Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio, dicembre 2015, edizione 41, Giù il sipario

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view post Posted on 3/12/2015, 09:50
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CITAZIONE (kaipirissima @ 3/12/2015, 08:28) 
A me piacerebbe partecipare, di natura sono noiosa e retorica quindi dovrei farcela... Incrociamo le dita... Devo, voglio, è necessario che io ricominci a scrivere, prima che molli tutto per sempre.

Brava. fai benissimo :)

Io sto talmente preso dall'altro progetto che non riesco a farmi venire in mente come sviluppare l'idea per questo skan....
 
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kaipirissima
view post Posted on 3/12/2015, 19:29




Quale progetto?

P.S.
E io che speravo qualcuno dicesse... Ma no non sei noiosa... Retorica... Eh eh.
 
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view post Posted on 3/12/2015, 23:04
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CITAZIONE (kaipirissima @ 3/12/2015, 19:29) 
Quale progetto?

P.S.
E io che speravo qualcuno dicesse... Ma no non sei noiosa... Retorica... Eh eh.

ahahahahahaha :)

Non sono mai stato bravo a fare i complimenti su richiesta.

Sto scrivendo un romanzo. Sono ancora al primo capitolo.
 
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kaipirissima
view post Posted on 4/12/2015, 16:58




Che bravo.
A volte penso che prima o poi bisogna aprire le ali e buttarsi.
Kendalen, conosciuto nei vari scannatoi a litigare con le specifiche ormai è un giallista pubblicato e vincitori di premi.
rovi, anche lui ha abbandonato lo scanna e scrive romanzi segnalati e/o premiati
Per non parlare di Livio, il vecchio Signore dei Benelli, pubblicato, recensito e altro...
Non so se conoscete Gelostellato, anche lui una vecchia guardia del sito che vince premi e pubblica sempre in un brulichio fervente di attività....

Insomma ad un certo punto bisogna fare il salto.
 
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view post Posted on 4/12/2015, 17:23
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Salve, gente!
Ho i parenti a casa, quindi sarà difficoltoso mettermi a lavorare bene, però stasera proverò a buttar giù qualcosa. Vediamo cosa esce fuori...
 
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view post Posted on 4/12/2015, 20:32
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CITAZIONE (kaipirissima @ 4/12/2015, 16:58) 
Che bravo.
A volte penso che prima o poi bisogna aprire le ali e buttarsi.
Kendalen, conosciuto nei vari scannatoi a litigare con le specifiche ormai è un giallista pubblicato e vincitori di premi.
rovi, anche lui ha abbandonato lo scanna e scrive romanzi segnalati e/o premiati
Per non parlare di Livio, il vecchio Signore dei Benelli, pubblicato, recensito e altro...
Non so se conoscete Gelostellato, anche lui una vecchia guardia del sito che vince premi e pubblica sempre in un brulichio fervente di attività....

Insomma ad un certo punto bisogna fare il salto.

E io lo voglio fare. Sento che è ora.

Solo che mi piacerebbe riuscire anche a partecipare a qualche skanna, ma quando finisco di scrivere per il romanzo non mi rimane ispirazione per scrivere qui.

Comunque domani è sabato e il sabato mattina di solito è proficuo :) L'idea ce l'ho, la storia pure (fa schifo ma c'è)... vediamo che succede.
 
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view post Posted on 5/12/2015, 00:30
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Apprendista stregone

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CITAZIONE (Marco Lomonaco - Master @ 2/12/2015, 13:40) 

Tra l'altro ho l'impressione di non incrociarti da un sacco, che fine hai fatto?

Caro vecchio Master...
Effettivamente non ci incrociamo più dallo speciale di giugno. Ho provato un Usam e una Macelleria con pessimi risultati... ma i commenti negativi li considero ormai come parte della mia maturazione, preziosi alleati nella mia personale scalata alla vetta. Ora sono tornato qui, e spero di tirare fuori qualcosa di buono, prima di seguire Kaipirissima nella sua corsa verso il foglio bianco... :unsure:
 
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view post Posted on 5/12/2015, 10:57
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Custode di Ryelh
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CITAZIONE (reiuky @ 3/12/2015, 23:04) 
CITAZIONE (kaipirissima @ 3/12/2015, 19:29) 
Quale progetto?

P.S.
E io che speravo qualcuno dicesse... Ma no non sei noiosa... Retorica... Eh eh.

ahahahahahaha :)

Non sono mai stato bravo a fare i complimenti su richiesta.

Sto scrivendo un romanzo. Sono ancora al primo capitolo.

Benevenuto nel Club, Rey. Io di romanzi ne ho cominciati e interrotti cinque, di cui due andati ben oltre il primo capitolo. A uno ci ho lavorato per due anni ed ero arrivato a quansi trecento pagine, poi però ho incontrato latelanera e i suoi skanna e mi sono reso conto che era tutto da rifare.

In bocca al lupo!
 
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Nitroneus
view post Posted on 6/12/2015, 11:39




DOVE FINISCE L’UNIVERSO
di Nitroneus

2 dicembre 2145, ore 2.15
“Iniziamo”.
Wat stava seduto in macchina da chissà quanto tempo. Da dentro la vettura parcheggiata si vedeva il cielo notturno di New York in tutta la sua grandezza, con le stelle ben chiare nonostante i riflessi dei lampioni sulla volta anti-vento che proteggeva le vie sospese città.
“Iniziamo”, si disse di nuovo, rimanendo ancora una volta fermo sul sedile.
L’universo lassù doveva essere proprio immenso. Chissà se aveva una fine? Ormai le grandi distanze interstellari non erano più un problema. Wat, con i suoi quasi trent’anni di età, faceva parte della cosiddetta Alien Generation, la generazione di umani nati e cresciuti dopo l’arrivo del Popolo delle Stelle. Lui non era molto ferrato in storia, ma da quel che ricordava il Popolo delle Stelle aveva assorbito la terra nel suo vasto impero stellare senza troppi spargimenti di sangue. In compenso, la tecnologia terrestre aveva fatto passi da gigante grazie alle conoscenze dei conquistatori e ora gli umani più coraggiosi viaggiavano come coloni per l’universo, incontrando e scoprendo le più svariate creature intelligenti.
Anche Wat da piccolo sognava di viaggiare nello spazio. Avrebbe voluto diventare un esploratore, scoprire davvero, al di là delle teorie scientifiche, se lo spazio avesse una fine. Toccarla con mano. E invece non aveva mai lasciato la Terra. Anzi, la fine del suo universo si poteva dire fosse la stessa New York, una selva di grattacieli tra rotte di auto fluttuanti dalla quale era uscito soltanto in occasione di qualche viaggio turistico. E ne aveva fatti pure pochi, di viaggi turistici.
Un bagliore di fari sotto la volta anti-vento lo riportò alla realtà. Guardò la macchina che fluttuava sull’asfalto, passando davanti al parcheggio. ‘Ok, non è lui’, pensò, ma doveva muoversi. Questa volta nessun ‘iniziamo’: col respiro rapido e silenzioso, controllò ancora una volta di avere nella tasca della giacca la pistola. C’era. Si portò la sciarpa scura fin sopra il naso e si calò il cappuccio verde della felpa fin sopra gli occhi. Aprì la portiera ad ala della macchia e uscì nel freddo della notte, chiudendo lo sportello e allontanandosi con le mani calate nelle tasche.
Le strade erano deserte, illuminate dai lampioni a LED. La frenetica New York dormiva come una cittadina di una piccola provincia dell’universo. Dopo una decina di minuti a piedi, Wat focalizzò l’ingresso del parcheggio interno del palazzo dove abitava il suo obiettivo: Clay Pitcher. Ora doveva solo aspettare.
Impalato in un angolo buio della piazza, attese guardandosi nervosamente attorno. Ogni rumore inaspettato lo faceva sobbalzare, ad ogni auto che passava nel corridoio anti-vento il suo cuore prendeva a sbattere contro il petto.
Eccola. L’auto di Pitcher. Un veicolo fluttuante grigio dalla forma bombata, costoso sì, ma non tanto costoso quanto Pitcher avrebbe potuto permettersi.
La mano di Wat strinse l’impugnatura della piccola pistola laser nella tasca della giacca. Mentre l’auto si fermava davanti alla sbarra del parcheggio interno, Wat gli si avviò incontro a passi rapidi e nervosi. Nelle orecchie c’era soltanto il ritmo dei suoi respiri. Non doveva perdere la concentrazione.
Mentre la sbarra si sollevava, Wat arrivò a pochi metri dall’auto sul lato del passeggero. Si fermò. Attraverso il finestrino vide la faccia grassoccia di Pitcher voltarsi verso di lui. La mano di Wat sfilò la pistola e la puntò verso l’auto.
Gli occhi di Pitcher si spalancarono, la bocca si piegò in una smorfia di terrore. “Papà, giù!” Era la voce soffocata del ragazzo al posto di guida che spingeva la testa di Pitcher verso il basso.
Wat esitò solo un attimo. Poi strinse i denti e abbassò l’arma verso la portiera.
Le vibrazioni del laser risuonarono nel silenzio del corridoio anti-vento.

***

2 dicembre 2145, ore 1.50
“E anche oggi è finita!”
L’indice sgraziato di Clay Pitcher indugiava sulle icone olografiche del suo holophone, in cerca della funzione per chiudere la serranda della tavola calda.
“È qui, papà”, si intromise scocciato suo figlio Dominic, premendo al posto suo l’icona. La serranda prese a scendere sull’ingresso del locale.
Clay sbuffò e, sorridendo, chiuse il piccolo proiettore olografico e lo affondò nella tasca interna del cappotto. “Io proprio non le so usare, queste cose”. Poi diede una pacca al ragazzo e gli disse: “Forza, andiamo a casa”.
Entrando nell’auto dalla forma bombata, Dominic si sedette al posto di guida, come sempre. Attraverso gli ologrammi del suo holophone impostò sul pilota automatico il percorso verso casa e, mentre la macchina lasciava il corridoio anti-vento per immettersi sulla rotta aerea, cominciò a scorrere le bacheche dei vari social.
Clay, stanco, guardava New York dall’alto. A quell’ora di notte, la città era praticamente ferma. Persino le rotte urbane erano percorse da non più di una manciata di automobili. Clay adorava quel momento, quando tutte le fatiche della giornata erano ormai alle spalle e ad aspettarlo c’erano soltanto l’affetto di sua moglie e il tepore del suo letto.
“La fine della giornata…”, disse, manifestando dal nulla coi suoi pensieri. “Corriamo tutto il giorno per arrivare qui”.
Suo figlio continuava a scorrere gli ologrammi colorati.
“Non ti dà una certa soddisfazione chiudere tutto e dire: ‘Per oggi ho fatto quel che dovevo fare’?”.
Dominic mormorò un suono d’assenso, senza scollare gli occhi dalle vivide immagini proiettate davanti a lui nel buio dell’abitacolo.
Clay sospirò e rinunciò a parlare col figlio. Trovava molto fastidioso l’attaccamento dei giovani a quei cosi, gli holophone. Più che altro non ti ascoltavano. D’altronde suo figlio aveva appena 19 anni, bisognava lasciarlo fare. Già il fatto che, finita la scuola, fosse venuto a lavorare con lui era un traguardo. Un giorno il regno alimentare dei Pitcher sarebbe passato a lui: la tradizione che Clay aveva ereditato da suo padre e che risaliva (gli avevano detto) addirittura al suo trisnonno e alla prima fabbrica di famiglia, negli USA del XX secolo. Ora lui gestiva ben tre fabbriche alimentari a marchio Pitcher e una piccola catena urbana di supermercati (la PitchMarket), oltre alla tavola calda in stile Alien Generation per la folla di giovani multi-planetari che animava le notti di Manhattan. Questo più che altro era un recente sfizio che si era voluto togliere per educare Dominic all’imprenditorialità. Oltre che per sperimentare il suo pallino culinario.
Guardò ancora una volta, senza farsi notare, il figlio che batteva nell’aria un commento sotto alla foto di un’amica. ‘Speriamo non finisca per gestire tutto quanto chiuso in casa con l’holophone’, pensò.
Seguendo la rotta impostata, l’automobile superò il doppio cancello del corridoio anti-vento del quartiere dove vivevano. L’auto fluttuò rapidamente fino alla sbarra del parcheggio interno, dove Dominic inserì la password di accesso sempre attraverso il suo holophone.
Mentre la sbarra si sollevava, Clay guardò distrattamente fuori dal finestrino. Fu un attimo: vide un uomo a volto coperto puntargli contro una pistola.
“Papà, giù!” gridò Dominic. Clay sentì la mano del figlio spingergli la testa in basso, tra il sedile e il cruscotto. Poi le vibrazioni del laser. La portiera che vibrava. Il morso del dolore. Il buio.

***

3 dicembre 2145, ore 15.24
“Per fortuna che la sua auto è molto solida!” ridacchiò il commissario di polizia. Clay si sforzò di sorridere di rimando. Erano attorno a un tavolo scuro nel commissariato locale. Oltre a loro c’era anche un paio di investigatori, silenziosi osservatori. Clay guardava un po’ il commissario e un po’ la propria stampella, appoggiata per l’impugnatura alla superficie lucida del tavolo. Finché rimaneva seduto riusciva anche a ignorare la ferita al polpaccio.
“Tra l’auto e l’asfalto abbiamo contato dodici segni di bruciatura da laser”, continuò il commissario dalla testa calva, mantenendo il sorriso. “Il suo aggressore non ha proprio una buona mira: ha premuto il grilletto dodici volte, signor Pitcher, e solo tre colpi sono finiti nella sua auto. Due nel paraurti e uno, beh…” Con un colpo di sopracciglia il poliziotto indicò la stampella.
Clay annuì e rimase a fissare in silenzio la superficie lucida del tavolo.
“Le sue attività sono molto grosse e recentemente si è lanciato anche nella ristorazione”, esordì uno degli investigatori coi capelli neri impomatati. “Per caso ultimamente ha avuto la sensazione di ‘pestare i piedi’ a qualcuno?”
“No”, rispose confuso Clay, dopo un attimo di riflessione. “Non mi pare proprio”.
Il secondo investigatore scriveva, con carta e penna. Come una volta.
“Di sicuro non è stata una rapina”, riprese il commissario dalla testa calva, “altrimenti il nostro uomo si è dimenticato di portarvi via il portafogli!”. Il suo sorriso non bastava a nascondere i suoi intenti indagatori.
L’ufficiale coi capelli impomatati guardò Clay per qualche secondo, quindi con calma disse: “Manca meno di un mese ai festeggiamenti per la venuta del Popolo delle Stelle. La malavita newyorkese è solita passare proprio in questo periodo a pretendere il pagamento della sua protezione. Ha per caso opposto resistenza a qualche tentativo di estorsione?”.
“No”, rispose Clay scuotendo la testa con altrettanta calma. “Nessun tentativo di estorsione”.
“Siamo in un commissariato”, lo incalzò l’investigatore. “Se ammettesse la verità, lei e la sua famiglia sareste protetti da noi. Se non lo fa, quell’uomo potrebbe ripresentarsi e lanciarle un avvertimento più… esplicito”.
“Le dico di no!” reagì Clay, perdendo la pazienza. “Non sono stato ricattato da nessuno! Non so chi fosse quel tizio e cosa volesse da me! Ora, se non vi dispiace, avrei delle attività da portare avanti”.
Il commissario guardò gli altri due ufficiali. A un loro cenno, “Bene, può andare”, disse, aprendo per lui la porta della stanza.
Clay imbracciò la stampella e, accigliato e sbuffante, uscì nell’atrio. Suo figlio si alzò di scatto dalla panca dove lo aspettava e gli andò incontro. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, “Dominic Pitcher”, lo chiamò il commissario, che teneva ancora la porta aperta. “Prego”.
Dominic si rivolse al padre: “Mi aspetti qua?”.
“No”, rispose questo, dando un rapido abbraccio con l’arto libero al figlio. “Devo passare dal PitchMarket di Brooklyn. Vai pure a casa, prendo un taxi”.
“Dominic Pitcher”, chiamò con insistenza il poliziotto calvo. Il padre salutò il figlio e uscì nella piazza coperta di fronte al commissariato. Attraverso la cupola trasparente si vedeva il cielo grigio tra le cime dei palazzi e le rotte urbane intasate.
Clay chiamò un taxi e diede la destinazione al conducente. Non era Brooklyn, ma la periferia del Queens.
Il taxi fluttuante viaggiò fino a un quartiere piuttosto recente, fatto di belle e modeste casette a due piani con fondamenta a terra, come quelle di un tempo. Clay attraversò zoppicando un giardino dall’erba curata e suonò il campanello. Gli aprì la porta direttamente Ereth, il padrone di casa: il volto pallido dell’alieno scrutò per un attimo l’ospite, mentre il taxi si allontanava in volo. I suoi occhi erano orbite completamente grigie e la testa era avvolta dai lunghi capelli bianchi, dai quali spuntavano sottili orecchie appuntite.
“Buongiorno, signor Pitcher”, sorrise l’alieno, mostrando una dentatura simile a quella umana. “La aspettavo prima”.
“La polizia ci ha messo un po’”, borbottò Clay, entrando spedito nonostante la stampella.
“Gradisce un tè?” chiese Ereth, accomodandosi nel salotto esotico insieme all’ospite. Le finiture e i soprammobili richiamavano gli astri e tra una poltrona e l’altra c’erano piante di origine extra-terrestre.
“No, niente tè”, tagliò corto Clay.
L’alieno sospirò e si ritrasse dalla teiera verso la quale si era sporto. Il suo braccio era lungo e magro sotto la manica blu cadente. “Vedo che non è in vena di chiacchiere. Andiamo subito al sodo”. L’espressione di Ereth si fece più dura. “La polizia ha scoperto qualcosa su di lei?”
“No, nulla”, rispose Clay, guardando il tavolino a forma di sole tra i divani. “Pensano che quella dell’altra notte sia stata una ritorsione, pensano che sia io la vittima della malavita”.
Gli occhi grigi senza palpebre dell’alieno erano piantati su Clay. O almeno così sembrava: era difficile capire da che parte guardassero quelli del Popolo delle Stelle.
“Credono che io abbia paura a parlare, perciò mi terranno d’occhio per un po’, per capire ‘chi mi perseguita’”, spiegò Clay. Alzò finalmente lo sguardo, incrociando quello del padrone di casa: “Per un po’ basta intestazioni di attività su di me, non vorrei che gli sbirri annusassero qualcosa”.
Ereth finalmente prese la teiera, riempì una tazza con stampato ‘I Love New York’ e ne trasse un piccolissimo sorso tra le sottili labbra bianche. “Sicuramente”, disse infine, “mi sembra una cautela più che dovuta”.
Clay riabbassò lo sguardo e annuì. Quando il capo era d’accordo con lui, si sentiva sempre sollevato.
“Ieri mi diceva di aver capito chi fosse il suo aggressore”, aggiunse l’alieno. Altro sorso di tè.
“Sì, quell’idiota non si è coperto il tatuaggio sulla mano. Io non l’avevo notato, ma mio figlio sì”, rispose Clay.
“Non si tratta di un sicario professionista dunque?”
“No”, rispose Clay, facendo con la mano il cenno di lasciar perdere. “È solo un pezzente che mi deve un po’ di soldi. Nessun pericolo: mi porterò dietro le guardie del corpo e farò in modo di recuperare il denaro che mi deve”.
“Non un sicario…” disse l’alieno, abbassando sulle gambe magre piattino e tazza da tè. “Dunque un uomo qualunque. Che potrebbe pentirsi e consegnarsi alla polizia. E a quel punto la sua posizione sarebbe compromessa, signor Pitcher. Dai suoi prestiti illeciti si potrebbe arrivare al riciclaggio di denaro sulle sue attività. Quindi a me”.
Clay si irrigidì. Il dolore al polpaccio non contava più nulla.
“Meglio uscire immediatamente da questo pericolo”, disse l’alieno, posando la tazza e alzandosi in piedi. Era davvero spaventoso.
Lo sguardo di Clay correva da Ereth alle vie di fuga. Ma non sarebbe riuscito a scappare.
“Il suo nome”. Clay ci mise un attimo a capire la richiesta del capo. “Il nome dell’uomo che l’ha aggredita”, precisò l’alieno.
L’istinto di sopravvivenza prevalse su qualsiasi altro intento. “Walton Harris”.

***

21 febbraio 2145, ore 1.37
La saracinesca all’ingresso del locale calò con gran clangore, mentre Wat metteva in tasca il suo holophone. Anche quella serata era andata male: per quanto si sforzasse, non riusciva ad attirare gente nel suo ristorante. Era stata un’avventura azzardata e ora ne stava pagando le conseguenze.
Mentre s’incamminava verso l’auto, pensò ancora una volta di mettere la parola ‘fine’ a quella pazzia. Avrebbe voluto chiudere la baracca e andare altrove, farsi una nuova vita. Ma con una moglie e una figlia piccola dove poteva andare? Loro contavano su di lui e sulla sua attività. E per non deluderli lui era finito nelle mani di quel grasso strozzino: Clay Pitcher.
In prossimità dell’auto sfilò l’holophone per aprire le serrature, ma si fermò: un brutto ceffo con folti baffi neri che scendevano fino i lati del mento lo aspettava appoggiato alla sua vettura, con le braccia incrociate. Wat arretrò appena, ma sentì dei passi avvicinarsi sull’asfalto dietro di lui: erano Pitcher e un altro scagnozzo.
“Walton”, disse sorridendo il grassone. “Riguardando i file della mia contabilità mi sono accorto che sei un po’ in ritardo nella rata di questo mese! Hai forse cancellato il promemoria dal tuo holophone?”
“Pitcher”, balbettò l’uomo, facendosi schermo umilmente con le mani, “giuro che settimana prossima ti pagherò la rata. Te lo giuro”.
“Non è la prima volta che ritardi, figlio caro”, disse quello con finta apprensione. “Credo tu sia un po’ in difficoltà a mantenere l’impegno preso. Ma io ti posso aiutare”.
Con uno scagnozzo davanti e uno dietro, Wat non era per niente tranquillo, ma si sforzò di mantenere la calma e stette ad ascoltare.
“L’anno prossimo mio figlio finirà la scuola e vorrei insegnargli a portare avanti un’attività tutta sua”, spiegò Pitcher, fregandosi il mento ben rasato. “Se tu mi cedessi questo straccio di locale, potrei detrarre il valore dell’attività dai soldi che mi devi. E, siccome mi sembri un bravo ragazzo, potrei ridurti di un terzo la rata del restante che mi dovrai. Ci metterai un po’ di più a ridarmi tutto, ma almeno sarai puntuale nei pagamenti. Cosa ne dici?” La mano piena di carne di Pitcher si tese verso di lui. “Affare fatto?”
Wat fissò lo strozzino senza fiatare. Poi gli strinse la mano, sussurrando appena: “Affare fatto”.
“Bravo ragazzo!” esultò Pitcher, battendogli la mano libera sulla spalla. “E questo cos’è?” chiese poi, guardando il dorso della mano destra di Wat che si sfilava dalla sua. C’erano tatuati dei numeri e un nome: Audrey.
“È mia figlia”, rispose Wat, fregandosi la mano. “E la sua data di nascita”.

***

5 dicembre 2145, ore 1.32
Wat stava fissando il tatuaggio sul dorso della mano. Il timore di non riuscire a dare un futuro stabile a sua figlia non lo mollava un attimo.
“Ehi, Harris! Ti sei addormentato o cosa? Finisci di pulire e levati dalle palle!” A gridare dal banco era il responsabile del fast food dove Wat era finito a lavorare. Non era certo il lavoro dei suoi sogni. Meglio che rimanere disoccupato, vero, ma quello stipendio non gli permetteva comunque di sostenere le rate con Pitcher.
Pitcher… L’altra sera non era nemmeno riuscito a ucciderlo. Quando aveva visto il volto senza barba del ragazzo che tentava di aiutare il padre, gli era venuta meno la forza nel braccio. Aveva sparato alla cieca ed era scappato. E il giorno dopo i telegiornali locali avevano raccontato di come l’industriale Clay Pitcher fosse stato gambizzato dalla malavita. Così ora non solo doveva ancora i soldi a quel grassone, ma doveva persino sperare che la polizia non lo scoprisse. Altrimenti sua figlia sarebbe cresciuta con il papà dietro le sbarre.
Wat strinse la scopa e finì di pulire briciole, cartacce e ossicine di pollo tra i tavoli. Era tarda notte e, finito di sistemare il locale, lui e i suoi colleghi uscirono nel corridoio anti-vento, salutandosi e andando ognuno per la propria strada.
Wat stava camminando a mani in tasca verso la propria auto, con lo sguardo perso sull’asfalto. Una macchina fluttuante che percorreva la via si fermò sbandando accanto a lui e una portiera ad ala si spalancò. Lui balzò indietro dallo spavento, ma non fece in tempo a togliersi: un brutto ceffo con folti baffi neri che scendevano fino ai lati del mento lo afferrò con braccia forti e lo trascinò dentro l’abitacolo. L’auto ripartì subito.
“Dove mi state portando?” strillò Wat.
“Zitto” ringhiò il tizio baffuto, seduto sui sedili posteriori insieme a lui. Un secondo sicario conduceva la spaziosa automobile per i corridoi sospesi con la guida manuale.
“Dove cazzo mi state portando?” strillò di nuovo Wat.
“Zitto”, ripeté il rapitore, puntandogli una pistola laser tra le costole.
Wat prese a respirare affannosamente e a guardarsi attorno. Era rassegnato e frustrato, non c’era nulla che potesse fare.
L’auto si immise sulle rotte urbane e volò tra i palazzi fino a Brooklyn, dove rientrò nei corridoi anti-vento e si fermò davanti a un supermercato. Un PitchMarket.
Mentre quello coi baffi spingeva Wat fuori dall’auto, l’altro con un holophone apriva una delle serrande. Wat fu scortato al buio attraverso gli scaffali, fino al portone del deposito. Oltrepassato questo, il rapitore disarmato accese una piccola lampada LED. Il magazzino era ricolmo di scatoloni e pallet, con un carrello trasportatore abbandonato proprio in mezzo.
“In ginocchio”. ordinò quello coi baffi.
“No, cosa…”, fece per ribellarsi Wat. Il suo scatto improvviso doveva aver allarmato il rapitore, che gli mollò un calcio sul retro del ginocchio, facendolo crollare a terra.
Wat gemeva dal dolore, una lacrima gli era sgorgata tra le palpebre serrate.
“Ho detto in ginocchio”, ringhiò il brutto ceffo, afferrandolo per la giacca di pelle e sollevandolo dal suolo.
Una volta ritto sulle ginocchia, Wat riaprì gli occhi arrossati. Con il respiro affannato si guardò attorno. Dov’era Pitcher? Lo aveva scoperto? Lui era di nuovo in ritardo con la rata, magari lo strozzino pretendeva soltanto il pagamento. Doveva mantenere la calma ed essere molto, molto convincente.
Ma Pitcher non c’era.
Il ferro della pistola laser si appoggiò alla nuca. Era gelido. Audrey. Sentì lo scatto del grilletto.
Wat sognava di toccare con la mano la fine dell’universo. Il suo universo finiva nel magazzino di un PitchMarket.


Autorizzo Jackie de Ripper a pubblicare questo mio racconto su 'Skan Magazine'
 
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view post Posted on 7/12/2015, 21:37
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Mi dispiace Master, ma salto questo skannatoio. Sono fermo a 4k caratteri e sono stato precettato da mia moglie, per andare in giro a fare i regali di Natale. Probabilmente ampliero' il testo del mio racconto, e lo pubblichero' su Usam di gennaio. Intanto mi dedichero' a scrivere degli incipit, per trovarmi avvantaggiato durante i prossimi contest. In bocca al lupo a chi riuscirà a partecipare a questa succosa edizione. :B):
 
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kaipirissima
view post Posted on 8/12/2015, 10:03




Anch'io passo.
Avevo più voglia di uscire a cazzeggiare che stare seduta a scrivere.
Buono skanna a tutti.
 
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view post Posted on 8/12/2015, 12:24
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idem per me. Questa settimana è stata improduttiva anche per il mio romanzo... :(
 
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Ceranu
view post Posted on 8/12/2015, 12:45




Io mi sto scapicollando per postare. Vero che non saremo solo in due? :p097:
 
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Ceranu
view post Posted on 8/12/2015, 18:56




L'importante non è quello che fai, ma quello che racconti!


Di Francesco Nucera

Le dita picchiettavano sulla scrivania al ritmo di una vecchia canzone, talmente antica che lo stesso maresciallo Battocchio non ricordava quale fosse; apparteneva alla sua vita, ne era certo, eppure le parole si erano perse decenni prima.
Assorto, fissava la lancetta lunga dell'orologio appeso al muro convinto di poterla spingere più in fretta, ma, nonostante i suoi sforzi, era quasi un minuto che quella non si muoveva.
«Miché, puoi cambiare canzone?» chiese Fabrizio, che lo fissava di traverso.
Michele spostò la mano sinistra sull'altra bloccando il tamburellare; istintivamente il piede iniziò a muoversi, il ginocchio picchiò contro la base della scrivania e la melodia riprese.
«E che cazzo, “Gelato al coccolato”, no!» Il collega allargò le braccia e scosse la testa. «So' due anni che m'assilli con 'sta canzone!»
Ogni muscolo del maresciallo Battocchio si bloccò; smise di respirare, sollevò lo sguardo al cielo e sorrise. “Ecco che canzone è!” pensò compiaciuto. Il ricordo della copertina del disco lo galvanizzò, Pupo, il suo idolo di gioventù, seduto in riva a un fiume, vestito bianco, chitarra in pugno e ragazza di spalle in sua adorazione. «Quanto eravamo belli noi due!» bisbigliò fra se.
«Miché, stai bene?»
«Sì, sto solo pensando che tra mezz'ora finisco il turno e me ne vado in ferie!» mentì, ondeggiando la testa al ritmo della canzone.
«Sarà, ma a me sembri più strano del solito!»
«Strano quanto vuoi, ma da domani io me ne sto al paese e da lì penserò a te in 'sto posto disperso sulla Silla!» Non guardò neppure la reazione del collega; si alzò di scatto, piroetto sul tallone e andò verso l'uscita della stanza. «Io vado a svuotare la vescica, tu pensa a che farai un mese senza di me!» Michele sorrise, impugnò la maniglia e aprì la porta.
«Morirò di invidia pensando a te che ti godi la vita a Paternopoli…» disse Fabrizio, scoppiando a ridere.
Michele, continuando a camminare, si voltò per mandarlo a quel paese, ma andò a sbattere contro qualcosa di duro.«E che cazzo!» imprecò, guardò contro cos'era andato a sbattere e sbuffò vedendo il Tenente Boltrini.
Il graduato, un ragazzo di nemmeno trentanni, fece un passo indietro per recuperare l'equilibrio e lo fulminò con lo sguardo. «Maresciallo, guardi dove va!»
«Mi scusi tenente, è che stavo parlando col brigadiere Spini… non l'ho proprio vista arrivare» si scusò, cercando di sistemargli la giacca.
Il tenente gli fermò le mani e le allontanò dalla sua uniforme. Sì afferrò la cravatta e strinse il nodo. «Poco male, tanto stavo cercando lei.»
«E che vuole da me… tenente.» Faticava a riconoscere il ruolo di quel pivello.
«“Che voglio” secondo lei?»
«Che vuole?» ribadì Michele; sollevò le spalle e guardò Fabrizio alla ricerca di un alleato, ma il collega, a testa china, stava battendo le dita contro la tastiera del computer. “E certo, 'na cazzo di volta che ho bisogno di te!” pensò tornando a guardare il tenente.
«Battocchio, non se la prenda a male, ma le devo chiedere di lavorare.»
Michele si bloccò, strabuzzò gli occhi e aprì lentamente la bocca. «Lavorare, io, ora?»
«Battocchio, sì, lei e ora.»
«Ma 'sto a finì il turno.»
«Prima deve passare dalla vedova Pasceri.»
«Da Concettina, e che vuole stavolta?»
«Sente dei rumori che provengono dal gabbiotto degli attrezzi in giardino.»
«E ci mandi Fabrizio.»
«Ha chiesto di lei, e poi non è che può continuare a discutere qualsiasi cosa le dico. Maresciallo Battocchio, questo è un ordine»
«E certo, 'mo diamo pure gli ordini. Facciamo così: prima mi cambio. Vado lì in borghese, tanto è di strada per casa mia.»
Il tenente socchiuse gli occhi, portò la mano al mento e fece schioccare la lingua sul palato. «Le faccio questa cortesia.»
«Lei? Io sto per smontare e il favore me lo fa lei?» Michele sollevo la mano destra, palmo rivolto verso l'alto, e la rivolse al tenente. «'Mo me ne vado che ho fretta, ma 'sta discussione la riprendiamo» disse Battocchio, inumidendosi le labbra.
Il graduato lo fissò paonazzo in volto; gli tremavano le mani e gli occhi sembravano pronti a schizzargli fuori dalle orbite. Spalancò la bocca, ma emise solamente un lamento acuto. Michele scosse la testa, si voltò e torno in ufficio sbattendo la porta. «Ma vedi sto cretino!»
«Miché, quello ti fa trasferire» disse Fabrizio, poggiando i piedi sulla scrivania.
«Volesse la madonna! In 'sto posto di merda ci stanno solo cani, vacche e vecchi alcolizzati!»
«Ma quello ti manda a Napoli e li non puoi fare quello che fai qui.»
Sentendo il nome della città in cui aveva fatto il militare, un brivido percorse la schiena di Michele. Napoli non era una bella prospettiva, lì si che la gente sparava. «Va beh, magari gli porto una mozzarella di bufala quando torno.»
«E una pure a me!»
«No, a te ti porto una tastiera nuova, non vorrei che a furia di battere su quei tasti li consumassi.»

Il maresciallo Michele Battocchio accostò a due passi dal cancello di casa della vedova Pasceri. La strada era deserta e pochi metri più avanti, una panchina era illuminata dall'ultimo lampione del comune; da lì partivano quattro chilometri di tornanti che conducevano al paese dopo, dove lo aspettava casa sua. Spense l'auto, guardò l'orologio e sbuffò; un'ora dopo sarebbe iniziata la partita della Juve e lui non se la voleva perdere. Inspirò profondamente, l'aria fredda lo fece rabbrividire. Aprì la portiera e si diresse verso l'ingresso, poggiò l'indice sul pulsante arrugginito e attese che la vecchia gli rispondesse.
Passati i canonici dieci secondi, Michele iniziò a innervosirsi. «Vedi se sta stronza deve mettersi a giocare proprio oggi!» disse a denti stretti. Toccò la serratura, il cancello cigolò e si aprì. Istintivamente, sfiorò il calcio della pistola; per quanto fosse un paesino di quattromila anime con il tasso di criminalità pari al numero di turisti che andavano lì d'inverno, l'ultimo si era visto nel '68, Concettina non si fidava e faceva ben attenzione a chiudere casa.
Michele avanzò piano fino alla porta, poggiò l'orecchio sull'alluminio dorato e trattenne il fiato; da dentro non proveniva nessun rumore. Fece due passi indietro, si chinò e raggiunse l'unica finestra illuminata del piano terra. Si appiattì contro la parete esterna, impugnò il cellulare e cercò il numero di Spini, lo selezionò e si bloccò; non poteva chiamarlo. Se in casa ci fosse stata solo Concettina quella storia l'avrebbe perseguitato fino all'ultimo giorno della sua già non brillante carriera. Rimise il cellulare in tasca e impugnò la pistola, la guardò e corrucciò il naso; non sapeva nemmeno se funzionasse ancora, ma almeno avrebbe spaventato gli eventuali assalitori. Si fece coraggio e si mise in piedi, le braccia tese in avanti e l'espressione più cattiva che potesse immaginare.
La casa era in ordine e, su una poltrona, Concettina era seduta con la testa riversa di lato. Michele schiacciò il viso contro il vetro; A parte lei non sembrava esserci nessuno, e tutto era in ordine. Tornò di corsa sui suoi passi, raggiunse la porta di casa e aprì. «Concettina!» urlò, ma la vecchia non gli rispose. Affannato, corse fino alla sala, la raggiunse, le afferrò il polso che penzolava al lato del braccioli e premette due dita cercando il battito; l'aveva visto fare mille volte in televisione, ma non sentì nlla. Rinfoderò la pistola e strinse le spalle della vecchia. «Concettina» la chiamò nuovamente, ma lei non reagì. «Concettina!» questa volta urlò, e la scosse talmente forte da farle rimbalzare la testa sul cuscino della poltrona; ancora niente. In preda al panico, sollevò la mano e la colpì al volto.
La vecchia spalancò gli occhi «A puttana e mammata!» urlò, spingendolo lontano.
Michele cadde sulle ginocchia. «Concé, mi hai fatto spaventare. Pensavo fossi morta» disse, scuotendo la testa e sorridendo.
Lo sguardo della vecchia si fissò sulla parete e perse di vivacità, era come se una patina gelatinosa le avesse riempito gli occhi.
Michele si alzò «Concé» la richiamo, ma lei non si mosse. «Concettina, non fare scherzi.» Michele sollevò nuovamente la mano e allargò il braccio, pronto per colpirla, ma la donna sgranò gli occhi e inspirò profondamente, come dopo una lunga apnea.
«Ancora?» chiese lei, fissandogli la mano.
«E tu rispondi allora!»
«Maresciallo, non mi sento bene.»
«L'avevo capito!»
«Sto morendo!»
«E facciamo che muori all'ospedale; chiamo l'ambulanza.»
«No, voglio morire qui!»
Michele sollevò gli occhi al soffitto, visto come si stavano mettendo la cose magari avrebbe visto il secondo tempo della partita. «Concettina, non posso lasciarti a casa da sola!»
«Allora non farlo!» La vecchie allungò le mani verso il maresciallo e mostrò la dentiera.
«Concé, 'mo vuoi vedere che tutto 'sto teatrino è per provarci?»
«Nessun teatrino, sto male e tra poco morirò» Lei si ritrasse, offesa.
Michele si sentì in colpa; aveva subito pensato male. Sorrise, le si avvicino, le poggiò la mano sulla sua e sussurrò: «Concé, sta per cominciare la partita, non possiamo chiamare tuo figlio?»
«Non voglio mio figlio, voglio passare i miei ultimi istanti con te, Michelino!»
Il maresciallo si scostò, serrò il pugno e lo portò al petto. «Signora Pasceri, capisco la sua condizione di donna sola, ma non credo che io possa restare qui con lei in questa situazione che potrebbe imbarazzare sia me che la divisa che indosso.»
«Sai che mi ricordi mio marito?» Concettina spostò lo sguardo verso il caminetto su cui era poggiata una foto circondata da una decina di lumini rossi raffiguranti Padre Pio.
Michele socchiuse gli occhi per mettere a fuoco; l'uomo nella foto indossava un cappello a tese larghe, aveva folti baffi neri, il naso largo da pugile e una cicatrice che gli attraversava il volto. Michele portò la mano alla testa e si carezzò il cuoio capelluto. Non si era mai sentito un figurino, ma nemmeno uno da buttare via. «Un bell'uomo» disse con una punta di sarcasmo.
Concettina si alzò, caracollò con le braccia tese in avanti e si fermò a pochi passi dalla foto. «Non era bello, ma era tutto ciò che volevo.»
Michele guardò di sfuggita l'orologio alla parete, mancavano quarantacinque minuti all'inizio della partita. «E presto sarete nuovamente insieme, ma ora chiama tuo figlio che devo andare.»
«E il rumore nel capanno?» chiese lei, voltandosi di scatto.
«Sarà il solito coniglio.»
«Stavolta ho sentito ance una voce.»
«Una voce, nel gabbiotto in giardino? E cosa diceva?»
«Chiedeva aiuto.»
«Quindi gridava: AIUTO, AIUTO, QUALCUNO MI AIUTI!» urlò Michele, sollevando le braccia sopra la testa e girando su se stesso.
«No, era più una cosa tipo: aiuutooooo, aiutoooooo! Più bassa la voce, come un lamento.»
Il maresciallo giunse le mani e le poggiò al mento, inspirò dal naso, serrò la mascella e annuì. «Vado, ma poi scappo a casa.»
«Sei il mio eroe.»

Michele chiuse la porta della cucina, quella che dava sul retro, e tornò all'aria aperta. Le nuvole coprivano le stelle, che in estate sarebbero bastate a illuminare il giardino; quel paese aveva mille difetti, ma le luci erano talmente poche che si poteva distinguere la via lattea. «Jurnata e 'mmerda!» bisbigliò, poggiando i piedi sull'erba. Sollevò lo sguardo e trasalì; sul lato sinistro, vicino alla vecchia recinzione dell'orto abbandonato dalla dipartita della buonanima, una sagoma scura ondeggiava. Si acquattò e estrasse la pistola. Una luce fioca, proveniente dalla casa, illuminò un palo con sopra appoggiata una cerata.
«Così vedi meglio!» disse la voce di Concettina, proveniente dalla veranda che aveva appena abbandonato.
Michele si voltò, sorrise e sollevò il pollice in direzione della vecchia. «Tutto sotto controllo» disse, cercando di camuffare la paura.
“E che cazzo, la vecchia mi sta facendo cacare addosso. Puttana merda, perché non ho mandato a quel paese quel cretino di un tenente. Ma vedi te se l'ultimo arrivato deve darmi ordini. Io a quest'ora me ne stavo a casa, seduto sul divano con la scafarea di pasta, la birra fresca e 'fanculo pure a 'sta vecchia. Invece no, chillu strunz vuo fa u patrune! Non sa chi sono io, a chi troppo s'acala 'o culo se vede, ma non al maresciallo Michele Battocchio. Io la testa non la chino, e se ne accorgerà; altro che mozzarella io, dal paese, non gli porto nemmeno il salame!” Rapito dai suoi pensieri, Michele arrivò fino alla porta del gabbiotto; la porta era chiusa e il lucchetto al suo posto. Infilò la mano in tasca e strinse la chiave che Concettina gli aveva appena dato. Si voltò verso la casa, la vecchia continuava a fissarlo da dietro la porta della cucina. Lei sollevò una mano e lo salutò.
«Ammazzati!» rispose Michele, sorridendo a denti stretti.
Al terzo tentativo centrò la toppa e aprì la porta. Il capanno aveva la stessa puzza delle altre cinque volte in cui c'era stato; aveva quell'odore di aceto stagnante, misto a grasso motore e ruggine. Lo chiamavano capanno degli attrezzi, ma nella sua storia quel posto aveva visto solo quell'intruglio che lì avevano il coraggio di chiamare vino. Poggiò la mano sulla parete in legno, alla ricerca dell'interruttore, ma urtò qualcosa di duro che rovinò a terra provocando un rumore di ferraglia; dal fondo della baracca si alzò un soffio, da prima soffuso, poi sempre più intenso e aggressivo. La sua vista si abituò all'oscurità giusto in tempo per permettergli di vedere un'ombra scura che correva verso di lui. L'ombra saltò su una mensola e da lì su di lui. Michele si scostò, ma non riuscì a proteggersi; portò la mano sinistra al volto, qualcosa di caldo gli bagnò le dita. «'Strunz!» imprecò estraendo la pistola e facendo fuoco verso quella cosa che l'aveva aggredito. Centrò la sua preda al primo colpo; tronfio, guardò verso la casa. La donna era uscita in giardino, le mani al volto sconvolto dalle lacrime; lei claudicò fino a quella che doveva essere una belva sanguinaria, e si chinò singhiozzando. «Vito, hai ucciso Vito!» urlò chinandosi sul cadavere del suo gatto.

«Ti giuro che non l'avevo capito» cercò di giustificarsi Michele, mentre Concettina gli medicava la ferita all'occhio.
«Aveva il suo nome!»
«L'avevo capito, non è il nome che si da a un gatto!»
La pressione dell'ovatta, imbevuta d'alcol, divenne più forte; una goccia di spirito colò fino al taglio. Michele trasalì e si ritrasse.
«Visto che ho fatto il mio lavoro posso andarmene. Tra cinque minuti inizia la partita e non vorrei perdermela.» Sentendo tendersi i muscoli della vecchia, l'afferrò per il polso bloccandola. «Direi che la medicazione va già bene.»
«Sì, scusa. È che ora sarò ancora più sola. Morire con Vito sulle ginocchia era l'unica consolazione!»
Michele sollevò gli occhi al soffitto e trattenne a stento un'imprecazione. «Ma 'mo devi morire? In giardino stavi correndo!»
«Le ultime forze di una condannata a morte.»
«E va beh. Concettina, io me ne devo andare!»
«Bevi qualcosa con me, poi ti lascerò andare.»
Michele allargo le narici e sbuffò. «Almeno lo tieni Sky?»
«Tze!» disse la vecchia con la bocca chiusa,
«Mediaset?»
«Tze!»
«La televisione la tieni ho hai ancora la radio a valvole?»
«Quella è in camera da letto, dentro il mobile.»
«E lasciala lì; diamoci una mossa, il secondo tempo non me lo voglio perdere.» Sconsolato, Michele si accomodò sul divano. Osservò Concettina andare in cucina e, appena fu solo, si alzò e iniziò a curiosare in giro.
In paese erano pochi e strani. Tutti accusavano tutti di essere criminali e di avere un passato torbido alle spalle, ma il caso peggiore che gli era capitato fra le mani era quello di uno che aveva rubato due porci sostenendo che fossero suoi. Per il resto scompariva una gallina ogni tanto e, nel periodo pasquale, le caprette venivano messe sotto chiave. Sbirciò nella vetrinetta del mobile e, tra decine di immaginette di parenti morti, scorse un rosario d'oro. Nella vita ne aveva visti molti, di ogni dimensione e colore, ma non sapeva ne facessero così.
«Che mi prepari?» chiese ad alta voce.
«Una tisana.»
La vecchia era ancora lontana. Michele aprì l'anta del mobile e afferrò l'oggetto. «A cosa?» chiese ad alta voce.
«È una ricetta antica.»
«Bene, sono curioso di assaggiarla.» Michele afferrò una delle palline tra l'indice e il pollice; il rosario si allungò mostrando sul fondo un crocifisso capovolto. «'O Cristo a capasutta; 'sti cazzo di calabresi non sanno fare un cazzo!» disse rimettendolo apposto.
«Cosa?» Concetta comparve davanti alla porta della cucina. In mano teneva un vassoio su cui due tazzine tintinnavano al ritmo dei suoi tremori.
Michele le andò incontro, prese la sua tazza e la portò alle labbra.
«Scotta!» provò ad avvisarlo lei, ma ormai era tardi; il maresciallo portò la tisana alle labbra e imprecò ustionandosi la lingua.
«Concé, e che cazzo!»
«Io te l'ho detto.»
«Dopo che mi so' scottato! Va beh, sediamoci e beviamo st'intruglio.»
Concettina abbassò lo sguardo e andò verso il divano, con il vassoio sempre in mano.
Michele si sedette accanto a lei e osservò il vapore che si alzava dalla tazza, doveva saperlo che il fumo voleva dire qualcosa. Guardò nuovamente l'orologio e strinse il pugno; ormai stavano giocando da dieci minuti. «Che lavoro faceva Vito?» chiese provando a pensare ad altro.
«Era in pensione.»
«Grazie al… prima della pensione.»
«Era un professore universitario, insegnava storia antica all'università di Rende.»
«Mmmhhh!» commentò Michele pensando al pippone che si sarebbe sorbito da lì a poco.
«Lui adorava il suo lavoro. Pensa che passava mesi interi a Gallicianò per studiare il Greco calabro. Puoi crederci che lì lo parlano ancora?»
«È incredibile» rispose Michele, pensando che un terzo del primo tempo era passato.
«Tu sai leggere il greco?»
«No, mi fermo al latino.»
«Peccato, perché questo libro è interessantissimo.» Concettina si alzò, le anche le scricchiolarono, ma lei avanzò verso il mobile, aprì l'anta in cui c'era quello strano rosario e afferrò un vecchio libro.
Michele contrasse ripetutamente la mascella, chiuse gli occhi e maledisse quel bastardo di Boltrini.
«Vedi, questo è il libro da cui ho preso la ricetta della tisana.»
«Interessante, ma ora si sarà freddata. Beviamo.» Michele svuotò la tazza tutto d'un fiato. La bocca s'infiammò, la lingua e il palato intorpidirono. Una vampata di calore gli invase la bocca dello stomaco e la testa gli girò. Era una strana sensazione, quasi come se si fosse tracannato una bottiglia di Jack Daniel's. Gli mancava il fiato; paonazzo, spalancò la bocca e espirò. Provò a parlare, ma la voce non gli uscì dalla bocca.
«L'ignoranza fa male» disse Concetta, sorridendogli. «”περίαπτον ἀπό πίνω”. Dovrebbe suonare come: “Incantesimi da bere”.» La voce della vecchia era mutata, così come tutto l'ambiente attorno.
Michele provò ad alzarsi, ma non riusciva a orientarsi in quel mondo che continuava a mutare. Le pareti si muovevano, il soffitto ondeggiava come il mare, i colori dei mobili cambiavano di continuo. Guardò Concettina, ma la vecchia, che aveva avuto davanti fino a poco prima, non c'era più. La pelle liscia aveva preso il posto del groviglio di rughe, i capelli grigi erano stati sostituiti da sottili fili dorati e gli occhi annebbiati dalla cataratta splendevano come il cielo di una giornata estiva. Michele chiuse gli occhi, li strizzo e li riaprì. Non c'era più la casa, ma l'interno di un auto, la sua auto; quella 127 sport che aveva rottamato vent'anni prima. Inspirò e sentì l'odore del porto, il canto di migliaia di cicale e il profumo dolce di lavanda che tanto piaceva a Maristella.
«Maristella!» disse trattenendo le lacrime.
Lei sorrise, mostrando una fila di denti perfetti. «Vito!» rispose.
Michele non non sentì nemmeno la sua voce; la bramava da troppo tempo. Si slacciò la patta, portò la mano destra alla nuca di lei e le strinse i capelli nel pugno; con un movimento delicato, ma deciso, l'avvicino al suo membro.
«Aspetta un attimo» protestò lei.
Michele non mollò la presa, ma assecondò i movimenti di di Maristella. Qualcosa cadde a terra; sembrava ceramica, ma non ci badò; nella sua mente partì il suono di una chitarra, seguita dalla voce inconfondibile di Pupo “Io per te, mi perderei. Tu non sai cosa farei…”
La sua 127 sport, il mare, Maristella e la musica di Pupo; era tutto perfetto, più che nella vita reale, più di quando a vent'anni doveva schiaffeggiarla per farsi fare un pompino.
Si lasciò cadere all'indietro, una sensazione mai provata lo fece sussultare; era come come se avessero attaccato una ventosa al suo pene e stessero cercando di risucchiargli le palle.

Un dolore alla schiena riscosse Michele che aprì gli occhi e si guardò attorno; era ancora a casa di Concettina. Si passò la lingua sulle labbra nel tentativo di allontanare il sapore aspro che aveva in bocca, si mise a sedere e sentì il freddo del pavimento a contatto con il suo sedere. Non ricordava molto di quello che era successo, ma gli indizi parlavano chiaro. Abbassò lo sguardo e fisso il glande arrossato, si alzò, sistemò i pantaloni e si stiracchiò la schiena.
«Concettina!» chiamò ad alta voce, ma non rispose nessuno. Sollevò la manica della camicia e guardò l'ora. «E la partita è finita» imprecò. Cercò la vecchia in cucina, ma non la trovò; pensò di cercarla ancora, ma non era importante, in fondo non sapeva nemmeno che dirle.
Uscì di casa, inspirò a pieni polmoni e pensò che per un mese non avrebbe più rivisto quel paese pidocchioso e che il giorno dopo avrebbe raccontato al bar di quella ragazza che si era scopato la notte della partenza.
 
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Nitroneus
view post Posted on 9/12/2015, 21:50




Buonasera Ceranu,
piacere di conoscerti. Mi sa che a questo giro ci è andata male!
Se può farti piacere, commento comunque il tuo racconto. Se per te va bene, dimmi solo come farti avere il commento, se qui, in messaggio privato, tramite piccione viaggiatore o segnali di fumo.
Ciao!
 
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42 replies since 1/12/2015, 02:14   555 views
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