L'importante non è quello che fai, ma quello che racconti!
Di Francesco Nucera
Le dita picchiettavano sulla scrivania al ritmo di una vecchia canzone, talmente antica che lo stesso maresciallo Battocchio non ricordava quale fosse; apparteneva alla sua vita, ne era certo, eppure le parole si erano perse decenni prima.
Assorto, fissava la lancetta lunga dell'orologio appeso al muro convinto di poterla spingere più in fretta, ma, nonostante i suoi sforzi, era quasi un minuto che quella non si muoveva.
«Miché, puoi cambiare canzone?» chiese Fabrizio, che lo fissava di traverso.
Michele spostò la mano sinistra sull'altra bloccando il tamburellare; istintivamente il piede iniziò a muoversi, il ginocchio picchiò contro la base della scrivania e la melodia riprese.
«E che cazzo, “Gelato al coccolato”, no!» Il collega allargò le braccia e scosse la testa. «So' due anni che m'assilli con 'sta canzone!»
Ogni muscolo del maresciallo Battocchio si bloccò; smise di respirare, sollevò lo sguardo al cielo e sorrise. “Ecco che canzone è!” pensò compiaciuto. Il ricordo della copertina del disco lo galvanizzò, Pupo, il suo idolo di gioventù, seduto in riva a un fiume, vestito bianco, chitarra in pugno e ragazza di spalle in sua adorazione. «Quanto eravamo belli noi due!» bisbigliò fra se.
«Miché, stai bene?»
«Sì, sto solo pensando che tra mezz'ora finisco il turno e me ne vado in ferie!» mentì, ondeggiando la testa al ritmo della canzone.
«Sarà, ma a me sembri più strano del solito!»
«Strano quanto vuoi, ma da domani io me ne sto al paese e da lì penserò a te in 'sto posto disperso sulla Silla!» Non guardò neppure la reazione del collega; si alzò di scatto, piroetto sul tallone e andò verso l'uscita della stanza. «Io vado a svuotare la vescica, tu pensa a che farai un mese senza di me!» Michele sorrise, impugnò la maniglia e aprì la porta.
«Morirò di invidia pensando a te che ti godi la vita a Paternopoli
» disse Fabrizio, scoppiando a ridere.
Michele, continuando a camminare, si voltò per mandarlo a quel paese, ma andò a sbattere contro qualcosa di duro.«E che cazzo!» imprecò, guardò contro cos'era andato a sbattere e sbuffò vedendo il Tenente Boltrini.
Il graduato, un ragazzo di nemmeno trentanni, fece un passo indietro per recuperare l'equilibrio e lo fulminò con lo sguardo. «Maresciallo, guardi dove va!»
«Mi scusi tenente, è che stavo parlando col brigadiere Spini
non l'ho proprio vista arrivare» si scusò, cercando di sistemargli la giacca.
Il tenente gli fermò le mani e le allontanò dalla sua uniforme. Sì afferrò la cravatta e strinse il nodo. «Poco male, tanto stavo cercando lei.»
«E che vuole da me
tenente.» Faticava a riconoscere il ruolo di quel pivello.
«“Che voglio” secondo lei?»
«Che vuole?» ribadì Michele; sollevò le spalle e guardò Fabrizio alla ricerca di un alleato, ma il collega, a testa china, stava battendo le dita contro la tastiera del computer. “E certo, 'na cazzo di volta che ho bisogno di te!” pensò tornando a guardare il tenente.
«Battocchio, non se la prenda a male, ma le devo chiedere di lavorare.»
Michele si bloccò, strabuzzò gli occhi e aprì lentamente la bocca. «Lavorare, io, ora?»
«Battocchio, sì, lei e ora.»
«Ma 'sto a finì il turno.»
«Prima deve passare dalla vedova Pasceri.»
«Da Concettina, e che vuole stavolta?»
«Sente dei rumori che provengono dal gabbiotto degli attrezzi in giardino.»
«E ci mandi Fabrizio.»
«Ha chiesto di lei, e poi non è che può continuare a discutere qualsiasi cosa le dico. Maresciallo Battocchio, questo è un ordine»
«E certo, 'mo diamo pure gli ordini. Facciamo così: prima mi cambio. Vado lì in borghese, tanto è di strada per casa mia.»
Il tenente socchiuse gli occhi, portò la mano al mento e fece schioccare la lingua sul palato. «Le faccio questa cortesia.»
«Lei? Io sto per smontare e il favore me lo fa lei?» Michele sollevo la mano destra, palmo rivolto verso l'alto, e la rivolse al tenente. «'Mo me ne vado che ho fretta, ma 'sta discussione la riprendiamo» disse Battocchio, inumidendosi le labbra.
Il graduato lo fissò paonazzo in volto; gli tremavano le mani e gli occhi sembravano pronti a schizzargli fuori dalle orbite. Spalancò la bocca, ma emise solamente un lamento acuto. Michele scosse la testa, si voltò e torno in ufficio sbattendo la porta. «Ma vedi sto cretino!»
«Miché, quello ti fa trasferire» disse Fabrizio, poggiando i piedi sulla scrivania.
«Volesse la madonna! In 'sto posto di merda ci stanno solo cani, vacche e vecchi alcolizzati!»
«Ma quello ti manda a Napoli e li non puoi fare quello che fai qui.»
Sentendo il nome della città in cui aveva fatto il militare, un brivido percorse la schiena di Michele. Napoli non era una bella prospettiva, lì si che la gente sparava. «Va beh, magari gli porto una mozzarella di bufala quando torno.»
«E una pure a me!»
«No, a te ti porto una tastiera nuova, non vorrei che a furia di battere su quei tasti li consumassi.»
Il maresciallo Michele Battocchio accostò a due passi dal cancello di casa della vedova Pasceri. La strada era deserta e pochi metri più avanti, una panchina era illuminata dall'ultimo lampione del comune; da lì partivano quattro chilometri di tornanti che conducevano al paese dopo, dove lo aspettava casa sua. Spense l'auto, guardò l'orologio e sbuffò; un'ora dopo sarebbe iniziata la partita della Juve e lui non se la voleva perdere. Inspirò profondamente, l'aria fredda lo fece rabbrividire. Aprì la portiera e si diresse verso l'ingresso, poggiò l'indice sul pulsante arrugginito e attese che la vecchia gli rispondesse.
Passati i canonici dieci secondi, Michele iniziò a innervosirsi. «Vedi se sta stronza deve mettersi a giocare proprio oggi!» disse a denti stretti. Toccò la serratura, il cancello cigolò e si aprì. Istintivamente, sfiorò il calcio della pistola; per quanto fosse un paesino di quattromila anime con il tasso di criminalità pari al numero di turisti che andavano lì d'inverno, l'ultimo si era visto nel '68, Concettina non si fidava e faceva ben attenzione a chiudere casa.
Michele avanzò piano fino alla porta, poggiò l'orecchio sull'alluminio dorato e trattenne il fiato; da dentro non proveniva nessun rumore. Fece due passi indietro, si chinò e raggiunse l'unica finestra illuminata del piano terra. Si appiattì contro la parete esterna, impugnò il cellulare e cercò il numero di Spini, lo selezionò e si bloccò; non poteva chiamarlo. Se in casa ci fosse stata solo Concettina quella storia l'avrebbe perseguitato fino all'ultimo giorno della sua già non brillante carriera. Rimise il cellulare in tasca e impugnò la pistola, la guardò e corrucciò il naso; non sapeva nemmeno se funzionasse ancora, ma almeno avrebbe spaventato gli eventuali assalitori. Si fece coraggio e si mise in piedi, le braccia tese in avanti e l'espressione più cattiva che potesse immaginare.
La casa era in ordine e, su una poltrona, Concettina era seduta con la testa riversa di lato. Michele schiacciò il viso contro il vetro; A parte lei non sembrava esserci nessuno, e tutto era in ordine. Tornò di corsa sui suoi passi, raggiunse la porta di casa e aprì. «Concettina!» urlò, ma la vecchia non gli rispose. Affannato, corse fino alla sala, la raggiunse, le afferrò il polso che penzolava al lato del braccioli e premette due dita cercando il battito; l'aveva visto fare mille volte in televisione, ma non sentì nlla. Rinfoderò la pistola e strinse le spalle della vecchia. «Concettina» la chiamò nuovamente, ma lei non reagì. «Concettina!» questa volta urlò, e la scosse talmente forte da farle rimbalzare la testa sul cuscino della poltrona; ancora niente. In preda al panico, sollevò la mano e la colpì al volto.
La vecchia spalancò gli occhi «A puttana e mammata!» urlò, spingendolo lontano.
Michele cadde sulle ginocchia. «Concé, mi hai fatto spaventare. Pensavo fossi morta» disse, scuotendo la testa e sorridendo.
Lo sguardo della vecchia si fissò sulla parete e perse di vivacità, era come se una patina gelatinosa le avesse riempito gli occhi.
Michele si alzò «Concé» la richiamo, ma lei non si mosse. «Concettina, non fare scherzi.» Michele sollevò nuovamente la mano e allargò il braccio, pronto per colpirla, ma la donna sgranò gli occhi e inspirò profondamente, come dopo una lunga apnea.
«Ancora?» chiese lei, fissandogli la mano.
«E tu rispondi allora!»
«Maresciallo, non mi sento bene.»
«L'avevo capito!»
«Sto morendo!»
«E facciamo che muori all'ospedale; chiamo l'ambulanza.»
«No, voglio morire qui!»
Michele sollevò gli occhi al soffitto, visto come si stavano mettendo la cose magari avrebbe visto il secondo tempo della partita. «Concettina, non posso lasciarti a casa da sola!»
«Allora non farlo!» La vecchie allungò le mani verso il maresciallo e mostrò la dentiera.
«Concé, 'mo vuoi vedere che tutto 'sto teatrino è per provarci?»
«Nessun teatrino, sto male e tra poco morirò» Lei si ritrasse, offesa.
Michele si sentì in colpa; aveva subito pensato male. Sorrise, le si avvicino, le poggiò la mano sulla sua e sussurrò: «Concé, sta per cominciare la partita, non possiamo chiamare tuo figlio?»
«Non voglio mio figlio, voglio passare i miei ultimi istanti con te, Michelino!»
Il maresciallo si scostò, serrò il pugno e lo portò al petto. «Signora Pasceri, capisco la sua condizione di donna sola, ma non credo che io possa restare qui con lei in questa situazione che potrebbe imbarazzare sia me che la divisa che indosso.»
«Sai che mi ricordi mio marito?» Concettina spostò lo sguardo verso il caminetto su cui era poggiata una foto circondata da una decina di lumini rossi raffiguranti Padre Pio.
Michele socchiuse gli occhi per mettere a fuoco; l'uomo nella foto indossava un cappello a tese larghe, aveva folti baffi neri, il naso largo da pugile e una cicatrice che gli attraversava il volto. Michele portò la mano alla testa e si carezzò il cuoio capelluto. Non si era mai sentito un figurino, ma nemmeno uno da buttare via. «Un bell'uomo» disse con una punta di sarcasmo.
Concettina si alzò, caracollò con le braccia tese in avanti e si fermò a pochi passi dalla foto. «Non era bello, ma era tutto ciò che volevo.»
Michele guardò di sfuggita l'orologio alla parete, mancavano quarantacinque minuti all'inizio della partita. «E presto sarete nuovamente insieme, ma ora chiama tuo figlio che devo andare.»
«E il rumore nel capanno?» chiese lei, voltandosi di scatto.
«Sarà il solito coniglio.»
«Stavolta ho sentito ance una voce.»
«Una voce, nel gabbiotto in giardino? E cosa diceva?»
«Chiedeva aiuto.»
«Quindi gridava: AIUTO, AIUTO, QUALCUNO MI AIUTI!» urlò Michele, sollevando le braccia sopra la testa e girando su se stesso.
«No, era più una cosa tipo: aiuutooooo, aiutoooooo! Più bassa la voce, come un lamento.»
Il maresciallo giunse le mani e le poggiò al mento, inspirò dal naso, serrò la mascella e annuì. «Vado, ma poi scappo a casa.»
«Sei il mio eroe.»
Michele chiuse la porta della cucina, quella che dava sul retro, e tornò all'aria aperta. Le nuvole coprivano le stelle, che in estate sarebbero bastate a illuminare il giardino; quel paese aveva mille difetti, ma le luci erano talmente poche che si poteva distinguere la via lattea. «Jurnata e 'mmerda!» bisbigliò, poggiando i piedi sull'erba. Sollevò lo sguardo e trasalì; sul lato sinistro, vicino alla vecchia recinzione dell'orto abbandonato dalla dipartita della buonanima, una sagoma scura ondeggiava. Si acquattò e estrasse la pistola. Una luce fioca, proveniente dalla casa, illuminò un palo con sopra appoggiata una cerata.
«Così vedi meglio!» disse la voce di Concettina, proveniente dalla veranda che aveva appena abbandonato.
Michele si voltò, sorrise e sollevò il pollice in direzione della vecchia. «Tutto sotto controllo» disse, cercando di camuffare la paura.
“E che cazzo, la vecchia mi sta facendo cacare addosso. Puttana merda, perché non ho mandato a quel paese quel cretino di un tenente. Ma vedi te se l'ultimo arrivato deve darmi ordini. Io a quest'ora me ne stavo a casa, seduto sul divano con la scafarea di pasta, la birra fresca e 'fanculo pure a 'sta vecchia. Invece no, chillu strunz vuo fa u patrune! Non sa chi sono io, a chi troppo s'acala 'o culo se vede, ma non al maresciallo Michele Battocchio. Io la testa non la chino, e se ne accorgerà; altro che mozzarella io, dal paese, non gli porto nemmeno il salame!” Rapito dai suoi pensieri, Michele arrivò fino alla porta del gabbiotto; la porta era chiusa e il lucchetto al suo posto. Infilò la mano in tasca e strinse la chiave che Concettina gli aveva appena dato. Si voltò verso la casa, la vecchia continuava a fissarlo da dietro la porta della cucina. Lei sollevò una mano e lo salutò.
«Ammazzati!» rispose Michele, sorridendo a denti stretti.
Al terzo tentativo centrò la toppa e aprì la porta. Il capanno aveva la stessa puzza delle altre cinque volte in cui c'era stato; aveva quell'odore di aceto stagnante, misto a grasso motore e ruggine. Lo chiamavano capanno degli attrezzi, ma nella sua storia quel posto aveva visto solo quell'intruglio che lì avevano il coraggio di chiamare vino. Poggiò la mano sulla parete in legno, alla ricerca dell'interruttore, ma urtò qualcosa di duro che rovinò a terra provocando un rumore di ferraglia; dal fondo della baracca si alzò un soffio, da prima soffuso, poi sempre più intenso e aggressivo. La sua vista si abituò all'oscurità giusto in tempo per permettergli di vedere un'ombra scura che correva verso di lui. L'ombra saltò su una mensola e da lì su di lui. Michele si scostò, ma non riuscì a proteggersi; portò la mano sinistra al volto, qualcosa di caldo gli bagnò le dita. «'Strunz!» imprecò estraendo la pistola e facendo fuoco verso quella cosa che l'aveva aggredito. Centrò la sua preda al primo colpo; tronfio, guardò verso la casa. La donna era uscita in giardino, le mani al volto sconvolto dalle lacrime; lei claudicò fino a quella che doveva essere una belva sanguinaria, e si chinò singhiozzando. «Vito, hai ucciso Vito!» urlò chinandosi sul cadavere del suo gatto.
«Ti giuro che non l'avevo capito» cercò di giustificarsi Michele, mentre Concettina gli medicava la ferita all'occhio.
«Aveva il suo nome!»
«L'avevo capito, non è il nome che si da a un gatto!»
La pressione dell'ovatta, imbevuta d'alcol, divenne più forte; una goccia di spirito colò fino al taglio. Michele trasalì e si ritrasse.
«Visto che ho fatto il mio lavoro posso andarmene. Tra cinque minuti inizia la partita e non vorrei perdermela.» Sentendo tendersi i muscoli della vecchia, l'afferrò per il polso bloccandola. «Direi che la medicazione va già bene.»
«Sì, scusa. È che ora sarò ancora più sola. Morire con Vito sulle ginocchia era l'unica consolazione!»
Michele sollevò gli occhi al soffitto e trattenne a stento un'imprecazione. «Ma 'mo devi morire? In giardino stavi correndo!»
«Le ultime forze di una condannata a morte.»
«E va beh. Concettina, io me ne devo andare!»
«Bevi qualcosa con me, poi ti lascerò andare.»
Michele allargo le narici e sbuffò. «Almeno lo tieni Sky?»
«Tze!» disse la vecchia con la bocca chiusa,
«Mediaset?»
«Tze!»
«La televisione la tieni ho hai ancora la radio a valvole?»
«Quella è in camera da letto, dentro il mobile.»
«E lasciala lì; diamoci una mossa, il secondo tempo non me lo voglio perdere.» Sconsolato, Michele si accomodò sul divano. Osservò Concettina andare in cucina e, appena fu solo, si alzò e iniziò a curiosare in giro.
In paese erano pochi e strani. Tutti accusavano tutti di essere criminali e di avere un passato torbido alle spalle, ma il caso peggiore che gli era capitato fra le mani era quello di uno che aveva rubato due porci sostenendo che fossero suoi. Per il resto scompariva una gallina ogni tanto e, nel periodo pasquale, le caprette venivano messe sotto chiave. Sbirciò nella vetrinetta del mobile e, tra decine di immaginette di parenti morti, scorse un rosario d'oro. Nella vita ne aveva visti molti, di ogni dimensione e colore, ma non sapeva ne facessero così.
«Che mi prepari?» chiese ad alta voce.
«Una tisana.»
La vecchia era ancora lontana. Michele aprì l'anta del mobile e afferrò l'oggetto. «A cosa?» chiese ad alta voce.
«È una ricetta antica.»
«Bene, sono curioso di assaggiarla.» Michele afferrò una delle palline tra l'indice e il pollice; il rosario si allungò mostrando sul fondo un crocifisso capovolto. «'O Cristo a capasutta; 'sti cazzo di calabresi non sanno fare un cazzo!» disse rimettendolo apposto.
«Cosa?» Concetta comparve davanti alla porta della cucina. In mano teneva un vassoio su cui due tazzine tintinnavano al ritmo dei suoi tremori.
Michele le andò incontro, prese la sua tazza e la portò alle labbra.
«Scotta!» provò ad avvisarlo lei, ma ormai era tardi; il maresciallo portò la tisana alle labbra e imprecò ustionandosi la lingua.
«Concé, e che cazzo!»
«Io te l'ho detto.»
«Dopo che mi so' scottato! Va beh, sediamoci e beviamo st'intruglio.»
Concettina abbassò lo sguardo e andò verso il divano, con il vassoio sempre in mano.
Michele si sedette accanto a lei e osservò il vapore che si alzava dalla tazza, doveva saperlo che il fumo voleva dire qualcosa. Guardò nuovamente l'orologio e strinse il pugno; ormai stavano giocando da dieci minuti. «Che lavoro faceva Vito?» chiese provando a pensare ad altro.
«Era in pensione.»
«Grazie al
prima della pensione.»
«Era un professore universitario, insegnava storia antica all'università di Rende.»
«Mmmhhh!» commentò Michele pensando al pippone che si sarebbe sorbito da lì a poco.
«Lui adorava il suo lavoro. Pensa che passava mesi interi a Gallicianò per studiare il Greco calabro. Puoi crederci che lì lo parlano ancora?»
«È incredibile» rispose Michele, pensando che un terzo del primo tempo era passato.
«Tu sai leggere il greco?»
«No, mi fermo al latino.»
«Peccato, perché questo libro è interessantissimo.» Concettina si alzò, le anche le scricchiolarono, ma lei avanzò verso il mobile, aprì l'anta in cui c'era quello strano rosario e afferrò un vecchio libro.
Michele contrasse ripetutamente la mascella, chiuse gli occhi e maledisse quel bastardo di Boltrini.
«Vedi, questo è il libro da cui ho preso la ricetta della tisana.»
«Interessante, ma ora si sarà freddata. Beviamo.» Michele svuotò la tazza tutto d'un fiato. La bocca s'infiammò, la lingua e il palato intorpidirono. Una vampata di calore gli invase la bocca dello stomaco e la testa gli girò. Era una strana sensazione, quasi come se si fosse tracannato una bottiglia di Jack Daniel's. Gli mancava il fiato; paonazzo, spalancò la bocca e espirò. Provò a parlare, ma la voce non gli uscì dalla bocca.
«L'ignoranza fa male» disse Concetta, sorridendogli. «”περίαπτον ἀπό πίνω”. Dovrebbe suonare come: “Incantesimi da bere”.» La voce della vecchia era mutata, così come tutto l'ambiente attorno.
Michele provò ad alzarsi, ma non riusciva a orientarsi in quel mondo che continuava a mutare. Le pareti si muovevano, il soffitto ondeggiava come il mare, i colori dei mobili cambiavano di continuo. Guardò Concettina, ma la vecchia, che aveva avuto davanti fino a poco prima, non c'era più. La pelle liscia aveva preso il posto del groviglio di rughe, i capelli grigi erano stati sostituiti da sottili fili dorati e gli occhi annebbiati dalla cataratta splendevano come il cielo di una giornata estiva. Michele chiuse gli occhi, li strizzo e li riaprì. Non c'era più la casa, ma l'interno di un auto, la sua auto; quella 127 sport che aveva rottamato vent'anni prima. Inspirò e sentì l'odore del porto, il canto di migliaia di cicale e il profumo dolce di lavanda che tanto piaceva a Maristella.
«Maristella!» disse trattenendo le lacrime.
Lei sorrise, mostrando una fila di denti perfetti. «Vito!» rispose.
Michele non non sentì nemmeno la sua voce; la bramava da troppo tempo. Si slacciò la patta, portò la mano destra alla nuca di lei e le strinse i capelli nel pugno; con un movimento delicato, ma deciso, l'avvicino al suo membro.
«Aspetta un attimo» protestò lei.
Michele non mollò la presa, ma assecondò i movimenti di di Maristella. Qualcosa cadde a terra; sembrava ceramica, ma non ci badò; nella sua mente partì il suono di una chitarra, seguita dalla voce inconfondibile di Pupo “Io per te, mi perderei. Tu non sai cosa farei
”
La sua 127 sport, il mare, Maristella e la musica di Pupo; era tutto perfetto, più che nella vita reale, più di quando a vent'anni doveva schiaffeggiarla per farsi fare un pompino.
Si lasciò cadere all'indietro, una sensazione mai provata lo fece sussultare; era come come se avessero attaccato una ventosa al suo pene e stessero cercando di risucchiargli le palle.
Un dolore alla schiena riscosse Michele che aprì gli occhi e si guardò attorno; era ancora a casa di Concettina. Si passò la lingua sulle labbra nel tentativo di allontanare il sapore aspro che aveva in bocca, si mise a sedere e sentì il freddo del pavimento a contatto con il suo sedere. Non ricordava molto di quello che era successo, ma gli indizi parlavano chiaro. Abbassò lo sguardo e fisso il glande arrossato, si alzò, sistemò i pantaloni e si stiracchiò la schiena.
«Concettina!» chiamò ad alta voce, ma non rispose nessuno. Sollevò la manica della camicia e guardò l'ora. «E la partita è finita» imprecò. Cercò la vecchia in cucina, ma non la trovò; pensò di cercarla ancora, ma non era importante, in fondo non sapeva nemmeno che dirle.
Uscì di casa, inspirò a pieni polmoni e pensò che per un mese non avrebbe più rivisto quel paese pidocchioso e che il giorno dopo avrebbe raccontato al bar di quella ragazza che si era scopato la notte della partenza.