre e carestie. E poi, ancora, la stiva, piena di oggetti metafisici, isocontainer sigillati dagli ignoti contenuti, presi e ceduti, ceduti e presi, da e per l'Africa, l'Asia, l'America, meraviglie ambite da un popolo dedito all’onanismo cerebrale, perle colorate per altri popoli, disperati, il vero motore silenzioso e affamato del mondo. E poi, ancora, la Zona X, l’inaccessibile, Ultima Thule Zona X e dentro di essa, il vaso di Pandora invalicabile che avevo appena de-sigillato con la mia consueta temerarietà. - Posso dirti una cosa? – Mi fece Petersen con la sua caratteristica voce nasale con la quale le parole in inglese gli uscivano appena velate da un accento groenlandese. – Credo proprio abbiamo puntato i nostri culi sullo zero della roulette. - Che bella immagine, - dissi immaginandomi la scena. Fissai prima Guzman, dagli occhi vacui desiderosi di ogni tipo di droghe e lussuria, poi la porta in cui, in sei lingue standard erano indicati i simboli internazionali fluorescenti di divieto d’accesso accanto alla bandiera blu e la corona di stelle gialle della confederazione. Dietro la porta delle urla. Continue. Umane e disumane al tempo stesso. Come un richiamo ancestrale. Era stato Vassilis ad accorgersene durante il turno d’ispezione notturno. Qualcosa dentro di me si smosse. - Fan culo. – Feci, grattandomi il mento. – Tanto l’ho preso in culo spesso, metaforicamente e non. Una in più, che vuoi che sia. Entro. Mi prendo io la responsabilità. Voi state qui. Vassilis fece uno strano verso arricciando le labbra. Non riuscii a interpretarlo. Aprii la porta ed entrai, richiudendola subito dietro di me.
3. Una luce azzurra, diffusa, proveniente da lampade al cobalto. Attorno a me, come dei tavoli, dietro delle teche in vetro di due metri per due. Centinaia, forse migliaia. E dietro di esse, esseri con degli organi fuori dal corpo, alimentati da insalubri macchinari pompanti liquidi di ogni colore. Questo c’era dietro la porta. Un orrore inesplicabile, ancestrale, viscerale. - Ma che cazzo… - Mormorai, affascinata. Mi avvicinai al primo tavolo, quello più vicino a me. C’era un uomo di colore. O meglio, una parodia di un uomo di colore. Gli organi erano stati estratti e spostati all’esterno, pur restando attaccati al corpo con delle appendici organiche, forse vasi sanguigni e muscoli artificiali, avvolti in un viscido liquido melenso e apparentemente nauseabondo, che gocciava e sgocciolava. Un fegato, dei reni, il cuore, i polmoni, l’intestino srotolato per metà, mezzo dentro e mezzo fuori. E poi, gli occhi e il cervello. La testa, aperta in due, si muoveva come un diapason, da destra a sinistra e da sinistra a destra, comandata da quel cervello esterno, assurdo, assieme alla lingua, che circoscriveva degli strani giri attorno alla bocca divaricata, senza denti. Avanzai ancora, con le lacrime agli occhi, cercando di lottare contro l’orrore, appena mitigato dalle droghe che avevo in circolo. Mi chiesi, in un anelito di lucidità, cosa avessi fatto, come mi sarei comportata, se solo fossi stata appena un po' più sobria. Percorsi alcune decine di metri, fissando le teche. Uomini, donne, centinaia. Fegati, reni, milze, pancreas, cervelli, cuori, occhi. Uomini e donne vivi, aperti come dei libri, esposti come un orribile gioco di prestigio anatomico. Era troppo. Mi girai per tornare indietro, quando un urlo scoppiò alle mie spalle. Un essere avanzava verso di me, apparso dal nulla, trascinandosi dietro i suoi organi, portandosi tra le mani il suo cervello, come fosse un mazzo di fiori. Era collegato a una serie di protuberanze oscene, organiche, che lo seguivano passo passo, senza staccarsi da lui, allungandosi fino a una teca di vetro rotta, sporca di sangue e di uno strano muco, per metà verde e per metà giallo. E l'essere urlava. E le urla erano deformate da corde vocali esposte, che vibravano come vermi impazziti. Non potevo muovermi, ero letteralmente terrorizzata dall’orrore. L’essere avanzava verso di me, lentamente. Notai che i suoi due occhi, posti a decine di centimetri dalla sua testa, tenuti appesi dai muscoli oculari, mi fissavano con odio. Il suo cervello verdognolo, appoggiato in una sorta di busta organica a una spalla, quasi pulsava, come se potesse avvertire la mia presenza senza l’ausilio di altri sensi. Qualsiasi cosa fosse diventato, quell’uomo, ammesso fosse un uomo ora, aveva solo uno scopo. Dilaniarmi, uccidermi. Lo sentivo. Non solo. Forse voleva fami diventare come lui. Ne ebbi la certezza. Terrorizzata, umiliata nella mia stessa umanità, dalla mia normalità, rimasi paralizzata, inconsciamente affascinata da quell’orrore, desiderosa di farne parte. L’orrore, nella sua perfezione, aveva raggiunto vertici sublimi ed io ne ero caduta vittima, inghiottita come in una voragine vorticosa. Una parte di me voleva fossi posseduta da quell’essere, soffocata da quegli organi esposti. Volevo essere smembrata, sezionata, l'essere uccisa o divorata non mi sarebbe bastato. Volevo diventare il mio orrore. Quando l’essere stava per toccarmi, avvertii un rumore di tuono. Uno sparo. Fu come risvegliarmi. Urlai con tutte le mie forze nel vedere il cervello dell’essere spappolarsi, le gambe, con le arterie femorali fuori dal corpo, afflosciarsi su se stesse come reperti anatomici esausti. Mi voltai. Il Boss aveva il fucile sulla spalla, canna in aria, una sigaretta in bocca e mi guardava con aria paterna. - Non ti avevo detto di lasciar perdere? Sei proprio una pompinara del cazzo. – Disse, mentre cadevo ai suoi piedi, vomitando. Finalmente vomitando.
4. Dopo molte ore, osai tornare dal Boss. Era solo. Gli altri si erano defilati, rifugiati nei loro paradisi artificiali per non contemplare l’esistenza dell’orrore. Rollava una canna con il suo solito fare. Non mi aveva detto niente fino a quel momento, non una parola. Niente. Quando mi vide entrare, mi fissò solo per un attimo, poi tornò a rollare la canna. Mi sedetti, feci il vuoto dentro di me, sospirai e dopo diversi minuti gli chiesi. - Ma che cazzo stiamo trasportando su questa nave, Boss? Che stiamo facendo? Lui mi fissò a lungo. Capii che in quei pochi istanti era stato sobrio. Maledettamente sobrio. Avrebbe voluto dirmi tante cose. Troppe. Proprio per questo, indicò del rum sul tavolo accanto e rispose: - Fatti i cazzi tuoi, ti ho detto. E passami quella bottiglia. Ci ubriacammo. Ci drogammo. Facemmo l’amore. E dimenticammo.
Autorizzo JDR, in caso di selezione, a pubblicare il racconto su edizioni LTN
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