Questa volta dovrei esserci. L'ho anche riletto, ma gli errori di battitura... mamma mia quanto mi sfuggono!!!
Il cane triste
di Nazareno Marzetti
Era come se quel cagnolino stesse aspettando me: appena uscì nella via si mosse sulle zampette facendo uno strano balletto come se volesse scattare in avanti ma si fosse trattenuto all'ultimo. Era sicuramente un bastardino: il manto era un mantello nero bordato di marrone, su un petto e un muso bianco. Mi fissava con gli occhioni castani, quasi aspettasse qualcosa. Gli feci annusare la mano prima di fargli una carezza.
La sera lo trovai ancora lì e non riuscì ad ignorarlo. Pareva non essere di nessuno del condominio o di quelli vicini e non potei fare altro che portarlo in appartamento. In frigo avevo le polpette della sera prima e una mozzarella: nessuno di noi due fece una cena soddisfacente.
Quella notte il cagnolino venne a trovarmi in sogno: era un ragazzino adolescente, a petto nudo e sporco, i capelli neri, lunghi. Eravamo in uno spiazzo di terra battuta e merda di galline, davanti una casa di mattoni e calce. Parlammo a lungo. Mi disse «Per favore, riportami a casa» e io gli promisi che l'avrei fatto.
Mi presi alcune ore di permesso e lo portai dal veterinario. «Sta bene» mi disse «ma non ha nessun microchip identificativo.»
«Che significa?»
«Che probabilmente è un randagio o il padrone non lo ha mai portato da un veterinario.» Rispose. Gli mise il microchip, era obbligato per legge, mi spiegò. Credo che gli fece male, ma non guaì. «Lo vuole tenere?»
«Non lo so... Vorrei riportarlo a casa.»
«Può lasciarlo al canile comunale.» Mi diede un biglietto da visita con indirizzo e una mini mappa. «Ma, se decide di tenerlo, deve farlo vaccinare.»
Che altro potevo fare? Glielo avevo promesso. Dovetti scegliergli un nome e, non sapendo quale potesse essere il suo vero nome, optai per Nemo.
Era lo stesso bambino della notte prima, con i capelli chiari e gli occhi tristi. Stavo appoggiato a un albero e lui stava semi addormentato appoggiato al mio petto. «Voglio tornare a casa.» Mi disse, con voce impastata dal sonno. «Dov'è la tua casa?» chiesi.
«È questa.» Alzai lo sguardo. Camminavamo nello spiazzo di terra battuta sporco. Da una parte la casa di mattoni, dall'altra una costruzione più piccola, sempre in mattoni ma più recente. Una delle pareti era fatta in modo da lasciare uno spazio tra un mattone e quello a fianco, e lasciava poco meno di un metro prima del soffitto. Puzzava di animali. Entrammo nella casupola più piccola, c'erano cocci di ceramica bianca. Mi svegliai con la sfuggente sensazione di esserci già stato in quel posto. Quel giorno non riuscii a concentrarmi sul lavoro: continuavo a ripensare al sogno e a quella casa di mattoni così familiari.
Rientrando incontrai la signora che abitava al piano di sotto. «Buonasera.»
«Buonasera.» Di solito bastava così, ma quella sera ero un po' preoccupato. «Spero che Nemo non le abbia dato fastidio.»
«Nemo?»
«Il cane che ho trovato l'altro ieri.»
«Ah, quel cucciolo!» Non l'avevo mai vista sorridere. Ha un bel sorriso. «No. Non l'ho proprio sentito. Hai deciso di tenerlo alla fine?»
«Sto cercando la sua casa.»
«Fai bene. Hai preso una cuccia? E il cibo? I cani sono molto esigenti, ma ti riempiono la vita.»
«Sì» risposi e salutai frettolosamente.
Nemo stava ad aspettarmi davanti alla porta. Non scodinzolava, semplicemente aspettava. Sorvolo sui danni che un cucciolo può fare se lasciato in casa da solo. «Piccolo,» gli dissi «Se devi stare qui, devi imparare a comportarti!» Gli misi il guinzaglio e lo portai a passeggio. Non abbaiò mai, e mi sembrò strano. Anche la signora al piano di sotto aveva detto che non lo aveva sentito.
Il giorno dopo lo riportai dal veterinario, che lo analizzò accuratamente. «Non credo sia muto. Forse gli è stato insegnato a non abbaiare.»
«È possibile?»
«Bhè... sì. Però... Sembra triste.»
«Credo che gli manchi il padrone.»
«Ha provato a mettere un annuncio?»
Giuro che non ci avevo pensato. Rimediai la sera stessa: scattai una foto e misi insieme un volantino con tanto di numero di telefono e mail. Approfittai della fotocopiatrice in segreteria e il pomeriggio attaccai il volantino in ogni fermata del bus, bar, palo della luce della città. Quando tornai a casa ero così stanco che, incrociando la signora del piano di sotto, riuscì appena a biascicare «Buonasera.»
«Oddio. Che hai fatto? Sembri tornato dalla guerra!» rispose al posto del solito buonasera e tanti saluti.
«Dalla guerra?» Mi venne da ridere «No, sono solo stato ad appendere questi volantini.» Gliene mostrai uno.
«Tutto il pomeriggio? Ma sono le nove di sera. Hai fatto cena?»
Scossi la testa.
«Aspetta.» Rientrò in casa e uscì subito dopo con un piatto di lasagne raggrinzite. «Questo qui lo scaldi al forno per dieci minuti. Ci metti un pentolino di acqua per evitare che si secchi. E, aspetta...» Mi mise il piatto in mano e rientrò per uscire con un sacchetto con un osso sporco di sugo. «Questo è per lui.»
Non riuscii a dire di no.
Credo di aver sognato Nemo anche la notte seguente, ma la mattina mi rimase solo una piacevole sensazione. Approfittai del fine per tornare nella casa in cui sono cresciuto, nella campagna appena fuori città. Girai tra le strutture diroccate con Nemo che mi zampettava dietro. Lo spiazzo, ancora brecciato, era così piccolo che la mia auto ne occupava la maggior parte, le scale erano strette e dovetti abbassare la testa per entrare in quella che era stata la mia stanza, ora senza il tetto. Avevo come la sensazione di essere un gigante intrufolatosi nella casa di un lillipuziano. Sulla parete erano rimasti i miei disegni, e la macchia pulita dove una volta c'era la testata del letto. La finestra che mi arrivava all'altezza delle spalle, con vetri talmente sottili che parevano crinarsi a parlare troppo vicino, tenuti insieme da adesivi blu trovati in qualche bustina. In cucina era rimasto il tavolo, ora talmente malconcio da sostenere appena il suo stesso peso. Nemo curiosava un po' in giro, tornava a guardarmi, ripartiva all'esplorazione e ritornava.
«Non era quella» mi disse la notte. Eravamo sdraiati in un letto immenso, le lenzuola ruvide ingrigite dal sapone e acqua di fiume. Lo abbracciavo, la sua schiena contro il mio petto, il mio braccio sotto la sua testa. Respiravo il sapore dei suoi capelli bianchi e nocciola.
«Dove si trova?» gli risposi. Guardavamo entrambi un mare azzurro nella notte buia.
«Non lo so.»
«Come faccio a trovarla?»
«Tu ci sei stato, per questo sono venuto da te.» Si accoccolò ancora più profondamente nel mio abbraccio «Me lo hai promesso. Aiutami a trovarla.»
La domenica mattina passò la signora del piano di sotto. Mi aveva portato il vecchio giaccone per farne un giaciglio a Nemo e dei biscotti fatti da lei. Mentre lei mi parlava, continuavo a pensare al sogno di quella notte. C'ero stato, ma non ricordavo quel posto. Il pomeriggio si mise a diluviare, ma non riuscii a restarmene a casa, così andai a trovare mio nonno all'ospizio. Ormai l'Alzheimer gli aveva rubato ogni ricordo. Non mi riconobbe neanche quel giorno, ma gradì la visita di Nemo. Lo chiamò Sbirolo, e gli diede comandi che Nemo eseguì prontamente. Seduto, cuccia, zampa. Gli portò anche il giornale, quando lo chiese. Parevano intendersi così bene che li lasciai fare. Passai il pomeriggio seduto su una panchina lungo il corridoio, a rimuginare su quel nome. Chi era Sbirolo?
«È il nome del cane che avevamo quando giù» mi rispose mia madre.
«Giù?»
«Sì, quando vivevamo a Serracapriola, prima che tu nascessi. Aspetta...» Da che ricordo, gli album di foto erano sempre stati sullo scaffale sopra la treccani. Le pagine si aprivano crepitando, scollandosi con lentezza, mostrando foto sbiadite. Mia madre le sfogliò riaprendo cassetti di ricordi perduti. Io che camminavo nel ciottolato della vecchia casa, io a giocare con un tritacarne, mia nonna sulla poltrona in velluto blu, la prima auto di mio padre, il primo compleanno di mio fratello.
«Eccolo» disse. Mia nonna, con l'età di mia madre, teneva un cane dal manto nero, marrone e bianco. «Questo è Sbirolo.»
«Che nome strano.»
«Li chiamava tutti così. Sbirolo o Sbirola. Non aveva molta fantasia con i nomi.»
«Questa è la casa giù?» chiesi.
«Sì.»
«Ora che fine ha fatto?»
«Era rimasta Giacomo e Girolamo quando ci siamo trasferiti. Perché?»
«Mi piacerebbe rivederla» sembra quella che ho visto nel mio sogno.
Mia madre riesumò la vecchia agenda telefonica ed io passai il lunedì lavorativo su Google e street view. I miei zii l'avevano ristrutturata e trasformata in un agriturismo. Dalle foto non assomigliava molto al mio sogno, ma Nemo continuava a chiedermi ogni notte di riportarlo a casa, ed io avevo voglia di prendermi qualche giorno di ferie.
Così misi in auto tutto quello che poteva servirmi per un fine settimana – e per le due settimane successive, compresi un paio di pantaloni imbottiti nettamente fuori stagione – e mi imbarcai in quel viaggio. Per la prima ora i chilometri scivolarono via con naturalezza. Nemo si affacciò dal finestrino e passò la maggior parte di quel viaggio a godersi il vento sulla lingua, ed io spendi la radio e il cervello, godendomi quella mattinata di sole. Fu dopo che imboccai la A14 che il paesaggio cominciò a cambiare: Gli alberi, i tralicci dei fili, la struttura delle case, era come se tutto si fosse fermato a qualche anno prima. Immagini della mia adolescenza riaffioravano con il loro retrogusto di nostalgia. Senza rendermene conto avevo intrapreso un lungo viaggio a ritroso nel tempo. Un supermercato mi ricordò di uno dei miei primi amori, una pineta mi parlava di lunghe giornate perse dietro a un pallone. Visi e volti dei momenti migliori mi facevano compagnia, chilometro dopo chilometro. Gli autogrill parevano isole anacronistiche in quel viaggio nei ricordi. Mi fermavo ogni tanto per sgranchirmi le gambe e permettere, ma quando ripartivo, riprendevo anche il mio viaggio nei ricordi. Mi soffermai a lungo alla prima volta che mi toccai. Quando scesi nell'infanzia la nostalgia divenne una morsa che mi stingeva il petto. La mia prima casa, la vecchia stanza, la televisione in bianco e nero dove vedevo i puffi a colori, il telefono a disco, gli amici e i giochi innocenti. Andai a ripescare così antichi che non credevo possibile recuperare. Quando nacque mio fratello, il giorno che ricevetti Teddy, mia madre che mi leggeva una fiaba. Ero giunto all'inizio della mia storia, ma mancavano ore alla fine del mio viaggio. Ormai il paesaggio era indubbiamente cambiato: c'era un che di polveroso sulle strade, e di selvaggio nella vegetazione ai lati dell'autostrada. L'asfalto stesso era sbiancato, e io iniziavo a vivere ricordi non miei. Percorrendo all'indietro la mia storia rividi il matrimonio dei miei genitori, istantanee di quando uscivano insieme ai loro amici, mia madre con una gonna asimmetrica in un pomeriggio sovraesposto degli anni settanta, mio padre e mio zio sulla giulietta della quale andavano orgogliosi. Non potevano essere miei ricordi, ma erano dentro di me, e li assaporai finché anch'essi non mi abbandonarono. Ormai ero così indietro nel tempo che stavo rivivendo la gioventù dei miei nonni. Immagini sfocate e in bianco e nero, di pochi vizi e tante virtù. Quando lasciai l'autostrada ero stanco e svuotato. Mi addentrai in un paesino che pareva essersi fermato a quando la vita era degna d'esser vissuta. L'asfalto era vecchio e crepato, i marciapiedi rattoppati con piastrelle e il logo della FIAT era ancora quello a rombi blu. Parcheggiai l'auto in una piazza bruciata dal sole, facendo attenzione a non disturbare un gruppo di anziani che chiacchierava sulle sedie appena fuori casa. Dalle porte aperte intravvedevo cucine che sapevano di spezie. Mi fermai velocemente a un bar per un ultimo caffè e due informazioni prima di ripartire per l'ultimo tratto.
Cosa mi aspettassi arrivando non lo saprei dire, ma quella casa ristrutturata non mi diceva niente. Alla reception c'era una ragazza più o meno della mia età. Parlammo appena. Entrai in camera il tempo di appoggiare le valige, e feci un giro per la tenuta. Per la tenuta. Nemo correva in lungo e in largo, tornava da me e poi ripartiva. Si avvicinava agli altri cani dei proprietari con un po' di timore, si annusavano a vicenda e facevano amicizia. Poi tornava indietro, quasi a dirmi Andiamo?, sì, ma dove?
La cena fu abbondante e gustosa. Mangiammo tutti in una lunga tavolata, compresi i gestori, che ogni tanto si alzavano per prendere quello che mancava o rimboccare le brocche di vino. Quando, dopo metà cena, anche la cuoca si sedette, mi chiese senza troppi preamboli «Tu sei il figlio di Lorena?»
«Sì.»
«Come sei cresciuto! L'ultima volta che ti ho visto eri alto così. Non ti ricordi di me, vero? Io sono zia Rosina, sono venuta a trovarvi quando hai fatto la comunione. Eri così carino con quell'abito bianco.»
Sentì le orecchie in fiamme e mi passò la voglia di mangiare.
Cercai di cambiare argomento. «Stavo... Stavo guardando le foto della tenuta» suggerì, indicando delle foto appese ai muri.
«Sì. È stato un lavorone risistemarla.»
«Immagino» risposi «Avete ingrandito questa casa?»
«Sì. Abbiamo abbattuto alcune vecchie strutture che non servivano più e abbiamo riutilizzato i mattoni.»
«Come quella?»
«La stalla dei maiali? Sì.»
«Ricorda dove si trovava?»
«Certo.» si girò sulla sedia, indicando verso fuori «Cento o duecento metri in quella direzione, c'è uno spiazzo. Dovrebbero esserci rimaste ancora le fondamenta. Perché?»
«Non so. Mi ricorda qualcosa.»
«È questa la casa dove sei nato?» mi chiese Nemo quella notte. Camminavamo in quello spiazzo sterrato, sotto la casa in bianco e nero.
«No, qui è nata mia madre. È casa tua?»
Scosse la testa. «Ci venivo sempre, ma non sono a casa.»
«Allora dove?»
Per la prima volta da quando mi ha trovato, Nemo era entusiasta. Si mise a correre precedendomi nella discesa, fermandosi di tanto in tanto ad assicurarsi che lo seguissi. Quando giunse sullo spiazzo, per la prima volta, abbaiò affinché lo raggiungessi.
«È questa casa tua?» gli chiesi e lui, per tutta risposta, prese a correre intorno, annusando e cercando. Tornò dove mi ero seduto solo molto dopo. Guaendo, mise il muso sulla coscia affinché lo consolassi. Rimasi seduto con lui, a guardare il mare in lontananza sotto il sole del sud. In qualche modo lo avevo portato a casa, ma casa sua non c'era più da anni.
Quella sera la zia Rosina mi diede una vecchia foto dai colori sbiaditi, dicendo «guardati» con un sorriso nostalgico. Era la foto di un bambino che dormiva su un telo abbracciato a un cane. Rivolsi alla zia uno sguardo interrogativo.
«È stato quando i tuoi genitori sono venuti a trovarci. Eri ancora così piccolo. Una sera scappasti e non ci fu verso di trovarti. Ti trovò la mattina dopo tuo nonno, abbracciato a Sbirolo.»
Riguardai la foto. Sbirolo era rannicchiato su se stesso, io lo avvolgevo petto contro la sua schiena e il mio braccio sotto la sua testa. Era come nel mio sogno.
Mi aspettavo che il viaggio di ritorno fosse, come all'andata, un viaggio nei ricordi. Invece non fu così. I ricordi non riaffioravano spontaneamente, dovetti andare a cercarli, riordinandoli. Grazie a Nemo avevo ritrovato un frammento della mia vita e fu come se, per il resto del viaggio, rimettessi a posto tutti i pezzi, ricostruendo la mia storia, dandogli una nuova visione, un nuovo senso. Non ero riuscito a riportare a casa Nemo, ma lui aveva riportato a casa me.