| Ciao a tutti ecco il mio racconto. Speravo di avere più tempo per rifinirlo e magari fare qualche aggiunta, il lavoro non me lo ha permesso ma ci tenevo a cominciare a partecipare. Essendo nuovo devo mandare anche una mail al moderatore per i miei dati, giusto?
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Il segreto di De Amicis
Pinerolo, 16 dicembre 1898 – Ciau, nè. A dumàn! – La porta della Società Operaia di Pinerolo si chiuse dietro Giacu Oddoero, come sempre l'ultimo ad andarsene. Quella sera si reggeva ancora sulle gambe, il barbera gli faceva da scudo contro il freddo e come sempre non aveva voglia di andarsene a casa. ‘Chissà se Toni è ancora aperto’, pensó. Superò il duomo, barcollante ma deciso, poi svoltó su per via Principi d’Acaja. Solo la pioggia e i suoi passi risuonavano sul selciato. Continuò per le stradine buie salendo verso la collina, si fece il segno della croce davanti al convento, e alla luce di quella lanterna sempre accesa gli sembrò di vedere qualcuno, un po' più su. – Ehi, arrivi da Toni? È aperto? – gridó. Ma non c'era più nessuno, forse era entrato in un portone. Mah. Giacu cominciava a essere stanco, ma non voleva andarsene a dormire senza un ultimo bicchiere. Arrancò verso l'alto, era quasi sul piazzale quando un movimento lo fece voltare. Un uomo non molto alto, con indosso un mantellone, gli si stava avvicinando lentamente. Il buio era quasi totale. – Ah, ci hai ripensato – disse Giacu. – Allora andiamo a farci un sorso? L'uomo non rispose. – Non rispondi. Il gatto ti ha mangiato la lingua? – Cominciò a ridere alla sua battuta, non aveva mai avuto la sbornia triste. L'uomo ora era accanto a lui. Giacu sentì un odore come di cantina e di carne andata a male. – È un bel po' che non ti lavi, eh? – disse, continuando a ridacchiare. La mano dell'uomo scattò verso di lui. – Ehi, dicevo per dire, senza offesa – farfugliò mentre veniva sollevato da terra. L'uomo lo scagliò contro il muro, Giacu sputò fuori tutto il fiato che aveva e si accasciò a terra. Il dolore gli fece passare la sbornia. – No. Lasciami, non ho niente. Soltanto... – Si frugò nelle tasche. – Solo queste poche monete. Ti prego. Di nuovo l’uomo lo sollevò, i loro volti erano l’uno accanto all’altro. Giacu sbarrò gli occhi, cercó di divincolarsi. L’altro aprì la bocca e gli squarciò la gola.
Torino, circa un mese prima – Professore, ci sono… delle persone che vorrebbero vederla. Edmondo de Amicis sollevò la testa dalla lettera che si apprestava a scrivere, posò la penna di fronte a sé in modo che fosse perfettamente parallela al foglio di carta e guardò la cameriera. – Non avevano un appuntamento – disse, rigido. – E tu sai che quando lavoro non desidero essere disturbato. – Sì, professore. – La cameriera chinò la testa, continuò a voce più bassa. – Ma sono dei gendarmi. – Gendarmi? Questo è strano. – De Amicis si versò un sorso di vermouth e acqua, lo assaporò lentamente, si asciugò i grandi baffi all’umberta da goccioline inesistenti e si appoggio allo schienale della sedia. Me l’avrà mandati quella maledetta di Teresa. Che coraggio, denunciarmi! Adesso gliela faccio vedere io. – Beh, allora falli pure accomodare qui, Lucia. Non sia mai detto che si facciano attendere i servitori dello Stato. La cameriera fece un piccolo inchino e uscì. De Amicis contrasse la mascella. Calmo, devo stare calmo. Riprese la penna, la intinse nel calamaio e si rimise al lavoro. Carissimo anch’io penso che sia venuto il momento di una nuova ristampa di ‘Cuore’. Le parole sprezzanti di quel poetucolo di Carducci, invidioso e forse anche mercenario al soldo dei nemici della Patria, non hanno fatto che aumentare la popolarità del libro, e d’altra parte – Prego, signori. – La cameriera aprì la porta e di sottecchi de Amicis vide entrare un gendarme in divisa e uno in borghese, forse un commissario. Gli parvero imbarazzati. – Buongiorno, signori – li salutò, senza alzare la testa. – Solo un istante, per favore. questa nostra Italia ha bisogno dei miei libri, in modo che le nuove generazioni vengano formate e crescano negli autentici valori di unità e di onore. Senza fretta, mise nuovamente la penna parallela al foglio e alzò lo sguardo. – Ecco. Posso offrirvi qualcosa? Chiamo subito Lucia. – La sua mano si mosse verso il campanello sulla scrivania. – No, professore, grazie – rispose l’uomo in borghese, il cappello in mano. – Sono il commissario Reinaudo e… – s’interruppe, incerto. – Vedete, professore, è successa una disgrazia. – Una disgrazia? – Sì. Il brigadiere Broni, qui presente, poco fa era di servizio al Valentino, ha sentito uno sparo e… – strinse il cappello, si schiarì la voce. – Vostro figlio Furio, professore. Sembra si sia dato la morte. De Amicis rimase immobile, il respiro bloccato. Reinaudo lo vide diventare bianco come i fogli che aveva di fronte. – Professore, sta bene? – Un cenno e Broni gli si portò al fianco, veloce. Prima che il brigadiere potesse fare qualcosa, De Amicis alzò un poco la mano. Sbatté qualche volta le palpebre. – Furio? – chiese, con un filo di voce. Poi, con più decisione: – È uno sbaglio. Qualcuno gli ha rubato portafogli e documenti. Mio figlio non è tipo da compiere simili atti da codardo. Reinaudo chinò la testa. – Mi dispiace, professore. Nessun dubbio – Guardò l’uomo che stava seduto alla scrivania, vide i suoi occhi correre agitati da lui al brigadiere, alla ricerca di una speranza che loro non potevano dargli.
Al funerale erano in pochi. De Amicis aveva insistito molto con i suoi amici della Gazzetta del Popolo perché non venisse dato spazio alla notizia. Troppo scandalo, troppo disonore. Anche Teresa, sua moglie, non lo disse se non alle amiche più intime, sebbene i suoi motivi fossero diversi. Si sentiva in colpa, per la morte del figlio. Forse, se lei ed Edmondo avessero continuato a stare insieme, se non avessero litigato così tanto quando Furio e Ugo erano piccoli, se lei fosse riuscita a... No. Aveva imparato a sue spese che Edmondo era un uomo totalmente egoista, pieno di sé, un maledetto mulo malvagio. Aveva sempre sminuito le doti di poeta del figlio, una continua umiliazione che alla fine il giovane non aveva più potuto sopportare. E lei era stata esclusa, il marito aveva brigato fino a cercare d’impedirle di vedere i suoi figli. Cosa avrebbe potuto fare lei contro il grande De Amicis, l'uomo che aveva unito l'Italia coi suoi libri, il paladino dei lavoratori? Come avrebbe potuto smascherare le sue menzogne, il suo falso perbenismo ? Ma tutto questo non faceva che aumentare il suo dolore, e preferiva piangere il figlio da sola, senza sconosciuti intorno. Si mise dalla parte opposta del marito, alla sinistra del prete, e se ne andò per prima. All’ingresso del cimitero, un piatto di bronzo raccoglieva i biglietti di condoglianze di coloro che avevano saputo ma che rispettavano il desiderio di solitudine della famiglia. In carrozza, di ritorno a casa, De Amicis diede loro una scorsa: nomi della Torino bene, gli editori, i dirigenti del partito. E uno sconosciuto, un certo Manfred Keller. Il biglietto era di carta pregiata e stampato in rilievo, con caratteri dorati. Improvvisamente, le lacrime che non voleva versare in pubblico trovarono la loro strada, e finalmente Edmondo De Amicis pianse il figlio nella penombra della sua carrozza.
Il mattino dopo, Lucia bussò piano e mise appena la testa nello studio. – Professore, un signore viene a porgervi le sue condoglianze e domanda se potete vederlo – Accennò il segno della croce. – Dice... dice che ha informazioni importanti su Furio. De Amicis sbatté gli occhi. Non era andato a letto, l’unica luce dello studio era il chiarore giallognolo della lampada a olio. Furio! Allora lui aveva ragione, suo figlio non era un codardo, non si era ucciso! – Fallo passare – ordinò, brusco. Poi la voce si fece incerta. – No. Prima... prima fai entrare un po' di luce e aria. Grazie, Lucia. La cameriera si bloccò per un istante. Non ricordava un'altra occasione in cui il professore l'avesse ringraziata. Aprì le imposte, entrarono la luce e i rumori della strada. De Amicis si versò un vermouth liscio. – È permesso, professore? – chiese una voce tenorile, con un leggero accento tedesco. – Prego, signor Keller. Accomodatevi. Lucia, il caffè. Voi lo gradite, vero? – Sì, grazie, professore. De Amicis osservò Keller. Ben vestito, alto, circa quarant'anni, ogni movimento denotava ottima educazione, forse un’ex militare di carriera. – Professore, permettetemi innanzitutto di porgere di persona le mie più sincere condoglianze. E nel contempo vi voglio assicurare che non mi sarei presentato a lei oggi, se quanto mi sento in dovere di dirle non fosse della massima e assoluta urgenza. Entrò Lucia col caffè e qualche pasticcino. – Puoi andare, Lucia. Signor Keller, lei ha informazioni su mio figlio. Può comprendere come, nella mia situazione, sia ansioso di conoscerle. – Non riuscì a trattenersi oltre. – Lei sa chi ha ucciso Furio? Keller esitò. – Professore, mi permetta di spiegare il motivo per cui sono qui. La sua voce si fece suadente, quasi ipnotica. Gli occhi chiari fissavano il professore. – Sarò diretto, siamo uomini e non è mia abitudine celarmi dietro il fumo delle parole. Non sono qui per seppellire suo figlio, ma per riportarlo in vita. – Ristabilire il suo onore. È quello che voglio anch'io. – No, professore. Riportarlo alla vita reale, come se nulla fosse accaduto. La morte può essere vinta. De Amicis per qualche istante non riuscì a staccarsi dalla morsa di quegli occhi. – Voi siete pazzo – mormorò. Keller si sporse avanti sulla sedia. – Lei è un uomo colto, e qui a Torino c'è un tesoro che soltanto pochi sanno padroneggiare. Sto parlando del Libro dei Morti degli antichi egizi. Non è una raccolta di formule, un patetico breviario da prete di campagna. Per chi ne conosce la chiave, il Libro racchiude il segreto della vita, quello che i sacerdoti di Osiride donavano ai faraoni. La sua voce era intensa, dotata di un fascino arcano. – Lei sa che molti sarcofagi sono stati trovati vuoti? Sigillati, eppure vuoti. Perché lo sono sempre stati. Sempre! Era necessario mantenere il segreto, in modo che la preziosa conoscenza mistica non cadesse in mano ai nemici del Regno, e in taluni sarcofagi vennero allora inumati dei servi, così da trarre in inganno chi avesse violato i templi. Le piramidi non sono tombe, professore, ma questo non ha interesse per noi due, ora. Ciò che conta è che quelle conoscenze non sono perdute, e io le posso utilizzare per riportare in vita suo figlio. De Amicis aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Strinse i pugni. – Voi siete pazzo. Fuori dalla mia casa. – Suonò per chiamare Lucia. Keller assentì col capo e sorrise. – Pensateci, professore. Potete trovarmi all’albergo della Dogana Vecchia.
De Amicis non riusciva a darsi pace. Chi era questo maledetto pazzo? Era entrato in casa sua per… per cosa? Come poteva pensare che lui avrebbe creduto alle sue fandonie. Riportare in vita Furio! Il suo amato Furio. No, non lo amavi, gli gridava la voce della moglie nella testa. Hai fatto di tutto per farlo sentire un incapace, lo hai spinto a studiare medicina invece che lasciare si dedicasse alla poesia. Lo hai umiliato ogni singolo giorno della sua vita. Tu, tu l’hai ucciso! Taci, maledetta. Tu l’hai soffocato col tuo amore possessivo, tu gli hai impedito di crescere come un vero uomo. Vero uomo! Ma smettila, non ci credi nemmeno tu a queste baggianate. Sono solo buone a farti bello in giro, a vendere frottole agli operai mentre vai a cena coi padroni! Falso. Falso e assassino di tuo figlio! Zitta. Zitta o ti ammazzo! Provaci, se hai coraggio. Vediamo se sei un ‘vero uomo’. Maledetta! MALEDETTA! Lucia sentì un tonfo. Spalancò la porta dello studio. Il professore era a terra, semisvenuto, con una ferita alla testa. Chiamò gli altri servi, lo portarono a letto. – Furio… Furio, perdonami… - mormorava, mentre lo spogliavano.
– Allora, ci avete riflettuto? – Keller sorseggiava un bicerìn, seduto sotto in una saletta riservata del caffé Florio. De Amicis era pallido, la palpebra dell’occhio destro tremava, vittima di un fremito intermittente e incontrollato. Rispetto a due giorni prima sembrava invecchiato di dieci anni. – Voi… – la sua voce era roca, stentata. – Voi avete detto che potete far tornare mio figlio. Come? E perché io? Keller si prese il tempo di finire di bere. – Questa vostra specialità è inarrivabile, nemmeno a Parigi ho potuto gustare una cosa simile – I suoi occhi si puntarono in quelli del professore. – Il ‘come’ non potete comprenderlo. Ma capisco che temiate io sia un truffatore a caccia di danaro… bene, sappiate che il Libro può essere letto in due direzioni: la prima è quella usuale, quella della morte, con le preghiere per ingraziarsi gli dei dell’al di là. L’altra è quella opposta, quella della vita, e la combinazione dei simboli geroglifici dà luogo a formule in una lingua segreta, conoscendo la quale è possibile preparare l’Elisir. – Fece una pausa. De Amicis non si mosse. – E perché voi? Perché ci vuole denaro, per procurarsi tutto il necessario, ci vuole riservatezza, e perché io ho bisogno di sicurezza. Sicurezza, per esempio, che una volta rubato il cadavere di vostro figlio dal cimitero voi non vi tirerete indietro. Mi pagherete se la cosa riuscirà. In caso contrario, non perderete nulla. Accettate? De Amicis assentì.
Arrivarono al cimitero poco prima dell'una. Il custode li aspettava, nascosto nel buio. Senza una parola, condussei due operaiassoldati da Keller alla tomba. Era scavata di fresco e contrassegnata soltanto da una lapide, in attesa che la statua funebre voluta dalla madre fosse pronta. – Io me ne vado – sussurrò. – Chiudete, quando uscite. I due uomini sogghignarono. – Come sempre, no? – disse il più alto, e si misero al lavoro. Rimossero il marmo, scavarono e tirarono su la bara. Si coprirono naso e bocca con un fazzolettone imbevuto di lavanda, senza difficoltà svelsero i chiodi e scoperchiarono il feretro. Il cadavere di Furio li attendeva, puzzolente ma pulito e ancora integro. Lo spostarono nella cassa che avevano portato con sé, poi rimisero tutto a posto: coperchio, bara e marmo. In poco più di mezz'ora erano fuori. La carrozza li aspettava nascosta in una macchia, poco distante dalla fabbrica di sigarette. – Bravi. Caricate, ché fra poco passa la ronda. – disse Keller. – No. Voglio vederlo. – intervenne De Amicis, da dentro la carrozza. Gli uomini si fermarono, Keller esitò. Un'ombra d'ira gl'incupì il volto per un'istante. – Certo, professore. – La sua voce era calma e accondiscendente, come sempre. – Ma faccia presto, abbiamo poco tempo. Non vorrei che lei facesse brutti incontri. De Amicis scese con cautela, il fremito all'occhio non lo abbandonava e faceva fatica a vedere. – Prego, signore. – ridacchiò l'uomo alto, dando di gomito al compagno che stava approfittando della pausa per farsi un sorso di grappa. Quello sputò, sollevò un poco il coperchio della cassa e avvicinò la lanterna cieca. De Amicis strinse i denti per l'odore di morte. – Furio... – mormorò. – Soddisfatto? – domandò Keller. Diede un sacchetto di monete ai due. – Ragazzi, questo è per voi. E ricordate che non ci siamo visti. I due ridacchiarono e fecero un ridicolo inchino. La carrozza parti al galoppo per la casa di campagna del professore.
Pinerolo, 16 dicembre 1898 De Amicis scattò non appena udì il colpo sulla porta del giardino. Corse ad aprire, l’uomo con indosso il mantellone entrò, poi rimase fermo al centro della stanza. Il professore accese una lampada. – Che brutto tempo, eh? Ora ti tolgo questo pastrano bagnato e ti metti a sedere vicino al fuoco, va bene? Su, vieni. Accompagnò l’uomo davanti al camino acceso. Notò le macchie di sangue sul mantello, ci pensò qualche istante e poi lo gettò nel fuoco. – Sei andato a caccia? Keller me l’aveva detto, che il cervello non era più in buono stato: la pallottola, i giorni trascorsi dalla morte… ma cosa importa, eh, Furio? L’importante è che tu sia vivo. De Amicis si sedette su una poltrona di fianco al figlio e chiuse gli occhi. Il fremito della palpebra ormai non si arrestava più nemmeno nel sonno.
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