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Skannatoio, Settembre 2014, edizione XXXIII, La saggezza

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view post Posted on 4/9/2014, 15:58

Alto Sacerdote di Grumbar

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CITAZIONE (Tonylamuerte @ 4/9/2014, 16:39) 
A pochi gg arrivo pure io. Sono in fase di revisione.
Ps: fermo restando che l'importante è la storia, si può linkare una colonna sonora nel post con il racconto?
Grazie.

puoi di sicuro farlo, però tieni conto che, non essendo parte delle specifiche, gli altri concorrenti non saranno obbligati a tenerne conto nella valutazione... starà al loro giudizio :)
Quindi ti consiglio di far sì che non sia necessaria alla comprensione del brano ma solo un eventuale valore aggiunto ;)
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 4/9/2014, 20:07




Certo.
E' doveroso che non influisca sulla valutazione del racconto, ne sono consapevole.
E' solo una mia scelta stilistica personale.
Ciao.

Luca
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 5/9/2014, 07:54




Ah, a proposito, per inserire come post un video YOU TUBE con il brano, (in modo che non si veda il link ma il clip direttamente) bisogna digitare qualche codice html o simili?
Grazie.
 
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view post Posted on 5/9/2014, 07:56

Alto Sacerdote di Grumbar

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CITAZIONE (Tonylamuerte @ 5/9/2014, 08:54) 
Ah, a proposito, per inserire come post un video YOU TUBE con il brano, (in modo che non si veda il link ma il clip direttamente) bisogna digitare qualche codice html o simili?
Grazie.

basta il link, forumfree lo riconosce in automatico
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 5/9/2014, 07:59




CITAZIONE (Callagan @ 3/9/2014, 19:47) 
@CMT Hai bruciato Shanda sul tempo! Sei squalificato! :p096:

Ma davvero? O è uno scherzo?

CITAZIONE (Marco Lomonaco - Master @ 5/9/2014, 08:56) 
CITAZIONE (Tonylamuerte @ 5/9/2014, 08:54) 
Ah, a proposito, per inserire come post un video YOU TUBE con il brano, (in modo che non si veda il link ma il clip direttamente) bisogna digitare qualche codice html o simili?
Grazie.

basta il link, forumfree lo riconosce in automatico

Grazie Marco
 
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Callagan
view post Posted on 5/9/2014, 08:17




CITAZIONE (Tonylamuerte @ 5/9/2014, 08:59) 
CITAZIONE (Callagan @ 3/9/2014, 19:47) 
@CMT Hai bruciato Shanda sul tempo! Sei squalificato! :p096:

Ma davvero? O è uno scherzo?

E' una rigida regola non scritta...
...
:1392239812.gif:
 
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view post Posted on 5/9/2014, 10:23
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Arrotolatrice di boa

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Qualcuno ha postato prima di Shanda? :blink:
 
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Callagan
view post Posted on 5/9/2014, 10:26




CITAZIONE (Polly Russell @ 5/9/2014, 11:23) 
Qualcuno ha postato prima di Shanda? :blink:

CMT! :p102:
Diglielo anche tu, pollina! E' squalificato! :1392391935.gif:
 
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view post Posted on 5/9/2014, 10:27

Alto Sacerdote di Grumbar

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@tony: devi sapere che shanda è nota per postare sempre molto presto... una volta è riuscita a postare persino prima che uscissero le specifiche... :P

Infatti secondo me il racconto l'aveva già pronto da 3 settimane ma ha aspettato cmt (che è un altro che posta presto) per farci credere che sia umana... :)
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 5/9/2014, 12:40




CITAZIONE (Marco Lomonaco - Master @ 5/9/2014, 11:27) 
@tony: devi sapere che shanda è nota per postare sempre molto presto... una volta è riuscita a postare persino prima che uscissero le specifiche... :P

Infatti secondo me il racconto l'aveva già pronto da 3 settimane ma ha aspettato cmt (che è un altro che posta presto) per farci credere che sia umana... :)

:p095:
azz... cattiva di brutto!

IL GRANDE NIENTE


Video

Il vecchio che vive sul monte ha un segreto.
E questo segreto è tanto nascosto quanto è grande il suo dolore.
Prima del Grande Niente gli piacevano le storie divertenti, le risate, le ottime bevute e pochi buoni amici con cui condividere il tutto.
Amava la vita in quanto dolce routine, gustandone le piccole gioie della ripetitività: curare il proprio orto, fumare la pipa, imbottigliare del buon vino, suonare il banjo, starsene seduto sulla propria sedia a dondolo sotto la tettoia della veranda di casa, ascoltare i grilli.
Il Grande Niente lo riporta rapidamente al presente.
Il vecchio spazza via i brutti pensieri. All'istante.
E' sera e nulla è diverso dal consueto silenzio calato sul mondo.
Meglio cantare e spazzare via la malinconia.
Con mani oramai cronicamente tremolanti si allunga a prendere il banjo; le corde sono ossidate e malridotte, deve averne più cura.
Il Grande Niente si è portato via tutto. Quando un mondo viene privato di ciò che è materiale, come può o potrà andare avanti una società che ha fatto del materialismo la propria essenza?
Prima dell'inizio della fine, a valle era successo di tutto. Dal prevedibile sciacallaggio allo sfogo di tutti gli istinti primari più bassi.
Il vecchio a quel tempo credeva che sarebbe riuscito a proteggere le poche cose che voleva disperatamente trarre in salvo dallo sfacelo del nuovo mondo.
Quanto si sbagliava.
L'unica scelta giusta era stata rendersi sciacallo lui stesso.
Era riuscito a mettere mano alle ultime mute di corde che il proprietario dell'emporio ordinava solo per lui.
Giusto in tempo prima del degenero.
Ritorna al presente e guarda con amore il suo strumento.
In realtà le mute dell'emporio sono ancora intatte. Il vecchio ha preferito conservarle.
Lo diceva sempre anche suo padre: è meglio avere una cosa che non serva piuttosto che volerla e non averla.
Ora si rende conto di quanto possano essere fondamentali determinate pillole di saggezza popolare nel mondo attuale.
Certo, sarebbe stato bello ricordare il genitore in un contesto diverso ma chi avrebbe mai potuto prevedere il Grande Niente?
Anyway, inizia a suonare.
Il vecchio che vive sul monte scrive canzoni da sempre.
Il brano che sta per iniziare è vagamente autobiografico.

“...io sono il vecchio del monte
penso sempre alla morte
può farti strano ma io
sono fatto così..”

Mentre canta e suona si guarda attorno. Osserva il cielo vagamente rischiarato dal fuoco di strutture che bruciano al di là del bosco.

“...dalla mia sedia sul monte
io ti auguro morte
puoi non capire ma io
sono fatto così...”

Ascolta il suono del vento, l'odore di fuliggine del quale l'aria è satura; la recinzione rinforzata e guarnita da filo spinato attorno alla sua area conquistata.

“...oltre alla sedia uno scialle
...maledico la valle, oh!
...puoi non sentire ma io
maledico così...”

L'ultima ronda notturna lo ha colto impreparato però lui continua a cantare. Dalla sua ha la serenità della consapevolezza.
Il vecchio che vive sul monte ha un segreto.

“...io sono il vecchio del monte
e predico la morte
forse non muori ma io
preferisco di si...”

Come per sortilegio, all'ultima nota pizzicata sul suo strumento una delle corde, la prima e più sottile, salta con un rumore secco che viene amplificato dalla pelle tesa sulla cassa armonica.
Posa lo strumento. Per la manutenzione c'è tempo.
Il vecchio è stanco; si alza dalla sedia e gira attorno alla sua baracca. Prima di cedere al sonno deve azionare il gruppo elettrogeno che permetterà il passaggio dell'alta tensione lungo la rete di recinzione.
Il vecchio che vive sul monte ha più di un segreto.
Il generatore è uno di questi.
Sullo spiazzo dietro la baracca c'è un coperchio di una botola di ampio diametro.
Lo solleva per scoprire una buca di forma cilindrica.
Le pareti sono state create ponendo delle assi di legno a contatto con la terra scavata, formando una sorta di ripostiglio interrato. Internamente c'è un rivestimento di gommapiuma fonoassorbente.
Al centro di questo spazio, il generatore.
Lo accende, si guarda attorno e, prima di chiudere prende il tubo collegato allo sfiato e fa passare l'estremità attraverso un buco ricavato sul coperchio, che serve anche al passaggio del cavo elettrico.
Una volta chiusa la botola, è ragionevolmente sicuro che dalla campagna circostante nessuno venga attirato dal rumore.
Dopo l'inizio del Grande Niente , attirare l'attenzione o meno può fare la differenza tra il vivere o il soccombere.
Entra nella baracca, si stende e nel giro di poco tempo, crolla.

...immagini veloci in sequenza...
Il sole al tramonto.
L'ultimo.
Le sue mani ad accarezzare il viso tumefatto della moglie...
La fine delle comunicazioni...
Un abbaglio...
Esplosioni.
La gente ha sete.
La gente urla.
Gli uomini uccidono.
Gli uomini stuprano.
…i governi cedono...
Il sole è coperto.
Le ronde massacrano un ragazzo.
…delle donne si alzano volgarmente la gonna e assumono un atteggiamento provocatorio...
C'è un bambino con un fucile, avrà al massimo otto anni. Spara ad una donna per gioco.
I notiziari finali e poi il caos.
...lui sta piangendo davanti alla buca dove ha seppellito la moglie.
L'aggressività aumenta, così come la sete di violenza.
...scoppi di ira incontrollata tra la gente.
La sete.
La sete.
La sete.
La fame.
Il freddo.
Il dolore...

...si sveglia madido di sudore. Lo stesso mix di sogni si ripete notte dopo notte.
Il peso della catena di eventi degli ultimi anni, in certe giornate è più pesante.
Si alza dal letto coperto da un vecchio pigiama scolorito. Ha sulle mani dei guanti in lana con le dita tagliate che non toglie pressoché mai. Un berretto e due paia di calzettoni ai piedi.
Guarda fuori dalla finestra e un piccione, atterrato dentro alla sua area, sta beccando uno straccio o qualcosa di simile.
Si siede nell'angolo di baracca adibito a cucina e si mette in bocca un pezzo di carne essicata.
Il vecchio che vive sul monte ha un segreto. Ha molti segreti.
Un altro dei quali è l'asse di laminato vicino alla gamba scheggiata del tavolo. Facendo leva ad un'estremità con la semplice pressione del piede, l'asse si solleva scoprendo un vano segreto che custodisce un diario.
Lo prende e lo sfoglia.
E' da qualche anno che lo tiene ed annota le sue impressioni per far si che non si perda la memoria, che la gente - o lui stesso - non inizi a non sentirne la mancanza.
Ci sono stati dei giorni in cui l'idea del diario gli era sembrata stupida, ma poi lo prende, sfoglia qualche pagina e ogni dubbio si dissipa.
Legge.

Giorno 253

Siamo ufficialmente un pianeta anarchico.
Niente governi, niente informazione. Non esiste più una sola trasmissione radio o notiziario televisivo. A sette mesi dall'opacizzazione del sole, le presunte radiazioni hanno compromesso un numero incalcolabile di sorgenti; il bestiame si ammala e le carcasse non sono commestibili. Ognuno corre per la propria salvezza; i disordini, le aggressioni e gli omicidi sono fenomeni imprevedibili e quasi sempre cruenti e sadici.
Resistere evitando di morire è divenuta la missione giornaliera di ogni uomo o donna.

Giorno 1530

Resisto.
A fatica, ma resisto.
Il mondo è diventato un'arena aggressiva.
Ognuno è preda o cacciatore, a seconda della forza o dell'astuzia del nemico di turno.
Vivo da due anni in assenza di lei. E tutto pesa.
Da quando si sono venute a creare queste “ronde” vige la regola del gruppo più forte.
E' una dittatura variabile, all'interno della quale i vincenti di ieri diventano i perdenti di domani.
Tra i loro scontri, la povera gente che fugge, resiste o sta ben nascosta.
Che vive, o almeno ci prova.
Nonostante tutto.

Chiude il diario e lo rimette al suo posto, mette in bocca un altro pezzo di carne e mastica lentamente guardando fuori. Il piccione becca ancora lo straccio.
Carica la pipa e la accende, esce al freddo con una coperta sulle spalle diretto verso l'animale.
Becca da molto. Da troppo.
Il vecchio ascolta il bosco e fa scorrere lo sguardo da destra a sinistra.
Va a spegnere il generatore e quando ritorna sul lato anteriore della baracca, si dirige verso il piccione. Batte forte le mani. Il volatile se ne va. A questo punto guarda lo straccio e capisce.
Dalla visuale che aveva dentro la baracca, aveva visto solamente un lato della cosa che ha davanti.
Aveva veramente creduto fosse uno straccio, dato che dalle origini del Grande Niente la spazzatura disseminata a terra è una costante.
Solo ora si accorge che quello che credeva un brandello di tessuto, altro non è che un calzino, infilato dentro una scarpa da corsa.
Il vecchio è perplesso ma non ha paura; il Grande Niente oramai non lo stupisce più. Conserverà questa scarpa, non si sa mai.
E' meglio avere una cosa che non serva piuttosto che volerla e non averla.
Quando si abbassa per vedere bene l'oggetto la perplessità si trasforma in inquietudine. La scarpa non è vuota. Dentro c'è un piede, presumibilmente del vecchio proprietario.
Ha capito che si tratta di un avvertimento. Qualcuno l'ha scoperto e cercherà di stanarlo.
Il vecchio che vive sul monte ha un segreto. Un grande e fondamentale segreto che custodisce più gelosamente degli altri.
Entra nella baracca e si siede al suo vecchio tavolo. Sa di essere stato notato da qualcuno e la situazione è potenzialmente pericolosa; vive sul monte per amore del bosco ma anche per esserne protetto. I cani sciolti come lui possono diventare tristemente oggetto di giochi sadici messi in atto da ronde particolarmente decise. Non gli resta che aspettare. Suonando, ascoltando il bosco e pensando ai suoi segreti...

Arriva la sera e gli eventi si susseguono come da copione.
Attraverso i vetri e nascosto dalla tenda il vecchio scorge una squadra di uomini. Sembrano cacciatori ma sa che non cercano selvaggina. La scarpa è rimasta nel preciso punto in cui l'ha trovata, non la conserverà. Sa che le possibilità sono poche ma vuole dare una parvenza di beata ignoranza.
Sarà dura; questa ronda non va di certo sottovalutata.
Uno di loro inizia a fischiare, come a richiamare un cane fedele. Altri ghignano sguaiatamente.
Uno di loro – probabilmente il leader – ottiene risate di approvazione per ogni cosa che dice. Incute timore. Il suo status si nota già dalla postura sicura.
Poi accade velocemente una cosa: afferra uno dei suoi scagnozzi e lo getta violentemente e all'improvviso contro la rete. L'agnello sacrificale del gruppo urla come un animale senza dignità, sprigionando scintille ed in preda alle convulsioni. Poi finalmente cade. Fumante e privo di reazioni.
Gli altri iniziano ad armeggiare con delle lunghe tenaglie, isolate da un rivestimento di gomma sulle impugnature.
Tagliano la rete creando un ampio varco, poi usano delle grandi pinze da presa – ugualmente schermate all'impugnatura - per allargare i lembi della rete.
Sono preparati.
E lo stavano osservando da tempo, a quanto pare.
Il vecchio attende ed inizia un conto alla rovescia dentro la sua testa.
La ronda è arrivata.
Sono dentro.

5 – Si prepara.
Alcuni di loro ridono forzatamente, quasi per far piacere al loro leader
4 – Controlla che tutto sia al giusto posto.
Qualcuno lo invita ad uscire, facendo capire che sa della sua presenza.
3 – Respira velocemente e tasta il contenuto della sua tasca
Sono a pochi metri dalla veranda.
2 – Mette ciò che gli serve in un sacchetto da pattumiera nero.
Si fermano a tre metri dalla baracca e danno il loro ultimatum invitandolo ad uscire.
1 – Risponde ad alta voce.
Accetta di farsi vedere. Claudicante ed ingobbito. La ronda scoppia all'unisono in una fragorosa risata. Vedono un vecchio pazzo in pigiama, sporco, spettinato e probabilmente confuso. Oltre alla baracca gli unici suoi averi sembrano essere proprio quella coperta che ha sulle spalle ed il sacchetto di plastica.
Pregustano il divertimento.
Si inginocchia e bofonchia qualcosa di poco chiaro a proposito dell'essere lasciato in pace.
E poi succede.
Con una rapidità di cui nessuno lo credeva capace estrae dal sacchetto una maschera antigas e se la preme forte sul viso con la mano sinistra; contemporaneamente con l'altra mano aziona il telecomando che ha in tasca.
Prima che i predatori realizzino, dal terreno, da circa una ventina di punti diversi, inizia a fuoriuscire con un elevato flusso quello che il vecchio sa essere gas nervino.
Iniziano tutti a tossire violentemente. Chi si porta le mani alla gola, chi al viso, cadono tutti ad uno ad uno.
Il tutto dura poco.
Il vecchio si allaccia bene i tiranti della maschera dietro la nuca. Deve avere le mani libere.
Raccoglie le loro armi. Tutte da fuoco più una da taglio e porta la refurtiva dentro.
Su una cassettiera in un angolo ci sono delle foto.
Un banjo.
Una versione più giovane di lui e sua moglie.
Una vecchia foto di gruppo in bianco e nero. In questa si vedono dei ragazzi in posa. Hanno fucili, passamontagna, tenute antisommossa e fondine ben visibili. Giubbotti antiproiettile. Gli occhi di uno di loro esprimono la stessa determinazione che il vecchio vede ogni mattina nei propri quando si specchia.
Sorride e rende silenziosamente omaggio ai bei tempi.
Si avvicina alla cassettiera con le armi appena reperite ed apre uno dei cassetti. Pieno zeppo di artiglieria. Aggiunge i nuovi pezzi.
Ne possiede molti ma, si sa, è meglio avere una cosa che non serva piuttosto che volerla e non averla.
 
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Ceranu
view post Posted on 5/9/2014, 23:14




LE COLPE DEI PADRI

di Francesco Nucera


Il bicchiere tintinnò al contatto con il marmo del bancone. Franco afferrò il collo la bottiglia di Laphroaig, estrasse il tappo che emise un rumore sordo e annusò l'aroma di rovere. Chiuse gli occhi pregustando il sapore torbido che gli avrebbe intirizzito le viscere. Il liquido ambrato scese superando di gran lunga la quantità concessa agli avventori. La lingua schizzò in avanti, inumidendo le labbra socchiuse.
Procedette cauto verso il primo tavolo, ogni passo faceva oscillare pericolosamente il Whisky, che minacciava il pavimento appena lavato. Si sedette e contemplò la tranquillità del locale. Il centinaio di gambe delle sedie puntava il soffitto come un esercito di baionette in attesa di un bersaglio. Le quattro saracinesche abbassate non permettevano alla luce dei lampioni di entrare, conferendo un aspetto tetro al locale vuoto. L'orologio della cassa indicava l'una di notte. Simone e Pietro non volevano saperne di smettere di discutere nell'altra sala. Sospirò stringendosi nelle spalle e portò il bicchiere alle labbra. Contrasse gli addominali, pronto a ricevere la scossa che avrebbe agitato l'intero corpo. Il liquido entrò in bocca, risvegliando una vecchia afta che sembrò prendere fuoco. La gola avvampò, e lo stomaco si contorse facendolo piegare. Gli occhi arrossati, intralciati dai lunghi capelli bruni, fissavano l'arco in fondo al salone. Solo allora si rese conto della luce intermittente dell'antibagno. Sbuffò convinto di poter incendiare il tavolo, e si alzò per spegnerla.
A piccoli passi superò la volta. Un brivido di freddo gli attraversò il corpo, e una nuvola di vapore uscì dalla bocca. Faceva freddo. Mise la mano sull'interruttore, pronto a spegnere. Ma qualcosa attirò la sua attenzione.
«E tu cosa ci fai lì?» Al centro del bagno piastrellato di nero, c'era una scarpetta da bambino. «Certo che la stanchezza gioca strani scherzi.» Sorrise mentre si chinava per raccoglierla. La prese in mano e la rigirò per leggere il numero. Ventuno. «Devi essere proprio un bambino piccolo.» Corrucciò la fronte, nel tentativo di ricordare a chi potesse appartenere. Un'ombra attraversò il suo campo visivo, mentre la pelle gli si intirizziva per il freddo.
«Pietro, Simone, siete voi?»
Un velo bianco passò sulla sinistra.
«Smettetela di fare gli scemi.» Si voltò, e per poco non fini a terra dalla spavento.
Un'anziana lo stava fissando. Era alta meno di un metro e sessanta. I lunghi capelli grigi le sfuggivano da una coda legata male. La pelle troppo chiara, contrastava con i denti neri che scoprì in un ghigno deforme.
Franco sbuffò, cercando di allontanare la paura. «Mi scusi, ma stiamo chiudendo.» Mantenne la calma e parlò il più adagio possibile.
La vecchia sembrò divertita. Gli occhi celesti, quasi trasparenti, si allargarono. Sollevò la mano destra, simile a un vecchio ramo nodoso che sembrava non potersi muovere. Puntò quello che doveva essere l'indice all'altezza del suo naso.
«La mela non cade mai lontana dall'albero.» Quella voce sembrava uscire dal profondo di una caverna, e non dalla bocca immobile. «Non li punirà la giustizia terrena, ma quella divina che li porterà alla follia.»
Franco strinse i pugni, facendo gonfiare le braccia scoperte dalla maglietta bianca. Gli occhi verdi fiammeggiarono di rabbia.
«Che scherzo del cazzo!» Tese la mano che sfiorò il vaporoso vestito bianco. Le dita si ritrassero al contatto gelato. «Vedi di non farmi incazzare!» Serrò la mascella che gli squadrò il volto.
«Le colpe dei padri ricadranno sui loro figli.» Questa volta la voce provenne da tutte le parti. Dalla sua mente.
«Levati dalle palle!» Il ragazzo si gettò rabbioso sulla donna, trovandosi abbracciato al lavello.
«Franco che succede?» Pietro comparve da dietro l'angolo. Si guardò intorno con gli occhi fuori dalle orbite. Afferrò il fratello che si stava girando con i pugni chiusi e lo bloccò. «Non è nulla, stai tranquillo.»
Il ragazzo cercò di divincolarsi, ma la presa era troppo forte perché ci riuscisse. «La vecchia, devi farla andare via!» La voce attutita dal petto di Pietro uscì debole come un lamento.
«Non c'è nessuno.»
La stretta si allentò, permettendogli di girare la testa. Erano soli.
Franco distese i muscoli, e infilò in tasca la scarpetta che aveva ancora in mano.
«Sai che non devi bere?»
«Era solo un sorso.»
«Uno di troppo!» Lo sguardo di Pietro non ammetteva repliche. «Vieni su, che parliamo della ristrutturazione. Simone e io siamo a corto di idee.» Il fratello maggiore si rilassò, lasciando trasparire un sorriso affettuoso.
Avanzarono stretti in un abbraccio come facevano da quando erano bambini.
«Però poi tagliamo anche la signora dai capelli rossi.» Franco gettò un occhiata sfuggente alla parete. Un graffito, della stessa età del locale, raffigurava una ragazza a cavallo di un drago.
«Certo, ma prima pensiamo all'altra sala.» La mano di Pietro rimbalzò due volte sulla spalla contratta del giovane. «Abbiamo bisogno del tuo estro.»
I tre ragazzi, seduti attorno a un tavolo quadrato, cercarono di sciogliere quell'intricato nodo. Franco rimase in silenzio, la mano continuava a correre alla scarpetta nascosta in tasca, come a voler dimostrare che la vecchia esisteva veramente. Ma non ne parlò.
I due cugini non fecero caso al suo comportamento, che non si poteva definire “strano”, almeno non più del solito. Erano abituati ai silenzi, spesso preludio di una crisi.
«Ok, io scarterei la sala slow food, e quella bigliardo,» Simone si alzò come a voler terminare la discussione. «che fa troppo anni ottanta.» Era il più vecchio del gruppo. Nemmeno trentenne, raccontava di un passato alquanto caotico, fatto di risse e fughe dalla polizia. Di poco sopra il metro e ottanta, non aveva un fisico impressionante. Niente muscoli scolpiti, ma solo vene gonfie pronte all'esplosione.
«E scartiamo anche la sala fitness. Non credo che l'odore di sudore si sposi molto con i panini e la birra.» Il sorriso di Pietro si allargò in mezzo alla barba incolta. Due fossette, un po' troppo marcate, comparvero sulle guance paffute. A differenza di Simone era molto morbido. Sia nel carattere che nel fisico. Sosteneva che tenesse molto più all'intelletto che al corpo. E la riprova stava nella pancia pronunciata.
«E tu cosa ne pensi?» Chiese il fratello a Franco.
Lui scosse il capo. «Che è tardi, e domani dobbiamo aprire. Andiamo a dormire.»
«Ok, ci aggiorniamo.»

Quella notte Franco sognò.
La stanza era buia, attorno c'era silenzio e angoscia. Franco avanzò a testoni, con la testa sfiorò un tavolo. Era troppo alto, oppure era lui ad essere troppo basso. In lontananza vide un fascio di luce verticale. Forse una porta.
Braccia tese a protezione, avanzò piano, un piede dopo l'altro. Prima la punta per esplorare, poi il tallone e così fino all'uscita. Accostò la mano allo stipite, ma un verso lo blocco. Tremante si ritrasse nel buio. Il fasciò di luce si dilatò, fino ad illuminare l'ambiente attorno. Il tavolo che aveva sfiorato era un banco da lavoro. Sopra c'erano poggiati degli attrezzi agricoli arrugginiti. Dei ganci invecchiati dal tempo pendevano minacciosi dal soffitto. Nell'angolo c'era un abbeveratoio per animali ricolmo fino all'orlo.
All'improvviso un'ombra umana entrò nella stanza. Prima lunga e sottile, poi sempre più piccola, fin quando non divenne grande come lui. Con lo sguardo corse dalla testa ai piedi bui, dove si univa ad un paio di scarpe uguali a quella che aveva in tasca. Un bambino della sua stessa altezza stava piangendo.
«Papà» Disse singhiozzando.
Franco aprì la bocca per rispondere ma uscirono solo versi incomprensibili.
Lacrime dense solcarono il volto del bimbo. Al loro passaggio lasciavano solchi rossi, poi bianchi e in fine color avorio. Anche i capelli si consumarono, poi il cuoio capelluto lasciò il posto al cranio scarnificato. In pochi secondi il volto del bambino divenne un teschio urlante.
Franco scappò. Non cercò aiuto, era troppo spaventato per farlo. Andò a sbattere contro qualcosa di morbido che lo fece rimbalzare a terra. Delle mani sottili lo sollevarono da terra. La vecchia mostrò i denti anneriti.
Il ragazzo si svegliò in una pozza di sudore. Il cuore gli batteva veloce. Con la mano cercò qualcosa sul comodino. Trovò la scarpetta e si mise a fissarla.

Alle dieci del mattino, i pavimenti scuri del pub riflessero la luce che entrava dalle saracinesche sollevate. Franco arrivò per primo a bordo della sua bicicletta, unico mezzo di trasporto concessogli. Andò al pannello elettrico e sollevò i differenziali. Alcuni beep indicarono che la giornata stava cominciando.
Ancora assonnato mise un piede sulla pedana dietro il bancone. La suola dura produsse un suono sordo, che riecheggiò tra le sedie ribaltate sui tavoli. Avanzò piano verso il mobiletto dei documenti contabili. L'anta scorse, Franco si chinò e recuperò una foto sbiadita nascosta sul fondo. L'aprì e l'osservò. Due uomini sorridevano appoggiati ad un'auto, tra le braccia stringevano un infante. Una coppia di bambini, all'incirca della stessa età, fissavano il vuoto con espressioni attonite. In disparte, una vecchia osservava il quadretto famigliare. Era lei.
Il ragazzo alzò lo sguardo verso l'arco dall'altra parte della sala, la luce aveva ricominciato a lampeggiare. Sbuffò pensando che avrebbe dovuto cambiare il neon. Si incamminò a testa bassa. Solo quando si ritrovò nell'antibagno sembrò tentennare. Alitò, ma questa volta non successe nulla. Gettò uno sguardo verso l'interno dei servizi, anche lì sembrava tutto in ordine. Svogliato si limitò a schiacciare l'interruttore. La mano corse alla tasca, ma la speranza di trovarla vuota si infranse al contatto con la scarpetta.
La porta d'ingresso cigolò, un uomo sui quarant'anni era entrato. Indossava una polo scura e dei jeans attillati. I corti capelli neri e l'abbronzatura marcata, facevano spiccare gli occhi blu come il mare.
«Apriamo tra un'ora.» Il sorriso di Franco scomparve prima di allargarsi completamente. L'aria attorno era gelida, il suo fiato condensato. Un'ombra bianca passò alla sua destra.
«Meglio così, almeno possiamo parlare tranquilli.» L'uomo gli andò in contro. «È lei il titolare?»
«Sì.» Mentì.
«Eppure sembra così giovane.» L'uomo lo guardò malizioso. «Sono l'agente...» Mostrò il distintivo «Per ora non le serve sapere il mio nome.» Gli occhi azzurri divennero due fessure sottili. «Ho saputo che fate musica dal vivo.»
Franco sollevò le spalle e annuì.
«Eppure mi risulta che non avete i permessi.»
Il ragazzo sentì improvvisamente caldo. «Li stiamo aspettando.»
«Ma questo,» Estrasse un foglio spiegazzato dalla tasca dei pantaloni. «dice che stasera la farete comunque.» Aprì la stampa dell'annuncio che avevano messo online.
Davanti al silenzio di Franco l'uomo incalzò. «Lei sa che avrei “5000” motivi per farle una multa?»
Il labbro superiore del ragazzo si deformò in un ghigno. «Direi più “1000” subito.» Sorrise. «Con la certezza che nessun altro venga con altri motivi.» Sapeva come trattare con quelle persone.
«Apprezzo la sua collaborazione. Ma direi più “3000”,» Il poliziotto afferrò una sedia e la poggiò a terra. «con la promessa che si metta in regola al più presto.»
Franco fu scosso da uno spasmo. «Sa che al comune hanno trovato “1000”, poi “2000” e alla fine “3000” motivi per non portar avanti la pratica?» Le tempie iniziarono a pulsargli, le vene del collo si gonfiarono, il volto divenne rosso.
«Capisco. Allora facciamo “2000”.» Il poliziotto perse lo smalto iniziale.
«Mi segua e finiamo questa farsa.» Il ragazzo fece strada. Era completamente contratto, tanto che la sua andatura divenne meccanica, come se faticasse a muovere gli arti. La testa, spinta dalle spalle tese, era inclinata in avanti. Entrarono nell'altra stanza. L'ambiente era spoglio, con al centro l'unico tavolino su cui erano ancora poggiate le bottiglie della sera prima.
«Complimenti per l'arredamento» Ironizzò il biondo.
«Stiamo ristrutturando.»
«Già così andrebbe bene. Io la chiamerei la sala delle notti in bia...»
Al primo colpo in testa la bottiglia non si ruppe. Uno schizzo di sangue volò tingendo di rosso il pavimento e parte della parete. Franco osservò la scia affascinato. Diede un altro colpo, poi un altro, prima da destra, poi da sinistra. L'uomo perse quasi subito conoscenza, ma il ragazzo lo sostenne come fosse la tavolozza di un pittore, e la bottiglia il pennello con cui creare. Quando la vena artistica si esaurì, del poliziotto rimaneva ben poco.
Franco lasciò la presa facendo ricadere il corpo a terra. Si scostò cercando di salvare i pantaloni miracolosamente illibati. Dalle ferite del poliziotto, continuava a uscire il sangue che si allargava in una macchia circolare. Il ragazzo guardò la pozza disgustato, come se quella stesse rovinando il suo capolavoro. Corse nel bagno di servizio e recuperò della carta igienica, con cui provò a tamponare l'emorragia che poco alla volta scemò. Prese una sedia e si mise ad osservare il muro, le gocce fresche sembravano splendere e le righe diagonali conferivano dinamismo. Era come se la parete avesse preso vita.
«Ma che cazzo...» Simone entrò nella stanza, corse da Franco e l'afferrò per le spalle scuotendolo. «Che stai facendo?»
«Un poliziotto.» Rispose calmo spostandosi di lato per continuare ad ammirare la sua opera.
«Un poliziotto cosa?» Il cugino si strofinò la fronte pensieroso.
«Mi ha chiesto la mazzetta.»
Simone scosse la testa e corse a recuperare dei cellophane in un angolo. «Fammi una cortesia, pulisciti e torna di là. Io penso a sistemare questo casino.» Recuperò dei guanti per le pulizie e prese il cellulare. «Appena arriva tuo fratello digli cos'hai fatto, e prendi le tue medicine.»
Nella mezz'ora di trambusto che seguì, Franco riordinò il salone. Tirò giù tutte le sedie e pulì il banco. Salutò appena i due uomini che entrarono per dare una mano a Simone, e li salutò di sfuggita quando ripassarono imbracciando un tappeto arrotolato. Di tanto in tanto lanciò qualche occhiata all'arco in fondo, ma la luce non si riaccese più.
Verso le undici e mezza, tre uomini eleganti almeno nelle intenzioni, entrarono nel pub. Portavano pantaloni dai colori sgargianti, uno giallo canarino, l'altro turchese e il terzo rosa antico. Cinture in pelle chiara come le scarpe, camice nere a righe verticali, e una giacca di tre sfumature differenti di panna. Si misero a sedere in un tavolo appartato e ordinarono un calice di vino bianco. A quello Franco aggiunse un tagliere di affettati e qualche bruschetta fatta al momento.
«Scusate.» Adagiò i taglieri al centro del tavolo in legno, sfoggiando un sorriso raggiante. «Questo è il conto.» Porse lo scontrino che raccolse “il Canarino”. L'uomo indugiò sul pezzetto di carta.
«Siete voi Pietro Modica?»
Franco scosse la testa. «È mio fratello. Lo conoscete?»
«No, ma questo è un cognome importante dalle nostre parti. E noi siamo sempre felici se possiamo dare una mano a dei conterranei.» Alzò il sopracciglio studiando il giovane che aveva davanti, come se non riuscisse a riconoscere uno dei suoi in quel ragazzo magro con i capelli lunghi.
Franco aprì la bocca per rispondere, ma la luce in antibagno riprese a lampeggiare. Sgranò gli occhi e la vide lì, ferma a fissarlo. I denti neri digrignati in un espressione di sadico piacere. Non parlò, limitandosi ad annuire.
«Quindi possiamo avere il piacere di parlare con vostro fratello?» La stretta al polso richiamò l'attenzione di Franco.
«Certo, appena...» Dietro la vetrina Pietro avanzava a passo spedito, la fronte corrucciata e lo sguardo teso. «Eccolo lì, ora ve lo mando.»
La porta si aprì di scatto, andando a sbattere contro il frigorifero delle bibite che tremò per il forte impatto.
«Tu.» Lo indico con il dito. Si vedeva che era teso, Simone doveva avergli parlato.
Franco si limitò a serrare le labbra e scuotere il capo. «Abbiamo dei clienti.»
Pietro imprecò a denti stretti, serrò il pugno destro fino a farlo diventare cianotico e si voltò per picchiarlo contro il banco. Ma qualcosa lo bloccò.
«I signori vorrebbero parlarti.»
«Non ora.» Allungò il passo e, senza togliersi nemmeno la giacca, girò dietro il banco. Prese la foto che il fratello aveva abbandonato vicino alle tazzine del caffè e la capovolse. Allarmato cercò di capire se qualcuno potesse averla vista.
«Quei signori hanno letto il nostro cognome sullo scontrino e ora ti vogliono parlare.» Franco tornò alla carica.
«Va bene, ma poi tocca a te.»
Il tono minaccioso del fratello non scalfì minimamente Franco, che incurante si voltò per appurare che la vecchia fosse sparita.
«Vieni a fare gli onori di casa.» Intimò Pietro.
Tornarono insieme al tavolo, il fratello minore sembrò orgoglioso di poter presentare il titolare.
«Lui è Pietro.»
«Piacere, Carmine.» Il Canarino fu il primo a salutare, si sporse in avanti e porse la mano alzandosi leggermente. Consumati i convenevoli, Pietro prese una sedia e si accomodò.
«Ditemi pure.»
«Come dicevo a vostro fratello,» L'uomo fece cenno di sedersi al ragazzo ancora in piedi. «Noi apprezziamo i compaesani che cercano fortuna al nord.»
Una goccia di sudore attraversò la fronte di Pietro e si perse nella barba.
«Ma ci rendiamo conto che non è facile cavarsela da soli.» Carmine iniziò a giocherellare con un portachiavi della BMV, che fece penzolare stretto tra l'indice e il medio. «Avete mai avuto problemi?»
I ragazzi scossero la testa all'unisono.
«Meglio, ma questo non vuol dire che non possano presentarsi.» Gli altri due al tavolo trattennero un sorriso sornione.
«E voi ci proporreste una polizza?» Franco intervenne rosso in viso.
In quel momento la porta del pub si aprì, e Simone, il terzo cugino, entrò accompagnato dai due ragazzi che l'avevano aiutato.
«Facciamo due birre a testa e siamo pari.» Scherzò allegramente. Gli altri risero a quella che trovarono una bella battuta.
Gli uomini al tavolo si bloccarono, i nuovi arrivati erano troppo rumorosi. Carmine fece per alzarsi, ma Pietro lo bloccò.
«Se vuoi un posto più tranquillo possiamo andare di là» Indicò la porta che dava sull'altra sala. «Dovrete perdonarci per il disordine, ma almeno staremo tranquilli.» Sorrise al fratello che si illuminò di felicità. I tre uomini accettarono e li seguirono.
«Simone, vieni con noi?»
Non se lo fece ripetere, accennò una corsa e li raggiunse.
La stanza profumava di limone, il pavimento era stato ripulito alla perfezione, mentre il muro era ancora segnato dalle macchie di sangue. Carmine aggrottò il naso e si ritrasse.
«È una mia opera, le piace?»
L'uomo non rispose, ma l'espressione non lasciava molti dubbi; era inorridito. Avanzò tendendo la mano. «Sembra sangue.» Le dita furono sul punto di sfiorare alcune gocce, ma Simone lo bloccò.
«È ancora fresco, non si può toccare.»
«Sì, stavamo parlando d'affari.» Carmine si scosse dall'orrore per quel muro che sembrava trasudare. «Possiamo sederci?» Indicò le quattro sedie al centro della stanza.
«Certo, ma prima recupero due sgabelli per noi.» Pietro entrò nel bagno di servizio.
I tre uomini si accomodarono, senza mai togliere le giacche. Una maniera al quanto goffa per nascondere le pistole che procuravano un rigonfiamento innaturale.
«Perché dovremmo farci proteggere da voi?» Franco, in piedi davanti a Carmine, tornò a essere rosso in volto, gli occhi scintillarono come poche ore prima, le vene erano gonfie.
«Perché possono succedere cose spiacevoli.»
«E magari sarete voi a farle succedere?» L'intervento di Simone non fu propriamente da pacere, e il pugno con cui stese una delle guardie del corpo del Canarino tolse ogni dubbio.
Franco afferrò per il collo la brocca di vino che si erano portati dietro. Come un perfetto tennista sfoderò un poderoso rovescio, che andò a frantumare il naso del “Turchese”. Uomo e seduta volarono all'indietro, formando una fontanella a spruzzo che intrise la parete opposta a quella del poliziotto. Gli occhi del ragazzo scintillarono di felicità, una nuova parete bianca stava svegliando l'artista che era in lui.
Carmine, preso di sorpresa, portò la mano alla pistola, ma si bloccò vedendo la canna di una pistola che lo teneva sotto tiro. Dietro ad essa, braccia tese in avanti, c'era Pietro.
«Buttala o ti ammazzo.»
«Se spari ci sentiranno, e a breve la polizia sarà qui.» Il Canarino imprecò sentendo una musica assordante alzarsi dalla stanza accanto. «Non importa, gli altri verranno a prenderti.» Balbettò poco convinto della sua stessa affermazione.
«E come ti troveranno?» Pietro verificò che fosse tutto sotto controllo. Con il piede Simone teneva il Turchese fermo a terra. Ogni volta che provava a muoversi gli sferrava un calcio sul costato. Mentre Franco, continuava a muovere la brocca, alla ricerca dell'ispirazione che gli avrebbe permesso di compiere un altro capolavoro.
«Sanno che sono qui!»
«Shhh. Non sprecare gli ultimi istanti dicendo cazzate.» Pietro portò l'indice alle labbra. «Tu sei venuto allo sbaraglio. Hai dovuto leggere lo scontrino per sapere il mio nome.»
«Non è vero, lo sapevo già.»
«Allora avresti saputo che non dovevi rompere le palle.»
La mano di Carmine, tesa a una spanna dalla pistola, tremò impercettibilmente.
«Hai le palle per sparare?» Chiese sprezzante il gangster.
Il proiettile attraversò il polso del Canarino, formando un buco tra due righe della camicia. Il sangue sgorgò dalla ferita come una fontanella, mentre uno schizzo si confuse con quelli sul muro.
Lo sparo fu come quello dello starter in una gara di atletica. I tre cugini iniziarono a picchiare gli uomini andati lì per chiedere il pizzo. La musica alta coprì le urla galvanizzandoli. Pietro pestava usando la pistola come un tirapugni, Simone si accanì con piedi e mani. Franco invece, colpì a ripetizione con la brocca di vetro allungando ogni singolo colpo. Il sangue che si depositava sulla caraffa schizzava lontano, raggiungendo anche il soffitto. Righe arzigogolate riempirono il muro.
La stanchezza arrivò parecchio dopo la morte degli sfortunati gangster. Vinti dalla fatica i tre si piegarono sulle ginocchia. Il fiato corto, il sangue che gli colava dappertutto. Sembravano usciti da un mattatoio, e la stanza era messa anche peggio. Le opere di Franco, fatte di righe sottili, occupavano le pareti lunghe. Ad osservarle bene potevano ricordare un quadro astratto. Nulla a che vedere con quelle su cui i cugini si erano accaniti. Lì c'erano larghe strisce rosse, su cui potevano vedersi dei pezzi di cervello.
«Io e te dobbiamo parlare.» Dalla bocca di Pietro uscì un denso nuvolone umido, di cui sembrò accorgersi solo Franco. Il ragazzo si lasciò andare, finendo immerso in una grossa pozza purpurea. Alle spalle del fratello era comparsa la vecchia. Ghignava soddisfatta.
«Le colpe dei padri ricadranno sui figli» Franco si irrigidì. La voce non stava uscendo dalla bocca annerita dell'anziana, ma dalla sua.
«Che cazzo stai dicendo?» Simone serrò i denti e strabuzzò gli occhi.
«Non sono io. È la vecchia.» Franco alzò il dito per indicare dove guardare.
I cugini si girarono a guardare, ma nella stanza c'erano solo loro.
«Da quanto non prendi la terapia?» Chiese il cugino.
«Tre giorni. Ma non è quello.» Portò la mano alla tasca. Quando la ritrasse, dalle dita penzolava una piccola scarpetta.
«Facciate che le colpe dei padri non ricadano sui figli.» Fu Pietro a parlare.
«Quindi la vedi anche tu?» Mentre Franco parlava, la vecchia era arrivata a fianco del fratello. Allungò le dita contorte, come per carezzargli i capelli. «Stai attento.» Urlò il giovane.
«Coco, va tutto bene.» Sorrise. «È tutto nella tua testa.»
«E la scarpa? Questa è vera!»
«Anche questa lo è.» Simone porse la coppia al cugino. Franco l'osservo interdetto. Sospirò e tornò a sedersi a terra.
«Cosa vuol dire?»
«Che sei pronto ad andare avanti.» Pietro si avvicinò e l'abbracciò. «Tu eri presente mentre Papà e lo zio hanno sciolto il bambino nell'acido. Quel giorno, io e Simone abbiamo giurato su quelle scarpe che non saremmo mai diventati come loro. Poi è intervenuta la protezione testimoni e siamo partiti con la nonna.»
«Noi non abbiamo una nonna.»
«Lei è morta poco dopo. Non sopportava che i suoi figli fossero così.» Simone tirò su col naso. «E noi siamo finiti dagli zii.»
Una lacrima attraversò il volto della vecchia. Portò la mano alla bocca, la baciò e l'inclinò verso di loro. Poi scomparve.
I tre si fusero in un abbraccio.
«E il poliziotto?»
«Il postino vorrai dire. L'ho incrociato mentre imprecava contro un pazzo che farneticava.» Rispose Simone. «Devi vedere come hai conciato il tappeto.»
«E i tre mafiosi?»
«Assistenti sociali. Anzi, quelli sono ancora di là che ti aspettano.»
Franco portò le mani agli occhi, li chiuse e li strofinò con i palmi. Quando li riaprì non c'erano più i cadaveri. La stanza era completamente imbrattata di vernice rossa. Affianco ai barili rovesciati, c'era la brocca dell'acqua e un pennello.
«Sono impazzito.» Sussurrò scoppiando in lacrime.
«No, sei un artista.» Simone strizzò l'occhio. «Tra pochi giorni potremo inaugurare la sala “Dexter Morgan”.»
I tre scoppiarono a ridere.
«Ok, ma quelle due pareti le voglio riverniciare.» Franco asciugò le lacrime. «Conosco un paio di tipi che potrebbero ispirarmi.»



Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'.
 
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Tonylamuerte
view post Posted on 7/9/2014, 10:33




Ah, quasi dimenticavo.
Anch'io, relativamente al mio racconto "Il Grande Niente" autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare su 'Skan Magazine'.
Un saluto a tutti.

Tony
 
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view post Posted on 7/9/2014, 13:09
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Milena Vallero

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Attento a ciò che desideri

La brezza della sera soffiava sulla piazza, inebriando i sensi col suo profumo salmastro.
L’estate sta finendo, cantavano i Righeira nei favolosi anni Ottanta. All’epoca Mario adorava quella canzone. Aveva dieci anni e amava la scuola; l’immagine degli ombrelloni chiusi e dell’imminente rientro tra i banchi lo riempiva di ottimismo e aspettativa.
Ora invece era diverso.
Settembre significava ritorno dei turisti alle proprie case; significava solo un paio di settimane prima della chiusura definitiva della stagione. Significava meno introiti, sempre che di introiti si potesse parlare. Specie quell’anno, con il meteo ballerino che aveva svuotato le spiagge per quasi tutto luglio.
Mario diede un colpo di tosse. Ecco, ci mancava pure quello. Aprì il vasetto della crema, sperando in cuor suo che si trattasse solo di un banale raffreddore o di un colpo d’aria. Un’influenza lo avrebbe costretto a un ritiro anticipato e non ne aveva proprio bisogno.
Infilò le dita in quella poltiglia verdognola e iniziò a spalmarsela sul viso. Che schifo, per non parlare di quando avrebbe dovuto toglierla, una volta a casa. Ci volevano almeno tre lavaggi con lo struccante di Lara, e a volte rimanevano comunque delle tracce che macchiavano il cuscino.
Mentre spalmava alzò la testa e diede un’occhiata intorno. C’erano ancora diverse persone in giro per la piazza, anche se a occhio e croce circa la metà rispetto ai giorni di ferragosto. Con una punta di ottimismo notò molte famiglie con bambini. Dagli adulti non ci si poteva aspettare più di tanto, ma con i bimbi…
«Sè, guarda quello lì. Ma trovati un lavoro vero, perdigiorno!»
Ecco il primo galantuomo della serata.
Mario finse di non sentire e finì di truccare il viso. Posò sulla testa pelata il berretto - una delizia alla Peter Pan che Lara gli aveva cucito con le sue mani - e prese la scarpina. La guardò con l'usuale commistione di amore e tristezza, e la mise un paio di passi davanti a lui. Vi infilò una manciata di monete da un euro, giusto per dare il via. Poi salì sul piedistallo e rimase immobile.
Passarono solo un paio di minuti. In quel breve lasso di tempo una piccola folla si radunò davanti a lui.
«Mamma, che fa quello lì?»
«È un signore che vuole scucirci un po’ di soldi, Fabio. Dai, tira dritto che ti compro un gelato».
Seguirono altri due o tre commenti sulla stessa falsariga, poi finalmente un ragazzino di una decina d’anni si avvicinò alla scarpa. Le monete dentro la piccola ballerina di vernice tintinnarono quando un loro simile si unì alla combriccola.
Mario prese tempo un paio di secondi, poi alzò le braccia.
Irrigidì le dita un attimo, e subito queste si illuminarono di rosso.
Come ogni volta, ricordò la sera in cui aveva fatto vedere ET a Jessica.
«Mamma guadda! Omino ha dito losso come papà».
E come ogni volta gli si strinse il cuore. Era la settimana prima del terzo compleanno della sua piccola. Due giorni dopo, l’incidente.
Mario scacciò quei pensieri. Doveva concentrarsi, o il numero non sarebbe riuscito.
Fece frullare le dita e dalle unghie scaturirono scintille rosate che sfrigolavano nell’aria della sera, suscitando prolungati oh di stupore, soprattutto nel pubblico più giovane.
Stava andando piuttosto bene, quindi decise di alzare il tiro. Iniziò a muovere le braccia in grandi cerchi, come in una danza. Le dita ballavano in su e in giù, roteavano e si intrecciavano tra loro. Le scie fluttuavano per alcuni secondi prima di dissolversi, dandogli il tempo di creare effimeri disegni. Dal movimento delle sue mani nacque prima una barca in mezzo al mare in tempesta, poi due bambini che si tenevano per mano e ancora la luna circondata da stelle e pianeti. Per il gran finale, Mario chiuse i pugni e li riaprì con un movimento fulmineo, creando un gioco di luce che ricordava dei fuochi artificiali.
Quindi, lentamente, abbassò le braccia, le incrociò davanti al petto e riprese la sua immobilità statuaria.
Sentì molte parole di apprezzamento. Oltre ai più piccoli, con cui il successo era in genere assicurato, anche molti adulti battevano le mani entusiasti. Subito altre monete tintinnarono nella scarpina e lui ripetè il numero, ancora e ancora.
Poi arrivò lui.
Il classico dei classici, stereotipo degli stereotipi: polo bianca Lacoste, maglioncino rosa legato sulle spalle, capelli biondi che di certo vedevano più balsamo di quelli di Lara, mocassini senza calze e pelle abbronzata - più da lampada UV che da sole preso giocando a beach sulla spiaggia, Mario si sarebbe giocato la testa.
«No, ma voglio dire, e gli danno pure i soldi?» disse questo novello Ken, accompagnato dalla Barbie di turno, solo bruna anzichè bionda. «Gente, a che livello siamo. Ehi, ciarlatano, va a lavorare e vergognati!»
Mario aveva imparato a ignorare i commenti pungenti come quello. Dopotutto, come potevano sapere i dettagli della sua vita?
Come potevano immaginare che la sua piccola fosse in coma da quasi due anni? Che il suo ex studio si fosse tramutato in una camera d’ospedale, dove Jessica dormiva collegata a macchinari che la mutua non passava per intero? Che Lara avesse lasciato il lavoro per occuparsi a tempo pieno della loro figlioletta e che lui dovesse provvedere a tutti gli introiti della famiglia?
Mario faceva il primo turno fisso in fabbrica sei giorni la settimana. Al pomeriggio si ingegnava come tuttofare, cambiando lampadine, aggiustando tapparelle, tagliando prati e verniciando cancellate. Poi la sera, nel periodo estivo, cercava di raggranellare ancora qualche spicciolo come statua vivente, sfruttando quello strano dono che la natura aveva deciso di dargli.
Si era spesso chiesto da dove venisse quella luce, manifestatasi per la prima volta a dodici anni. Lui si era spaventato e non ne aveva parlato con nessuno. La prima e unica persona a cui lo aveva mostrato era stata Lara. Aveva temuto che anche lei ne rimanesse intimorita, invece aveva reagito come una bimba portata al luna park.
Dopo la nascita di Jessica, le dita luminose erano diventate un gioco per farla ridere: passavano ore a giocare sul lettone, lui a disegnare quadri in aria e lei a emettere quelle meravigliose risate cristalline così tipiche degli infanti.
Poi, una sera, l’auto su cui viaggiavano Lara e Jessica di ritorno da una visita al nonno paterno era stata tamponata ed era finita in un fosso. Lara si era rotta una gamba e aveva dovuto portare il collarino per un paio di mesi; Jessica aveva picchiato la testa ed era entrata in un coma da cui non si era ancora risvegliata.
Alcune sere dopo l’incidente - Mario non era in grado di quantificare, il tempo in quei giorni aveva preso una consistenza vischiosa, in cui il susseguirsi regolare di albe e tramonti si era sfalsato - davanti al letto su cui Jessica dormiva tra tubicini e snervanti beep, un impeto di furia e frustrazione si era impadronito di lui.
«Perché?» aveva urlato. Lara, seduta su una poltrona accanto a lui, la gamba ingessata poggiata su uno sgabello, si era ridestata da un agitato dormiveglia.
«Mario, cosa succede?»
«Succede che non servo a nulla» aveva risposto lui, mettendosi a piangere.
«Cosa stai…»
«Parlo di queste» aveva detto lui, aprendo le dita a ventaglio. «A cosa mi serve questa stronzata della luce? Cos’è? Perché ce l’ho? Che scopo può mai avere?»
«Mario, amore… il tuo dono è in grado di ispirare meraviglia. Ed è una cosa stupenda. Ricordi come rideva Jessica quando...»
«Cazzate» aveva risposto lui piccato. «Perchè non mi è stato dato un dono più utile? Perchè non posso avere ricevuto il potere di guarire la mia piccola? O di creare soldi dal nulla magari, per poterle dare tutte le cure migliori?... qualsiasi cosa, solo non un’idiozia come questa…»
«La nonna mi diceva spesso una cosa» aveva detto allora Lara. «Attenta a ciò che desideri, perchè potresti ottenerlo».
Mario per tutta risposta aveva picchiato un pugno contro il muro con una bestemmia.
Erano trascorsi ventidue mesi da quella conversazione, e non passava giorno che Mario, prima di addormentarsi, non desiderasse di svegliarsi la mattina e scoprirsi, finalmente, con un potere più grande.
«Ehi, tu, mi hai sentito?»
La voce del biondino lo riportò al presente. Quel tipo iniziava a irritarlo, nonostante tutti i buoni propositi.
Forse anche lui ha i suoi problemi, pensò, mentre una folata più forte gli faceva frusciare le code della tunica. Lascialo perdere…
Ma Mr Lacoste non sembrava avere alcuna intenzione di lasciar perdere lui.
«Visto? Secondo me è pure sordo oltre che stronzo. Ha le orecchie tarate solo sulla frequenza delle monete che cadono in quella vecchia ciabatta».
«Dai, Renè, lascialo stare» disse la sua Barbie.
Ma Renè non le diede ascolto e si avvicinò la piedistallo sgomitando tra la piccola folla.
«Guarda qui» disse. Si inginocchò e raccolse la scarpa, «ci saranno almeno trenta euro qui dentro, se non di più».
«Lasciala». La voce di Mario, fredda e distaccata, poteva parere davvero quella di una statua appena sorta a nuova vita.
«Oh, visto, lo dicevo io. Ho fatto tintinnare i danari, ed ecco che quello si sveglia. Ma vai a lavorare, saltimbanco da strapazzo».
«Lasciala» ripetè Mario.
«Come vuoi» disse Renè. E con un gesto di stizza rovesciò il contenuto della ballerina, che rotolò sul selciato con il suono di mille campanelli, per poi gettare la scarpa verso una siepe accanto ai bidoni della spazzatura.
Allora tutto accadde con una velocità disarmante.
Mario scattò in avanti come spinto da una forza invisibile. Non vedeva altro che un fuoco rosso danzare frenetico di fronte ai suoi occhi, mentre gli arti si muovevano convulsi, appendici insensibili guidate da un folle burattinaio.
Poi le orecchie furono invase da un suono stridente che solo dopo qualche istante riconobbe come grida di terrore. Pian piano riprese presenza di sè; quella specie di fuoco sparì. Ma non il rosso.
Sbattè le palpebre come per scacciare un corpo estraneo.
Lo colse un istante di smarrimento quando, in mezzo al cremisi, vide un piccolo coccodrillo. Poi la consapevolezza lo travolse.
Oh mio Dio…
Scattò in piedi. Intorno a lui decine di volti sgomenti.
«Renè! Renè!» la voce strozzata della ragazza gli martellava il cervello.
Si guardò le mani. Le punte delle dita si erano squarciate e ne erano uscite protuberanze color mattone, affilate e stillanti sangue.
Attento a ciò che desideri...
Renè era steso sul selciato, il collo trafitto in almeno sei punti, una chiazza scura che si allargava sotto di lui.
Un grido silenzioso eruppe dalla gola di Mario, che corse via verso la siepe. Nessuno cercò di fermarlo.
Guardò accanto ai bidoni, la vista offuscata dalle lacrime che scendevano copiose.
Ed eccola. La suola violetta puntava verso il cielo, proprio sotto al fascio di luce di un lampione.
Si inginocchiò e prese la scarpa della sua Jessica tra le mani, che nel frattempo avevano ripreso il loro aspetto abituale.
«Volevo di più… per te, volevo saper fare di più» mormorò, come se abbracciasse la sua bimba, e non un suo feticcio. «Ma non questo… non questo… Oh, tesoro mio...»
In lontananza giunse l’ululato di una sirena. Certo, qualcuno aveva chiamato i Carabinieri.
Mario strinse la scarpa al petto e restò lì, ad attendere che lo portassero via.
Poi sentì una vibrazione. Alzò la tunica e prese il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Sul display era apparsa la foto di una donna sorridente con i capelli neri raccolti in una coda di cavallo; davanti al viso un bicchiere da cocktail da cui spuntavano foglie di menta e una cannuccia, ricordo di tempi più felici.
Mario tenne il telefono davanti al viso, incapace di far scorrere il dito sul cerchietto verde.
Era impensabile che lui potesse parlare con sua moglie in quel momento.
«Lara… amore… Ho ucciso un uomo…» mormorò al vento, mentre l’apparecchio continuava a vibrare tra le sue dita. No, non sarebbe mai riuscito a rispondere a quella chiamata.
Poi fece mente locale. Era sera, Lara sapeva che lui stava lavorando. Non lo chiamava mai mentre si esibiva.
Jessica
Doveva essere accaduto qualcosa…
Ho ucciso un uomo…
Il terrore gli cinse il cuore in una morsa mentre il senso di colpa gli toglieva la capacità di ragionare. Era assurdo ma ne era certo. L'universo stava riportando l'equilibrio… lui aveva tolto una vita e per compensazione gli era stata portata via quella di sua figlia.
Con l’animo in tumulto strisciò il pollice sul display e portò il telefono all’orecchio, mentre l’urlo delle sirene diventava sempre più alto.
«Mario!» disse Lara, la voce fremente di lacrime.
Lui avrebbe voluto parlare, incitarla a dirgli la verità. Ma non ne trovò il coraggio.
«Mario, mi senti?»
«Sì» rispose lui, mentre la bocca gli si riempiva del sapore acre della paura.
Allora Lara gli disse quattro parole, e tutto cambiò.
Gli orrori degli ultimi minuti scomparvero. Il corpo straziato di Renè, le urla, il senso di colpa. La sirena smise di ululare; un istante dopo una voce perentoria gli ordinò di alzarsi.
Lui lo fece, docile. Si voltò e vide due Carabinieri, uno dei quali teneva la pistola d’ordinanza puntata verso di lui. Mario si lasciò prendere senza opporre resistenza. Lo stavano arrestando per omicidio. Avrebbe passato anni in galera, ma non gli importava.
Niente gli importava in quel momento.
L'universo non c'entrava nulla.
Sorrise, ripetendosi l’ultima frase pronunciata da Lara.
«Mario» aveva detto, «si è svegliata».

Autorizzo Jackie de Ripper all'eventuale pubblicazione su Skan Magazine

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E rieccomi finalmente! Mi mancava stare qui con voi... Caspita però, per cause di forza maggiore sono stata in pausa forzata per qualche settimana... e già mi sentivo le dita arrugginite. Porca paletta, qui urge riprendere il ritmo... E' ufficiale: scrivere NON è come andare in bicicletta! :p104:
 
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kaipirissima
view post Posted on 8/9/2014, 08:57




Nessuna idea, sono bloccata.
Speriamo il prossimo mese.

Ciao! Buono Skannatoio a tutti!
 
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Callagan
view post Posted on 8/9/2014, 09:00




CITAZIONE (kaipirissima @ 8/9/2014, 09:57) 
Nessuna idea, sono bloccata.
Speriamo il prossimo mese.

Ciao! Buono Skannatoio a tutti!

:cry:
 
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200 replies since 28/8/2014, 14:43   3231 views
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