| Angeli d'ottone La stanza interrata era poco più grande di sessanta metri quadrati, metà dei quali occupati dalla caldaia. Nessuna finestra. Soltanto due sfiatatoi speculari garantivano il ricircolo d’aria. Ai lati della camera a pianta quadrata, due stretti archi acuti conducevano ai magazzini. Lorenzo era appena uscito da quello adibito a deposito per il carbone e il pesante strato nero che gli ricopriva il viso e la casacca sottendeva che ci fosse stato per parecchio tempo. Se la sfilò per batterla contro una paratia di ferro. Girò il viso da un lato, trattenendo il fiato, poi se la rimise. «C’è rimasta dell’acqua?» Chiese, mal celando un colpo di tosse. Solo Flavio alzò la testa dal mucchio di carbone che stava allargando sul pavimento e gli indicò un catino vicino all’elevatore. Il ragazzo vi infilò la testa e la massaggiò con entrambe le mani, poi se ne versò addosso il resto. «Sono morte due persone nel turno precedente.» Sentenziò. Il più anziano dei quattro sputò a terra, la saliva sfrigolò un istante a contatto con il pavimento bollente, «e una potrebbe morire in questo, se non stai attento. Guarda lì dietro!» Lorenzo si voltò di scatto, mentre una grossa macchia d’olio si espandeva accanto ai suoi piedi. «Muoviti ragazzo! Pulisci e controlla quale ingranaggio perde.» L'altro superò il locale del carbone per arrivare al magazzino che fungeva anche da dormitorio, raccolse alcune pezze da uno degli scaffali e tornò indietro. Il cuore della caldaia era accessibile da una piccola porta in metallo brunito, oltre la quale lo sguardo poteva perdersi nei giri degli ingranaggi, nelle evoluzioni dei tubi e tra gli sbuffi dei mantici. Riuscì a isolare la perdita in poco tempo, rispetto a quanto ne aveva impiegato per individuarla. «Ragazzo! Hai finito?» Il più anziano dei lavoratori in vincoli diede un colpo con la pala sullo sportello della caldaia, producendo un suono acuto e vibrante. «Vuoi muoverti? Si sta abbassando la pressione e io voglio ancora tutta la pelle sulla schiena quando tornerà il caporale.» Lorenzo lasciò tutti gli stracci che aveva usato in un secchio colmo d’acqua saponata e corse verso di lui, fermandosi per pochi momenti davanti ai manometri, «non c’è nessun calo.» «Certo che non c’è, bastardo d’un ragazzino, perché noi ci stiamo spaccando la schiena anche per te! Non ci sono camerieri e lacchè a servirti qui, qui sei un pezzente come noi.» Era un uomo alto, di mezza età, lo sguardo fiero. Era stato un anarchico, questo almeno aveva detto. Flavio si avvicinò a Lorenzo prima che potesse rispondere, «lascia stare, non è cattivo. E non dovrai sopportalo per sempre!» Osservò Lorenzo rabbuiarsi e proseguì. «Quanti anni ti mancano per estinguere il debito di quel bastardo di tuo padre?» A quel punto, in modo del tutto inaspettato, l’altro scattò. Flavio si ritrovò contro la parete, il manico della pala premuto sulla gola e incapace di deglutire. Il bel volto di Lorenzo, i suoi lineamenti gentili, trasformati in un ghigno furioso, «mio padre si è suicidato.» Gli ringhiò contro. Quasi fosse una cosa normale, Il vecchio anarchico intervenne ponendo le proprie mani su quelle di Lorenzo. «Si, lo sappiamo. Si è suicidato. Comunque era un gran bastardo, pace all’anima sua, che ha lasciato tutti i suoi debiti sulle spalle di un ragazzino. Quanti anni avevi? Sedici? Ha lasciato che ti vendessero e ti sbattessero qui dentro.» Gli appoggiò le mani sulle spalle e lo accompagnò verso un secondo cumolo di carbone, più distante. Il ragazzo prese a spalare a testa bassa, gli occhi fissi su quell’ammasso nero e polveroso. Solo quando ebbe finito si avvicinò a Flavio, si schiarì la voce cercando un tono amichevole, «una ventina.» Gli disse, «me ne mancano ancora una ventina.» Il fischio che segnalava la fine del turno arrivò quasi inaspettato quel giorno. Poggiarono le pale e gli altri arnesi con cui avevano lavorato in un angolo, mentre altre persone facevano il loro ingresso dal dormitorio. Uno aveva ancora gli occhi assonnati, e un altro, il più anziano, masticava a bocca aperta un pezzo di pane duro. Si salutarono più per dovere con un cenno del capo. Lorenzo prese il secchio con gli stracci che aveva usato per tamponare la perdita e si diresse verso il lavatoio. «Puoi prendermi tu la cena?» Chiese, rivolgendosi al più vicino, «devo lavare questi, magari ne approfitto e mi lavo anche io.» «Se vuoi farlo tieni d’occhio l’elevatore, il caporale ti spella vivo se sprechi quell’acqua, non devo ricordartelo.» Girò due dita in aria e gliele le puntò contro, indicando il segno dello scudiscio che ancora gli striava la guancia. La vasca di raffreddamento era nel locale attiguo alla caldaia, più di duecento metri cubi d’acqua tiepida. Ne prese un secchio e iniziò a sciacquare gli stracci, strizzandoli in una grata nel pavimento. Si guardò intorno prima di spogliarsi, nessun suono oltre il rumore del fuoco e il consueto strascicare delle pale e dei carrelli. Qualche imprecazione, una bestemmia. Si arrampicò sul bordo e scivolò dentro in silenzio. Si concesse qualche minuto di quiete immergendo anche le orecchie e rimase lì, a galleggiare. Rilassò ogni muscolo lasciandosi cullare dall’abbraccio caldo, avvolgente. Si sarebbe addormentato, se l’istinto di sopravvivenza non avesse prevalso sulla stanchezza. Riemerse quando sentì gli ingranaggi dell’elevatore cigolare, una mezz’ora più tardi. Saltò fuori e raccolse i vestiti, uno sbuffo di vapore e un fischio lo informarono che l’ascensore era sceso al loro piano. Si vestì in fretta rovesciando, con un movimento maldestro, il secchio con gli stracci puliti a terra. Quando il caporale Bargelli e altre due guardie entrarono nella stanza di raffreddamento, lo trovarono chino sul pavimento. Intento ad asciugarlo. «Non è il tuo turno Lorenzo, che stai combinando ancora qui?» Con un cenno indicò alle guardie di raggiungerlo.
Fili pendenti La diatriba Flavio-Lorenzo si risolverà, ma la morte prematura del primo gli creerà parecchi problemi. Lorenzo deve scontare vent'anni, succederà qualcosa che ridurrà drasticamente la sua pena, trasformandola in altro. Uno dei lavoratori in vincoli è un anarchico, e gli anarchici, sui ex compagni avranno un ruolo determinante nella vita del protagonista.
Nova Milano La lama di luce tagliava in due la cella. Maru era seduto a terra, la schiena aderente alla parete e il volto rivolto verso la porta socchiusa alla sua sinistra. Un dolore forte e costante gli rammentava lo sguardo folle del Beta-15 che lo aveva interrogato. Mosse piano le mani, si spostò scivolando sulle gambe e guardò fuori dalla porta. Il corridoio era deserto, solo una sequenza di luci ovali in entrambe le direzioni. "Mi stanno facendo scappare." Pensò prima di strisciare fuori. Raggiunse la posizione eretta a fatica, e quando finalmente ci fu riuscito, un capogiro lo scaraventò di nuovo a terra. Dovette appoggiarsi alla parete per rialzarsi. Attese che il mondo smettesse di vorticare fissando un punto immaginario nel fondo del corridoio bianco latte. Tese l'orecchio ma non un solo suono lo mise in allarme. I passi cadenzati, che ricordavano una ronda, erano troppo lontani per rappresentare un problema. Lo stesso poteva dirsi del vociare distratto dei Beta-15 fuori servizio. Mosse un passo aspettandosi di cadere di nuovo. Le fitte alle ginocchia erano forti ma non tanto da impedirgli di camminare. "Pensano di fregarmi così? Idioti." Sfiorando la parete lucida camminò fino alla porta scorrevole che lo separava dalla libertà. Non si voltò nemmeno indietro, conscio che l'essere arrivato fin lì, era di certo una mossa prevista dai suoi carcerieri. Comunque sfilò il biocristallo dalla porta organica sul proprio collo e lo inserì sotto al display della serratura. Come l'oggetto conico venne risucchiato, il suo campo visivo si offuscò. Le cifre della combinazione rotolarono davanti ai suoi occhi spalancati, sovrapponendosi alla porta che ormai gli appariva sfocata. Il processo sinaptico cui il suo cervello era obbligato gli causò un conato di vomito che a malapena riuscì a reprimere. Continuò a permettere al biocristallo di usare la sua mente come un decodificatore, resistendo alla nausea sempre più prepotente e un minuto più tardi la porta scompariva nel muro. "Potevano anche rendermela più facile, già che c'erano!"
Uno dei parchi pubblici più grande di Nuova Milano si apriva davanti ai suoi occhi. Scese gli scalini che lo separavano dal prato zoppicando, mentre la porta automatica si richiudeva alle sue spalle. Sorreggendosi ai pochi alberi ritorti arrivò al centro del tappeto verde chiaro, si voltò allora. Il palazzo di giustizia era poco illuminato. Nessun allarme, nessun suono. Solo l'immagine olografica della Coca Cola che danzava sulla facciata principale, senza riuscire a minarne l'austerità. Diede un'occhiata alle strade che costeggiavano il fazzoletto erboso: il traffico quasi assente gli diede un'idea del possibile orario, che ipotizzò essere tra le tre e le quattro del mattino. Un paio di auto precomandate gli scivolarono accanto con un sibilo leggero: riuscì a scorgerne i passeggeri addormentati. Claudicò fino a una parete telefonica, si guardò la destra, era sporca di sangue. Con la punta delle dita selezionò il riconoscimento della retina, sicuro che i suoi nuovissimi occhi, non fossero ancora stati segnalati alla rete comunicativa. La voce robotica riconobbe l'asiatico che li aveva "donati" e gli permise la comunicazione, «codifica 321-76» Attese che la chiamata fosse deviata a una linea sicura, poi il viso gentile di Doc comparve nella lastra trasparente. «Maru, ma che ti è successo?» La donna si era portata le dita nodose alla bocca, nello stesso gesto poi aveva tirato i capelli rosso fuoco dietro le orecchie. «Lascia stare. Marco è morto e io devo avere addosso un tracciatore. Devi trovarmi un posto pulito dove farmelo togliere.» Le dita di Doc sfiorarono lo schermo, e parevano quasi accarezzare il volto tumefatto di Maru. Alcuni indirizzi scorsero sovraimpressi, mentre lei continuava a cercare. «Ecco. Al livello dove ti trovi abbiamo solo un aggancio: il "coyote". Dirige il Gotika, non molto lontano da dove ti trovi. Questa è la pianta, intanto io lo avviso.» La mappa del quartiere al primo livello fluttuò davanti agli occhi del ragazzo qualche istante, una striscia rossa gli indicò il percorso da seguire, poi scomparve assieme alla comunicazione. Maru barcollò, si appoggiò con la spalla alla parete trasparente mettendo in allarme i sensori anti-vandalismo. Una luce rossa intermittente brillò per qualche secondo, subito dopo la voce robotica lo informò che l'allarme silente aveva avvisato le forze dell'ordine. Fece un paio di passo indietro e cadde. Il fianco gli faceva male, si strinse il torace per riuscire a mettersi carponi. Un paio di stivali neri e lucidi gli occuparono il campo visivo. «Cazzo, no...» Sussurrò prima di svenire.
Fili pendenti -Maru è un terrorista, è riuscito a scappare ma probabilmente era stato previsto. La ricerca spasmodica di un modo di liberarsi del tracciatore lo porterà a conoscere una persona che si rivelerà, per lui fondamentale. -il Coyote non è solo il gestore di un locale notturno, ma un infiltrato, capace di scucire informazioni ad alti livelli. Tra i suoi clienti, alcuni tra i personaggi più illustri di Nuova-Milano, forniranno informazioni fondamentali per la causa della ribellione. -Maru è stato fatto scappare, non solo per tracciarlo e scoprire il covo dei ribelli, ma perché uno dei militari più alti in grado in servizio al palazzo di giustizia, condivide con lui un segreto.
Edited by Polly Russell - 6/3/2014, 01:24
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