La bambina
“Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un futuro pericolo”
Tina Merlin
“A Cloud hangs over me
marks every move,
deep in the memory
of what once was love”
24 Hours - Joy Division
Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963,
circa 260 milioni di m³ di roccia scivolarono,
alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante...
Wikipedia
Dove sono?
Dove sono finiti mamma e papà?
Fa freddo, sto tremando e sono bagnata. Il mio coniglietto di peluche... Ce l’avevo accanto quando mi sono addormentata...Una forza micidiale mi fa sbattere contro qualcosa di duro e spigoloso... Sono capovolta, nuoto, mi dimeno... Cos’è questa luce?
Oddio... Non riesco a respirare!Mi chiamo Marta e ho cinque anni.
Anzi,
avevo cinque anni.
Non so se sia più corretto esprimersi al passato o meno, ho l’impressione di poter ragionare al presente per sempre. Credo di avere davanti a me tutto il tempo che voglio.
Abitavo in questo piccolo paese di montagna e ho speso tutti i giorni della mia breve vita qui.
Avevo una famiglia, amici, animali domestici e bambole.
Ora non ho più nulla eccetto i ricordi, da gestire nell’arco del tempo infinito che ho davanti.
Oggi è il 9 ottobre ed un anno esatto è passato.
Un anno che ho trascorso rimanendo nascosta durante il giorno e camminando, perlustrando e cercando di capire di notte, senza sentire fame, fatica o quant’altro.
Sono morta nel sonno. Senza soffrire, senza provare dolore o sgomento. Sono l’unica abitante rimasta a camminare tra le macerie di questo posto.
La desolazione che ho tutt’attorno mi rende determinata e desiderosa di vendetta. Sono cambiata, il mio corpo è diverso così come la mia percezione delle cose.
Nonostante la nudità del mio fisico - protetto solo da ciò che rimane della mia camicia da notte -, nonostante i segni della cancrena e della putrefazione e il grigiore della mia pelle, sento di essermi evoluta.
La mia capacità di giudizio, il mio lessico e la mia consapevolezza sono diventati qualche cosa di più grande, sono diversi da ogni caratteristica riconducibile a una bambina di cinque anni.
Sono la regina delle mie notti solitarie. La regina della devastazione e del degrado.
Il nome del mio regno è
Longarone.
La notte del 9 ottobre di un anno fa, ho aperto gli occhi su un nuovo scenario. Il mio paese non esisteva più. Semplicemente era stato spazzato via da una catastrofe. Credo di essere stata trascinata attraverso la valle assieme a macerie di vario tipo senza che il mio corpo venisse spappolato... Da questo punto di vista sono stata fortunata, se è lecito poter parlare di fortuna in questa situazione.
Mi sono svegliata accanto al municipio - miracolosamente salvo - circondata e quasi seppellita da pezzi di mobili, rami spezzati e vari tipi di spazzatura.
Il mio corpo era estremamente sporco, cosparso di escoriazioni ed ematomi. Potevo individuare chiaramente il pallore bianco e grigiastro che a quel punto mi caratterizzava.
Quando ho focalizzato lo sguardo sul mio petto, mi sono accorta che era immobile, privo di quel leggero movimento dato dal respiro, che sarebbe dovuto essere la conferma della mia sopravvivenza.
Ero morta?
Inizialmente non avevo risposte, ma se stavo ragionando sul fatto di esserlo o meno, significava che in qualche modo esistevo. Ma cosa significava di preciso tutto ciò?
Perché stavo...
ragionando?
Perché mi muovevo, nonostante la quantità di ferite e l’immobilità del mio petto?
Ad un tratto, mi accorsi del mio piede destro o, per essere precisi, di ciò che di esso rimaneva: non avevo più le dita ed era ridotto circa a metà della sua lunghezza originale. Il moncherino terminava con una necrosi che lo rendeva nero come il carbone e, dall’estremità, pendevano come fossero macabre frange brandelli di carne marcia e pelle rinsecchita.
A ripensarci adesso, la cosa strana non era la mancanza di dolore e nemmeno quella del respiro.
Ero semplicemente fredda e glaciale per quel che riguardava la mia emotività ed i sentimenti che percepivo.
Mi alzai in piedi, faticando a mantenere l’equilibrio ma riuscendo comunque a deambulare.
La notte era limpida e pulita, quasi a voler forzatamente contrastare la sporcizia della valle.
Iniziai così a girovagare, sotto il chiarore della luna, lungo l’enorme spianata di detriti che un tempo era stata la mia Longarone.
Individuai subito l’unica struttura che, assieme al municipio era rimasta intatta: il campanile.
Mi incamminai verso di esso; la mia casa si trovava a poche vie di distanza.
Il chiarore lunare che mi aiutava ad orientarmi, mi faceva pensare a che magnifico spettacolo naturale sarebbe stato se il suo fine non fosse stato illuminare la sinistra devastazione del paese spazzato via.
Mi aggiravo tra ogni sorta di oggetto: passeggini divelti, carcasse di biciclette, brandelli di abiti e ovviamente
resti umani. Un enorme deserto di detriti organici e non.
Guardandomi attorno, strizzai gli occhi sfocando volontariamente la vista, in modo da omogeneizzare l’irregolarità del panorama che avevo di fronte.
Non volevo vedere.
Mi guardai una mano e poi l’altra.
Il pallore non lasciava ormai più alcun dubbio sul fatto che fossi morta.
Così mamma e papà avevano ragione... Quegli studiosi della terra... i geologi... si erano dunque sbagliati. Dicevano da tempo che le loro valutazioni ci avrebbero messo in pericolo. Ed io ero tristemente l’unica testimone delle conseguenze di quella negligenza.
Ma rimaneva il dubbio: come riuscivo a elaborare delle considerazioni e dei ragionamenti se ero morta?
Interruppi il flusso dei miei pensieri e mi fermai.
Sapevo di essere sui detriti della mia casa.
Mi inginocchiai ed iniziai a scavare.
Attendo.
Ogni sera attendo.
Attendo e affilo.
Affilo e attendo.
Lavoro alla mia ruota da arrotino e cerco di perfezionare l’arte che fu di mio padre.
Affilare mi aiuta a scandire il tempo.
Essendo costretta a vivere nascosta durante il giorno e potendo uscire dal mio loculo solo di notte, ho capito che devo avere uno scopo se non voglio impazzire.
Ho scoperto ben presto di potermi fermare
a comando. Quando desidero nascondermi agli occhi del mondo, mi basta scavare una buca, stendermici all’interno e ricoprirmi di rami, foglie e piccole pietre. Da quel momento cado in una sorta di
coma vigile, che mi evita di pensare e di agognare il ritorno della notte, ma mi permette di avere quella trasversale attenzione che mi fa percepire rumori e presenze.
Il mio scopo è resistere. Sopravvivere una seconda volta per gustare la vendetta.
Quella notte di un anno fa, ho avuto molta fortuna.
Il laboratorio di mio padre, dentro al quale erano conservati tutti i suoi strumenti, era stato distrutto solo parzialmente. Il tetto aveva ceduto ed era stato divelto sul lato che guardava verso la diga, ma allo stesso tempo, aveva svolto una funzione di cappa protettiva, andando solamente a schiacciare alcune strutture per lasciarne intatte altre.
Il carretto con la ruota per molare era in uno stato di non immediato utilizzo, ma ce la potevo fare. Iniziai da subito, notte dopo notte a ripararlo. Non avevo mai usato chiodi, martello, seghetti, fil di ferro. Ma più lavoravo e più in fretta imparavo. Avevo percepito una sorta di cambiamento e la mia abilità manuale, che tutt’a un tratto risultava efficace e precisa, ne era la prova.
Dopo una considerevole quantità di notti il carretto con la ruota era pronto.
Ho creduto.
E ora godo dei risultati della mia fede.
Mentre affilo gli innumerevoli coltelli che ho trovato frugando tra le macerie, ripenso alla mia vita di prima e sorrido.
Per tutti ero “Marta, la figlia dell’arrotino”.
Papà mi caricava sul suo carretto e mi portava con sé.
Erto, Casso, Longarone, Codissago, Castellavazzo. Ogni piazza diventava nostra e ogni giornata era per me speciale. Vedere le sue mani abili che affilavano una lama dopo l’altra mi faceva sentire una figlia orgogliosa.
Ora spingo ritmicamente il pedale e le mie mani grigie si muovono veloci, con la stessa maestria che fu del papà.
I coltelli che ho recuperato sono molti e di vario tipo: da cucina, da carne, da verdura; a lama lunga, corta, media. Grossolani o delicati. L’importante è averne un buon numero per continuare la mia attività, così da potermi sentire vitale.
Quindi, eccomi qui. Ad attendere ed affilare.
È stato così che ho mantenuto una parvenza di vita-non-vita fino ad ora.
Sera dopo sera perfeziono i miei movimenti e la mia arte si plasma a regola, semplicemente lavorando senza sosta alla ruota aiutata solamente dal chiarore della luna.
Al mattino, stremata, spingo il carretto dentro un pertugio tra le macerie del vecchio tetto della mia casa e ritorno a scavare una buca, che per la mia sicurezza è ottenuta in un posto diverso della valle ogni sera.
Volontari, esercito o vigili del fuoco - figure che si aggirano quotidianamente tra i resti del paese - sono faccenda che non mi riguarda.
E non mi avranno.
Sono sveglia.
Ma non è notte.
Poche ore dopo essermi “fermata” sento dei movimenti che riconosco subito.
Terra che si muove, spostata da stivali e scarpe da lavoro, persone che parlano. Parlano di paesi spazzati via, di dighe che hanno ceduto, di friabilità del terreno... Terreno... Terra... Chi studia la terra? Chi ne conosce la composizione e la stratificazione?
Penso e mi do la risposta in modo silenzioso, dentro la mia mente.
I passi si avvicinano al mio nascondiglio.
Qualcosa viene piantato nel terreno.
Una sonda? Una pala?
Riconosco tre tipi diversi di voce maschile.
Qualche roccia che contribuisce a tenermi nascosta viene smossa.
Filtra un accenno di luce mattutina.
Ci siamo? È così che finisce?
Loro non possono sapere, ma io possiedo qualcosa di talmente potente che se solo intuissero, scapperebbero a gambe levate e non persisterebbero nello smuovere i detriti che mi coprono.
Scavate, venite pure a scoprire dov’è finita la figlia dell’arrotino.
L’avete quasi trovata, e quando guarderete nei suoi occhi, saprete che possiede coraggio, odio, disprezzo, determinazione ma soprattutto, un sacco di coltelli...
Un momento, vedo la luce, mi acceca…
Un abbaglio potentissimo.
Non capisco dove mi trovo.
Ricordo un sogno strano... Ero io nel sogno?
Mi viene da piangere. Non ricordo, ma ho la netta sensazione di aver dormito male.
Un’esplosione improvvisa... Urla... Rumore di rami spezzati.
Ho paura.
Dove sono?
Dove sono finiti mamma e papà?
Fa freddo, sto tremando e sono bagnata. Il mio coniglietto di peluche... Ce l’avevo accanto quando mi sono addormentata...Una forza micidiale mi fa sbattere contro qualcosa di duro e spigoloso... Sono capovolta, nuoto, mi dimeno... Cos’è questa luce?
Oddio... Non riesco a respirare!
Sono sott’acqua, provo a riemergere, nuoto, nuoto e nuoto ancora.
Qualcosa mi schiaccia schiena e petto.
Non respiro.
Buio.Autorizzo Jackie the Ripper a pubblicare il mio racconto su Skan Magazine