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Skannatoio, agosto 2014, edizione XXXII

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White Pretorian
view post Posted on 7/8/2014, 18:56




Nada, ho il vuoto pneumatico nel cervello. Sono due settimane che non riesco a scrivere (anche a causa di infelici vicende personali) quindi sono costretto a saltare il giro anche stavolta. Peccato, perché le specifiche meritavano davvero. Un saluto e un bacione a tutti ragazzi, ci si vede non appena i miei neuroni rientrano dallo sciopero selvaggio :p105:
 
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view post Posted on 7/8/2014, 19:13
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Educatrice di bambini alieni

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CITAZIONE (White Pretorian @ 7/8/2014, 19:56) 
Nada, ho il vuoto pneumatico nel cervello. Sono due settimane che non riesco a scrivere (anche a causa di infelici vicende personali) quindi sono costretto a saltare il giro anche stavolta. Peccato, perché le specifiche meritavano davvero. Un saluto e un bacione a tutti ragazzi, ci si vede non appena i miei neuroni rientrano dallo sciopero selvaggio :p105:

Spero che i tuoi problemi si risolvano presto... Cerca di passare delle vacanze riposanti e vedrai che l'ispirazione tornerà più forte di prima.

:-)
 
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Ceranu
view post Posted on 7/8/2014, 20:43




Ci sono quasi, se riesco in serata posto. Le specifiche erano toste, ma spero di averle rispettate. Nel frattempo ho provato a portare di qui anche due amici di un altro contest, ho visto che lo scambio è continuo. Staremo a vedere. A dopo.
 
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view post Posted on 7/8/2014, 21:05
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Va be'... Comunque sia ormai è tardi.

Il racconto che ho scritto non so fino a che punto potrei considerarlo inaspettato o bizzarro.

Avrei potuto provare a pubblicarlo, ma domani scade il termine per la consegna e io non ho il tempo per correggerlo (domani mattina vado a lavoro, appena stacco da lavoro torno di corsa a casa mia perché la sera si gioca di ruolo).

Potrei mettermi a correggerlo sabato mattina, ben oltre l'orario di consegna.

L'alternativa è pubblicare la prima bozza del racconto ma non ce la faccio a sentirmi muovere delle critiche sul racconto che già conosco. Mi viene solo la rabbia perché se avessi avuto più tempo non avrei avuto quelle critiche.

Se si facesse una proroga fino a domenica sera, parteciperei molto volentieri. Altrimenti mi tengo l'idea per un altro skan.
 
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Ceranu
view post Posted on 7/8/2014, 21:31




www.youtube.com/watch?v=syc78JzHGTs

Il Cavallo di Bastoni
Di Francesco Nucera

I gomiti poggiati sulle ginocchia, il mento tra le mani. Giuseppe osservò il sole andare a riposare dietro le gradinate deserte. Proprio come quel posto, in cui un tempo si respirava l'aria della rivincita. Solo una volta l'anno, ma che bastava per i trecentosessantacinque giorni a venire. Nei novanta minuti, chi era rimasto sfidava chi era tornato sfoggiando i propri successi. Giuseppe alzò lo sguardo, dietro gli ulivi piegati dal vento intravide il campanile della vecchia chiesa. Un soffio di vento caldo trascinò con se la polvere dal campo spoglio. Gli unici segni di verde erano delle erbacce, che crescevano vicino alla panchina da cui si alzò. Le gambe, intirizzite dalla posizione scomoda, non gli permisero di fare il primo passo.
«Giocavate veramente qui?» Fabio sbucò da sotto la recinzione metallica.
«Sì.» Giuseppe nascose gli occhi gonfi.
«E poi?»
L'uomo si abbassò, raccolse il figlio, e lo sollevò alla sua altezza. Avvicinò le labbra alle sue orecchie, e tese l'indice verso la porta priva di reti.
«Una volta, alla tua età, lì segnai un gol.» Tirò su con il naso. «Ma il merito fu tutto di tuo nonno Enzo. Ne aveva scartati quattro, portiere compreso. Io ho solo spinto la palla in porta.» Fu uno sforzo impedire alle lacrime di scendere copiose.
«E avete vinto?» Gli occhi di Fabio brillarono.
Giuseppe sorrise vedendo la felicità del figlio. «Come sempre. Questi paesani non potevano fermarci. Con noi c'erano giocatori di tutto il mondo. Pensa che uno giocava nella serie A canadese.»
Lo sguardo sognante di Fabio lo riportò a quelle torride domeniche di Agosto, quando le strade del paese si riempivano di gente rientrata ad ammirare la Madonna.
«Anch'io voglio giocare con te.» Il bambino si divincolò ricadendo a terra. Come una molla rimbalzò sul terreno e corse verso la porta.
Giuseppe inspirò profondamente, quanto avrebbe voluto regalargli quel gol. Rabbia e angoscia lo attanagliavano da sempre, e quella domanda: “perché?”.
Un'idea gli balenò in mente: Avrebbe giocato la partita.
Quella sera non toccò cibo. Continuò a fissare la forchetta che rifletteva la luce della lampadina.
«Perché non si fa più la partita con i forestieri?»
Suo zio Nicola si sporse in avanti. Il baccano dei bambini, che correvano attorno al tavolo, copriva ogni voce.
«Perché non si fa più la partita con i forestieri?» Alzò il tono per superare gli schiamazzi.
Incurante del pezzo di carne che gli pendeva dai baffi, Nicola si alzò dal tavolo per sederglisi affianco.
«Perché non ce n'è più.» Prese un piccolo bicchiere ricolmo di vino e lo portò alla bocca. «La crisi ha colpito tutti, e la gente non torna più al paese. E poi...» Sollevò gli occhi al soffitto e si morse la lingua. «...eravamo troppo forti.»
«Rifacciamola. Solo noi potremmo fare mezza squadra.» Con la mano indicò i cugini intenti a placare i giochi dei bambini.
«No.» La risposta secca di Nicola lo sorprese. Gli aveva sempre fatto da secondo padre, e non era mai riuscito a dirgli di no.
«Cosa vuoi che sia. È solo una partita.» Eppure stava diventando così importante per lui.
«No. Non ti aiuterò.»
Durante i secondi di silenzio che seguirono, Giuseppe non riuscì a pensare ad altro. Voleva rimettere gli scarponcini da calcio, per correre accanto a Fabio, e magari regalargli la stessa emozione indelebile.
«Dimmi chi le organizzava!»
«Cosa?»
«Le partite.»
Nicola fissò il vuoto; pensieroso arrotolò l'angolo dei baffi ingialliti dal tabacco. «Le ultime le ha organizzate Turi “lo Sciancato”, ma è passato quasi un decennio.» Liberò la peluria e si concentrò sull'interno del naso. «Ma lascia perdere, tra due giorni torniamo a Milano!»
«Hai ragione,» Giuseppe si alzò dal tavolo. «ho poco tempo per organizzare.»
La morsa ferrea di Nicola gli bloccò il polso. «Però fai attenzione.» Nei suoi occhi azzurri non c'era nemmeno una traccia dell'alcol ingerito. «Per qualcuno non è mai stata una festa.»
Giuseppe si voltò alla ricerca del figlio. «Metti tu a letto Fabio. Io torno presto.»
Lasciò lo zio intento a riempire l'ennesimo bicchiere. Lui aveva una partita da organizzare.
Appena chiuse la porta di casa, il baccano dei bambini sparì, sovrastato dal cicalio diffuso che lo riportò a quando era bambino. Serrò gli occhi, sperando di sentire ancora la voce del padre, che gli diceva quale fosse il carro maggiore.
Camminò distratto, osservando le pareti grezze e i tetti dissestati di quel paese in rovina. Sembrava quasi che le case volessero inglobare le strade sconnesse. Fuori dal “Bar Centrale”, dove aveva osservato il padre giocare a carte con gli altri uomini del paese, i bambini di allora picchiavano sul tavolo proprio come avevano fatto i genitori. Giuseppe scostò la tendina di plastica a striscioline. All'interno c'erano poche persone intente a bere, nessuno sembrò prestargli attenzione. Sul fondo, dietro il bancone immutato nel tempo, c'era il barista, con cui gli anni non erano stati altrettanto clementi. Il mezzo sorriso con cui l'accolse gli fece capire che l'aveva riconosciuto.
«Tu sei...» Strinse gli occhi cercando di recuperare l'immagine dal passato. «...Il figlio di Enzo.» Le labbra persero l'espressione gioviale. «Mi è dispiaciuto tanto per lui,» Fece il segno della croce. «Era un brav'uomo.»
Giuseppe si limitò a fare spallucce e a ordinare un caffè.
«Come mai sei tornato?»
«Il nonno sta male. Sono venuto a trovarlo.»
Ancora una volta il vecchio si contrasse in una smorfia addolorata. «Povero compare Giuseppe,» Sospirò. «il medico dice che gli resta poco.»
«Già.»
«Ma so che tu hai fatto carriera.» Finalmente il tono del barista tornò ad essere allegro. «Mi hanno detto che sei tenente.»
«Già.» Giuseppe non aveva mai tollerato quell'aspetto del paese. Tutti sapevano tutto di tutti. Ma quella sera poteva tornargli utile. «Mi sai dire dove posso trovare Turi lo Sciancato?»
La mascella del vecchio si indurì impercettibilmente. «Perché lo vuoi sapere?»
«Voglio parlargli del campo.»
«E che gli vuoi chiedere?»
Quell'atteggiamento insospettì Giuseppe che, sebbene in ferie, poteva sentire il distintivo premere sul gluteo. «C'è qualche problema?»
«No, nessuno.» Si guardò attorno. «Lo trovi alle macchinette.» Sollevò l'indice scheletrico e indicò una porta che dava sulla vecchia sala giochi.
Giuseppe lasciò la tazzina intonsa sul bancone e si voltò. Le facce inespressive che l'avevano accolto, sparirono man mano che le incrociava. Chi sotto la visiera in tessuto della coppola, chi dietro un giornale. Ma ebbe l'impressione che tutti lo stessero osservando. Un brivido alla schiena gli fece capire che si stava infilando in una brutta storia. Fece un passo incerto. Poi ricordò gli occhi sognanti di Fabio e andò avanti. La partita era troppo importante.
La sala sul retro era satura di fumo. Persino il cartello di divieto era ingiallito dalla nicotina. Al buio si potevano vedere solo le luci dei video poker, che illuminavano le facce inebetite dei giocatori. Tra questi, riconobbe il suo vecchio amico. Lo raggiunse cercando di fare meno rumore possibile, anche se nel baccano di quella stanza, non si sarebbe sentito nemmeno il colpo di un cannone. Le musichette, e il rumore dei gettoni spesi, superava di gran lunga la soglia di sopportazione umana.
«Non ti muovere.» Gli bloccò il mento con il braccio, premendogli la nuca contro il petto. Istintivamente Turi si divincolò. Dopo averlo spintonato portò la mano dietro la cintura, ma si bloccò vedendo l'espressione divertita di Giuseppe.
«Mi hai fatto spaventare.» Le rughe sulla fronte si distesero.
«Certo che per essere uno sciancato ti muovi veloce.» Il poliziotto scoppiò a ridere. «Lascia la macchinetta e vieniti a bere un caffè.»
«E vuoi che mi scomodi per un caffè?»Turi inarcò il sopracciglio, allungando una cicatrice che partiva dal lobo e saliva fino all'angolo dell'occhio. «E poi mica posso farmi vedere con uno sbirro.» Il tono ilare mal celò la serietà dell'affermazione. Giuseppe sapeva bene che il suo amico era finito in giri poco raccomandabili. Ma non gli interessava, a lui serviva solo per la partita.
«Vorrà dire che ti offrirò quello che vuoi.»
Turi alzò il pugno chiuso. Dal buio sbucò un ragazzino che prese il suo posto.
«Sei qui da una settimana e vieni solo ora a salutarmi?»
Giuseppe fece spallucce imbarazzato. Dava più di venti centimetri al suo amico, come succedeva per il novanta per cento delle persone, eppure quello non sembrava per nulla intimorito.
«Dimmi cosa vuoi.»
«Voglio riorganizzare la partita con gli emigranti.»
Turi bloccò il caracollare per guardare meglio il poliziotto. Sembrò cercare sul suo volto qualcosa che gli dicesse che stava scherzando. Dopo un secondo scoppiò a ridere.
«Vai in comune. Che vuoi da me.»
«So che organizzavi tu.»
Lo sciancato tornò ad essere serio. Raggiunse il banco e ci si aggrappò. «E tu dopo trent'anni ti presenti per questo?»
«Solo per la partita.»
«Mi dispiace ma non posso.» Era sincero.
«Almeno dimmi a chi chiedere.» Giuseppe afferrò per il braccio lo sciancato, che cercava di tornare alle macchinette. Voleva giocare quella partita.
Turi guardò la mano di Giuseppe, che liberò la presa.
«Perché vuoi giocare?» Non batté nemmeno le ciglia mentre lo fissava.
«Lo sai.» Il poliziotto abbassò gli occhi sul pavimento. «Mio papà.»
«Era una brava persona.» Turi distolse lo sguardo, incapace di reggere l'affermazione. «Comunque non posso nulla.» Si guardò attorno nervoso. «Ora vado, è meglio se non mi faccia trovare allo scoperto.» Sorrise.
«Dimmi almeno a chi chiedere. Per favore.»
«Attorno a quelle partite giravano molti soldi,» Turi sfregò la grossa mano callosa sul collo, mostrando l'inizio di un'altra cicatrice che si perdeva sotto la camicia. «non posso.» Dicendo questo, diede un colpetto alla tazzina, facendole fare un giro completo. Con il cucchiaino picchiò due volte contro il banco e urtò la stessa che si rovesciò. Giuseppe a quel suono sgranò gli occhi, era un segnale, uno di quelli che avevano studiato per battere i vecchi a carte.
Prese il cucchiaino in mano e lo strofinò tra il pollice e l'indice. Sapeva cosa volevano dire quei segni.
«È il...» Non finì la frase.
Dalla strada arrivò lo stridere di gomme. Una macchina si fermò. Tre tizi, vestiti di nero, scesero di corsa. Turi, che in un primo momento aveva cercato di raggiungere la porta sul retro, si bloccò. Riempì il petto e sistemò il colletto bianco. Sollevò la mano destra aperta «Non ce n'è bisogno.»
Giuseppe vide quei tre richiudere la giacca, sotto cui notò un rigonfiamento familiare. Doveva intervenire, sia come poliziotto che come uomo. Improvvisamente si sentì leggero. Non aveva con se la sua pistola, ma solo il cucchiaino che mise in tasca. Ciò nonostante avanzò frapponendosi fra Turi e i nuovi arrivati.
«Cosa volete?»
Il più piccolo piegò la testa di lato, guardandolo dal basso verso l'alto. Socchiuse gli occhi cercando di soppesare quel tipo che non aveva mai visto. In quel momento, qualcosa colpì il poliziotto alla testa. Giuseppe cercò di rialzarsi, non con l'idea che fosse in pericolo, ma che così perdeva il contatto per organizzare la partita. Un altro colpo gli fece perdere i sensi.

Il rumore lontano di uno schiaffo richiamò Giuseppe dal baratro in cui si trovava. Provò a toccarsi la fronte che bruciava, ma il polso era bloccato. Non riuscì ad aprire gli occhi incrostati dal sangue.
Il “settebello” e il “cavallo di bastoni”. Ecco cosa voleva dirgli Turi. Ma non capiva perché.
«Ti chiedo di portarmi lo Sciancato,» Un altro rumore seguito da qualcosa di pesante che cadeva a terra. «e tu ti porti dietro un poliziotto.» Un colpo sordo, un gemito. «E per giunta chi è? Il figlio del Cavallo di Bastoni»
Un flash lo riportò nel box di casa. Camminava lento, verso i pantaloni che svolazzavano a venti centimetri dal pavimento. Le scarpe, che gocciolavano dalle punte rivolte verso il basso, penzolavano su una pozza di liquami. Giuseppe si avvicinò, fissando la fibbia del padre e la carta che sporgeva dalla tasca: un uomo a cavallo, che impugnava un grosso bastone. Si abbassò, cercando di superare con lo sguardo lo scaffale che gli parava la vista. Due mani lo afferrarono trascinandolo via. Lo zio Nicola lo abbracciò.
Un getto d'acqua fresca lo riportò al presente. Finalmente libere dalle croste, le palpebre si aprirono, mostrando il volto familiare di un anziano.
«Spero che capirai che questo è stato un malinteso.»
Legato alla sedia, Giuseppe si guardò attorno. Era in un posto poco illuminato, non sapeva se era lui ad emanare quell'odore, ma c'era un forte tanfo di sangue. A un metro, piegato ai piedi degli altri due, c'era uno degli uomini che aveva affrontato nel bar.
«Giovanni non sapeva chi fossi,» L'anziano si voltò sputando a terra. «ma stai tranquillo che ha capito l'errore.» Gli andò in contro, si chinò e lo carezzò. Il contatto con la parte liscia degli anelli gli procurò un lieve sollievo. «Ora sta a te perdonarci.»
Il poliziotto sorrise, ma subito si contrasse in una smorfia di dolore, la mandibola sembrava non rispondere. «Tu sei il Settebello?» Il fuoco gli avvampò lo stomaco.
L'anziano portò le mani al petto ritirandosi. «Io sono solo Don Antonio. Un povero vecchio della Sila.»
Giuseppe rivide la tazzina rovesciarsi colpita dal cucchiaino. Il “cavallo di bastoni” colpito dal “settebello”. La carta nei pantaloni, le scommesse. E quel gol, per cui lui aveva esultato tra le braccia del padre. A distanza di trent'anni avrebbe voluto guardarlo in faccia, per leggere i suoi sentimenti. Strattonò i polsi legati dietro la schiena, ma qualsiasi cosa lo stesse trattenendo non cedette.
«Scusaci, ma prima dobbiamo capire le tue intenzioni.»
Cercò di ricomporsi, non poteva far trapelare la furia che lo stava divorando.
«Lo Sciancato dice che vuoi giocare una partita.» Il vecchio gli si sedette davanti, aprendo e chiudendo le mani giunte. «Perché?»
«Perché voglio fare un regalo a mio figlio.»
Don Antonio sorrise, mostrando i denti d'oro. «Possono costare care quelle partite.» Si voltò compiaciuto verso l'uomo basso che rispose ghignando. «E tu torni dopo una vita solo per giocare una partita?»
«Sì.»
«Te la darò. Ma a un patto.» Il mafioso si passò l'indice e il pollice sugli angoli della bocca. «Convincerai il figlio del canadese a giocare. E poi perderai.»
Giuseppe tese tutti i muscoli per contenere l'urlo di rabbia che pretendeva il suo spazio. Ma annuì.
Soddisfatto, Don Antonio, guardò i suoi uomini e alzò l'indice. Qualcuno sciolse i nodi che tenevano prigioniero Giuseppe. Prima le caviglie, poi i polsi. Appena libero afferrò con la mano destra la sedia che volò verso le due guardie. Fece perno sul piede sinistro, dopo una giravolta si ritrovò alle spalle dello storpio. Come nella sala giochi gli bloccò il collo, frapponendolo fra se e le armi pronte a sparare. Turi provò a divincolarsi, ma ogni tentativo fu vano. Qualcosa di duro premette contro le coscia di Giuseppe.
«Fermi o gli spezzo il collo.»
Don Antonio rise e si voltò incurante della minaccia.
Giuseppe era spacciato, Turi una pedina che avrebbero sacrificato volentieri. Ma doveva sopravvivere, tutti dovevano sapere che suo padre non si era suicidato. Sfilò la pistola dai pantaloni del suo scudo, e premette tre volte il grilletto. Una delle guardie gemette ricadendo a terra. Gli schizzi di sangue, e il peso improvviso del corpo che tratteneva, gli fecero capire che lo Sciancato era morto. Prima di lasciarlo sparò altri due colpi. Gli rimaneva un solo avversario più il vecchio. Un forte dolore alla gamba fece piegare Giuseppe che sparò ricadendo in avanti. Un'altra guardia urlò colpita ai testicoli.
L'anziano si acquattò, cercando di raggiungere una pistola finita a un metro da lui.
«Stai fermo.»
Don Antonio rimase immobile con le mani tese. «Che vuoi fare?»
Giuseppe si alzò stringendo i denti, la gamba era intrisa di sangue. «Quanto avevi scommesso?»
«Non so di cosa parli.»
«Quanto?» Non urlò, ma la sua voce pretendeva verità.
«Cinquecento milioni di lire.» I denti digrignati rigettarono disprezzo. «E quello stupido di tuo padre...»
Spaventato, Don Antonio portò le mani in avanti, cercando di pararsi il volto dalla pistola che Giuseppe gli puntò in faccia. La rabbia vinse sulla ragione, doveva zittirlo per sempre. Il grilletto scattò. Non ci fu nessuno sparo, ma solo il rumore del metallo. Don Antonio corse verso l'arma a pochi passi da lui. Giuseppe gli saltò addosso, incurante del dolore. Caddero entrambi sul pavimento. Il vecchio era spacciato, non poteva nulla contro di lui.
Un forte dolore all'addome fece piegare il poliziotto, che si trovò tra le mani il manico del coltello che penzolava dallo stomaco.
La vista gli si annebbiò, mente i denti d'oro comparivano davanti ai suoi occhi.
«Salutami il Cavallo di Bastoni.»
Con le ultime forze, Giuseppe sfilò il cucchiaio dalla tasca. Il sorriso del vecchio si riempi del sangue che gli inondò la gola squarciata. Un ultimo colpo gli trafisse le tempie. Giuseppe rimase sdraiato a terra, la partita era finita.

Il numero sette scattò sulla fascia, all'altezza della trequarti di campo avversaria. Stoppò il pallone con il petto e, prima che toccasse terra, lo spostò di quel tanto che sbilanciò il terzino. Saltò il secondo difensore con una finta e via dritto nell'aria di rigore. Solo il portiere davanti. Tocco sotto e anche al numero uno non restò che guardarlo andare verso la porta. Solo, indisturbato. Alla sua sinistra, il numero tredici, con una maglietta troppo grande, arrivò a lunghe falcate. Il sette, sorridendo, gli passò il pallone ed esultò con lui per il gol della vittoria. Gli emigrati vinsero la prima partita dopo uno stop di un decennio. Sugli spalti Giuseppe esultò per il gol del suo bambino. Avrebbe voluto correre in campo e sollevarlo come aveva fatto suo padre, ma i punti all'addome glie lo impedirono. Si sedette dolorante, una lacrima gli solcò il viso. Per la prima volta si chiese cosa sarebbe accaduto se quel pallone fosse finito fuori, se avesse sbagliato. Con l'indice scacciò la tristezza. Quel gol, rimaneva il ricordo più bello della sua vita.


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.

Edited by Ceranu - 8/8/2014, 22:06
 
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view post Posted on 8/8/2014, 20:27
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INAFFERRABILE

di Laura Palmoni


Catia spinse l'entrata dei servizi dell'autogrill e rimase perplessa. I bagni erano vuoti, le porte spalancate a parte una. Strano, data la mole di gente nel piano superiore, si era attesa di trovare quasi tutto pieno. Meglio così, meno da aspettare. Certo, era il momento ideale per guardoni, maniaci, adescatori di fanciulle... Nulla come un bagno pubblico vuoto era capace di stuzzicare le menti più perverse. E lei se ne intendeva, da sempre attratta dai profili di squilibrati e assassini, si era letta le biografie di killer seriali di tutto il mondo, di ogni epoca. Conosceva a memoria le situazioni più a rischio in cui una giovane donna come lei poteva trovarsi. Un lamento le giunse alle orecchie e la strappò ai suoi pensieri. Proveniva da quell'unica porta chiusa. Pochi attimi e arrivò un secondo gemito, poi un terzo, insistente, intrecciato a quello di un uomo. Represse una risata. Diamine, qualcuno se la stava spassando nel cesso di un autogrill! Fu tentata di tossicchiare, perché chiunque oltre quella porta capisse di non essere solo, ma trovò la cosa eccitante e pensò potesse tranquillamente aspettare di vedere chi ne sarebbe uscito. I gemiti intanto si erano fatti più incalzanti, e senza ombra di dubbio poteva immaginare cosa stesse per succedere. Dopo un'esplosione finale così violenta da procurarle un brivido, le grida si smorzarono. Un sudore gelido le serpeggiò lungo la schiena, ora sentiva di dover prendere una decisione: filarsela velocemente e fermarsi a fare pipì al successivo autogrill, oppure far finta di nulla, restare e vedere la faccia dei due focosi amanti. Capì subito che non sarebbe riuscita ad andarsene da lì senza sapere. E decise di restare. Minuti interminabili...
La porta si aprì lentamente.
Per poco non le venne un colpo quando davanti agli occhi le apparve una vecchina, con un vestito lilla dalla gonna a campana, le calze spesse color grigio topo, un buffo cappellino con la veletta. Lo sguardo della vecchia si posò per pochi secondi su Catia, che se ne restava a bocca aperta come una beota e allungava il collo per tentare di scorgere chi altro ci fosse nel bagno.
La vecchia si avvicinò al lavandino. Lavò le mani e per brevi attimi tornò a fissare la ragazza attraverso lo specchio, quindi si asciugò e si diresse verso l'uscita. Catia gettò un'occhiata nel bagno rimasto aperto, per essere proprio sicura che non ci fosse nessun altro. Aveva sognato tutto? Grave se iniziava a sentire le voci... Corse fuori e salì in fretta la scalinata che portava di sopra.
Si chiese cosa le importasse di quella storia assurda. Aveva immaginato di sentire due che scopavano nel bagno, e allora? Sì, doveva proprio averlo sognato, perché era del tutto fuori discussione che quella vecchia stesse facendo sesso con qualcuno, PRIMO perché nel bagno non c'era proprio nessuno, SECONDO perché... Per la miseria, aveva almeno ottanta anni! Arrivò di sopra, il fiato affannoso per la gran corsa sui tacchi. Forse l'aveva persa di vista, magari era uscita dall'autogrill... Ma anche fosse stata ancora lì, poteva mica andare a dirle “chi cazzo ti stavi scopando nel bagno?”
E poi doveva andare a lavorare. Il suo capo non sarebbe stato contento del suo ritardo.
Girò la testa a destra e a sinistra, stava per perdere ogni speranza quando la vide.
Era seduta a un tavolino, immobile. Aveva davanti una tazza fumante, sembrava in attesa di qualcosa o di qualcuno. Catia sobbalzò quando la vide girarsi verso di lei e fissarla attraverso gli occhialetti tondi. Non ne era sicura, era troppo lontana, ma gli parve che le rivolgesse un mezzo sorriso. Ma si meravigliò ulteriormente quando la vide estrarre dalla borsa un grosso cucchiaio e un barattolo di vetro rivestito di stoffa. Inizialmente Catia pensò fosse un dolcificante, o una qualunque medicina, ma poi la donna vi immerse il cucchiaio e ne tirò fuori un intruglio denso e rossastro. Se lo portò alla bocca, lo assaporò con voluta lentezza. Scorse sul volto di lei una sensazione di piacere mentre trangugiava la strana poltiglia, doveva essere qualcosa di veramente squisito se le procurava quell'espressione di pura beatitudine!
Catia dovette lottare con sé stessa per controllarsi, avrebbe voluto avvicinarsi, farle mille domande, scoprire cosa stesse mangiando così avidamente. Quella insana tendenza a non farsi i cavoli suoi, a cercare di scoprire i segreti più nascosti delle persone che incontrava, andava molto al di là della normale curiosità ed era continuo bersaglio dei suoi amici. La prendevano in giro per il suo gusto del macabro, per il suo continuo voler scavare nella personalità di quelli che conosceva. Era convinta che un giorno le sarebbe capitato di incontrare un serial killer, in attesa di ciò si limitava a studiare quelli che giudicava comportamenti deviati. Ma adesso, più che a un comportamento deviato, si trovava davanti a una situazione decisamente fuori dall'ordinario, comica e imbarazzante allo stesso tempo.
Le nove.
La stavano aspettando i tedeschi, l'ufficio a quell'ora era in pieno fermento, il suo direttore gli avrebbe fatto una lavata di capo. Doveva muoversi.
La vecchia, intanto, aveva finito di mangiare. Richiudeva il barattolo, lo riponeva assieme al grosso cucchiaio nella borsa, beveva la sua bevanda fumante. Si alzò, qualche colpetto alla sottana e poi si avviò verso l'uscita. Catia era dall'altra parte, dovette aggirare il muretto di tramezzo e i tavoli prima di poter raggiungere la porta e lo spiazzo dell'autogrill, la gonna corta e attillata e i tacchi alti le impedivano di muoversi agilmente ma data la lentezza con cui la vecchia camminava, avrebbe dovuto per lo meno scorgerla: non ce n'era traccia. L'aveva persa. Incredibilmente, questo la amareggiò.

Passò una delle giornate più brutte della sua vita. Non solo perché i suoi superiori la rimbrottarono per l'ingiustificato ritardo – se era veramente rimasta imbottigliata nel traffico poteva almeno avvisare col cellulare – ma anche perché passò la mattinata e gran parte del pomeriggio a ripensare alla vecchia. Provò a darsi mille spiegazioni su quello che poteva aver sentito e visto: stress, allucinazioni, dormiveglia, cattiva digestione, fame... Niente gli parve verosimile. Più volte i colleghi le chiesero cosa avesse, perché mai quel giorno fosse così nervosa e taciturna, lei rispondeva a monosillabi, a volte non rispondeva affatto. La morbosa curiosità di sapere quale significato nascondesse tutto ciò che le era capitato l' accompagnò per tutto il tragitto verso casa.
Le impedì di cenare.
Turbò il suo riposo.
Rivide il volto della vecchia più volte durante il sonno, la vide con i lineamenti stravolti dal piacere, posseduta da un ignoto compagno, oppure la contemplò mentre leccava voluttuosamente il suo cucchiaio, sentì le sue mani grinzose toccarla dappertutto. Si svegliò di soprassalto diverse volte. Cominciò a fantasticare sulla vita segreta che quella tizia forse nascondeva, magari era una ninfomane, una ex prostituta, o forse, semplicemente, aveva voluto per qualche motivo prendersi gioco di lei.
Partì per andare al lavoro più presto del normale quella mattina. Non dedicò il solito tempo alla cura maniacale della persona, una rapida doccia, un velo leggero di trucco sul viso, una vigorosa spazzolata alla folta chioma bionda. Indossò dei comodi jeans e una camicetta leggera: e un paio di scarpe da tennis, voleva essere in grado di correre, se ce ne fosse stato bisogno.
Doveva assolutamente scoprire cosa nascondeva quella vecchia ed era sicura che l'avrebbe ritrovata quella mattina.
Percorse i pochi chilometri d'autostrada che l'avrebbero portata all'autogrill e scese dalla macchina. Salì velocemente i gradini dell'edificio, quasi travolgendo una coppia che ne usciva, non si curò neanche di chiedere scusa. Aveva addosso una frenesia inspiegabile, ossessiva, che avrebbe potuto saziare soltanto dando una spiegazione logica ( o anche illogica, ma comunque una spiegazione ) a quello che aveva visto e sentito.
Eccola.
Era seduta allo stesso tavolino del giorno prima. Con la sua tazza fumante davanti alla faccia raggrinzita, gli occhietti spenti dietro le lenti tonde, in mano stringeva un cucchiaio, lo stesso della mattina prima e il solito barattolo rivestito. A Catia parve la stesse aspettando. La vide svitare il tappo, immergere il suo cucchiaio e tirar fuori l'identica melma rossastra della volta precedente. A Catia venne un brivido. Le balzò in mente che poteva benissimo essere una serial killer. Mentre muoveva vistosamente la mandibola, gustando il suo intruglio misterioso, pensò che assomigliava a sangue raggrumato. Poteva essere un'assassina, una psicopatica. Aveva letto una volta di una donna che uccideva le amiche e ne faceva dei biscotti... Magari lei uccideva le persone e ne faceva marmellata! Di gente squilibrata in giro ce n'era a bizzeffe...
Quando la vecchia finì la sua strana colazione e si alzò dalla sedia, guardò in direzione di Catia. Aveva avuto ragione, la stava aspettando, sapeva che sarebbe stata lì! Ed era pronta a correrle dietro quando la vide uscire dal suo tavolo e dirigersi verso l'uscita. Non l'avrebbe persa stavolta. Non sapeva ancora cosa le avrebbe detto ma qualcosa si sarebbe inventata.
L'imprevisto, però, era dietro l'angolo. Al leggero colpo sulla spalla si voltò, seccata e indispettiva, verso l'uomo baffuto che la chiamava.
«Scusi signorina, ha da accendere?»
Catia rispose con un secco 'no'... E quando con il cuore in gola si girò verso la vecchia, questa era già sparita.

Tutte le mattine, per otto giorni, Catia era tornata in quell'autogrill, alla stessa ora. Aveva sempre trovato la vecchia, con il suo immancabile completino lilla, il cappellino con la veletta, gli occhiali spessi e tondi e i consueti barattolo e cucchiaio. Si erano osservate, studiate, ora entrambe sapevano tutto, almeno esteriormente, l'una dell'altra. Per qualche oscuro motivo, Catia non era mai riuscita a venire a capo di nulla riguardo a quella misteriosa nonnina. Aveva tentato di seguirla, ma qualcosa l'aveva sempre bloccata: un bambino che le sbatteva contro, un tizio che le chiedeva informazioni, un gruppetto di gitanti che le bloccava il passaggio... Quella maledetta riusciva sempre a sfuggirle. Non era un caso. C'era qualcosa sotto e Catia era sempre più nervosa, impaziente, intrattabile. I colleghi di ufficio vivevano con perplessità i suoi attacchi d'isteria improvvisi, il suo girovagare con la mente al punto di dimenticare gli impegni importanti, i suoi immancabili ritardi giornalieri. A chi le aveva chiesto che problemi avesse, lei aveva risposto evasivamente. Nono giorno all'autogrill, lei era di nuovo intenta a percorrere la scalinata a perdifiato, decisa a venire a capo di quella storia assurda. Tutto era iniziato nei bagni, tutto, forse, doveva concludersi lì. Di chi erano le voci che aveva sentito quella maledetta mattina? Con chi se la faceva la vecchia e dove aveva nascosto il suo amante? Non aveva controllato, ma poteva esserci una via di fuga oltre la parete di quel bagno. Se vi avesse trascinato dentro un uomo e poi avesse deciso di farlo sparire, nascondendolo dietro la parete? Poteva esserci una galleria segreta, dove la vecchia nascondeva una cucina della morte, i resti di cadaveri, dove realizzava i suoi intrugli! Le veniva da vomitare al pensiero, ma era anche esaltata.
Arrivò nell'area di ristoro col fiato corto per la corsa. Stavolta era in leggero ritardo. La vecchia si stava appena alzando, stava riponendo il solito cucchiaio nella borsa quando i loro sguardi si incrociarono. L'autogrill era semivuoto, stavolta non le sarebbe sfuggita.
Quando la vecchia si mosse dal tavolo, Catia era già pronta a scattare. Per una attimo aveva pensato di scendere nei bagni a controllare se la sua teoria fosse esatta, ma seguire la vecchia era di sicuro più urgente. Aggirò il muretto che divideva l'entrata dalla sala di ristoro e si mosse svelta attraverso i tavoli. La vecchia allungò il passo e si volto a guardarla. Catia credette di vedere un sorrisetto cinico su quel volto incartapecorito, lesse la sfida nei suoi occhi, la stava invitando a seguirla. Cosa credeva, che non riuscisse a starle dietro? Man mano che la vecchia accelerava, Catia aumentava l'andatura. Pensò alla sciocca idea di mettere gli stivali, quella mattina, i tacchi non erano molto alti ma erano ugualmente scomodi. Ma la prendeva lo stesso, stavolta la prendeva...
Si ritrovarono fuori. La nonnina si spinse in direzione dell'area di rifornimento, aveva il passo lungo. Ogni tanto si girava in direzione di Catia, aveva sempre quell'espressione derisoria sul volto. Il cuore di Catia batteva all'impazzata. I rumori dell'autostrada le rimbombavano nelle orecchie, l'odore di smog e di benzina le penetravano in gola, ma l'esaltazione per la sua imminente vittoria le faceva dimenticare ogni cosa. Quando per un istante la vecchia perse tutta la sua sicurezza, nella ragazza crebbero coraggio e ostinazione. Le era vicinissima. Pochi passi ancora e...
Di colpo, non seppe spiegarsi perché, inciampò. Cadde sull'asfalto come una cretina, scivolata su qualcosa che... Era stata lei. L'aveva fatta cadere apposta. Era infuriata mentre tentava di sollevarsi, incazzata con sé stessa per essersi lasciata buggerare e con la vecchia strega che di sicuro le aveva fatto qualcosa. Mentre si alzava sulle gambe malferme per la caduta, un camion la travolse e la spinse contro un palo della luce. Mentre ricadeva a terra e batteva la tempia sul cemento, immaginò di vedere il volto della vecchia chino su di lei.

L'ambulanza aveva il lampeggiante acceso, ma il suono della sirena era stato spento. Arrivò la seconda volante della polizia, i primi agenti giunti sul posto avevano già transennato il luogo dell'incidente. A terra c'era un corpo coperto da un lenzuolo, sul lato destro un sottile rivolo di sangue era sfuggito al controllo e si diramava libero sulla superficie bollente dell'asfalto. Un uomo corpulento era seduto su una sedia accanto all'ambulanza in visibile stato di choc, un poliziotto gli rivolgeva delle domande a cui rispondeva a monosillabi. Un giovane agente della prima volante indicò una persona al collega più anziano arrivato da poco. L'uomo tolse il cappello e se lo infilò sotto il braccio mentre si avvicinava alla vecchia signora seduta nell'ambulanza. L'infermiere le stava togliendo il bracciale della pressione e annuì all'occhiata del poliziotto. Questi si avvicinò all'anziana donna con la dovuta cautela del caso.
«Signora, mi scusi, so che non è un buon momento, ma può dirmi cos'è accaduto?»
La donna singhiozzò, fece un lungo respiro. «Sono... giorni che questa ragazza mi osserva» indicò l'autogrill. «Ogni mattina... prima di iniziare il turno di pulizie... Io lavoro qui, sa?»
«Sì, lo so, me l'hanno detto. Quando l'ha vista la prima volta?»
«Circa.. più di una settimana fa... Nei bagni. Una mattina sono uscita e lei era lì... Mi fissava... Per un attimo ho pensato che volesse derubarmi, sa, se ne sentono tante in giro...»
«E poi quando l'ha rivista?»
«La mattina dopo. E quella dopo ancora. Anche la domenica era qui» indicò con mano tremante il corpo a terra avvolto dal lenzuolo. «Mi guardava sempre... e oggi mi ha seguita.»
Un altro agente si avvicinò e porse al suo superiore un sacchetto di plastica contenente un cucchiaio d'argento. «Questo è suo?» chiese, mostrandolo alla donna. Lei annuì.
«Deve essermi caduto dalla borsa mentre scappavo. Penso che lei non l'abbia visto e ci sia scivolata sopra... Mi dispiace davvero tanto» piagnucolò, portandosi una mano al viso. Poi aggiunse:
«Sa... io ho le mie piccole manie, prima di iniziare col mio lavoro faccio la mia bella colazione... E siccome ho la fissa dell'igiene, mi porto da casa le posate. Non mi fido di come lavano i piatti negli autogrill. Mi bevo la mia tisana mattutina, mangio un cucchiaio della mia marmellata fatta in casa... Non pensavo che questo potesse... Oh mio Dio...» finì in un pianto dirotto. Il poliziotto fece per dire qualcosa ma fu interrotto dalla voce di una donna che ansimava, un gemito che cresceva, a cui presto si unì quello di uomo. I due finivano in un crescendo di gemiti e sospiri d'amore. Il poliziotto più giovane represse a malapena una risata, mentre la vecchia armeggiava con uno smartphone ultima generazione che evidentemente non riusciva ancora ad usare bene.
«Oh, vi prego di scusarmi» mormorò la vecchia, mortificata, mentre spegneva il cellulare «non sono pratica di queste diavolerie, quel simpatico di mio nipote mi ha messo questa suoneria oscena, adesso è a Londra e non mi decido mai ad andare in un negozio a farmela cambiare...»
«Signora, se vuole posso aiutarla io!» si offrì il giovane agente. L'altro gli lanciò un'occhiata fulminante, quindi si rivolse alla vecchia signora.
«Non si preoccupi» la rassicurò il superiore. Guardò l'orologio. Il medico legale stava arrivando.
Che giornata di merda, pensò, mentre fissava il cielo carico di nubi. Fece cenno all'infermiere perché proseguisse col suo lavoro. Gettò un ultimo sguardo al cadavere, dal lenzuolo spuntavano ben visibili un paio di stivali neri di pelle. Gli venne in mente una canzone, non ricordava bene di chi fosse... Se morirai, muori con gli stivali addosso. Sospirò. Certo che ce n'era in giro di di gente strana! Chissà cos'era passato per la testa di quella donna...
Il giovane agente rivolse un'occhiata comprensiva alla dolce vecchina. Gli occhi caddero sulla sua borsa aperta da cui stava per cadere qualcosa, ma quando fece per avvicinarsi ed aiutarla, la vecchietta si affrettò a spingere all'interno il vasetto foderato da una stoffa a quadri verdi, e a richiudere velocemente la lampo.
«La mia marmellata...» si affrettò a spiegare, con un leggero tremito nella voce. L'agente sorrise e si allontanò, non dava minimamente peso alle manie di una vecchietta ancora turbata dagli eventi.



Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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view post Posted on 8/8/2014, 21:34

Alto Sacerdote di Grumbar

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view post Posted on 8/8/2014, 23:32
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