Attento a ciò che desideriLa brezza della sera soffiava sulla piazza, inebriando i sensi col suo profumo salmastro.
L’estate sta finendo, cantavano i Righeira nei favolosi anni Ottanta. All’epoca Mario adorava quella canzone. Aveva dieci anni e amava la scuola; l’immagine degli ombrelloni chiusi e dell’imminente rientro tra i banchi lo riempiva di ottimismo e aspettativa.
Ora invece era diverso.
Settembre significava ritorno dei turisti alle proprie case; significava solo un paio di settimane prima della chiusura definitiva della stagione. Significava meno introiti, sempre che di introiti si potesse parlare. Specie quell’anno, con il meteo ballerino che aveva svuotato le spiagge per quasi tutto luglio.
Mario diede un colpo di tosse. Ecco, ci mancava pure quello. Aprì il vasetto della crema, sperando in cuor suo che si trattasse solo di un banale raffreddore o di un colpo d’aria. Un’influenza lo avrebbe costretto a un ritiro anticipato e non ne aveva proprio bisogno.
Infilò le dita in quella poltiglia verdognola e iniziò a spalmarsela sul viso. Che schifo, per non parlare di quando avrebbe dovuto toglierla, una volta a casa. Ci volevano almeno tre lavaggi con lo struccante di Lara, e a volte rimanevano comunque delle tracce che macchiavano il cuscino.
Mentre spalmava alzò la testa e diede un’occhiata intorno. C’erano ancora diverse persone in giro per la piazza, anche se a occhio e croce circa la metà rispetto ai giorni di ferragosto. Con una punta di ottimismo notò molte famiglie con bambini. Dagli adulti non ci si poteva aspettare più di tanto, ma con i bimbi…
«Sè, guarda quello lì. Ma trovati un lavoro vero, perdigiorno!»
Ecco il primo galantuomo della serata.
Mario finse di non sentire e finì di truccare il viso. Posò sulla testa pelata il berretto - una delizia alla Peter Pan che Lara gli aveva cucito con le sue mani - e prese la scarpina. La guardò con l'usuale commistione di amore e tristezza, e la mise un paio di passi davanti a lui. Vi infilò una manciata di monete da un euro, giusto per dare il via. Poi salì sul piedistallo e rimase immobile.
Passarono solo un paio di minuti. In quel breve lasso di tempo una piccola folla si radunò davanti a lui.
«Mamma, che fa quello lì?»
«È un signore che vuole scucirci un po’ di soldi, Fabio. Dai, tira dritto che ti compro un gelato».
Seguirono altri due o tre commenti sulla stessa falsariga, poi finalmente un ragazzino di una decina d’anni si avvicinò alla scarpa. Le monete dentro la piccola ballerina di vernice tintinnarono quando un loro simile si unì alla combriccola.
Mario prese tempo un paio di secondi, poi alzò le braccia.
Irrigidì le dita un attimo, e subito queste si illuminarono di rosso.
Come ogni volta, ricordò la sera in cui aveva fatto vedere ET a Jessica.
«Mamma
guadda! Omino ha dito
losso come papà».
E come ogni volta gli si strinse il cuore. Era la settimana prima del terzo compleanno della sua piccola. Due giorni dopo, l’incidente.
Mario scacciò quei pensieri. Doveva concentrarsi, o il numero non sarebbe riuscito.
Fece frullare le dita e dalle unghie scaturirono scintille rosate che sfrigolavano nell’aria della sera, suscitando prolungati
oh di stupore, soprattutto nel pubblico più giovane.
Stava andando piuttosto bene, quindi decise di alzare il tiro. Iniziò a muovere le braccia in grandi cerchi, come in una danza. Le dita ballavano in su e in giù, roteavano e si intrecciavano tra loro. Le scie fluttuavano per alcuni secondi prima di dissolversi, dandogli il tempo di creare effimeri disegni. Dal movimento delle sue mani nacque prima una barca in mezzo al mare in tempesta, poi due bambini che si tenevano per mano e ancora la luna circondata da stelle e pianeti. Per il gran finale, Mario chiuse i pugni e li riaprì con un movimento fulmineo, creando un gioco di luce che ricordava dei fuochi artificiali.
Quindi, lentamente, abbassò le braccia, le incrociò davanti al petto e riprese la sua immobilità statuaria.
Sentì molte parole di apprezzamento. Oltre ai più piccoli, con cui il successo era in genere assicurato, anche molti adulti battevano le mani entusiasti. Subito altre monete tintinnarono nella scarpina e lui ripetè il numero, ancora e ancora.
Poi arrivò lui.
Il classico dei classici, stereotipo degli stereotipi: polo bianca
Lacoste, maglioncino rosa legato sulle spalle, capelli biondi che di certo vedevano più balsamo di quelli di Lara, mocassini senza calze e pelle abbronzata - più da lampada UV che da sole preso giocando a
beach sulla spiaggia, Mario si sarebbe giocato la testa.
«No, ma voglio dire, e gli danno pure i soldi?» disse questo novello Ken, accompagnato dalla Barbie di turno, solo bruna anzichè bionda. «Gente, a che livello siamo. Ehi, ciarlatano, va a lavorare e vergognati!»
Mario aveva imparato a ignorare i commenti pungenti come quello. Dopotutto, come potevano sapere i dettagli della sua vita?
Come potevano immaginare che la sua piccola fosse in coma da quasi due anni? Che il suo ex studio si fosse tramutato in una camera d’ospedale, dove Jessica dormiva collegata a macchinari che la mutua non passava per intero? Che Lara avesse lasciato il lavoro per occuparsi a tempo pieno della loro figlioletta e che lui dovesse provvedere a tutti gli introiti della famiglia?
Mario faceva il primo turno fisso in fabbrica sei giorni la settimana. Al pomeriggio si ingegnava come tuttofare, cambiando lampadine, aggiustando tapparelle, tagliando prati e verniciando cancellate. Poi la sera, nel periodo estivo, cercava di raggranellare ancora qualche spicciolo come statua vivente, sfruttando quello strano dono che la natura aveva deciso di dargli.
Si era spesso chiesto da dove venisse quella luce, manifestatasi per la prima volta a dodici anni. Lui si era spaventato e non ne aveva parlato con nessuno. La prima e unica persona a cui lo aveva mostrato era stata Lara. Aveva temuto che anche lei ne rimanesse intimorita, invece aveva reagito come una bimba portata al luna park.
Dopo la nascita di Jessica, le dita luminose erano diventate un gioco per farla ridere: passavano ore a giocare sul lettone, lui a disegnare quadri in aria e lei a emettere quelle meravigliose risate cristalline così tipiche degli infanti.
Poi, una sera, l’auto su cui viaggiavano Lara e Jessica di ritorno da una visita al nonno paterno era stata tamponata ed era finita in un fosso. Lara si era rotta una gamba e aveva dovuto portare il collarino per un paio di mesi; Jessica aveva picchiato la testa ed era entrata in un coma da cui non si era ancora risvegliata.
Alcune sere dopo l’incidente - Mario non era in grado di quantificare, il tempo in quei giorni aveva preso una consistenza vischiosa, in cui il susseguirsi regolare di albe e tramonti si era sfalsato - davanti al letto su cui Jessica dormiva tra tubicini e snervanti
beep, un impeto di furia e frustrazione si era impadronito di lui.
«Perché?» aveva urlato. Lara, seduta su una poltrona accanto a lui, la gamba ingessata poggiata su uno sgabello, si era ridestata da un agitato dormiveglia.
«Mario, cosa succede?»
«Succede che non servo a nulla» aveva risposto lui, mettendosi a piangere.
«Cosa stai…»
«Parlo di queste» aveva detto lui, aprendo le dita a ventaglio. «A cosa mi serve questa stronzata della luce? Cos’è? Perché ce l’ho? Che scopo può mai avere?»
«Mario, amore… il tuo dono è in grado di ispirare meraviglia. Ed è una cosa stupenda. Ricordi come rideva Jessica quando...»
«Cazzate» aveva risposto lui piccato. «Perchè non mi è stato dato un dono più utile? Perchè non posso avere ricevuto il potere di guarire la mia piccola? O di creare soldi dal nulla magari, per poterle dare tutte le cure migliori?... qualsiasi cosa, solo non un’idiozia come questa…»
«La nonna mi diceva spesso una cosa» aveva detto allora Lara. «Attenta a ciò che desideri, perchè potresti ottenerlo».
Mario per tutta risposta aveva picchiato un pugno contro il muro con una bestemmia.
Erano trascorsi ventidue mesi da quella conversazione, e non passava giorno che Mario, prima di addormentarsi, non desiderasse di svegliarsi la mattina e scoprirsi, finalmente, con un potere più grande.
«Ehi, tu, mi hai sentito?»
La voce del biondino lo riportò al presente. Quel tipo iniziava a irritarlo, nonostante tutti i buoni propositi.
Forse anche lui ha i suoi problemi, pensò, mentre una folata più forte gli faceva frusciare le code della tunica.
Lascialo perdere…Ma
Mr Lacoste non sembrava avere alcuna intenzione di lasciar perdere
lui.
«Visto? Secondo me è pure sordo oltre che stronzo. Ha le orecchie tarate solo sulla frequenza delle monete che cadono in quella vecchia ciabatta».
«Dai, Renè, lascialo stare» disse la sua Barbie.
Ma Renè non le diede ascolto e si avvicinò la piedistallo sgomitando tra la piccola folla.
«Guarda qui» disse. Si inginocchò e raccolse la scarpa, «ci saranno almeno trenta euro qui dentro, se non di più».
«Lasciala». La voce di Mario, fredda e distaccata, poteva parere davvero quella di una statua appena sorta a nuova vita.
«Oh, visto, lo dicevo io. Ho fatto tintinnare i danari, ed ecco che quello si sveglia. Ma vai a lavorare, saltimbanco da strapazzo».
«Lasciala» ripetè Mario.
«Come vuoi» disse Renè. E con un gesto di stizza rovesciò il contenuto della ballerina, che rotolò sul selciato con il suono di mille campanelli, per poi gettare la scarpa verso una siepe accanto ai bidoni della spazzatura.
Allora tutto accadde con una velocità disarmante.
Mario scattò in avanti come spinto da una forza invisibile. Non vedeva altro che un fuoco rosso danzare frenetico di fronte ai suoi occhi, mentre gli arti si muovevano convulsi, appendici insensibili guidate da un folle burattinaio.
Poi le orecchie furono invase da un suono stridente che solo dopo qualche istante riconobbe come grida di terrore. Pian piano riprese presenza di sè; quella specie di fuoco sparì. Ma non il rosso.
Sbattè le palpebre come per scacciare un corpo estraneo.
Lo colse un istante di smarrimento quando, in mezzo al cremisi, vide un piccolo coccodrillo. Poi la consapevolezza lo travolse.
Oh mio Dio…Scattò in piedi. Intorno a lui decine di volti sgomenti.
«Renè! Renè!» la voce strozzata della ragazza gli martellava il cervello.
Si guardò le mani. Le punte delle dita si erano squarciate e ne erano uscite protuberanze color mattone, affilate e stillanti sangue.
Attento a ciò che desideri...Renè era steso sul selciato, il collo trafitto in almeno sei punti, una chiazza scura che si allargava sotto di lui.
Un grido silenzioso eruppe dalla gola di Mario, che corse via verso la siepe. Nessuno cercò di fermarlo.
Guardò accanto ai bidoni, la vista offuscata dalle lacrime che scendevano copiose.
Ed eccola. La suola violetta puntava verso il cielo, proprio sotto al fascio di luce di un lampione.
Si inginocchiò e prese la scarpa della sua Jessica tra le mani, che nel frattempo avevano ripreso il loro aspetto abituale.
«Volevo di più… per te, volevo saper fare di più» mormorò, come se abbracciasse la sua bimba, e non un suo feticcio. «Ma non questo…
non questo… Oh, tesoro mio...»
In lontananza giunse l’ululato di una sirena. Certo, qualcuno aveva chiamato i Carabinieri.
Mario strinse la scarpa al petto e restò lì, ad attendere che lo portassero via.
Poi sentì una vibrazione. Alzò la tunica e prese il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Sul display era apparsa la foto di una donna sorridente con i capelli neri raccolti in una coda di cavallo; davanti al viso un bicchiere da cocktail da cui spuntavano foglie di menta e una cannuccia, ricordo di tempi più felici.
Mario tenne il telefono davanti al viso, incapace di far scorrere il dito sul cerchietto verde.
Era impensabile che lui potesse parlare con sua moglie in quel momento.
«Lara… amore… Ho ucciso un uomo…» mormorò al vento, mentre l’apparecchio continuava a vibrare tra le sue dita. No, non sarebbe mai riuscito a rispondere a quella chiamata.
Poi fece mente locale. Era sera, Lara sapeva che lui stava lavorando. Non lo chiamava mai mentre si esibiva.
JessicaDoveva essere accaduto qualcosa…
Ho ucciso un uomo…Il terrore gli cinse il cuore in una morsa mentre il senso di colpa gli toglieva la capacità di ragionare. Era assurdo ma ne era certo. L'universo stava riportando l'equilibrio… lui aveva tolto una vita e per compensazione gli era stata portata via quella di sua figlia.
Con l’animo in tumulto strisciò il pollice sul display e portò il telefono all’orecchio, mentre l’urlo delle sirene diventava sempre più alto.
«Mario!» disse Lara, la voce fremente di lacrime.
Lui avrebbe voluto parlare, incitarla a dirgli la verità. Ma non ne trovò il coraggio.
«Mario, mi senti?»
«Sì» rispose lui, mentre la bocca gli si riempiva del sapore acre della paura.
Allora Lara gli disse quattro parole, e tutto cambiò.
Gli orrori degli ultimi minuti scomparvero. Il corpo straziato di Renè, le urla, il senso di colpa. La sirena smise di ululare; un istante dopo una voce perentoria gli ordinò di alzarsi.
Lui lo fece, docile. Si voltò e vide due Carabinieri, uno dei quali teneva la pistola d’ordinanza puntata verso di lui. Mario si lasciò prendere senza opporre resistenza. Lo stavano arrestando per omicidio. Avrebbe passato anni in galera, ma non gli importava.
Niente gli importava in quel momento.
L'universo non c'entrava nulla.
Sorrise, ripetendosi l’ultima frase pronunciata da Lara.
«Mario» aveva detto, «si è svegliata».
Autorizzo Jackie de Ripper all'eventuale pubblicazione su Skan Magazine
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E rieccomi finalmente! Mi mancava stare qui con voi... Caspita però, per cause di forza maggiore sono stata in pausa forzata per qualche settimana... e già mi sentivo le dita arrugginite. Porca paletta, qui urge riprendere il ritmo... E' ufficiale: scrivere NON è come andare in bicicletta!