VideoFORFAIT
Di Alexandra Fischer
- Basta – grida.
Poi ferma l’autobus con una frenata brusca da reclamo, ma tanto, non ce ne saranno.
Sono l’unica passeggera, ma da sola riesco a farlo infuriare più di una comitiva di scalmanati.
Non è un orario molto di punta, questo, soprattutto d’estate.
Vorrei evitare questi siparietti, ma è più forte di me.
Quando salgo qui sopra e mi siedo dietro di lui, divento un’altra persona.
Anzi, proprio l’Altra.
È colpa di quella maledetta se tutte le volte che c’è lui di servizio divento così.
Cos’ho combinato di tanto offensivo, stavolta?
A parte passarmi sulle labbra il gloss rosa confetto guardandomi nello specchietto da trucco con il coperchio a fiori.
Ho paura che il suo grido e la frenata mi abbiano fatto combinare un pasticcio.
Non sia mai che io scenda di qui con delle sbavature rosate sotto il naso e sul mento.
Qualcuno potrebbe farsi delle idee sbagliate.
Lui non si rende conto di stare complicando l’equivoco alzandosi dal posto di guida e trascinandomi giù dal sedile, facendomi sbattere in avanti.
Che malinteso.
Ho battuto la fronte contro la fibbia della cintura.
E qualcuno ha appena bussato contro la porta chiusa del pullman.
Voglio sentire come la spieghi.
Difatti, si stacca da me, mentre mi massaggio la fronte e mi controllo la faccia nello specchietto.
Non l’avessi mai fatto.
Ho addirittura un colorito nerastro e i miei lineamenti sono sciolti come un pezzo di burro in padella.
Mi allarmo.
Gli chiedo, stizzita:- Si può sapere come mai mi tratti così?
- Metti via quello specchietto e quel gloss.
- Ma che ti importa, scusa?
Ha i lineamenti stravolti dalla collera.
La pelle è chiazzata di rosso e c’è qualche filo biancastro fra i suoi capelli cortissimi.
Sono particolari sui quali mi soffermo d’istinto, per non cadere vittima dei suoi cambi d’umore.
Ci mancherebbe.
Non ho voluto iniziare io questo gioco, cominciato molto prima che trovassi lo specchietto e il gloss.
La colpa è stata del braccialetto che ho trovato nello spazio fra un sedile e l’altro.
Un modello a catenina, con attaccati dei Charms, tipo teiera, fetta di torta e un grosso cucchiaio centrale.
Rizius lo ha preso con grande commozione, ringraziandomi.
È così che abbiamo cominciato a chiacchierare: mi ha mostrato il braccialetto, dicendo che lo ha creato lui.
Mi ha detto la verità, qualche giorno dopo, ne ho vista una copia, in un negozio del centro.
Poi mi ha detto che, quello di creare gioielli, è un lavoro che ha eseguito in passato, prima di cambiare mestiere.
E il monile che gli ho ritrovato, è un caro ricordo di quel periodo.
La scena commovente mi viene in mente ora; sto per alzarmi, quando, la vista di chi sta per salire, mi costringe a rannicchiarmi sul sedile subito dietro al mio girando la testa perché la persona appena arrivata non mi guardi in faccia.
Riconosco quel braccialetto al suo polso.
Soprattutto il grosso cucchiaio di smalto rosa.
Non credo alle coincidenze.
E il gingillo addosso a quella ragazza, che un po’ mi somiglia, ha qualcosa di funerario.
La paura, purtroppo, mi ha reso distratta.
Ho dimenticato lo specchietto e il gloss sul sedile accanto a me.
La nuova arrivata, piuttosto carina, capelli neri con i boccoli, li nota.
Dice a Rizius:- E questi? Sembra che tu li abbia portati via da una fossa scavata di fresco. Cosa c’è? Sei anche necrofilo?
- Senti – replica lui – ho fretta di ripartire. Devi salire?
- No, ho cambiato idea.
La sua mano smuove l’aria accanto al mio sedile, come se io non ci fossi.
- C’è un odore tremendo. Cosa fai? Contrabbando di cadaveri?
- Ne vedi forse uno? – ribatte lui, mentre avvia il motore.
- No, ma mi era sembrato di vedertici insieme -gli dice lei, socchiudendo gli occhi nella mia direzione.
Poi si sfila il braccialetto di dosso:- Dovresti piantarla con questo trucco del braccialetto smarrito, ormai non convince più nessuno.
La brunetta si guarda nello specchio laterale dell’autobus, prima di scendere:- Guarda che faccia, sembro La Donna Selvaggia. Accidenti a me a quando mi si è rotta la borsa dalla pensilina. D’ora in poi prenderò il primo pullman del mattino.
E allora capisco di essere in presenza della proprietaria dello specchietto e del gloss che ho preso dalla panchina che c’è sotto la pensilina dell’autobus.
L’ho fatto qualche giorno fa e non è neppure la prima volta.
Mi piace prendere quello che la gente smarrisce, la considero un’abitudine lodevole: la gente dimentica tante cose che possono tornare utili.
Ho di tutto: cappelli, sciarpe, braccialetti della buona fortuna e anche una bussola in miniatura perfettamente funzionante.
Tutti ritrovati sulla panchina della pensilina dell’autobus.
Inclusi i due articoli da profumeria che fanno arricciare il naso alla brunetta.
Non immaginavo che uno specchietto da trucco di plastica a fiori e un gloss potessero mettermi nei guai a questa maniera.
E dire che li ho presi per sembrare più carina, alla moda.
In fondo, sullo specchietto c’è solo qualche graffio sul disegno a fiori e il tubetto del gloss è pieno a metà.
Ora che credo di sapere a chi appartengono, mi pento di essermene impossessata.
Si capisce che questa tipa è una matta.
Dopo essersi sistemata qualche boccolo, passa di nuovo in rassegna i sedili con occhio distratto.
Come fa a non notarmi?
A meno che la sua non sia una strategia per farmi scendere al livello della robaccia con la quale si è sporcata gli stivaletti bianchi.
Poi noto qualcosa di vitreo, nel suo sguardo.
E capisco con chi ho a che fare.
Lei è quella che ha più contatti di me con la decomposizione.
Rizius, com’è logico, non è affatto tranquillo.
E i suoi lineamenti sono tirati per un’improvvisa stanchezza.
- Se non devi andare da nessuna parte, smonta – le dice – mi hai fatto perdere abbastanza tempo.
- Beh, volentieri – sbuffa la brunetta – ma non ero certo io a gingillarmi in servizio…così.
Muove la testa in modo allusivo, mentre scende.
E sui gradini rimane qualcosa di appiccicoso e marroncino, dalle esalazioni, queste sì, cimiteriali.
Tiro fuori le salviettine umidificate dalla borsetta e mi offro di pulire i gradini.
Rizius è in collera anche con me.
- Complimenti – sbotta sarcastico, alzando il pollice – questo è proprio un capolavoro degno di te. L’hai fatta innervosire e venire qui proprio quando stava per ritrovare la pace. Non ti stancherai mai di quel tuo vizio schifoso? Ti vedo, sai, mentre raccogli la chincaglieria che la gente dimentica sulla panchina.
- Non è colpa mia. Sei tu che hai lasciato uno specchietto da trucco e un gloss che pensavo di comperare- gli dico, mentre mi chino per pulire.
Non è facile togliere quella roba dalla moquette con delle salviettine che si strappano quasi subito: sembra un misto di terra cimiteriale, sterco animale e gomma da masticare eppure ci riesco.
Solo che le mie mani si sono annerite.
Dovrebbero essere marroni, invece hanno assunto proprio il colore di decomposizione che ho visto nello specchietto.
Quando me ne rendo conto, finisco tutta la confezione di salviettine.
Quello che mi disgusta di più, è l’odore che esala dalla mia pelle.
Sembro davvero una salma fuggita dalla fossa.
Alzo le mani verso Rizius.
- Guarda ho fatto del mio meglio – gli dico – possiamo ripartire.
- No – dice lui – dobbiamo aspettare che salga gente.
- Speriamo meglio di quella matta di prima – gli dico, mentre mi rifaccio l’acconciatura con un elastico bianco che ho trovato, neanche a farlo apposta, sulla panchina.
Non ho ancora finito di sistemare la mia coda di cavallo laterale, molto Anni ’80, che Rizius mi urla:- Disfa subito quello schifo.
Che sia per via dell’elastico?
Lo escludo; prima di usarlo, l’ho pulito con il disinfettante.
Poi, faccio mente locale.
Rizius non vuole che mi leghi i capelli in sua presenza.
E io stavolta vorrei disobbedirgli.
- Siediti qui – mi ordina.
E “qui” è lo spazio accanto al luogo di manovra.
Mi tira via l’elastico dalla coda con un gesto secco, che lo rompe, facendolo saltare via.
Per un attimo, mi sembra un verme da tomba a dieta.
Rizius mi tira i capelli.
- Così – dice.
Sono ancora in ginocchio accanto a lui.
All’improvviso sale qualcuno.
- Ops – ride una voce di adolescente – scusate.
- No, no – dice Rizius – sali pure.
E a me:- Per quel che riguarda la sua lente a contatto, mi dispiace. Cosa vuole farci.
Il viaggio prosegue senza incidenti.
Io mi sono accomodata al solito posto, con i capelli sciolti davanti alla faccia e senza più il mio elastico, strisciato da qualche parte sui gradini, ne sono sicura.
Quando c’è Rizius, non può essere che così.
Ho paura, ora che siamo al capolinea.
Ferma e si volta verso di me.
Ha la pelle troppo rosata e intatta e tutti i denti, bianchi e diritti, mentre io temo di specchiarmi.
Le mie mani sono ancora annerite.
Mando anche un odore soffocante.
Scendo e mi volto verso di lui.
- Rendi pure lo specchietto e il gloss a quella persona – gli dico.
- Davvero, non ti piacciono più?
Alzo l’indice e faccio un segno di diniego.
- Il gioco è andato troppo avanti per me. Lo ammetto. Credevo di essere migliore. Non avere torto ad accettare di chiacchierare quando non c’è nessuno.
- E ora?
- Non ce la faccio. Vai troppo di fretta. Non riesco a stare al tuo passo. Ormai non posso più continuare questa corsa. Sì, lo ammetto.
Rizius mi fa uno dei suoi sorrisi affascinanti.
Ha un aspetto anacronistico, con la sua scriminatura in mezzo alla fronte e le basette.
Molto Anni ’30.
Vorrei scappare via ed evitare questi ultimi saluti.
Io ho un aspetto devastato, decomposto.
E lui appare ringiovanito ogni volta.
Se ripenso alla prima volta che mi ha afferrata per i capelli mentre scendevo dal pullman quando non c’era più nessuno, capisco chi è in realtà Rizius.
O, meglio, che cos’è.
Difatti, già allora, gli era scomparsa l’espressione di stanchezza dal volto e anche le occhiaie.
- Fai come vuoi – dice lui sorridendo.
Gli occhi castano chiaro appaiono innocenti.
Ma lo so che fa così perché si diverte a vedere quanto male mi faccio per tornare da lui e partecipare al suo gioco morboso, da necrofili, è proprio vero.
Mi costringe a impersonare qualcuno che non c’è più da tanto tempo e che ora dovrebbe essere lasciato in pace a marcire nella fossa.
E che io oggi ho fatto tornare, per un viaggetto chiarificatore.
A quanto sembra, lo sta aspettando nella fossa e non tollera che gli ronzano intorno delle sosia viventi.
Di qui il nero e lo sporco nella mia carnagione.
Tutte le volte che salgo su questo pullman e siamo da soli, è la stessa storia.
Anche lui sta imputridendo, pur essendo ancora vivo, perché non riesce a staccarsi da quella fossa e ha corrotto anche me.
Crede di avere ragione, di non sbagliare mai.
E con me, finge di essere qualcun altro.
Più alla mia portata.
Asseconda i miei gusti.
Ma in cambio, quando comincia a corrompersi, mi sottrae energia attraverso i capelli.
Ora basta.
Stavolta lo dico io.
Ci siamo fatti troppe figuracce, oggi.
E lo sterco che mi sento addosso ogni volta che scendo, è più appiccicoso di quello che ho ripulito oggi dai gradini.
Il vantaggio di questa suggestione, rispetto all’essere vampirizzati, è che posso scendere e decidere di cambiare fermata.
Ed è quello che farò.
Basta, do forfait.
Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine