www.youtube.com/watch?v=syc78JzHGTsIl Cavallo di Bastoni
Di Francesco Nucera
I gomiti poggiati sulle ginocchia, il mento tra le mani. Giuseppe osservò il sole andare a riposare dietro le gradinate deserte. Proprio come quel posto, in cui un tempo si respirava l'aria della rivincita. Solo una volta l'anno, ma che bastava per i trecentosessantacinque giorni a venire. Nei novanta minuti, chi era rimasto sfidava chi era tornato sfoggiando i propri successi. Giuseppe alzò lo sguardo, dietro gli ulivi piegati dal vento intravide il campanile della vecchia chiesa. Un soffio di vento caldo trascinò con se la polvere dal campo spoglio. Gli unici segni di verde erano delle erbacce, che crescevano vicino alla panchina da cui si alzò. Le gambe, intirizzite dalla posizione scomoda, non gli permisero di fare il primo passo.
«Giocavate veramente qui?» Fabio sbucò da sotto la recinzione metallica.
«Sì.» Giuseppe nascose gli occhi gonfi.
«E poi?»
L'uomo si abbassò, raccolse il figlio, e lo sollevò alla sua altezza. Avvicinò le labbra alle sue orecchie, e tese l'indice verso la porta priva di reti.
«Una volta, alla tua età, lì segnai un gol.» Tirò su con il naso. «Ma il merito fu tutto di tuo nonno Enzo. Ne aveva scartati quattro, portiere compreso. Io ho solo spinto la palla in porta.» Fu uno sforzo impedire alle lacrime di scendere copiose.
«E avete vinto?» Gli occhi di Fabio brillarono.
Giuseppe sorrise vedendo la felicità del figlio. «Come sempre. Questi paesani non potevano fermarci. Con noi c'erano giocatori di tutto il mondo. Pensa che uno giocava nella serie A canadese.»
Lo sguardo sognante di Fabio lo riportò a quelle torride domeniche di Agosto, quando le strade del paese si riempivano di gente rientrata ad ammirare la Madonna.
«Anch'io voglio giocare con te.» Il bambino si divincolò ricadendo a terra. Come una molla rimbalzò sul terreno e corse verso la porta.
Giuseppe inspirò profondamente, quanto avrebbe voluto regalargli quel gol. Rabbia e angoscia lo attanagliavano da sempre, e quella domanda: “perché?”.
Un'idea gli balenò in mente: Avrebbe giocato la partita.
Quella sera non toccò cibo. Continuò a fissare la forchetta che rifletteva la luce della lampadina.
«Perché non si fa più la partita con i forestieri?»
Suo zio Nicola si sporse in avanti. Il baccano dei bambini, che correvano attorno al tavolo, copriva ogni voce.
«Perché non si fa più la partita con i forestieri?» Alzò il tono per superare gli schiamazzi.
Incurante del pezzo di carne che gli pendeva dai baffi, Nicola si alzò dal tavolo per sederglisi affianco.
«Perché non ce n'è più.» Prese un piccolo bicchiere ricolmo di vino e lo portò alla bocca. «La crisi ha colpito tutti, e la gente non torna più al paese. E poi...» Sollevò gli occhi al soffitto e si morse la lingua. «...eravamo troppo forti.»
«Rifacciamola. Solo noi potremmo fare mezza squadra.» Con la mano indicò i cugini intenti a placare i giochi dei bambini.
«No.» La risposta secca di Nicola lo sorprese. Gli aveva sempre fatto da secondo padre, e non era mai riuscito a dirgli di no.
«Cosa vuoi che sia. È solo una partita.» Eppure stava diventando così importante per lui.
«No. Non ti aiuterò.»
Durante i secondi di silenzio che seguirono, Giuseppe non riuscì a pensare ad altro. Voleva rimettere gli scarponcini da calcio, per correre accanto a Fabio, e magari regalargli la stessa emozione indelebile.
«Dimmi chi le organizzava!»
«Cosa?»
«Le partite.»
Nicola fissò il vuoto; pensieroso arrotolò l'angolo dei baffi ingialliti dal tabacco. «Le ultime le ha organizzate Turi “lo Sciancato”, ma è passato quasi un decennio.» Liberò la peluria e si concentrò sull'interno del naso. «Ma lascia perdere, tra due giorni torniamo a Milano!»
«Hai ragione,» Giuseppe si alzò dal tavolo. «ho poco tempo per organizzare.»
La morsa ferrea di Nicola gli bloccò il polso. «Però fai attenzione.» Nei suoi occhi azzurri non c'era nemmeno una traccia dell'alcol ingerito. «Per qualcuno non è mai stata una festa.»
Giuseppe si voltò alla ricerca del figlio. «Metti tu a letto Fabio. Io torno presto.»
Lasciò lo zio intento a riempire l'ennesimo bicchiere. Lui aveva una partita da organizzare.
Appena chiuse la porta di casa, il baccano dei bambini sparì, sovrastato dal cicalio diffuso che lo riportò a quando era bambino. Serrò gli occhi, sperando di sentire ancora la voce del padre, che gli diceva quale fosse il carro maggiore.
Camminò distratto, osservando le pareti grezze e i tetti dissestati di quel paese in rovina. Sembrava quasi che le case volessero inglobare le strade sconnesse. Fuori dal “Bar Centrale”, dove aveva osservato il padre giocare a carte con gli altri uomini del paese, i bambini di allora picchiavano sul tavolo proprio come avevano fatto i genitori. Giuseppe scostò la tendina di plastica a striscioline. All'interno c'erano poche persone intente a bere, nessuno sembrò prestargli attenzione. Sul fondo, dietro il bancone immutato nel tempo, c'era il barista, con cui gli anni non erano stati altrettanto clementi. Il mezzo sorriso con cui l'accolse gli fece capire che l'aveva riconosciuto.
«Tu sei...» Strinse gli occhi cercando di recuperare l'immagine dal passato. «...Il figlio di Enzo.» Le labbra persero l'espressione gioviale. «Mi è dispiaciuto tanto per lui,» Fece il segno della croce. «Era un brav'uomo.»
Giuseppe si limitò a fare spallucce e a ordinare un caffè.
«Come mai sei tornato?»
«Il nonno sta male. Sono venuto a trovarlo.»
Ancora una volta il vecchio si contrasse in una smorfia addolorata. «Povero compare Giuseppe,» Sospirò. «il medico dice che gli resta poco.»
«Già.»
«Ma so che tu hai fatto carriera.» Finalmente il tono del barista tornò ad essere allegro. «Mi hanno detto che sei tenente.»
«Già.» Giuseppe non aveva mai tollerato quell'aspetto del paese. Tutti sapevano tutto di tutti. Ma quella sera poteva tornargli utile. «Mi sai dire dove posso trovare Turi lo Sciancato?»
La mascella del vecchio si indurì impercettibilmente. «Perché lo vuoi sapere?»
«Voglio parlargli del campo.»
«E che gli vuoi chiedere?»
Quell'atteggiamento insospettì Giuseppe che, sebbene in ferie, poteva sentire il distintivo premere sul gluteo. «C'è qualche problema?»
«No, nessuno.» Si guardò attorno. «Lo trovi alle macchinette.» Sollevò l'indice scheletrico e indicò una porta che dava sulla vecchia sala giochi.
Giuseppe lasciò la tazzina intonsa sul bancone e si voltò. Le facce inespressive che l'avevano accolto, sparirono man mano che le incrociava. Chi sotto la visiera in tessuto della coppola, chi dietro un giornale. Ma ebbe l'impressione che tutti lo stessero osservando. Un brivido alla schiena gli fece capire che si stava infilando in una brutta storia. Fece un passo incerto. Poi ricordò gli occhi sognanti di Fabio e andò avanti. La partita era troppo importante.
La sala sul retro era satura di fumo. Persino il cartello di divieto era ingiallito dalla nicotina. Al buio si potevano vedere solo le luci dei video poker, che illuminavano le facce inebetite dei giocatori. Tra questi, riconobbe il suo vecchio amico. Lo raggiunse cercando di fare meno rumore possibile, anche se nel baccano di quella stanza, non si sarebbe sentito nemmeno il colpo di un cannone. Le musichette, e il rumore dei gettoni spesi, superava di gran lunga la soglia di sopportazione umana.
«Non ti muovere.» Gli bloccò il mento con il braccio, premendogli la nuca contro il petto. Istintivamente Turi si divincolò. Dopo averlo spintonato portò la mano dietro la cintura, ma si bloccò vedendo l'espressione divertita di Giuseppe.
«Mi hai fatto spaventare.» Le rughe sulla fronte si distesero.
«Certo che per essere uno sciancato ti muovi veloce.» Il poliziotto scoppiò a ridere. «Lascia la macchinetta e vieniti a bere un caffè.»
«E vuoi che mi scomodi per un caffè?»Turi inarcò il sopracciglio, allungando una cicatrice che partiva dal lobo e saliva fino all'angolo dell'occhio. «E poi mica posso farmi vedere con uno sbirro.» Il tono ilare mal celò la serietà dell'affermazione. Giuseppe sapeva bene che il suo amico era finito in giri poco raccomandabili. Ma non gli interessava, a lui serviva solo per la partita.
«Vorrà dire che ti offrirò quello che vuoi.»
Turi alzò il pugno chiuso. Dal buio sbucò un ragazzino che prese il suo posto.
«Sei qui da una settimana e vieni solo ora a salutarmi?»
Giuseppe fece spallucce imbarazzato. Dava più di venti centimetri al suo amico, come succedeva per il novanta per cento delle persone, eppure quello non sembrava per nulla intimorito.
«Dimmi cosa vuoi.»
«Voglio riorganizzare la partita con gli emigranti.»
Turi bloccò il caracollare per guardare meglio il poliziotto. Sembrò cercare sul suo volto qualcosa che gli dicesse che stava scherzando. Dopo un secondo scoppiò a ridere.
«Vai in comune. Che vuoi da me.»
«So che organizzavi tu.»
Lo sciancato tornò ad essere serio. Raggiunse il banco e ci si aggrappò. «E tu dopo trent'anni ti presenti per questo?»
«Solo per la partita.»
«Mi dispiace ma non posso.» Era sincero.
«Almeno dimmi a chi chiedere.» Giuseppe afferrò per il braccio lo sciancato, che cercava di tornare alle macchinette. Voleva giocare quella partita.
Turi guardò la mano di Giuseppe, che liberò la presa.
«Perché vuoi giocare?» Non batté nemmeno le ciglia mentre lo fissava.
«Lo sai.» Il poliziotto abbassò gli occhi sul pavimento. «Mio papà.»
«Era una brava persona.» Turi distolse lo sguardo, incapace di reggere l'affermazione. «Comunque non posso nulla.» Si guardò attorno nervoso. «Ora vado, è meglio se non mi faccia trovare allo scoperto.» Sorrise.
«Dimmi almeno a chi chiedere. Per favore.»
«Attorno a quelle partite giravano molti soldi,» Turi sfregò la grossa mano callosa sul collo, mostrando l'inizio di un'altra cicatrice che si perdeva sotto la camicia. «non posso.» Dicendo questo, diede un colpetto alla tazzina, facendole fare un giro completo. Con il cucchiaino picchiò due volte contro il banco e urtò la stessa che si rovesciò. Giuseppe a quel suono sgranò gli occhi, era un segnale, uno di quelli che avevano studiato per battere i vecchi a carte.
Prese il cucchiaino in mano e lo strofinò tra il pollice e l'indice. Sapeva cosa volevano dire quei segni.
«È il...» Non finì la frase.
Dalla strada arrivò lo stridere di gomme. Una macchina si fermò. Tre tizi, vestiti di nero, scesero di corsa. Turi, che in un primo momento aveva cercato di raggiungere la porta sul retro, si bloccò. Riempì il petto e sistemò il colletto bianco. Sollevò la mano destra aperta «Non ce n'è bisogno.»
Giuseppe vide quei tre richiudere la giacca, sotto cui notò un rigonfiamento familiare. Doveva intervenire, sia come poliziotto che come uomo. Improvvisamente si sentì leggero. Non aveva con se la sua pistola, ma solo il cucchiaino che mise in tasca. Ciò nonostante avanzò frapponendosi fra Turi e i nuovi arrivati.
«Cosa volete?»
Il più piccolo piegò la testa di lato, guardandolo dal basso verso l'alto. Socchiuse gli occhi cercando di soppesare quel tipo che non aveva mai visto. In quel momento, qualcosa colpì il poliziotto alla testa. Giuseppe cercò di rialzarsi, non con l'idea che fosse in pericolo, ma che così perdeva il contatto per organizzare la partita. Un altro colpo gli fece perdere i sensi.
Il rumore lontano di uno schiaffo richiamò Giuseppe dal baratro in cui si trovava. Provò a toccarsi la fronte che bruciava, ma il polso era bloccato. Non riuscì ad aprire gli occhi incrostati dal sangue.
Il “settebello” e il “cavallo di bastoni”. Ecco cosa voleva dirgli Turi. Ma non capiva perché.
«Ti chiedo di portarmi lo Sciancato,» Un altro rumore seguito da qualcosa di pesante che cadeva a terra. «e tu ti porti dietro un poliziotto.» Un colpo sordo, un gemito. «E per giunta chi è? Il figlio del Cavallo di Bastoni»
Un flash lo riportò nel box di casa. Camminava lento, verso i pantaloni che svolazzavano a venti centimetri dal pavimento. Le scarpe, che gocciolavano dalle punte rivolte verso il basso, penzolavano su una pozza di liquami. Giuseppe si avvicinò, fissando la fibbia del padre e la carta che sporgeva dalla tasca: un uomo a cavallo, che impugnava un grosso bastone. Si abbassò, cercando di superare con lo sguardo lo scaffale che gli parava la vista. Due mani lo afferrarono trascinandolo via. Lo zio Nicola lo abbracciò.
Un getto d'acqua fresca lo riportò al presente. Finalmente libere dalle croste, le palpebre si aprirono, mostrando il volto familiare di un anziano.
«Spero che capirai che questo è stato un malinteso.»
Legato alla sedia, Giuseppe si guardò attorno. Era in un posto poco illuminato, non sapeva se era lui ad emanare quell'odore, ma c'era un forte tanfo di sangue. A un metro, piegato ai piedi degli altri due, c'era uno degli uomini che aveva affrontato nel bar.
«Giovanni non sapeva chi fossi,» L'anziano si voltò sputando a terra. «ma stai tranquillo che ha capito l'errore.» Gli andò in contro, si chinò e lo carezzò. Il contatto con la parte liscia degli anelli gli procurò un lieve sollievo. «Ora sta a te perdonarci.»
Il poliziotto sorrise, ma subito si contrasse in una smorfia di dolore, la mandibola sembrava non rispondere. «Tu sei il Settebello?» Il fuoco gli avvampò lo stomaco.
L'anziano portò le mani al petto ritirandosi. «Io sono solo Don Antonio. Un povero vecchio della Sila.»
Giuseppe rivide la tazzina rovesciarsi colpita dal cucchiaino. Il “cavallo di bastoni” colpito dal “settebello”. La carta nei pantaloni, le scommesse. E quel gol, per cui lui aveva esultato tra le braccia del padre. A distanza di trent'anni avrebbe voluto guardarlo in faccia, per leggere i suoi sentimenti. Strattonò i polsi legati dietro la schiena, ma qualsiasi cosa lo stesse trattenendo non cedette.
«Scusaci, ma prima dobbiamo capire le tue intenzioni.»
Cercò di ricomporsi, non poteva far trapelare la furia che lo stava divorando.
«Lo Sciancato dice che vuoi giocare una partita.» Il vecchio gli si sedette davanti, aprendo e chiudendo le mani giunte. «Perché?»
«Perché voglio fare un regalo a mio figlio.»
Don Antonio sorrise, mostrando i denti d'oro. «Possono costare care quelle partite.» Si voltò compiaciuto verso l'uomo basso che rispose ghignando. «E tu torni dopo una vita solo per giocare una partita?»
«Sì.»
«Te la darò. Ma a un patto.» Il mafioso si passò l'indice e il pollice sugli angoli della bocca. «Convincerai il figlio del canadese a giocare. E poi perderai.»
Giuseppe tese tutti i muscoli per contenere l'urlo di rabbia che pretendeva il suo spazio. Ma annuì.
Soddisfatto, Don Antonio, guardò i suoi uomini e alzò l'indice. Qualcuno sciolse i nodi che tenevano prigioniero Giuseppe. Prima le caviglie, poi i polsi. Appena libero afferrò con la mano destra la sedia che volò verso le due guardie. Fece perno sul piede sinistro, dopo una giravolta si ritrovò alle spalle dello storpio. Come nella sala giochi gli bloccò il collo, frapponendolo fra se e le armi pronte a sparare. Turi provò a divincolarsi, ma ogni tentativo fu vano. Qualcosa di duro premette contro le coscia di Giuseppe.
«Fermi o gli spezzo il collo.»
Don Antonio rise e si voltò incurante della minaccia.
Giuseppe era spacciato, Turi una pedina che avrebbero sacrificato volentieri. Ma doveva sopravvivere, tutti dovevano sapere che suo padre non si era suicidato. Sfilò la pistola dai pantaloni del suo scudo, e premette tre volte il grilletto. Una delle guardie gemette ricadendo a terra. Gli schizzi di sangue, e il peso improvviso del corpo che tratteneva, gli fecero capire che lo Sciancato era morto. Prima di lasciarlo sparò altri due colpi. Gli rimaneva un solo avversario più il vecchio. Un forte dolore alla gamba fece piegare Giuseppe che sparò ricadendo in avanti. Un'altra guardia urlò colpita ai testicoli.
L'anziano si acquattò, cercando di raggiungere una pistola finita a un metro da lui.
«Stai fermo.»
Don Antonio rimase immobile con le mani tese. «Che vuoi fare?»
Giuseppe si alzò stringendo i denti, la gamba era intrisa di sangue. «Quanto avevi scommesso?»
«Non so di cosa parli.»
«Quanto?» Non urlò, ma la sua voce pretendeva verità.
«Cinquecento milioni di lire.» I denti digrignati rigettarono disprezzo. «E quello stupido di tuo padre...»
Spaventato, Don Antonio portò le mani in avanti, cercando di pararsi il volto dalla pistola che Giuseppe gli puntò in faccia. La rabbia vinse sulla ragione, doveva zittirlo per sempre. Il grilletto scattò. Non ci fu nessuno sparo, ma solo il rumore del metallo. Don Antonio corse verso l'arma a pochi passi da lui. Giuseppe gli saltò addosso, incurante del dolore. Caddero entrambi sul pavimento. Il vecchio era spacciato, non poteva nulla contro di lui.
Un forte dolore all'addome fece piegare il poliziotto, che si trovò tra le mani il manico del coltello che penzolava dallo stomaco.
La vista gli si annebbiò, mente i denti d'oro comparivano davanti ai suoi occhi.
«Salutami il Cavallo di Bastoni.»
Con le ultime forze, Giuseppe sfilò il cucchiaio dalla tasca. Il sorriso del vecchio si riempi del sangue che gli inondò la gola squarciata. Un ultimo colpo gli trafisse le tempie. Giuseppe rimase sdraiato a terra, la partita era finita.
Il numero sette scattò sulla fascia, all'altezza della trequarti di campo avversaria. Stoppò il pallone con il petto e, prima che toccasse terra, lo spostò di quel tanto che sbilanciò il terzino. Saltò il secondo difensore con una finta e via dritto nell'aria di rigore. Solo il portiere davanti. Tocco sotto e anche al numero uno non restò che guardarlo andare verso la porta. Solo, indisturbato. Alla sua sinistra, il numero tredici, con una maglietta troppo grande, arrivò a lunghe falcate. Il sette, sorridendo, gli passò il pallone ed esultò con lui per il gol della vittoria. Gli emigrati vinsero la prima partita dopo uno stop di un decennio. Sugli spalti Giuseppe esultò per il gol del suo bambino. Avrebbe voluto correre in campo e sollevarlo come aveva fatto suo padre, ma i punti all'addome glie lo impedirono. Si sedette dolorante, una lacrima gli solcò il viso. Per la prima volta si chiese cosa sarebbe accaduto se quel pallone fosse finito fuori, se avesse sbagliato. Con l'indice scacciò la tristezza. Quel gol, rimaneva il ricordo più bello della sua vita.
Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
Edited by Ceranu - 8/8/2014, 22:06