| L’entusiastica perfidia del piccione
I
“Sarà l’autopsia a stabilire la causa che ha provocato il decesso del signor Angelo La Torre nel tardo pomeriggio di ieri. Per ora si indaga su di un Ucraino di ventisei anni, di nome Shiskij Igor, privo di permesso di soggiorno, che ha lavorato per alcuni mesi presso l’anziano in pensione e di cui sembra si siano perse le tracce”. Tutto ciò che il dottor Guido Santoro è riuscito a sapere è che Igor e Lyubov appresero lo scioccante comunicato tramite il notiziario della sera. Erano in compagnia di Andryi, zio di Igor, insieme al quale occupavano un locale fatiscente dividendosi le spese dell’affitto, troppo alto per le loro possibilità. A stento riuscivano a mettere insieme un pasto decente col lavoro di badanti, e quella tragica notizia li precipitò in un baratro senza possibilità di risalita. Andryi non vuole parlare di Igor, se è il dr. Santoro a chiedergli di rivelare ciò che accadde in seguito. Sembra propenso, piuttosto, a raccontare le vicende che si sono succedute, ma solo se è lui a deciderlo e allora riferisce qualche particolare ogni volta che giunge in ambulatorio, quasi tutti i giorni, per farsi controllare la pelle divorata dalla psoriasi. Elenca i sintomi che lo affliggono e che il dottore cura con i campioni di farmaci donati dai collaboratori farmaceutici. In fondo non costa niente né a lui né alla collettività. La sede dello studio medico non è lontana dal posto in cui il mendicante vive di elemosina, nello spazio antistante alla stazione di Caserta. Il dottore pensa, anzi è sicuro, di essere riuscito a guadagnarsi la fiducia di Andryi e di avere buone speranze che possa svelargli i particolari del dramma, senza inutili camuffamenti. Una disgrazia dai risvolti talmente inconcepibili che sembra perfino accettabile quel lento donarsi del mendicante agli artigli di una condizione che di umano non ha nulla. Sempre più evidente il reticolo di vene che gli incrociano il naso e le guance scarne, fili rossi e azzurri scompaiono sotto gli zigomi per riemergere nello sguardo liquido. Non lo sfiora nemmeno più il timore di morire in terra straniera, come se avesse già superato la linea che sconfina nel buco nero della follia. Narra vicissitudini che prendono vita da un punto di non ritorno, quello che ha dato inizio alla lenta discesa all’inferno: “Non pagavano. Quando sì, quando no. So fare tutto, lavoravo sui cantieri Avellino, mi pagavano cinquanta-sessanta Euro. al giorno, poi cambiata ditta, lavorato in altri posti, controsoffittature in cartongesso, ma non pagavano. Per un periodo lavorato gratis per un permesso mai ottenuto”. Le parole sostano un po’ troppo tra i pori della voce e le pareti grigie della stanza, poi rimbalzano come proiettili per conficcarsi nel cervello . “Hai una famiglia nella tua terra, perché non torni?” gli chiede il dottore dopo un tempo che sembra un’infinità, tanto per dire qualcosa. “Io ho lasciato loro casa. Cosa vado a fare? A dormire stazione? O là o qua non è uguale?” E lui non sa mai cosa rispondere nel tentativo di ricomporre stracci di vita buoni solo per riporli in pattumiera, nell’illusione di liberarsene. Andryi parla a bassa voce, in modo concitato articola vocaboli che il dr. Santoro fa fatica a comprendere, perciò approfitta di una pausa troppo lunga per indirizzare la conversazione su Igor. Vorrebbe gli raccontasse di lui e della sua ragazza, ma Andryi non vuole parlare del connazionale ventiseienne morto nel sottotetto di una stamberga. A stento trattiene un moto di disperazione, seguito dalla risposta netta come una lama d’acciaio, esternata nella sua lingua, il cui significato si comprende dai gesti: Dio ha voluto che venisse a morire qui! Non dice altro, si alza e va via. Dalla finestra appannata dell’ambulatorio il dottore scorge il cappotto, troppo ampio per l’esile figura, allontanarsi nell’isteria del traffico della stazione ferroviaria, fra auto e bus che si accalcano strombettando. A presiedere l’intera scena, le nuvole: la mattina sembravano dame aristocratiche vestite a festa e signori in pompa magna con codazzo di lacchè. Tipica processione di qualche santo o Madonna corredata di preti nell’atto di impartire benedizioni, e rappresentanti istituzionali con banda musicale e fuochi d’artificio. In questo momento sono cirri gonfi al punto di esplodere. Si limitano a trattarsi con sussiego, per ora, ma presto si rincorreranno dandosi dei gran calci nel sedere. Uuuhh! Si è fatto tardi! Deve correre a casa, perché sua moglie sarà già rientrata. Per stasera avrebbe un programmino delizioso: dopo cena, spedizione immediata dei bambini a nanna e poi dedizione completa a loro due. Senza rinunciare a un dolce preparato per l’occasione, la mousse al cioccolato, un composto omogeneo di mascarpone e cacao e altri semplici ingredienti, leccornia da leccarsi i baffi, ma dall’aspetto disgustosamente cremoso con quel colore vagamente sospetto. Infine, passione senza scuse. Spegne e chiude tutto. Si accinge a raggiungere l’auto e… se lo sentiva! L’ha fatto di nuovo. Ora gli tocca perdere un’altra mezz’ora a pulire il finestrino dell’auto, proprio quello del versante guida. Questo sì che è genuino sterco sgocciolante, percorre in lungo e in largo il vetro stavolta, fino a decorare il manico dello sportello, in modo che non può nemmeno sfiorarlo nel tentativo di aprire, se non dopo aver strofinato per bene. Offrire escrementi come un mazzetto di fiori essiccati di campo. O alla stregua di una mousse al cioccolato, puah! Sicuro che glielo fa apposta, indifferente all’ora, al traffico, alla cena e alla serata che per colpa sua sta per prendere un’altra piega, ché già gli stanno girando a mille gli scrigni ontologici. Riuscisse almeno a individuarlo, il piccione che gli fa di questi regali. Si infila, infine, nel traffico, convinto di stare fra le grinfie di un mostro sfuggito alle mani del suo creatore.
II
Di proposito lascia scivolare la conversazione su Igor. Andryi per un po’ sorvola, tace e poi avvicina la sedia alla scrivania e, come a voler rigurgitare un segreto, riprende con voce spezzata dall’emozione del ricordo ancora vivo: “Ti trovano e ti mettono in prigione. Dobbiamo nascondere, non possibile rimanere ancora qui, lo pregava Lyubov. Lui disperato ripeteva: Come faremo? Facile dare colpa a me che sono senza documenti a posto. Io ho trovato già che era morto, ho avuto paura e sono scappato, non possibile difendermi senza permesso di soggiorno. Chi mi crede?” L’accusa fu smentita qualche giorno dopo, quando fu chiarito che il decesso era avvenuto per cause naturali. Ma l’ignaro ragazzo, distrutto dall’angoscia, già si nascondeva insieme alla compagna Lyubov nel soppalco di una stamberga abbandonata al centro della città di Caserta. Inconsapevoli del risvolto delle indagini, che non ritenevano più Igor perseguibile, raggiungevano la soffitta arrampicandosi lungo il muro, reggendosi su cavi elettrici e corde improvvisate con stracci. Da giorni dentro le ore di una cella, dietro i minuti di una finestra sbarrata. Il tempo non più scandito dai rintocchi, ma dagli spasmi delle immagini dei suoi familiari. Il tempo Igor se lo fantasticava sulle pareti scolorite, sul soffitto ammuffito. “Ho chiamati sul cellulare, ma non c’era linea. Poi, quando tutto finito, ho visto una sola volta Lyubov e mi ha detto cosa successo”. Dormivano per terra, sopra un materasso fatto di cenci. Unica consolazione il loro amore li univa con la disperazione di due esiliati perseguitati senza più patria né dimora, due clandestini fuorilegge sopra un suolo ostile. Un pomeriggio come tanti se ne stettero abbracciati al freddo, a fissare la fiamma del tramonto che lentamente si spegneva. Fu proprio quella notte che la donna, rendendosi conto di un improvviso malessere del suo ragazzo, si precipitò in strada per chiedere aiuto. Giunse, così, l’ambulanza e pure la telecamera a reclamizzare una morte inaccettabile in un solaio assurdo. La mamma di Igor, per avere la salma, versò migliaia di euro raccolti tra parenti. Sulla salma si precipitarono gli avvoltoi dal volto umano a pretendere spettanze funebri per suggere anche la morte: questo morto spetta a me sistemarlo e rimpatriarlo. Alla sua famiglia neanche le lacrime, solo una disperazione asciutta a chiudere il cerchio. Questo lasciarsi andare a fondo, perché? Santoro si domanda se Andryi abbia fatto l’impossibile per avvertire i ragazzi ed evitare il peggio, o non si rimproveri qualcosa, magari una faciloneria nascosta dentro un atteggiamento fatalista. E come a sostegno di questo pensiero, vede la sagoma allontanarsi e confondersi nel barlume umido dei lampioni, che riflette una figura ancora più spettrale, condannata a venir risucchiata del tutto da una raffica di tuoni e lampi. Messa, infatti, da parte l’eleganza, ora le nubi mostrano l’intenzione di abbandonarsi del tutto a modi pecorecci. I calci nel sedere hanno messo a punto effetti devastanti e sta per annunciarsi un temporale, di quelli che impastano i colori, sciolgono le forme e fanno straripare pure la buona creanza. Spegne e chiude tutto. Si arma di fazzolettini di carta imbevuti d’acqua per eventuali sorprese, mentre si chiede che fine abbia fatto Lyubov: senza soldi non può essere rientrata nel suo Paese, per fare la fame, poi. Può darsi abbia trovato un lavoro come badante, in tal caso si è salvata almeno lei. Oppure niente di più facile che sia andata a finire in mezzo alla strada, a svendersi il corpo e l’anima. In ogni caso lui, come tutti, sia che Lyubov faccia la badante sottopagata o la puttana, comodamente si avvantaggia di una realtà parallela, senza rendersi conto dei fili sfuggiti dalle dita del destino. Ma se gli capiterà di incontrare una ragazza di nome Lyubov, le chiederà di Igor. E poi le concederà la possibilità di riscattarsi. Guarda in alto. In qualche anfratto se ne sta al sicuro il piccione, entusiasta della sua perfidia.
“Il corpo di una ragazza è stato trovato questa mattina nelle campagne di Castelvolturno, zona di racket sulla prostituzione e traffico di droga. Dai primi rilievi si è accertata l’ora della morte che risale a poco dopo la mezzanotte. L’identità della vittima risulta essere un’Ucraina di venticinque anni di nome Lyubov Majatska”.
|