| La cosa sul tavolo Di Alexandra La striscia di grasso sulla sabbia bianca colpì Schutzmann come uno schiaffo. Era ancora mezzo assonnato, visto che il cambiamento di atmosfera era ancora fresco. Magari si fosse trattato di jet-lag e quella fosse stata la Terra. Si grattò la testa. Non sapeva cosa fare, chi chiamare nella baracca di lamiera dietro di sé. Corse alla rastrelliera dei velocipedi a energia atomica e si rese conto che ne mancava uno, il migliore, quello che aveva ancora la pila carica. E anche il pacco con la medicina per Grünnefee, l’amico che avevano raccolto dalla caverna del deserto. Lui non era come Linjo e la Caboto. Aveva ancora un brandello di umanità. L’idea di cedere una parte della carne sintetica per avere l’unguento che avrebbe rianimato il poveretto era stata sua. Si era fatto mandare il farmaco attraverso la Porta Baratto, un congegno che gli ricordava il vecchiume chiamato scanner. Ricordare le anticaglie rimaste sulla Terra era il suo modo per evitare di pensare al disastro: e se quel tizio fosse morto? Lui lo vedeva come un essere umano, per quanto somigliante alle false sirene sul poster digitale che aveva appeso al suo armadietto regolamentare il primo giorno del suo arrivo su Abynthia. Alto un metro e mezzo, con la pelle dorata chiazzata di verde e ricoperta di squame biancastre che ricordavano quelle della psoriasi, era in stato catatonico. Non occupava molto spazio sul tavolaccio di acciaio lucido accanto al quale c’era la scatola bianca della Porta Baratto con le sue lucine viola perennemente su ON. Linjo, che lo aveva ritrovato per primo nella caverna, alle prime avvisaglie del malessere di quella povera creatura, l’ aveva ribattezzata subito: ”la cosa sul tavolo”, tanto gli pareva ripugnante, anche troppo per un alieno di Abynthia, il pianeta che la Comunità Scientifica Interplanetaria aveva cominciato a considerare una Grande Galleria delle Curiosità. Non era rimasta quasi più nessuna creatura bizzarra da portare via. La spedizione precedente aveva fatto il vuoto nelle montagne crivellate di caverne dove quegli esseri vivevano. Sembrava fosse andato tutto bene, all’inizio. Certo, non tutti gli esemplari erano sopravvissuti, una volta arrivati nei laboratori terrestri. Molti sì, però, trasformando un’intera ala della Comunità Scientifica in un angolo dove lo zoo mitologico più perturbante che si fosse mai visto viveva, anche se maluccio. Ines Caboto lo aveva sempre detto: gli esseri umani si sarebbero dovuti limitare a studiare le creature di Abynthia nel loro habitat. Forse sarebbe stato più facile fare amicizia con esse. Avevano una loro civiltà. Non erano forse loro, i magnifici altorilievi che mostravano scene di viaggi attraverso foreste di piante scarlatte dalle foglie simili a piccole mani di scimmia e giungle intricate con alberi simili a grattacieli di legno, dove creature antropomorfe vivevano in pace? Erano opere molto antiche, tutte da studiare. Un tempo il pianeta era stato coperto di vegetazione, passando poi allo stato desertico. Come mai? Forse le creature avrebbero potuto chiarirne il motivo. Certo, da quando su di esso la Commissione Per lo Studio delle Fonti di Energia Alternativa aveva trovato una specie di uranio simile a quello terrestre, nessuno aveva più pensato ad altro che ai giacimenti da ricavarne per la Terra. Sempre la stessa storia, pensò Schutzmann. Lui era d’accordo con la Caboto, ma non aveva potuto fare niente per fermare il programma per la deportazione di quelle povere creature. L’alternativa sarebbe stata quella di abbatterle subito come cagnacci idrofobi, invece che come gli esseri eterei che avevano attorniato ridendo quelli della spedizione precedente il giorno dell’arrivo. Era difficile capire che aspetto avessero. I colleghi venuti prima di loro non erano riusciti a mettersi d’accordo: chi aveva parlato di creature angeliche, chi di personaggi simili a quelli delle miniature persiane medioevali per arrivare agli spiritelli delle acque che lambivano i fiordi norvegesi. Quasi avessero voluto adattarsi agli occhi degli osservatori per compiacerli. Erano dunque brutti come l’essere immobile sul tavolo? Mentre stava ancora riflettendo, la porta della baracca si aprì dietro di lui. Era la Caboto. - Dov’è Linjo?- gli domandò. - Sparito- disse lui –deve essersi diretto al quartiere del giacimento principale. Gli ho detto di non farlo, invece. Schutzmann si mise le mani fra i riccioli biondo pallido:- Lo sapevo che non sarebbe bastato il Codice di Blocco. Ha guastato una parte della centralina di avvio ma è riuscito ad andarsene lo stesso. Che sfortuna che non si sia rotto anche il resto. La Caboto sapeva cosa c’era sul velocipede: anche la loro acqua e le tavolette sintetiche in caso di esaurimento delle scorte normali. C’erano delle piante tonde nel deserto, simili a grosse ciambelle spinose, ma non nutrivano a lungo. Ci si poteva sopravvivere per un po’, ma poi l’organismo si disintossicava. Lo aveva detto Herrera, il capo della spedizione precedente, minimizzandone gli effetti. Era quello il dettaglio che li aveva rassicurati. Anche in caso di scarsità di cibo e acqua terrestri, si poteva sopravvivere su Abynthia. Sarebbe stato uno scherzo fare un’ultima ricognizione per vedere se i colleghi si erano dimenticati di qualche creatura. La donna si chinò sulla scia di grasso e ci mise un dito, poi l’annusò:- Sapevo che sarebbe successo. Così ho manomesso il velocipede. Vedrai che lo lascerà a piedi vicino alla caverna dove ha trovato il nostro ospite. Schutzmann alzò un sopracciglio:- Da dove hai preso tanto rispetto? Non è la cosa sul tavolo anche per te? Ines lo prese per mano:- Vieni a vedere tu stesso. L’essere che aveva detto alla Caboto di chiamarsi Grünnenfee prima di scivolare nel sonno catatonico, si era risvegliato subito dopo la fuga di Linjo. Quando Schutzmann e Ines erano entrati si era raggomitolato sul tavolo e ci era rimasto. A vederlo così, sembrava avesse soltanto cambiato posizione nel sonno, ma quando la donna gli si avvicinò, fece alcuni gesti nell’antichissimo linguaggio dei sordomuti.
Lo stesso che gli scimpanzé terrestri usavano per comunicare con gli antropologi. La Caboto gli rispose frenetica, sapendo cosa stava per accadere. Stavano per perdere l’ultima delle creature intelligenti del pianeta. Era il bruttone del gruppo, per questo era rimasto nascosto nella caverna, ma aveva anche imparato subito a comunicare con lei, più in fretta degli altri che lo avevano preceduto. Poi si voltò. I suoi singhiozzi, benché attutiti, erano molto chiari. Schutzmann maledisse se stesso per non avere imparato quel linguaggio con la stessa bravura della collega. Non riusciva a capire tutto quello che Grünnenfee voleva dirgli, ma ne ebbe abbastanza. Ines aveva i nervi a pezzi. La lasciò disperarsi piano nell’angolo, con la schiena voltata, prima di usare la Porta del Baratto per inviare la richiesta di aiuto alla Terra. Scrisse che la missione era fallita e Linjo era morto. Non era così? Il segnale arrivò in ritardo. Erano stati scalognati con la nuova versione dell’UltraSoftware. Sulla Terra lo avrebbero ricevuto quando lui e Ines sarebbero stati indeboliti dalla dieta a base di Piante Ciambella. La Caboto si voltò, in tempo per assistere all’agonia di Grünnenfee. La faccia verdastra risplendette di un’espressione serena. Sembrava quella di un bambino che si addormenta la sera del compleanno. - Ti ha parlato?- domandò la donna a Schutzmann. L’uomo le cinse le spalle:- No, Ines. Andiamo fuori, i soccorsi arriveranno presto, per noi. Tenne per sé il segreto tutta la vita. L’essere che avevano trovato nella caverna non era sempre stato così: era stata la vista di Linjo a renderlo così. Glielo aveva detto chiaramente prima di morire :”Noi…siamo evoluti…possiamo leggervi dentro….come specchi… rimandarvi l’immagine delle vostre…anime”. Quando non aveva più potuto muoversi, aveva usato la telepatia: Linjo era corrotto e amava l’assenzio. Se non fosse morto avrebbe venduto il medicamento e le razioni di acqua e di cibo dei compagni per poterne avere dell’altro. Grünnenfee non era il vero nome dell’essere dalla pelle macchiata, ma la parola storpiata del pensiero ossessivo di Linjo: die Grüne Fee, la stessa parola della scritta in vernice bianca sulla bottiglia che si era portato dietro dalla prima visita al giacimento di uranio e che era nascosta sotto il corpo della creatura aliena. Così Linjo l’aveva resa catatonica, vista la fragilità di un organismo tanto sofisticato: le tossine dell’alcool le erano passate attraverso il vetro, uccidendola poco a poco per impedirle di avvertire i suoi nuovi amici sul rischio che stavano correndo. - Vorrei tornare dentro- gli disse la donna –per seppellirlo. - No- Schutzmann la trattenne –taci, o perderai le forze. Rimasero così, in attesa, mentre il caldo si attenuava nella notte di Abynthia e la loro paura cresceva. No, non era quella di morire fra le piante tonde, ma quella degli esseri umani come loro. Avevano perso qualcosa nella baracca, oltre alla fragile creatura distesa sul tavolo. La fiducia negli esseri umani.
Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine.
Salve a tutti. Ci ho riprovato perché mi sono piaciute molto le specifiche. Una vera sfida.
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