Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

SKANNATOIO 44, Un bel po' di spazio

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view post Posted on 24/7/2016, 20:55
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Bravissima Shanda :)

Manca ancora una settimana. Come state messi?
 
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view post Posted on 25/7/2016, 11:06
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Losco Figuro

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CITAZIONE (reiuky @ 24/7/2016, 21:55) 
Bravissima Shanda :)

Manca ancora una settimana. Come state messi?

Questa la salto
 
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view post Posted on 25/7/2016, 11:38
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CITAZIONE (CMT @ 25/7/2016, 12:06) 
CITAZIONE (reiuky @ 24/7/2016, 21:55) 
Bravissima Shanda :)

Manca ancora una settimana. Come state messi?

Questa la salto

:( Peccato.

Ma problemi con le specifiche o problemi personali?
 
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view post Posted on 25/7/2016, 17:34

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Ciao Reiuky,
grazie. E' stato un piacere.
 
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atacama21
view post Posted on 29/7/2016, 20:55




Qua che succede?
 
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Erron.Black
view post Posted on 29/7/2016, 22:26




Ciao a tutti,

ho mandato una mail coi miei dati a Master Runta, che ha risposto subito e con cortesia, ma mi ha rimandato a White Pretorian, cui ho spedito un pm poc'anzi con gli stessi dati. Non appena avrò conferma dell'avvenuta ricezione, pubblicherò il mio raccontino.
;)
 
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view post Posted on 29/7/2016, 23:09
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CITAZIONE (Erron.Black @ 29/7/2016, 23:26) 
Ciao a tutti,

ho mandato una mail coi miei dati a Master Runta, che ha risposto subito e con cortesia, ma mi ha rimandato a White Pretorian, cui ho spedito un pm poc'anzi con gli stessi dati. Non appena avrò conferma dell'avvenuta ricezione, pubblicherò il mio raccontino.
;)

Ciao Erron.

Ti do il permesso di pubblicare il racconto anche subito. WP non sarà presente fino a settembre.
 
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Erron.Black
view post Posted on 30/7/2016, 08:57




CACCIA INFERNALE
di Mino Dellisanti

Nel periodo in cui andavo per città, armato solo di liuto e di speranza, decisi di fare sosta presso un caseggiato a due o tre miglia dalle mura di Pisa. Da poco avevo lasciato la casa di mio padre, ero un fanciullo appena svezzato e troppo poco sapevo del mondo. Fu dopo quella notte infernale che intuii quanto l’uomo sia poca cosa in confronto a quel che lo circonda.

Cercavo rifugio dopo aver vagato tutto il dì per le vie di Pisa in cerca di un ricco crapulone che mi assumesse per allietare i banchetti, e sul calare della sera, col borsello dissanguato, mi recai dove ero certo di trovare cibo e alloggio a buon mercato. In groppa al mio asinello raggiunsi il caseggiato sul calare della notte, quando il vento notturno sollevò una puzza maligna di legna e resina bruciate.

Mi ritrovai su un viali circondato da un paio di dozzine di tuguri. Quel viale era l’unica strada del paesotto, e collegava la porta di Pisa a una chiesetta polverosa che faceva da perno a tutto i caseggiato. E proprio davanti alla chiesetta un frate con la chierica di ciocche arrugginite e ramificate arringava alla sua gente: un’antologia di facce sozze, denti marci ed escrescenze carnose grosse come nocciole.

«… e Iddio stamane ci ha solo ammonito, ma se non lo cacciamo ora, stanotte piangeremo lacrime acide. Il proietto di Dio è l’avvertimento, ma quale piaga ha in serbo per noi il demonio io non ho desiderio di conoscerla!»

Il frate, gli occhi appallottolati, aizzava il suo indice in direzione della macchia boschiva alle spalle della basilica, da cui scorsi sottili filamenti di fumo svolazzare intorno alle chiome degli alberi, ma per il momento decisi che non mi importava, volevo solo riscaldarmi la gola e far riposare le ossa della schiena, così portai l’asinello accanto a un bel palafreno che mangiucchiava erbetta insieme a tre o quattro muli legati davanti alla taverna.

Mi infilai oltre la porta zoppa, la nebbia di esalazioni alcoliche e umane che ricoprivano il soffitto come seta grezza quasi mi accecò. Fui salutato dal rutto di un porcaro col naso fiammeggiante. Non era una notte da passare a gozzovigliare. Nella sala c’erano cinque, forse sei lavoranti che si intontivano dopo fatiche nei campi, con le loro braghe infangate, le casacche di cuoio conciato lerce di sudore e sangue di maiale. L’oste si affannava in giro per le panche a raccogliere i boccali e a smuovere i morti di sonno per farsi pagare.

E poi c’erano loro.
Una compagnia di cinque persone, uno bardato di tutto punto e gli altri che erano i suoi garzoni, occupavano un’intera tavolata. Il signore della tavolata brillava su gli altri quattro come una stella in mezzo ai tizzoni spenti. Largo di spalle due volte la mia persona, e mi superava in altezza di un’altra testa e mezza. Il volto fanciullesco e le rughe precoci, insieme a una cicatrice sotto l’occhio, mi raccontavano che era ancora nel mezzo del cammino della vita sua, ma preoccupazioni e qualche battaglia lo avevano invecchiato prima del tempo. Ho ancora negli occhi, vivida, la lucentezza della zazzera, gialla e pallida come la farinata. Parlava ai suoi garzoni, che ascoltavano rapiti la voce al sapor di giglio fiorentino. Mangiava un polletto arrosto che spolpava con una sica da duello, e si muoveva con agio nonostante indossasse la pettorina di metallo. Spezzettava le ossa con pollice e indice, da cui succhiava l’unto con discrezione, senza fare rumori molesti. Lasciò che un garzone gli versasse il vino bianco, e mosse la mano di taglio quando gli bastò, ringraziando il garzone con un cenno muto.

Ai piedi della tavolata il suo scudo ammaccato e graffiato, ma con l’arme disegnatovi ancora vivace e squillante alla luce di quelle poche candele gobbe. Partito, d’oro la prima metà con l’aquila nera che dispiega l’unica ala visibile, e scaccato d’oro e d’azzurro la seconda. Avevo visto quell’arme quando visitai una giostra a Firenze due anni prima, e fremetti al ricordo del nome che l’araldo aveva pronunciato all’ingresso di quello scudo nell’arena: era uno degli Uberti di Firenze!

L’oste mi picchiò in spalla. «Embè, che vuoi mangiare?» Mi ripresi dalle mie fantasticherie, mi appollaiai meglio sullo sgabello e poggiai la cetra per terra, tra le caviglie. Le guance dell’oste penzolavano come quelle di un mastino quando parlava.

«Ce l’hai miele e camomilla?»

La camomilla riscalda la gola, e il miele carezza le mie corde vocali, mentre il vino risale di notte dallo stomaco e brucia tutto ciò che trova, e poi al mattino sono senza voce. Fui servito, ma ero emozionato come il fanciullo che ero, tanto era il piacere di essere al cospetto di siffatto individuo. Solo il fatto che mi ignorasse mi onorava.
Intanto ululati di vento penetravano nella taverna dalle finestre e spegnevano le candele. Una civetta venne a posarsi sul davanzale, nel becco stringeva un ratto per la coda verminosa. Venne a gustarselo proprio tra le imposte della finestra sotto al quale stavo sorbendo la camomilla: affondò l’uncino del becco nel ventre gonfio del ratto e ne estrasse le budella filamentose. Io distolsi lo sguardo e tornai a badare al resoconto della battaglia che il nobile stava facendo ai garzoni.

Sentii arrancare un esercito di stivali sul selciato, il vociare e il clangore dei forconi. La civetta si librò in volo spargendo il sangue della preda quando le bolle fiammeggianti delle torce rischiararono la penombra dove lei si era rifugiata.

Il frate con la chierica stravolta irruppe nella taverna col crocefisso brandito nella destra e l’indice sinistro puntato contro il nobile. Insieme a lui, altri due popolani, e alle loro spalle intravidi le torce, i forconi e mezza dozzina di teste contadine rabbiose.

«Manente, eretico schifoso!» sbraitò il frate «L’inferno t’inghiotta insieme a quel ghibellino di tuo padre!»

«Deh, come rovinarmi la digestione» sogghignò il nobile Manente. I garzoni risero con lui.

Uno dei due che affiancava il frate mostrò, agitandolo in aria, un lembo di lana con una densa chiazza di sangue. «La tua presenza istiga Satana e fa infuriare Iddio, che fa piovere sassi dal cielo. E ora anche questo!»

Il nobile di Firenze si levò dalla sedia, scrollò le briciole di pane dalle gambe, si coprì con la cappa e avanzò in tutta calma. Io, col mio boccale di camomilla fumante tra le mani, rimasi al mio posto, come anche i garzoni, che si scambiavano occhiatine gravi e frasi a mezza voce.

«Tutto quello che vedo» disse Manente «è la dimostrazione che da stanotte avete una vergine in meno e una donna in più nel paese. E comunque non mi sono mosso da qui, l’unica cosa che ho sverginato stanotte è un polletto ruspante che vorrei terminare–»

«Il demonio ha preso la figlia del vignaiolo» abbaiò il contadino. «Nella sua cameretta si è addensata la puzza infernale del proietto di Dio, e la sentiamo gridare dal bosco. È il demonio amico tuo che la violenta!»

Qualcuno della marmaglia insultò il fiorentino, ripeté le stesse accuse e osò qualche blasfemia. Il nobile Manente rimase ritto, le braccia ai fianchi. «I vostri figli si imboscano, fornicano, chissà che orge fanno, e voi date la colpa a me.»

«Non osare!» Il frate schiaffeggiò Manente, che gettò un sospiro bovino, ma mantenne le sue mani sul cinturone, i pollici infilati nelle fibbie.

«Sta bene, vecchio imbecille» disse. «Si va tutti a cercare la giovane, e vedremo se avrà ancora la sottana.» Si fece allacciare il falcione al fianco, mentre anche noi della taverna ci armavamo di lanterne per unirci alla gente – poco più di una dozzina di fattori – Manente degli Uberti e il frate in testa. «Se sarà come immagino» aggiunse Manente mentre ci addentravamo nel bosco «chiederò soddisfazione a ognuno di voi per mezzo della spada.»

Ci affollammo intorno al proietto di Dio. Gli abitanti del borgo l’avevano inteso come l’ammonimento di Dio, ma non credetti che il Signore conservasse nel cielo qualcosa di così brutto e informe. Lo vedevo per la prima volta: un chicco di grano abbrustolito, grosso e largo quanto un calesse. Era affondato nel terreno per metà, circondato dai ciocchi carbonizzati e cenere delle fronde che aveva incendiato alla caduta. L’odore era quello di funghi acidi e stallatico espulso da capre moribonde.

Manente applaudì. «Non vedo né satiri cornuti, né bellezze campagnole in lacrime.»
Un garzone di Manente esaminava alla luce della lanterna lo spacco che attraversava il chicco gigante dalla punta alla poppa, tastò con decisione la superficie scagliosa, infilò due dita nella fenditura e le ritraesse subito, unte di fanghiglia verdastra. Non appena se le annusò, ebbe un conato e vomitò vino e pollo rimestati insieme.

Una cordone carnoso strisciò fuori dalla fenditura e palpò il terreno, come un cieco in cerca di ostacoli. Mi ricordava il tentacolo di un polpo, ma la consistenza mi dava l’idea di un groviglio di rampicanti. Da dentro il baccello volante provenivano sinistri cigolii.
Facemmo tutti un passo indietro.

«Questa è la culla di un diavolo!» inveì il frate, poi alzò le braccia e gridò «Figlioli, cristiani, facciamo di questa culla la sua tomba!»

La marmaglia di cristiani infervorati si avventò sul baccello con i loro ferri. Le punte dei forconi si spaccavano all’impatto. Quelli dotati di torcia ammassavano sterpaglia e legna secca intorno al baccello, e poi l’appiccavano. I crepitii all’interno si facevano più disperati con l’aumentare degli urti e del calore, poi il proietto prese a sussultare, la fenditura si deformò e ne sgusciò fuori l’inquilino: sottile e nodoso come il fusto di una vite, strisciava su un paio di tentacoli, e altre tre paia di appendici serpeggianti gli facevano da braccia. Aveva per testa il bocciolo di una campanula, ma fatta di petali di carne, che dischiuse mostrandoci un vortice di piccoli rasoi triangolari. Emise un fischio.

«È lui, il–»

L’ultima parola del frate soffocò tra i petali carnosi della campanula demoniaca, che premette fino a che non sentimmo tutti il frantumarsi di quel cranio santo. Dalle fessure nauseanti dei petali sgorgò il sangue dell’uomo, il cui corpo cadde sulle ginocchia senza più la testa intera: ne rimaneva solo qualche rimasuglio di mandibola ancora attaccata al collo.

Grida, gomitate, terrore negli occhi. La folla si disperse; i cristiani, che fino a un minuto prima sembravano decisi a scendere nei meandri infernali per tirare dalle corna Satana in persona, ora fuggivano ognuno in una direzione, come pecore instupidite dalla lingua irritata dall’ortica. Io fui buttato a terra da un fattore e per fortuna la lanterna non mi si frantumò tra le mani. Io ero a terra, ma anche Manente degli Uberti era rimasto, e fronteggiava il demone bavoso brandendo il falcione. Giravano intorno al corpo del frate, uno di fronte all’altro. Si studiavano.

Il demone strappò le braccia al frate con due dei sei tentacoli, facendone randelli con cui provò a colpire Manente, che evitò il primo ma incassò il secondo sul petto. Menò un fendente, e prima che potesse ritirarlo, il mostro aveva perso un tentacolo. Come la coda delle lucertole, il tentacolo mozzato si contorse prima di stramazzare sulla roccia.

Manente parava le frustate di muscoli morti e rispondeva di montante e di lato, senza scoprirsi troppo. Danzava sulla roccia e sulla terra, schivava i tentacoli, tentava l’affondo. Il vento che tanto avevo maledetto quella notte ci veniva in aiuto, perché sbilanciava il gracile fusto del mostro e innalzava le fiamme appiccate sulla sterpaglia.

Ci pensai solo quando vidi una fiammata sollevarsi spinta dal vento.
Le piante bruciano in fretta, e io stringevo ancora la mia lanterna ad olio. La scaraventai a caso, spaventato com’ero, e pregai di non centrare in testa Manente. L’ampolla di vetro esplose sulla corolla della campanula demoniaca e l’olio si sparse sui suoi mefitici petali. Stridette alla luna maledizioni in chissà che lingua infernale, poi Manente gli tranciò di netto il fiore dal resto del fusto. Linfa nerastra e fumosa schizzò sulla terra. Il corpo vigniforme si dimenò per due o tre minuti, prima di esaurire il liquido che lo irrorava e morire del tutto.

Manente si mise a sedere su uno spuntone di roccia e io lo raggiunsi.

«Da qualche parte» disse Manente «Lucifero starà piangendo un suo pargolo.»

Gli offrii il mio braccio per riaccompagnarlo in paese, da eroe, quando udimmo il grido di una fanciulla provenire dal fitto della tenebra. Manente sguainò ancora il falcione, pronto a ricominciare la lotta, quando il fuoco ci permise di distinguere la figura ingobbita della giovane popolana che zoppicava tenendosi la pancia col solo braccio destro, mentre agitava ciò che restava del sinistro. Accorremmo e l’aiutammo a stendersi. Ancora rabbrividisco alla sensazione del moncherino maciullato dell’avambraccio, ulna e radio scarnificati. Si appigliò al mio collo e mi unse di sangue e viscidume infernale.

Piangeva, parlava col nodo alla gola, chiedeva perdono per quello che aveva permesso che le facessero, ma non potevamo immaginare cosa le avesse fatto quel mostro. Solo al mattino ci fu chiaro cosa le aveva fatto, e la nausea mi prende ancora adesso, quando ci penso.

Lei continuava a darsi colpi nella pancia gonfia come se fosse gravida. Si accaniva così che sembrava volersela spremere, e si dimenava per le fitte che si provocava da sola. «Mi brucia! Fatelo uscire da me! Fatelo uscire, vi prego!» strillava.

Manente le strappò la veste: la pancia era liscia, piena e la pelle era tesa come se fosse davvero incinta, ma poi il ventre giovanile ebbe un sussulto, e vidi qualcosa serpeggiare sotto la pelle vergine. Manente e io ci fissammo, poi mi feci il segno della croce, mentre lui impugnava il falcione alla rovescia. Mi inginocchiai sulla fanciulla, chiusi gli occhi e posai la mano sulla fronte rovente e appiccicosa. E mentre io pregavo Dio perché fosse pietoso con lei, Manente pose fine alla sua agonia.
 
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view post Posted on 30/7/2016, 19:17
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Ottimo. Siamo a due.

Spero che si aggiunga qualcun altro, altrimenti è un po' un problema :)
 
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Valter Carignano
view post Posted on 31/7/2016, 22:30




Ciao a tutti
ecco il mio racconto. Speravo di avere più tempo per rifinirlo e magari fare qualche aggiunta, il lavoro non me lo ha permesso ma ci tenevo a cominciare a partecipare.
Essendo nuovo devo mandare anche una mail al moderatore per i miei dati, giusto?

__________

Il segreto di De Amicis

Pinerolo, 16 dicembre 1898
Ciau, nè. A dumàn! – La porta della Società Operaia di Pinerolo si chiuse dietro Giacu Oddoero, come sempre l'ultimo ad andarsene. Quella sera si reggeva ancora sulle gambe, il barbera gli faceva da scudo contro il freddo e come sempre non aveva voglia di andarsene a casa.
‘Chissà se Toni è ancora aperto’, pensó. Superò il duomo, barcollante ma deciso, poi svoltó su per via Principi d’Acaja.
Solo la pioggia e i suoi passi risuonavano sul selciato.
Continuò per le stradine buie salendo verso la collina, si fece il segno della croce davanti al convento, e alla luce di quella lanterna sempre accesa gli sembrò di vedere qualcuno, un po' più su.
– Ehi, arrivi da Toni? È aperto? – gridó. Ma non c'era più nessuno, forse era entrato in un portone.
Mah.
Giacu cominciava a essere stanco, ma non voleva andarsene a dormire senza un ultimo bicchiere. Arrancò verso l'alto, era quasi sul piazzale quando un movimento lo fece voltare.
Un uomo non molto alto, con indosso un mantellone, gli si stava avvicinando lentamente. Il buio era quasi totale.
– Ah, ci hai ripensato – disse Giacu. – Allora andiamo a farci un sorso?
L'uomo non rispose.
– Non rispondi. Il gatto ti ha mangiato la lingua? – Cominciò a ridere alla sua battuta, non aveva mai avuto la sbornia triste.
L'uomo ora era accanto a lui. Giacu sentì un odore come di cantina e di carne andata a male. – È un bel po' che non ti lavi, eh? – disse, continuando a ridacchiare. La mano dell'uomo scattò verso di lui.
– Ehi, dicevo per dire, senza offesa – farfugliò mentre veniva sollevato da terra. L'uomo lo scagliò contro il muro, Giacu sputò fuori tutto il fiato che aveva e si accasciò a terra. Il dolore gli fece passare la sbornia.
– No. Lasciami, non ho niente. Soltanto... – Si frugò nelle tasche. – Solo queste poche monete. Ti prego.
Di nuovo l’uomo lo sollevò, i loro volti erano l’uno accanto all’altro. Giacu sbarrò gli occhi, cercó di divincolarsi. L’altro aprì la bocca e gli squarciò la gola.

Torino, circa un mese prima
– Professore, ci sono… delle persone che vorrebbero vederla.
Edmondo de Amicis sollevò la testa dalla lettera che si apprestava a scrivere, posò la penna di fronte a sé in modo che fosse perfettamente parallela al foglio di carta e guardò la cameriera.
– Non avevano un appuntamento – disse, rigido. – E tu sai che quando lavoro non desidero essere disturbato.
– Sì, professore. – La cameriera chinò la testa, continuò a voce più bassa. – Ma sono dei gendarmi.
– Gendarmi? Questo è strano. – De Amicis si versò un sorso di vermouth e acqua, lo assaporò lentamente, si asciugò i grandi baffi all’umberta da goccioline inesistenti e si appoggio allo schienale della sedia. Me l’avrà mandati quella maledetta di Teresa. Che coraggio, denunciarmi! Adesso gliela faccio vedere io.
– Beh, allora falli pure accomodare qui, Lucia. Non sia mai detto che si facciano attendere i servitori dello Stato.
La cameriera fece un piccolo inchino e uscì. De Amicis contrasse la mascella. Calmo, devo stare calmo. Riprese la penna, la intinse nel calamaio e si rimise al lavoro.
Carissimo
anch’io penso che sia venuto il momento di una nuova ristampa di ‘Cuore’.
Le parole sprezzanti di quel poetucolo di Carducci, invidioso
e forse anche mercenario al soldo dei nemici della Patria,
non hanno fatto che aumentare la popolarità del libro, e d’altra parte
– Prego, signori. – La cameriera aprì la porta e di sottecchi de Amicis vide entrare un gendarme in divisa e uno in borghese, forse un commissario. Gli parvero imbarazzati.
– Buongiorno, signori – li salutò, senza alzare la testa. – Solo un istante, per favore.
questa nostra Italia ha bisogno dei miei libri,
in modo che le nuove generazioni vengano formate
e crescano negli autentici valori di unità e di onore.
Senza fretta, mise nuovamente la penna parallela al foglio e alzò lo sguardo.
– Ecco. Posso offrirvi qualcosa? Chiamo subito Lucia. – La sua mano si mosse verso il campanello sulla scrivania.
– No, professore, grazie – rispose l’uomo in borghese, il cappello in mano. – Sono il commissario Reinaudo e… – s’interruppe, incerto. – Vedete, professore, è successa una disgrazia.
– Una disgrazia?
– Sì. Il brigadiere Broni, qui presente, poco fa era di servizio al Valentino, ha sentito uno sparo e… – strinse il cappello, si schiarì la voce. – Vostro figlio Furio, professore. Sembra si sia dato la morte.
De Amicis rimase immobile, il respiro bloccato. Reinaudo lo vide diventare bianco come i fogli che aveva di fronte.
– Professore, sta bene? – Un cenno e Broni gli si portò al fianco, veloce. Prima che il brigadiere potesse fare qualcosa, De Amicis alzò un poco la mano. Sbatté qualche volta le palpebre.
– Furio? – chiese, con un filo di voce. Poi, con più decisione: – È uno sbaglio. Qualcuno gli ha rubato portafogli e documenti. Mio figlio non è tipo da compiere simili atti da codardo.
Reinaudo chinò la testa. – Mi dispiace, professore. Nessun dubbio – Guardò l’uomo che stava seduto alla scrivania, vide i suoi occhi correre agitati da lui al brigadiere, alla ricerca di una speranza che loro non potevano dargli.

Al funerale erano in pochi. De Amicis aveva insistito molto con i suoi amici della Gazzetta del Popolo perché non venisse dato spazio alla notizia. Troppo scandalo, troppo disonore.
Anche Teresa, sua moglie, non lo disse se non alle amiche più intime, sebbene i suoi motivi fossero diversi.
Si sentiva in colpa, per la morte del figlio.
Forse, se lei ed Edmondo avessero continuato a stare insieme, se non avessero litigato così tanto quando Furio e Ugo erano piccoli, se lei fosse riuscita a... No. Aveva imparato a sue spese che Edmondo era un uomo totalmente egoista, pieno di sé, un maledetto mulo malvagio. Aveva sempre sminuito le doti di poeta del figlio, una continua umiliazione che alla fine il giovane non aveva più potuto sopportare. E lei era stata esclusa, il marito aveva brigato fino a cercare d’impedirle di vedere i suoi figli. Cosa avrebbe potuto fare lei contro il grande De Amicis, l'uomo che aveva unito l'Italia coi suoi libri, il paladino dei lavoratori? Come avrebbe potuto smascherare le sue menzogne, il suo falso perbenismo ?
Ma tutto questo non faceva che aumentare il suo dolore, e preferiva piangere il figlio da sola, senza sconosciuti intorno.
Si mise dalla parte opposta del marito, alla sinistra del prete, e se ne andò per prima.
All’ingresso del cimitero, un piatto di bronzo raccoglieva i biglietti di condoglianze di coloro che avevano saputo ma che rispettavano il desiderio di solitudine della famiglia. In carrozza, di ritorno a casa, De Amicis diede loro una scorsa: nomi della Torino bene, gli editori, i dirigenti del partito. E uno sconosciuto, un certo Manfred Keller. Il biglietto era di carta pregiata e stampato in rilievo, con caratteri dorati.
Improvvisamente, le lacrime che non voleva versare in pubblico trovarono la loro strada, e finalmente Edmondo De Amicis pianse il figlio nella penombra della sua carrozza.

Il mattino dopo, Lucia bussò piano e mise appena la testa nello studio.
– Professore, un signore viene a porgervi le sue condoglianze e domanda se potete vederlo – Accennò il segno della croce. – Dice... dice che ha informazioni importanti su Furio.
De Amicis sbatté gli occhi. Non era andato a letto, l’unica luce dello studio era il chiarore giallognolo della lampada a olio. Furio! Allora lui aveva ragione, suo figlio non era un codardo, non si era ucciso!
– Fallo passare – ordinò, brusco. Poi la voce si fece incerta. – No. Prima... prima fai entrare un po' di luce e aria. Grazie, Lucia.
La cameriera si bloccò per un istante. Non ricordava un'altra occasione in cui il professore l'avesse ringraziata. Aprì le imposte, entrarono la luce e i rumori della strada.
De Amicis si versò un vermouth liscio.
– È permesso, professore? – chiese una voce tenorile, con un leggero accento tedesco.
– Prego, signor Keller. Accomodatevi. Lucia, il caffè. Voi lo gradite, vero?
– Sì, grazie, professore.
De Amicis osservò Keller. Ben vestito, alto, circa quarant'anni, ogni movimento denotava ottima educazione, forse un’ex militare di carriera.
– Professore, permettetemi innanzitutto di porgere di persona le mie più sincere condoglianze. E nel contempo vi voglio assicurare che non mi sarei presentato a lei oggi, se quanto mi sento in dovere di dirle non fosse della massima e assoluta urgenza.
Entrò Lucia col caffè e qualche pasticcino.
– Puoi andare, Lucia. Signor Keller, lei ha informazioni su mio figlio. Può comprendere come, nella mia situazione, sia ansioso di conoscerle. – Non riuscì a trattenersi oltre. – Lei sa chi ha ucciso Furio?
Keller esitò.
– Professore, mi permetta di spiegare il motivo per cui sono qui.
La sua voce si fece suadente, quasi ipnotica. Gli occhi chiari fissavano il professore. – Sarò diretto, siamo uomini e non è mia abitudine celarmi dietro il fumo delle parole. Non sono qui per seppellire suo figlio, ma per riportarlo in vita.
– Ristabilire il suo onore. È quello che voglio anch'io.
– No, professore. Riportarlo alla vita reale, come se nulla fosse accaduto. La morte può essere vinta.
De Amicis per qualche istante non riuscì a staccarsi dalla morsa di quegli occhi. – Voi siete pazzo – mormorò.
Keller si sporse avanti sulla sedia. – Lei è un uomo colto, e qui a Torino c'è un tesoro che soltanto pochi sanno padroneggiare. Sto parlando del Libro dei Morti degli antichi egizi. Non è una raccolta di formule, un patetico breviario da prete di campagna. Per chi ne conosce la chiave, il Libro racchiude il segreto della vita, quello che i sacerdoti di Osiride donavano ai faraoni.
La sua voce era intensa, dotata di un fascino arcano.
– Lei sa che molti sarcofagi sono stati trovati vuoti? Sigillati, eppure vuoti. Perché lo sono sempre stati. Sempre! Era necessario mantenere il segreto, in modo che la preziosa conoscenza mistica non cadesse in mano ai nemici del Regno, e in taluni sarcofagi vennero allora inumati dei servi, così da trarre in inganno chi avesse violato i templi.
Le piramidi non sono tombe, professore, ma questo non ha interesse per noi due, ora. Ciò che conta è che quelle conoscenze non sono perdute, e io le posso utilizzare per riportare in vita suo figlio.
De Amicis aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Strinse i pugni. – Voi siete pazzo. Fuori dalla mia casa. – Suonò per chiamare Lucia.
Keller assentì col capo e sorrise. – Pensateci, professore. Potete trovarmi all’albergo della Dogana Vecchia.

De Amicis non riusciva a darsi pace.
Chi era questo maledetto pazzo? Era entrato in casa sua per… per cosa? Come poteva pensare che lui avrebbe creduto alle sue fandonie. Riportare in vita Furio! Il suo amato Furio.
No, non lo amavi, gli gridava la voce della moglie nella testa. Hai fatto di tutto per farlo sentire un incapace, lo hai spinto a studiare medicina invece che lasciare si dedicasse alla poesia. Lo hai umiliato ogni singolo giorno della sua vita. Tu, tu l’hai ucciso!
Taci, maledetta. Tu l’hai soffocato col tuo amore possessivo, tu gli hai impedito di crescere come un vero uomo.
Vero uomo! Ma smettila, non ci credi nemmeno tu a queste baggianate. Sono solo buone a farti bello in giro, a vendere frottole agli operai mentre vai a cena coi padroni! Falso. Falso e assassino di tuo figlio!
Zitta. Zitta o ti ammazzo!
Provaci, se hai coraggio. Vediamo se sei un ‘vero uomo’.
Maledetta! MALEDETTA!
Lucia sentì un tonfo. Spalancò la porta dello studio. Il professore era a terra, semisvenuto, con una ferita alla testa. Chiamò gli altri servi, lo portarono a letto.
– Furio… Furio, perdonami… - mormorava, mentre lo spogliavano.

– Allora, ci avete riflettuto? – Keller sorseggiava un bicerìn, seduto sotto in una saletta riservata del caffé Florio.
De Amicis era pallido, la palpebra dell’occhio destro tremava, vittima di un fremito intermittente e incontrollato. Rispetto a due giorni prima sembrava invecchiato di dieci anni.
– Voi… – la sua voce era roca, stentata. – Voi avete detto che potete far tornare mio figlio. Come? E perché io?
Keller si prese il tempo di finire di bere. – Questa vostra specialità è inarrivabile, nemmeno a Parigi ho potuto gustare una cosa simile – I suoi occhi si puntarono in quelli del professore. – Il ‘come’ non potete comprenderlo. Ma capisco che temiate io sia un truffatore a caccia di danaro… bene, sappiate che il Libro può essere letto in due direzioni: la prima è quella usuale, quella della morte, con le preghiere per ingraziarsi gli dei dell’al di là. L’altra è quella opposta, quella della vita, e la combinazione dei simboli geroglifici dà luogo a formule in una lingua segreta, conoscendo la quale è possibile preparare l’Elisir. – Fece una pausa. De Amicis non si mosse.
– E perché voi? Perché ci vuole denaro, per procurarsi tutto il necessario, ci vuole riservatezza, e perché io ho bisogno di sicurezza. Sicurezza, per esempio, che una volta rubato il cadavere di vostro figlio dal cimitero voi non vi tirerete indietro. Mi pagherete se la cosa riuscirà. In caso contrario, non perderete nulla. Accettate?
De Amicis assentì.

Arrivarono al cimitero poco prima dell'una. Il custode li aspettava, nascosto nel buio.
Senza una parola, condussei due operaiassoldati da Keller alla tomba. Era scavata di fresco e contrassegnata soltanto da una lapide, in attesa che la statua funebre voluta dalla madre fosse pronta.
– Io me ne vado – sussurrò. – Chiudete, quando uscite.
I due uomini sogghignarono. – Come sempre, no? – disse il più alto, e si misero al lavoro. Rimossero il marmo, scavarono e tirarono su la bara. Si coprirono naso e bocca con un fazzolettone imbevuto di lavanda, senza difficoltà svelsero i chiodi e scoperchiarono il feretro.
Il cadavere di Furio li attendeva, puzzolente ma pulito e ancora integro. Lo spostarono nella cassa che avevano portato con sé, poi rimisero tutto a posto: coperchio, bara e marmo. In poco più di mezz'ora erano fuori.
La carrozza li aspettava nascosta in una macchia, poco distante dalla fabbrica di sigarette.
– Bravi. Caricate, ché fra poco passa la ronda. – disse Keller.
– No. Voglio vederlo. – intervenne De Amicis, da dentro la carrozza. Gli uomini si fermarono, Keller esitò. Un'ombra d'ira gl'incupì il volto per un'istante.
– Certo, professore. – La sua voce era calma e accondiscendente, come sempre. – Ma faccia presto, abbiamo poco tempo. Non vorrei che lei facesse brutti incontri.
De Amicis scese con cautela, il fremito all'occhio non lo abbandonava e faceva fatica a vedere.
– Prego, signore. – ridacchiò l'uomo alto, dando di gomito al compagno che stava approfittando della pausa per farsi un sorso di grappa. Quello sputò, sollevò un poco il coperchio della cassa e avvicinò la lanterna cieca. De Amicis strinse i denti per l'odore di morte.
– Furio... – mormorò.
– Soddisfatto? – domandò Keller. Diede un sacchetto di monete ai due. – Ragazzi, questo è per voi. E ricordate che non ci siamo visti.
I due ridacchiarono e fecero un ridicolo inchino.
La carrozza parti al galoppo per la casa di campagna del professore.

Pinerolo, 16 dicembre 1898
De Amicis scattò non appena udì il colpo sulla porta del giardino. Corse ad aprire, l’uomo con indosso il mantellone entrò, poi rimase fermo al centro della stanza.
Il professore accese una lampada. – Che brutto tempo, eh? Ora ti tolgo questo pastrano bagnato e ti metti a sedere vicino al fuoco, va bene? Su, vieni.
Accompagnò l’uomo davanti al camino acceso. Notò le macchie di sangue sul mantello, ci pensò qualche istante e poi lo gettò nel fuoco.
– Sei andato a caccia? Keller me l’aveva detto, che il cervello non era più in buono stato: la pallottola, i giorni trascorsi dalla morte… ma cosa importa, eh, Furio? L’importante è che tu sia vivo.
De Amicis si sedette su una poltrona di fianco al figlio e chiuse gli occhi. Il fremito della palpebra ormai non si arrestava più nemmeno nel sonno.
 
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view post Posted on 1/8/2016, 07:19
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Grazie Valter.

Con te siamo in 3 e (anche se un po' pochi) lo skanna si tiene.

Avete fino al 21 agosto per leggere e commentare.

Per quanto riguarda la tua domanda, aspetta un attimo: stiamo cercando di capire se questa regola ha senso mantenerla :)
 
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view post Posted on 1/8/2016, 11:35

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Ciao a tutti , ecco i miei commenti:
CACCIA INFERNALE di Mino Delisanti

L’ambientazione è di epoca dantesca. La rendi con tratti efficaci (nel linguaggio, che rimanda alla “Divina Commedia”, il riferimento ai ghibellini, la figura di Manente degli Uberti) anche nell’ambientazione dell’osteria e della campagna circostante. Il luogo, ben riconoscibile, è Pisa. La vita già dura della gente, a partire da quella dell’aspirante menestrello, viene turbata ulteriormente da un orrore piovuto dal cielo (il “proietto” di Dio del quale parla il frate). L’orrore del campo è inedito (un chicco di grano annerito grande come un calesse, abitato da una creatura dall’aspetto di tralcio di vite, ma con tentacoli al posto dei piedi e appendici infuocate dove dovrebbe avere gli arti superiori e una testa a campanula dotata di rasoi). La creatura in questione ha rapito la figlia del vignaiolo e per fini riproduttivi (descrivi molto bene lo stato della fanciulla, a partire dal braccio amputato fino all’orribile gravidanza finale, che lei stessa implora di interrompere. E viene accontentata.

Refuso: viali per viale

Ottima scrittura, storia originale. Personaggi molto credibili, il lavoro di ricerca c’è e si vede.

IL SEGRETO DI DE AMICIS di Valter Carignano.
La ricostruzione ottocentesca è molto verosimile. Anche la vicenda di Furio, schiacciato dal padre Edmondo tanto da togliersi la vita è vera. Mi piace lo spunto della conoscenza proibita contenuta nel “Libro dei Morti”, l’hai rinfrescato in modo molto suggestivo: dunque, le tombe dei faraoni erano vuote già dall’inizio, perché i sacerdoti li facevano resuscitare?
Inquietante il fatto che Kellner usi proprio il figlio di De Amicis per il suo esperimento di magia nera. E agghiacciante il finale, perché il padre sembra essersi abituato al nuovo stato del figlio, cadavere rianimato e affamato di carne. Mi piace anche come hai introdotto questa condizione di Furio già a inizio storia, nell’episodio della taverna.



Un ulteriore appunto: metterei in corsivo la lettera che De Amicis scrive all’ammiratore, perché così non si distingue dal racconto. Vale lo stesso per il litigio di De Amicis con la moglie.
Refuso: appoggio per appoggiò. Parti per partì.


La classifica è sofferta. Si tratta di due ottime prove.

CACCIA INFERNALE di Mino Delisanti punti 2

IL SEGRETO DI DE AMICIS di Valter Carignano punti 1
 
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Erron.Black
view post Posted on 4/8/2016, 18:20




Ciao, ragazzi.

Anzitutto, grazie Shanda per il bel commento.

Veniamo ai commenti:

DIECI NOVEMBRE
Un ragazzo, Erminio, ex giocatore di tennis, vive il peso del ricordo di suo padre defunto. A ricordargli l'inquietante figura paterna, una pallina da tennis con le zampe! Il personaggio principale, Erminio, è approfondito soprattutto dal lato psicologico, ed è facile immedesimarsi in lui. Tutti, immagino, almeno una volta abbiamo subito pressioni famigliari circa il cosa fare della nostra vita.

IL SEGRETO DI DE AMICIS
Il figlio dello scrittore Edmondo De Amicis si suicida, e lui ricorre alla magia arcana per riportarlo in vita, più o meno. Non sapevo di questo lato oscuro di Edmondo De Amicis. Sapevo che non fosse quel gran "cuore" che sembrava, ma che fosse così meschino. Io, poi, ho sempre preferito Salgari. C'è uno spunto per un romanzo horror breve in forma epistolare, come "Jerusalem's Lot" di King, che lessi a suo tempo e mi piacque molto.


Faccio la mia classifica:
IL SEGRETO DI DE AMICIS di Valter Carigliano: 2

DIECI NOVEMBRE di Alexandra Fisher: 1
 
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view post Posted on 6/8/2016, 20:08

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Ciao Erron. Black,
grazie del commento. Sono contenta che il personaggio di Erminio ti sia piaciuto. Il lato psicologico mi è venuto fuori molto approfondito forse per via dell'ambientazione (reale, sono luoghi che ora non esistono più così, ma che sarebbero andati bene per un horror psicologico). E la pallina da tennis mi è apparsa così, mentre scrivevo (il perturbante nel quotidiano assume spesso queste forme).

Grazie a te per la bella storia.
 
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Valter Carignano
view post Posted on 10/8/2016, 22:55




ciao

innanzitutto chiedo ancora scusa per non avere potuto editare per bene (almeno, secondo le mie possibilità) il mio racconto; inoltre, nel copiaincolla qualcosa è andato perso, non essendo esperto del forum. Da cui la mancanza del corsivo nella lettera e i refusi segnalati da Alexandra. Grazie di averli rimarcati, che mi serva di lezione per organizzarmi meglio!

Riguardo al mio racconto, il de Amicis storico in effetti è molto meno 'Cuore' di quello che una certa storiografia (o forse, agiografia) ci ha trasmesso.
È certo, dai documenti pervenuti, che fosse molto pieno di sé, che si comportò malissimo con la moglie (che peraltro tradiva con una certa regolarità ammalandosi anche di malattie veneree) e che non incoraggiò mai i figli. Uno se ne andò e ruppe i rapporti, l'altro - appunto - si uccise. Di quest'ultima cosa, de Amicis accusò pubblicamente la moglie.
Ma il 'mio' de Amicis, naturalmente, è frutto soprattutto di fantasia. Mi piace molto cercare di mescolare elementi e luoghi storici reali con elementi inventati.

Detto questo, ecco la mia personale opinione sui racconti:

- Dieci Novembre, di Alexandra Fischer
Racconto intimo, che segue i pensieri e le emozioni del protagonista.
Il conflitto con il padre e le aspettative generali nei suoi confronti è tratteggiato bene, tanto meglio in quanto si svela lentamente al lettore, mano a mano che si penetra nella personalità del ragazzo.Buona anche la conclusione, secondo me, che denota mi sembra anche un'incertezza di fondo, tipica di molti nostri meccanismi psicologici non risolti.
Quello che rende il tutto un poco distante e non così coinvolgente come potrebbe essere, sempre secondo il mio modesto parere, è la prevalenza delle parte raccontate rispetto a quelle mostrate. Non parlo soltanto di numero di caratteri, ma di importanza dei vari passaggi in relazione alla vicenda.
Se poi posso ancora esprimere un giudizio formale, sempre senza intenzione di criticare un lavoro che comunque ha una buona intensità, trovo l'inizio un poco spezzettato, con il frequente ricorso all'a capo.

- Caccia Infernale, di Mino Delisanti
Racconto che mescola realtà storica e fantasia. Come ho già detto, mi piace scrivere cose simili ma anche leggerle.
Il linguaggio è ricercato, in modo da evocare il momento storico. Se si volesse andare a cercare il pelo nell'uovo, molte locuzioni e forme sarebbero da rivedere, ma credo che quello che conta sia l'atmosfera che il tuo modo di narrare, con questo tipo di linguaggio, evoca. Da questo punto di vista, la cosa mi sembra funzioni egregiamente.
Anche la vicenda è abbastanza articolata, con la figura del frate che mette in moto la seconda e risolutiva parte. Seconda parte che ha un buon ritmo, con immagini evocative ed efficaci.
A mio parere, la figura del menestrello narratore rimane troppo in disparte. Non partecipa all'azione e le sue azioni non sono determinanti, il fatto che ci sia o meno è ininfluente. È quasi come se fosse solo un pretesto per narrare questa storia. Personalmente, credo che uno spessore maggiore di questo personaggio non avrebbe guastato.
in tutti i casi, mi sembra un buon lavoro, ben riuscito.

Punti:
Caccia Infernale 2
Dieci Novembre 1
 
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38 replies since 16/7/2016, 16:35   761 views
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