Non l'ho riletto e se aspetto di poterlo fare rischio di non postarlo. Se ci riesco poi sistemerò eventuali refusi et similia al volo
Riflessi di un sognoChiudi gli occhi, non tremare
Lui non vuole farti male
Qui con noi riposerai
E mai più ti sveglierai.
Gli occhi di Laura si aprirono di scatto e, per un attimo, il sogno si sovrappose alla realtà. Si ritrovò sdraiata nel mezzo del cerchio in movimento: sei bambine bionde in abito bianco e una bruna in abito nero si tenevano per mano e le giravano intorno, canticchiando l’insensata filastrocca. I loro corpi diafani si confondevano con la tappezzeria.
Poi la realtà riprese il suo posto e la stanza tornò a essere vuota, anche se l’unica strofa della canzoncina le rimase nella mente prima di svanire lenta nel rumore di fondo di una nuova giornata.
Perché continuava a fare quel sogno? Erano mesi, ormai, e non riusciva ancora a darsene una spiegazione.
Si trascinò fino in bagno e si guardò allo specchio. Aveva gli occhi cerchiati, il viso stanco, e i capelli erano ridotti a un groviglio di fili spenti, come se uno gnomo confuso avesse deciso di filare l’oro in paglia.
Il sogno in sé non era neppure un vero incubo, eppure aveva il potere di lasciarla inquieta e spossata. Non comprendeva il senso di quel girotondo infinito in quella che sembrava la navata di una chiesa privata delle panche e dell’altare. Né era riuscita a spiegarglielo la terapista a cui si era rivolta.
Tirò a sé lo specchio, aprendo l’armadietto che nascondeva. Prese lo spazzolino da denti, rivolgendo un’occhiata al flacone dei tranquillanti sulla mensola superiore. Non erano quelli la soluzione, forse solo un temporaneo sollievo, ma non intendeva diventarne dipendente.
Come sempre fece una smorfia al gusto salino del dentifricio. Per bene che potesse farle, la disgustava, e al momento le sue gengive erano davvero la minore delle sue preoccupazioni.
Chiuse gli occhi e sputò nel lavandino, affrettandosi a risciacquare tutto, poi li riaprì per rivolgersi un’altra occhiata e tentare di rendersi presentabile.
Era già a metà delle scale quando l’insolito silenzio la colpì. In genere a quell’ora c’era un viavai di gente, tanto che a volte sarebbe servito un vigile a regolare il traffico, come mai non c’era nessuno in giro? Cosa poteva essere successo? Diede un’occhiata all’orologio, cercando di capire se fosse troppo tardi o troppo presto, e il semplice gesto riesumò un senso del tempo che ormai aveva sepolto. La realtà era che neanche lei avrebbe dovuto essere lì, era sabato e non doveva recarsi in ufficio.
Scuotendo la testa, continuò comunque a scendere. Un po’ d’aria le avrebbe fatto bene, se non altro, e poi forse qualche negozio era già aperto, avrebbe potuto portarsi avanti con la spesa e le faccende di casa, già che c’era.
Il cielo era sereno, ma una forte brezza finì di scompigliarle i capelli ancora arruffati non appena mise piede fuori dal portone.
«Dovresti cercarla», disse qualcuno dietro di lei.
«Come?» chiese, voltandosi, ma vide solo due ragazzine che si allontanavano, parlando tra loro. Il vento, che in quella posizione le soffiava in faccia, le fece chiudere gli occhi, e di colpo si sentì qualcosa sul viso, a premerle contro naso e bocca.
Annaspò in cerca d’aria e alzò le mani per liberarsi il viso, aspettandosi una resistenza che non trovò. Quando tornò a guardare, aveva tra le mani un banale volantino. Si era spaventata per nulla.
Stava per gettarlo via, ma lo sguardo le cadde sulla curiosa immagine che vi era rappresentata. Era il volto di una donna anziana, disegnato a tratti quasi caricaturali, che stava con gli occhi sgranati davanti a una palla di cristallo.
Pensò si trattasse del volantino di un circo, o qualcosa di simile, finché non lesse il testo.
“Madama Maria
Strega e Fattucchiera”
c’era scritto al di sopra del volto, e poi, più sotto
“Cerchi un filtro d’amore? Non lo so fare.
Vuoi i numeri vincenti del superenalotto? Se li sapessi sarei alle Maldive.
Ma se hai un problema, te lo posso risolvere”
seguito da un indirizzo.
Niente e-mail, forse per una sedicente strega era fuori luogo, in effetti. Niente numero di telefono. Solo via e numero. Non c’era neanche la città, doveva essere una pubblicità molto... locale.
Appallottolò il foglio e si guardò intorno in cerca di un cestino, senza trovarne. Con una scrollata di spalle se lo mise in tasca e si avviò verso il supermercato.
Si dimenticò della sua esistenza per un paio di isolati finché, cercando il pacchetto dei fazzolettini, se lo ritrovò tra le mani. Questa volta c’era un cestino poco distante, giusto all’imbocco di una traversa, e vi andò spedita. Fece per gettare la carta e lo sguardo le si posò sull’insolita placca fucsia accanto a un portone.
Sbatté le palpebre, incredula.
Lisciò il volantino appallottolato e controllò l’indirizzo, poi il civico davanti a lei.
Curioso, stava per buttare la pubblicità di Madama Maria proprio di fronte a casa, o era lo studio?, di Madama Maria. Neanche si era resa conto che fosse tanto vicina a dove abitava.
«Saresti tanto gentile da darmi una mano?»
Laura si voltò di scatto, colta di sorpresa dalla voce.
Dietro di lei c’era una donna bassa e rotondetta, con un paio di occhialini tondi sul naso e un foulard che conteneva a stento dei ricci color argento. Sembrava l’essere più innocuo della terra, e si vergognò di essersi spaventata, anche se non le era chiaro da dove fosse sbucata.
«Come, mi scusi?» chiese, un po’ imbarazzata.
«Con la spesa, cara», disse la vecchina, accennando con lo sguardo al carrello che si portava dietro, talmente pieno che una busta era quasi del tutto fuori. «Mi aiuteresti a portarla su?»
Laura sorrise, lieta di potersi rendere utile. Attese che la donna aprisse il portone e si caricò il carrello, non senza un certo sforzo, seguendola per due rampe di scale.
Quasi non si sorprese quando la vide infilare la chiave nella serratura di una porta con sopra una targa fucsia identica a quella in strada.
Al di là di questa c’era un appartamento sorprendentemente sobrio. Era chiaro che vi abitasse una persona anziana, l’arredamento tra il classico e l’antiquato e l’infinità di foto e centrini lasciavano pochi dubbi, ma non c’era niente che facesse pensare a una maga, o strega, o quello che era.
«Porta pure qui, cara», disse la vecchietta, che intanto aveva raggiunto la cucina.
Laura la seguì, ammirando la mobilia perfettamente conservata e il frigo a maniglione che era solo qualche anno troppo giovane per essere una ghiacciaia.
«Posso offrirti qualcosa, intanto che mi spieghi perché mi cercavi?»
La ragazza trasalì. «Ma io veramente...» abbozzò senza completare la frase. In effetti aveva quasi senso. L’aveva vista davanti a casa sua con in mano un suo volantino, era facile capire il perché dell’equivoco.
«Non preoccuparti se è una cosa imbarazzante, a me puoi dire tutto», riprese Madama Maria in tono tranquillizzante, salvo fare una breve pausa e aggiungere: «Ma se hai problemi di prurito intimo forse è meglio la farmacia qui di fronte, puoi dire che ti mando io».
«No, io non... a dire il vero non la stavo cercando», si decise a dire Laura.
«Allora è un bene che tu sia riuscita a trovarmi lo stesso», ribatté la vecchietta facendole cenno di sedersi al tavolo immacolato e poggiandole davanti una tazza fumante. «Ecco, prendi il tuo tè».
Ma quando aveva fatto il tè?
Poco convinta, Laura si sedette. Non aveva fatto colazione e l’idea di un tè caldo non le dispiaceva, ma era davvero il caso di bere qualcosa in casa di un’estranea che per di più si spacciava per strega e fattucchiera? Dopo tutto si sentivano tante brutte storie; anche se Maria sembrava una dolce signora, come poteva essere certa che non fosse una pazza omicida?
Il tè era caldo e dolce come piaceva a lei, con un vago retrogusto di zenzero e un’aroma che stimolava le narici.
Sbatté le palpebre. Scosse la testa. Poggiò la tazza sul piattino con tanto impeto che per poco non ne versò il contenuto. Perché stava bevendo? E perché neanche ricordava di aver sollevato la tazza?
«Signora, io...» farfugliò.
«Madama. O anche solo Maria, se vuoi, non serve essere formali.»
«Mad... sì... Maria... mi scusi ma io devo davvero andare, piacere di averla conosciuta», riuscì a dire tutto d’un fiato mentre si alzava e addentava un biscotto. Guardò il disco dorato con l’impronta dei suoi denti, mentre la pastafrolla quasi le si scioglieva in bocca, e sussultò, lasciandolo cadere come se si fosse ritrovata in mano un serpente.
«Ma che fretta c’è?» disse serafica la vecchietta, raccogliendo il biscotto come niente fosse stato e gettandolo nella pattumiera. «Dopo tutto sei uscita presto, che hai da fare?»
«Sì, io... come lo sa?»
Maria raddrizzò la schiena, sembrando di colpo almeno cinque centimetri più alta. «Sono una strega», disse con voce solenne. Poi tornò a incurvarsi. «O almeno è la spiegazione più comoda, ma è sabato, troppo presto per la spesa e troppo tardi se avessi dovuto andare in ufficio. Ho tirato a indovinare. Allora? Per cosa ti servivo? Un filtro d’amore? Non è vero che non li so fare, è che sono talmente noiosi...»
«I... filtri d’amore?» Laura si ritrovò a chiedere suo malgrado.
«No, cara, quelli che li chiedono. Pensano di poter risolvere tutto così, ma non è vero. Se costringi qualcuno non lo ami davvero, non importa se continui a ripeterlo».
A quelle parole, Laura si sentì girare la testa e le parve che il sangue le stesse scendendo in caduta libera dal cervello allo stomaco. Si lasciò ricadere sulla sedia, domandandosi se davvero ci fosse stato qualcosa nel tè o nei biscotti, ma la sensazione ben presto l’abbandonò.
«Purtroppo i numeri vincenti del superenalotto non ce li ho veramente», continuò Maria senza dar cenno di aver notato nulla. «Ma del resto i soldi non comprano la felicità, e neppure ti fanno smettere di sognare».
Laura trasalì. «In che senso?»
«Anche se diventi ricca, continui a desiderare cose che non puoi avere», spiegò la vecchina, e lei si lasciò sfuggire un sospiro. Era ovvio che non stesse parlando del suo problema, come avrebbe potuto saperne qualcosa?
«Ad esempio i soldi non possono cambiare il passato, o farti ritrovare tua madre.»
«Mia... madre?»
«In generale, cara. Perché, la cerchi?»
«No... io...»
«Lo so, lo so, è passato tanto tempo, ma non è stata colpa sua. Vuoi ancora tè?»
«No, non ho...» stava per dire “neanche bevuto questo” ma, quando guardò, la tazza era vuota. Scosse la testa. «...che... che significa che non è stata colpa sua?»
La vecchietta aprì il finestrone che dava sulla strada, si affacciò un istante alla ringhiera e tornò dentro. «Non sarebbe mai andata via.»
«Ma l’ha fatto», protestò Laura, senza rendersi subito conto di cosa stava dicendo. Che ne sapeva quella donna di sua madre? O forse era così che funzionava, nel suo mestiere. Diceva frasi un po’ a caso e studiava le sue reazioni, facendole rivelare più di quanto volesse. Subito si pentì di aver parlato e si rimise in piedi, doveva andarsene.
«Non per sua volontà», continuò Maria. «E ti ha aspettato, ti ha aspettato per così tanto tempo».
Per un attimo, dimenticandosi i suoi stessi sospetti, Laura si ritrovò a guardare il volto della donna chiedendosi se non fosse lei, se il caso non le avesse riunite dopo così tanto tempo.
Ma non aveva senso. Sua madre doveva avere una cinquantina d’anni, Maria ne dimostrava almeno venti in più. La stava solo prendendo in giro.
«Devo andare» disse, cortese ma decisa.
«Va bene, cara, ma senza fretta, è appena fuori città e c’è tempo fino al tramonto», disse la donna mentre apriva uno sgabuzzino e ne estraeva una vecchia scopa dalle setole consumate che puntavano in tutte le direzioni.
Ma di cosa stava delirando?
Laura si disse che non la riguardava, ma si sentì domandarglielo lo stesso. «Che cosa?»
«La chiesa,» rispose lei, spingendo col piede uno sgabello davanti al balconcino. «Tira bene la porta quando te ne vai, sto uscendo anche io».
Laura rimase interdetta a guardarla mentre si metteva a cavalcioni della scopa. Quando si rese conto di cosa stava per succedere era troppo tardi per reagire, e la guardò inebetita mentre in tre salti passava dal pavimento allo sgabello alla ringhiera con inattesa agilità.
Vedendola sparire oltre il balcone, non poté che lanciarsi in avanti a guardare inorridita. Fece in tempo a vederla atterrare sulla tenda bianca e gialla di un bar, che avrebbe giurato di non aver visto entrando, e da lì scivolare beata sull’ombrellone di un tavolino, che si richiuse sotto il suo peso e la depositò sulla sedia vicina. Un salto ancora e se ne andò correndo per la via come un ragazzino su un cavallo di legno.
Non riusciva a ricordare di essere scesa da casa di Madama Maria e aver fatto il resto della strada fino al supermercato, ma così doveva essere a giudicare dall’omone color carbone che tentava senza troppo successo di passarle un carrello.
Possibile che adesso sognasse anche ad occhi aperti, e per di più nel bel mezzo della strada?
Certo, questo avrebbe spiegato tante cose, come gli strani vuoti a casa di Maria o il fatto che lei sembrasse sapere così tanto su di lei. Per non parlare del modo assurdo in cui era uscita. Almeno non c’erano state le bambine con la loro filastrocca, il suo subconscio doveva essersi fatto influenzare dal volantino, ma stava peggio di quanto pensasse, una fuga del genere non le era mai accaduta prima. Stava forse diventando pazza?
«Era una povera pazza, speriamo non l’abbia trasmesso alla figlia.»«Come hai detto?»
L’uomo del carrello la guardò, confuso. «Buongiorno», ripeté col suo pesante accento e con l’aria di chi si sta sforzando per non tirarsi indietro.
«No, era...» farfugliò lei, guardandolo senza vederlo. Era chiaro che non fosse stato lui a dire quella frase, anche se non c’era nessun altro che potesse averlo fatto. Strizzando gli occhi, gli mise tra le mani una moneta e andò via, senza prendere il carrello, né entrare per fare la spesa.
Era da tanto che non pensava a sua madre.
Era stata molto piccola quando era andata via. Cinque, forse sei anni.
Un giorno, semplicemente, non c’era più. Il suo armadio era vuoto, il letto rifatto, di lei non era rimasto altro che l’odore sul cuscino.
Suo padre era morto anni prima, l’aveva visto davvero solo in foto, e il suo patrigno era poco più che una sagoma scura nei suoi ricordi. Di sua madre aveva un’immagine nitida nella mente, di lui solo tracce sfocate; era stato poco con loro, e lei non era rimasta con lui dopo che sua madre se ne era andata, anche se non avrebbe saputo dire il perché. Ma del resto non si erano sposati, e forse lui non aveva voluto farsi carico di una bambina che neppure era...
«Tu sei la mia bambina, lo sai che sei la mia bambina.»Laura trasalì e si alzò dalla sedia.
Era a casa, da sola, nessuno poteva aver parlato. Ma la voce era stata nitida, chiara, anche se il tono era un sussurro.
«Chi c’è?» Avrebbe voluto non sembrare spaventata, ma voce le tremava.
Nessuno rispose.
Guardandosi intorno, indietreggiò fino al bancone della cucina, appoggiandovi la schiena. Aprì un cassetto e vi infilò la mano senza guardare per afferrare un coltello, ma con l’indice sfiorò la lama anziché il manico e lo lasciò andare, ritirando il braccio. Si guardò il dito con orrore, sentendosi già girare la testa, ma la pelle era intatta, non c’era neppure un segno.
Per il sollievo, dimenticò per un istante perché fosse lì. Il ricordo l’assalì improvviso, e quasi le fece venire un colpo, quando udì un suono alle sue spalle, ma era solo il cellulare che iniziava a vibrare sul ripiano di marmo.
Non c’era nessun numero sullo schermo, solo un grande riquadro fucsia.
«Pronto? Chi parla?» disse incerta portandoselo all’orecchio.
«Si sta facendo tardi, cara. Sarà meglio che tu vada, se vuoi arrivare prima del tramonto. Non è il caso di far passare un altro giorno, ormai».
«Ma chi è?» chiese lei, conoscendo benissimo la risposta. Ma non poteva essere, non aveva mai incontrato quella donna. Non davvero. E poi, come poteva avere il suo numero?
«Shhh! Non preoccuparti, sono solo io.»Ma la voce non arrivava dal telefono, ormai muto. E nemmeno da un possibile intruso, questo era chiaro. Ma che alternativa restava?
Non avrebbe dovuto essere lì. Non sulla strada, non in auto, non quando non poteva più fidarsi neanche delle sue stesse percezioni.
Ma dove avrebbe dovuto essere? Nello studio di uno psichiatra, a farsi analizzare per capire se stava impazzendo? Se avrebbe dovuto farsi ricoverare da qualche parte?
«... come sua madre, chissà dove l’avranno rinchiusa...»Scacciò via la voce inesistente e si concentrò sulla guida, anche se non sapeva dove stesse andando di preciso.
“Appena fuori città”, aveva detto Madama Maria, o quella parte della sua mente che le aveva dato vita. In effetti c’era una chiesetta abbandonata, poco più di un rudere, in un campo costeggiato dalla statale. Era l’unica possibilità che le veniva in mente, ma non capiva perché avrebbe dovuto andarci, se non per il vago collegamento col suo sogno ricorrente.
“Lei ti ha aspettato per così tanto tempo”, aveva detto la vecchietta.
Non aveva senso. Niente aveva più senso fin da quella mattina, ma a questo punto tanto valeva andare fino in fondo.
Uscì dalla strada e lasciò l’auto al limitare del campo coperto di erba secca, residuo dell’estate appena trascorsa. Inutile rischiare che si impantanasse nel terreno, poteva fare a piedi l’ultimo tratto.
Il cielo era ancora chiaro, ma il sole accennava a calare e tingeva la parte inferiore delle rade nuvole di una strana sfumatura fucsia. La chiesa era un edificio basso che aveva a stento quattro mura scrostate. Sarebbe stato difficile capire a che scopo fosse stato adibito, se non fosse stato per la forma delle finestre in pietra e i resti di una croce storta sulla sommità del tetto. Non c’era nessuna porta, solo lo spazio dove un tempo era stata, e l’interno era occupato solo dalla polvere. Nessuna panca, niente altare.
Ma, davanti all’altare che non c’era, una donna che pure non c’era stava in ginocchio a piangere e pregare sommessamente.
L’immagine appariva e spariva, come proiettata da una luce intermittente. Poi parve imporsi sullo schermo della realtà e diventare solida, concreta.
La donna si voltò e guardò Laura con gli occhi di sua madre, col volto di sua madre, quello che aveva avuto vent’anni prima, che non avrebbe potuto avere ancora.
«Laura!»Niente aveva più senso. Stava davvero diventando pazza? Ma se questa era la follia, l’avrebbe abbracciata, così come corse ad abbracciare sua madre, inginocchiandosi nella polvere accanto a lei.
«Mamma», singhiozzò.
«Laura. La mia Laura. Ti ho aspettato tanto. E come sei cresciuta! Ma non puoi stare qui, non adesso, non vedi, il sole sta tramontando.»Laura alzò lo sguardo verso la finestra e il cielo purpureo oltre di essa. Che aveva di così importante il tramonto, perché continuavano tutte a parlargliene?
«Che ci fai qui?»Laura alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare non il punto da cui la voce era arrivata ma il soffitto. Era in piedi. Quando si era rialzata?
«Ti ho visto. Ho visto cosa facevi» disse sua madre con voce tremante, ma non stava parlando con lei.
«Cosa hai visto? Cosa credi di sapere?» A parlare era un buco nel nulla, una sagoma scura solo vagamente umana. «Sei pazza, così pensano tutti, chi vuoi che ti creda?»
«Devi andartene. Subito. Altrimenti...» continuò la donna.
«Altrimenti cosa?» Adesso l’ombra nera torreggiava sulla donna in ginocchio. Si piegò, come per ascoltare una risposta che non stava giungendo.
«Altrimenti cosa?» ripeté. Poi le afferrò i capelli sulla nuca.
«Altrimenti cosa?» Indietro, avanti, la testa colpì lo scalino dell’altare. Perché non faceva rumore? Laura distolse lo sguardo, non poteva, doveva, non poteva guardare.
«Altrimenti cosa?» La voce era sempre più alta, il tono più irato. La seguì il silenzio.
Laura si sforzò di guardare, ma non c’era più nulla da vedere, solo un vuoto nero che si muoveva verso di lei, come fluttuando a qualche millimetro dal suolo.
Si voltò, cercò di correre via, e si ritrovò al centro del cerchio in movimento.
Chiudi gli occhi, non tremare
«Shh! Non preoccuparti, sono solo io».Le bambine le giravano attorno e l’ombra avanzava lenta e inesorabile.
Lui non vuole farti male
«Sei la mia bambina, lo sai che sei la mia bambina.»E la bambina dai capelli scuri, passandole accanto, la guardava con gli occhi di sua madre, avvolta nel suo vestito nero, così simile a un paramento funebre.
Qui con noi riposerai
«Tranquilla, non ti faccio niente.»E le altre bambine, guardandole bene, erano tutte identiche. Erano tutte le stessa bambina. Erano tutte lei.
E mai più ti sveglierai.E sui loro abiti bianchi, bassi sul ventre, sbocciarono improvvisi fiori rossi che si aprivano come al rallentatore. Solo che non erano fiori, e nessun sogno o fantasia le avrebbe permesso di non riconoscere il colore e l’aspetto del sangue.
E come sempre la testa prese a girarle, il respiro le venne meno, solo che questa volta c’era qualcosa a impedirle di respirare, di nuovo, un cuscino premuto contro il viso.
«Non urlare, non vorrai svegliare la mamma.»Si sentì venir meno. A stento realizzò che le pareti della chiesa non c’erano più, che si trovava nel mezzo del campo, e proprio mentre le gambe le cedevano e si afflosciava al suolo vide quello che nel sogno non era mai accaduto, le bambine che concludevano la loro filastrocca lasciandosi cadere in terra, e svanendo nel nulla.
Solo la bambina vestita di nero era ancora lì, rannicchiata tra le erbacce ingiallite, e affondava lenta nel terreno.
Lenta come l’ombra che ancora avanzava, attraversando la nebbia che le stava offuscando la vista. Si sforzò di tenere gli occhi aperti senza riuscirvi. Sentiva la coscienza scivolarle via e sapeva che non sarebbe più tornata.
Qui con noi riposerai
E mai più ti sveglierai.Gli ultimi versi della filastrocca le risuonarono nella testa e finalmente li comprese.
Poi sentì un tonfo proprio davanti a lei. Un soffio caldo le sfiorò le narici, solleticandogliele. Era umido e aveva un vago retrogusto di zenzero.
Riuscì a sollevare le palpebre, e vide una schiena, piccola e ingobbita ma solida. La donna voltò la testa verso di lei, coi ricci argentei a stento contenuti da un foulard, e le strizzò l’occhio da dietro un paio di occhialini tondi prima di tornare a rivolgersi verso l’ombra scura.
«Fatti da parte» sibilò questa.
La donnina non si mosse. Prese a due mani la vecchia ramazza che aveva con sé, la sollevò e la piantò nel terreno in verticale. Da qualche parte, in lontananza, si udì un tuono, e più vicino la sua voce imperiosa. «Tu. Non puoi. Spazzare. Anche perché la scopa ce l’ho io».
Solo che d’un tratto non era più una scopa, anche se dire cosa fosse sarebbe stato impossibile, almeno per Laura. Sembrava ogni arma che fosse mai stata concepita e nessuna, sembrava luce bianca e purissima e oscurità profonda. E, nell’assurdità della situazione, sembrava anche un piatto di biscotti freschi di forno, talmente friabili da sciogliersi in bocca.
Sentendone il sapore sulla lingua, Laura si abbandonò e richiuse gli occhi.
Si risvegliò da sola in mezzo al campo, la luna piena la guardava dall’alto e taceva. Tutto taceva.
Si guardò intorno. Non c’era nessuno.
Puntò lo sguardo accanto a sé, dove aveva visto la bambina in nero lasciarsi cadere e poi affondare nel terreno un centimetro alla volta.
Vi si gettò carponi e iniziò a scavare.
«Scusami, scusami se ti ho fatta aspettare così tanto».