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Skannatoio Speciale di Dicembre 2017, La scatola delle emozioni

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view post Posted on 10/12/2017, 22:02
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 10/12/2017, 21:42) 
Meno frignare, più scrivere, gente. A nessuno interessa il vostro blocco dello scrittore.
A meno che non stiate scrivendo un racconto sul vostro blocco dello scrittore. In quel caso, la cosa potrebbe diventare interessante. :1392239553.gif: :1392239553.gif: :1392239553.gif:

Guarda... mi hanno appena mandato a puttane tutto il pomeriggio e l'unica ispirazione che mi era venuta da qualche tempo a questa parte.

Mi son rotto i coglioni
 
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view post Posted on 11/12/2017, 02:10
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"Ecate, figlia mia..."

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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 10/12/2017, 21:42) 
Meno frignare, più scrivere, gente. A nessuno interessa il vostro blocco dello scrittore.

Nel mio caso non è blocco da scrittore :p104:

Comunque ho ripreso a scrivere. Mi sa però che non coprirà più tutte le pagine che dicevo.
 
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Beatrice S.
view post Posted on 13/12/2017, 22:36




Vorrei una conferma: scadenza é il 22 Dicembre, giusto? :1392239680.gif:
 
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view post Posted on 16/12/2017, 08:16
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"Ecate, figlia mia..."

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Nel regolo c'è scritto "almeno fino al 22"... significa che potrebbero posticiparlo?

Comunque, io ho quasi finito :p109:
 
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view post Posted on 16/12/2017, 14:15
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Non l'ho mica capito. Io avevo capito 3 settimane dalle specifiche. Quindi il 21.

Bho... WP?? Ci sei??

(comunque io l'ho finito e adesso lo rileggo)
 
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view post Posted on 16/12/2017, 15:14
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Yes! Finito e riletto. 21K tondi tondi

però prima di postarlo me lo tengo per dargli una riletta più tardi
 
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view post Posted on 17/12/2017, 15:44
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Omicidio sul Solar Express
di Nazareno Marzetti

Da fuori il Solar Express pareva una manciata di pennarelli per bambini tenuti insieme da un paio di elastici. Anche il diverso colore dei vari vagoni contribuiva a quell’idea generale. Una manciata di pennarelli che diventava sempre più grande mentre arrivavano i vari moduli. Il Solar Express, come a un’altra decina di treni in assemblaggio doveva fronteggiare la più grande emergenza umana dello spazio, e stavano raccattando vagoni da tutte le parti.
Todd tornò a guardare il dispositivo di registrazione. Gli avevano dato la possibilità di inviare un messaggio di trenta secondi ai suoi familiari, ma non riusciva a trovare le parole. Si toccò il punto in cui le sue cosce finivano in moncherini fasciati da bende ormai da cambiare. Gli avevano salvato la vita, ma non erano riusciti a fare di più.
«Tutti gli assegnati al vagone sette si avvicinino al portello. Consegnatemi le registrazioni prima di salire e specificate correttamente il destinatario» urlò una ragazza.
Vagone sette, il suo. Diverse persone cominciarono a muoversi. Todd premette sul tasto di registrazione, prese un profondo respiro e «Io…» iniziò, ma si bloccò. Cancellò e riprovò più volte, senza mai arrivare oltre. Intanto le persone cominciavano a muoversi. Galleggiò in assenza di gravità seguendo il flusso, tentando ancora una volta di registrare ogni volta che aveva una mano libera. «Mi spiace mamma» fu il messaggio che consegnò alla ragazza.
«Caren Garien in Kinsley, 2602 Northon Bruxe. Corretto?»
Todd fece un cenno affermativo con la testa e si spinse nel vagone. Seguendo le indicazioni degli assistenti fluttuò andando a sistemarsi sul sedile a lui assegnato, a cui si agganciò con le cinture di sicurezza. Passò un’eternità in un silenzio crucciato, mentre il vagone si riempiva, poi il suono di una sirena e l’interno del vagone iniziò a ruotare su se stesso, dando una sensazione di gravità.
Intorno a lui si sollevò un brusio, che salì di volume fino a diventare un chiacchiericcio assordante. Molti passeggeri si erano alzati e andavano in giro per il vagone, parlando, lamentandosi. Erano tutti superstiti del disastro. Al momento del collasso la cintura spaziale intorno alla Terra ospitava diverse migliaia di persone. Tutti quelli che si erano salvati erano su quel treno spaziale. Sapeva che c’erano state diverse vittime anche a terra, ma le notizie che arrivavano erano confuse.
Avevano davanti diversi giorni di viaggio. Qualcuno sarebbe stato ospitato sulla base lunare, qualcun altro su Marte. La sua destinazione era una base spaziale orbitale. Con tutti e tre gli ascensori orbitanti fuori uso, nessuno poteva più tornare sulla superficie del pianeta.

Restò seduto per qualche tempo, poi un bisogno impellente lo costrinse a scuotersi da quel torpore. Spinse sulla sedia e… si ritrovò ancorato ad essa. Dall’incidente era passato da una scialuppa di salvataggio a una base provvisoria. Da quando aveva perso le gambe era la prima volta che si trovava in presenza di gravità, seppur simulata. Era la prima volta che si rendeva conto che non poteva muoversi da solo. Il bisogno di andare in bagno lo convinse a non perdere tempo in riflessioni filosofiche, e chiamò assistenza.
Diversi minuti dopo si fece strada tra la folla un robot dall’aspetto pittoresco. Indossava un impermeabile e un deerstalker, e aveva una pipa incorporata nella bocca dalla quale usciva un filo di vapore.
«Deduco che avete bisogno di aiuto» disse questo avvicinandosi.
«Eccheccavolo» sbottò Todd. «E tu chi saresti?»
«Sherlock Holmes, mio caro Watson.»
«Mi chiamo Todd. E ho bisogno di un assistente.»
«Dovrebbe intuire che sono stato riconvertito provvisoriamente nel ruolo di assistente di volo. In cosa posso esserle utile, mio caro?»
«Devo andare al cesso» esclamò il ragazzo. Tutta quella sufficienza e quella gentilezza di altri tempi gli faceva venire voglia di essere volgare.
«Ovviamente. La prego di appoggiarsi a me.»
Nonostante i modi sin troppo affettati, il robot fu abile nell’accompagnare il ragazzo ai servizi e Todd poté passare un po’ di tempo da solo.
Si stava lavando le mani quando sentì le urla.
«Cosa succede?»
«L’unico modo per saperlo con certezza è avvicinarsi e chiedere.»
«Grazia Graziella e grazie al…» borbottò Todd, uscendo.

Al centro del vagone, dove la gravità era nulla, galleggiava il corpo di un uomo. Il sangue usciva da un profondo taglio nel petto, formando piccole sfere rosse e lucide che, catturate dalle correnti d’aria, creavano un effetto scenografico tutto intorno al corpo. Todd non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi sbarrati dell’uomo, affascinato e al tempo stesso orripilato dallo spettacolo.
«È necessario scoprire il colpevole il prima possibile. Dato che tu eri con me al momento dell’omicidio mi farai da assistente» disse il robot detective.
«Cosa? Ehi lattina vuota, questo non è uno spettacolo. È un morto vero.»
«Non mi è sfuggito. Le devo far notare, mio caro Todd, che, oltre che figurante negli spettacoli, sono abilitato come aiuto investigatore. Desidera assistermi in questa indagine?»
Todd ci pensò un momento. Sicuramente era un’alternativa migliore a starsene seduto a compiangersi fino a che non verrà smistato in qualche struttura di accoglienza. «Però avrò bisogno di una sedia a rotelle. Non puoi portarmi in braccio tu per tutto il tempo.»
«Ve ne sarà procurata una. Ora mi permetta di portarla verso il corpo.» Il robot lo prese e con una potente spinta, raggiunsero il centro del vagone.
Todd rimase un po’ indietro, mentre il robot di Sherlock Holmes osservava il cadavere. Dopo poco arrivarono alcuni spaziali che si identificarono come agenti e parlarono a lungo con il robot. Todd non ascoltò una parola di quello che si dicevano, rapito com’era dai loro piedi, praticamente un altro paio di mani che non erano in grado di sostenerli in condizioni di gravità normale, almeno così aveva sentito dire. Era la prima volta che vedeva un vero spaziale. La maggioranza degli spaziali era nata e cresciuta nello spazio, per loro la distruzione dell’ascensore orbitale non avrebbe cambiato niente. Tornò a concentrarsi sugli agenti quando il robot lo presentò a loro.
«Per l’occasione il signor Todd mi farà da assistente.»
«E perché proprio lui?»
«Era in bagno sotto la mia supervisione quando è stato commesso il fatto.»
I due agenti lo squadrarono e poi liquidarono la faccenda con un «Fai come ti pare» e si allontanarono.
Todd si chiese se potessero reggere quella gravità artificiale nell’interno del vagone, ma notò che si limitarono ad andare dritti per il centro longitudinale spingendosi con una cintura a getti d’aria.
«Dovremmo procedere nel raccogliere le testimonianze. Mi segua signor Todd» disse il robot.

Il primo giro di testimonianze fu una inutile caciara di persone che avevano sentito lo sparo e si erano voltate verso l’alto. Alla terza testimonianza fotocopia Todd aveva iniziato a gironzolare con la sedia a rotelle allontanandosi dalla calca. Si chiese da dove venisse quell’uomo. Non può comparire lì al centro del vagone dal nulla. Si chiese se la forza di un proiettile sarebbe stata sufficiente per spingerlo fino in quel punto. Non ne sapeva nulla di balistica, ma la spinta che aveva dato Sherlock per farli arrivare fin lì era considerevole. Quindi doveva essere stato spinto da un lato del vagone.
Issarsi a forza di braccia sulla scala a pioli del personale fu difficile solo per i primi metri: quasi subito la gravità fittizia diminuì fino a sparire. Reggendosi al centro del disco e roteando con esso, guardò verso gli spaziali che stavano coprendo il cadavere a qualche metro di distanza. Quanta forza ci voleva per farlo arrivare lì? E quanta precisione per evitare che venisse catturato dalla gravità? Più ci pensava più si convinceva che qualcuno lo aveva spinto lì, ma non capiva perché.
«Ha scoperto qualcosa, mio caro Todd?» chiese una voce poco sotto di lui.
«Mi chiedevo… che senso ha uccidere qualcuno e poi spingerlo lì?»
«Non tragga conclusioni affrettate: prima bisogna esaminare i fatti e poi con un processo logico arrivare all’unica spiegazione plausibile.»
«Be’, l’unica spiegazione plausibile qui è che qualcuno abbia voluto attirare l’attenzione.»
«Non è così che si ragiona: bisogna esaminare…»
«I fatti, ho capito!» Todd prese un profondo respiro. «Io… vado a vedere se trovo qualcosa da questa parte. Tu esamina i fatti e fammi sapere.»
Facendo forza sulla maniglia, si infilò nel condotto di servizio al centro del vagone. Il giunto girava intorno a lui ed era strano non riuscire a capire esattamente cosa girasse e cosa no.
«Non può stare qui» gli disse un membro dell’equipaggio.
«Sono l’assistente di Sherlok Holmes.»
«Ah, allora tutto a posto.»
«Grazie.»
«Ehi! Sarcasmo! Voi terrani conoscete questa parla? Non puoi stare qui, neanche se lo dice quel robot intrattenitore.»
«Ma…»
«È uno spettacolo per intrattenere i passeggeri. Non prenderlo troppo sul serio. La polizia sta facendo la vera indagine.»
«Ah, ora ha tutto più senso.»
«Bravo. Tornatene al tuo posto.»
«Senti… posso stare almeno in questa zona? Giù sono…» indicò con lo sguardo i moncherini.
«Uhmpf! Fai come vuoi, non rovinare lo spettacolo e non superare la linea gialla.»
«Certo» rispose il ragazzo. Appena lo spaziale si fu allontanato, entrò nel corridoio e si sbrigò a infilarsi in un condotto secondario. C’era uno di quelle giacche dell’equipaggio appallottolata in uno sportello. Puzzava, ma se la infilò uguale.
Si voltò, trovandosi faccia a faccia con uno spaziale. Indossava una tuta da lavoro, ma non la giacca dell’equipaggio, quindi ci provò: «Non può stare qui» gli disse, cercando di ostentare una sicurezza che non aveva.
«Bel tentativo» rispose questo. «Ti ho visto sgattaiolare qui dentro.»
«Non sei dell’equipaggio, vero?»
«No. Che stavi facendo?»
«Il tipo ammazzato… ho pensato che poteva esser stato spinto da qui dentro.»
«Non avrai preso troppo sul serio quel robot figurante?» chiese lo spaziale indicando verso il vagone con il pollicione del piede destro.
«No… Sì… Insomma, l’alternativa è starmene a compiangermi per…» di nuovo, concluse la frase indicando le gambe mancanti.
«Ah… è successo…?»
«Oggi, sì. Possiamo cambiare discorso?»
«Certo.» Lo spaziale si guardò intorno e prese a sua volta una giacca dell’equipaggio. «Ostenta sicurezza e potremmo giocare qui in giro per un po’.»
Todd annuì.
«Io sono Pick.»
«Piacere, Todd.»
«Il tipo… si sa chi era?»
Todd scosse la testa.
«Bene, vediamo di scoprirlo» disse lo spaziale, avvicinandosi ad un terminale.
«E come pensi di fare?»
«Se il robot sta facendo intrattenimento, dovrebbe mettere tutte le informazioni sul caso sul proprio sito, in modo che il pubblico possa partecipare… Infatti ecco: Darin Denell. Lavorava sul solar express come addetto alla manutenzione dei sistemi di areazione.»
«Ah. Un momento… Sistemi di areazione?»
Lo spaziale si voltò con gli occhi sgranati. Stavano pensando la stessa cosa.
«Ma… sarebbe assurdo» provò a dire Todd.
«La maggior parte delle riserve di ossigeno vengono dalla Terra. Senza più l’ascensore orbitale, il prezzo dell’aria salirà alle stelle.»
«Ma… sarebbe assurdo: chi ruberebbe l’aria.»
«Ah, ne conosco almeno un paio.»
«Avvertiamo l’equipaggio?»
«Se lo facciamo ci cacciano di nuovo nel vagone. Però… Sì, vediamo se se ne sono accorti.»

Todd seguì lo spaziale per una serie di cunicoli di servizio a gravità zero. Pick si muoveva agilmente, usando tutte e quattro le mani per spingersi nel condotto. Todd aveva qualche difficoltà a seguirlo, ma trovò comodo dover gestire solo metà del corpo. Un pensiero che non gli piacque affatto. Continuò a seguire lo spaziale fino ad un portello, poi entrambi rimasero immobili ad ascoltare quello che l’equipaggio si diceva.
Nella stanza di controllo c’era una certa agitazione. Rimasero un po’ ad ascoltare finché
«Capo» disse qualcuno nella radio interna. «Mancano i serbatoi quattro e cinque.»
«Cosa? Ma come hanno fatto? Li hanno…»
«Segati sì. Il taglio è ancora caldo.»
Seguirono diverse imprecazioni che Todd non riuscì ad afferrare bene.
«Chiama base Luna due. Avvertili della situazione.»
«Senza due serbatoi» fece notare qualcuno, «non riusciremo ad arrivare.»
«Lo so! Lo so. Rika, controlla se ci sono pattuglie della polizia in zona.»
«Negativo, capo. Li ho avvisati, ma si sono verificati furti simili anche in altri convogli.»
«Mike…» il capitano si prese una pausa prima di porre la successiva domanda. «Abbiamo aria per… quanti vagoni?»
«Non vorranno…?» sbottò Todd, in un sussurro.
«Otto. Nove se interveniamo subito e speriamo in un miracolo.»
Todd deglutì.
«Tre vagoni… Sigilla tutti i vagoni e imposta… Una scelta casuale. Guy, riprogramma la rotta. Sprechiamo un po’ di carburante, ma cerchiamo di salvare almeno gli altri e… Cavolo. Saranno seicento persone.»
«La maggior parte sono terrani» commentò qualcun altro in plancia, provocando un nuovo e ben più intenso flusso di insulti e imprecazioni che Todd non ascoltò.
«Trecento persone…» mormorò.
«Non possiamo permetterlo.» Anche Pick era allibito.
«Dobbiamo avvertire i passeggeri.»
«E a che scopo? Ci sarebbe solo una ressa inutile. No… dobbiamo recuperare quei serbatoi.»
«Come? Se neanche loro possono…»
«Ho una navetta» disse lo spaziale, allontanandosi nel corridoio così in fretta che questa volta Todd riuscì a stento a seguirlo.
«Scusa… ma, se hai una navetta, cosa ci fai qui?»
«Ecco… Problemi tecnici. Sai qualcosa di meccanica?»
«Ho smontato la modo di papà un paio di anni fa.»
«Ok, me lo farò bastare. Mi serve qualcuno in sala macchine.»

La Stinger era accatastata nel bagagliaio del Solar Express insieme a tutto quello che erano riusciti a salvare dal disastro.
«Cavolo. Proprio in mezzo. Quando apriremo il portellone… Be’, non saranno contenti» commentò Pick.
«Quando apriremo il portellone l’aria non verrà persa?»
«La stiva viene pressurizzata solo se serve. Dobbiamo procurarci delle tute per arrivare. Se fosse stata più vicino, avrei tentato trattenendo il respiro.»
«Tu sei matto.»
«Se non lo fossi non proverei neppure ad imbarcarmi in questa impresa. Vuoi tirarti indietro?»
«No.»
Pick gli sorrise e si spinse verso la camera stagna. Poco dopo entrambi erano nella navetta. L’aria puzzava di chiuso e di sudore, con un retrogusto acre molto fastidioso. L’ambiente era piccolo. C’era un ristretto spazio abitativo dal quale si aprivano piccoli loculi e si dipanavano corridoi. Una porta dava sulla cabina di pilotaggio, grande esattamente per lo spaziale. «Vai in sala macchine» disse questo, entrandovi. «E preparati.»
«Sì, ma come funziona? Non ho mai lavorato su questi motori.»
«La navetta è un gioiellino. Devi solo seguire le mie indicazioni.»
«Va bene… dov’è la sala macchine?»
«Quel corridoio. Poi gira a destra e scendi in fondo.»
Fece pochi metri e si bloccò: il bivio aveva una strada che saliva e una che scendeva. «Ehm… Pick… qual’è la destra?»
«Quella con il neon rotto.»
«Ah.»
La sala macchine non aveva certo l’aspetto di un gioiellino: chiazze di olio, bruciature di incendi e l’odore acre che aveva sentito poco prima.
«Ok ci sono. Adesso?» urlò. In tutta risposta un macchinario enorme si attivò, producendo un rumore di ferraglia che si trasformò in un persistente ronzio appena arrivò a regime.
«Attiva il microfono» rispose la voce dello spaziale da un altoparlante gracchiante.
Todd cercò un po’ poi riuscì a trovare l’interruttore. «Mi senti?»
«Sì.»
«Qui… non ci capisco niente. La metà di questi tasti non ha etichetta e dell’altra metà…»
«Lo so. Ci sono dei manometri davanti a te. Avvertimi se uno sale troppo.»
«Quanto è troppo?»
«Non lo so. Fai tu.»
Il ragazzo non sapeva neanche che significavano quei valori. Però in quel momento solo uno era salito a poco meno di un terzo di quadrante. «Per ora tutto bene.»
«Ok. Cerca la leva che trasferisce energia ai reattori e poi spingila lentamente.»
«Reattori… reattori… eccola» mormorò Todd, procedendo poi a spingerla. Diverse lancette si alterarono, ma nessuna sembrò salire “troppo”. «Un momento!» esclamò. «Le porte della stiva… Le hai aperte?»
«Non te ne preoccupare. Dammi più potenza. Molta più potenza.»
Todd si pentì di essersi infilato in quell’impresa.
«E reggiti!»
Ci fu un’accelerazione assurda. Todd riuscì appena ad aggrapparsi a una leva. Quella sbagliata.
«Per Marte! Todd! Riapri il flusso di refrigerante!»
In qualche modo il ragazzo riuscì a cambiare presa e rimettere a posto la leva. «Ma che…»
«Ora inizia la parte divertente» disse lo spaziale dalla plancia.
«Che vuoi fare?»
Ma Pick non rispose. Chiamò invece alla radio: «Stinger chiama nave 1804362.»
«Qui 1804362. Pick sei tu?» si sentì rispondere. La voce gracchiante a causa del doppio passaggio.
«Cavolo Carmen! Che state combinando?»
«Be’, mi pare ovvio. E non sperare di averne una fetta.»
«Ma quale fetta! Hai condannato a morte delle persone!»
«Nah. Hanno abbastanza aria per arrivare a destinazione… quasi tutti almeno.»
«Hanno deciso di chiudere l’aria a tre vagoni!»
«Ah be’, troppo tardi. Non restituisco la roba che mi prendo. La vuoi? Sai come fare. Sempre che tu abbia voglia di sprecare carburante e proiettili per inseguirmi.»
Ci fu un rumore sordo. La conversazione era chiusa.
«Hai sentito Todd?»
«Sì ma non mi piace. Che hai intenzione di fare?»
«Un bell’abbordaggio.»
«Cosa? Come possiamo in due abbordare una nave?»
«Carmen lavora da sola.»
«Sì ma…»
«Arriva!»
Un tremendo boato si propagò per tutta la nave. «Danni?»
«Come li vedo?»
«C’è una consolle. Reggiti: manovre evasive!»
Todd non poté fare altro che aggrapparsi alla consolle, mentre la navetta continuava a fare strettissime virate e incassare colpi.
«Danno alla corazzata esterna» lesse Todd. «Ora… danno al propulsore E… No F… Anche E ora… Cavolo! Ci stanno facendo a pezzi!»
«Yuhuuuu!» urlò Pick in preda all’entusiasmo. «Prendi questo! E quest’altro! Ti piace?»
La voce di prima passò di nuovo tra le due radio «Ok! Ok! Maledetto fanatico! Prendi i tuoi fottuti serbatoi e lasciami stare!»
«Saggia scelta carissima!»
«Questa me la paghi.»
«Quando vuoi.»
Il silenzio e la calma che ne seguì furono estranianti.
«Tutto qui?» chiese Todd. «Non che voglia lamentarmi, sia chiaro ma…»
«Certo. Guarda che il carburante e le munizioni costano.»

Il rientro al Solar Express si prospettava molto più tranquillo. Pick aveva già speso un sacco di carburante per quell’assurda battaglia spaziale, e impostò una rotta che gli avrebbe permesso di recuperare i serbatoi sganciati dalla nave di Carmen e trovarsi a un rendez vous con il treno solare con un’unica variazione di traiettoria. Il recupero fu facile, o almeno così lo fece sembrare lo spaziale che, con un unico movimento del braccio robotico, afferrò i due cilindri e li spinse nella piccola stiva. Poi passarono le successive due ore a fare il conteggio dei danni e fare le riparazioni d’emergenza. Finalmente Todd cominciava a capirci qualcosa, anche se era Pick a fare il grosso del lavoro.
«Chi è questo Loone?» chiese, dopo l’ennesima volta che veniva nominato.
«Il mio meccanico» rispose Pick, finalmente in vena di conversare. «Quando la cintura è andata distrutta è caduto in depressione.»
«Capisco.»
«E tu?»
«Io… Ero venuto quassù in gita. Con mio padre.»
Lo spaziale mosse appena la testa, invitandolo a proseguire.
«Quando è successo stavamo nella sezione 32.»
«Quella è che precipitata nell’atmosfera.»
«Sì. Le paratie si stavano chiudendo e… mio padre mi ha spinto. Quando si sono chiuse poi…»
«E i tuoi? Sei riuscito almeno ad avvertirli che stai bene?»
«No. Ci avevano dato la possibilità di registrare trenta secondi, ma non sono riuscito a combinare niente.»
«Usa la mia radio.»
«Ma… non ti costa?»
«Non fare lo scemo. Vai.»

Quando sullo schermo comparve il volto della madre, a Todd si seccò la gola.
«Mamma…» farfugliò.
«Oh, Todd… Stai bene! E Jhon? Come sta? Quando ho saputo ero così preoccupata e nessuno sapeva dirmi niente.»
«Mamma…»
«Ho visto alla televisione. Ne parlano in continuazione: non sanno come mandarvi su ossigeno e come fare per portarvi giù. Stanno preparando uno shuttle.»
«Mamma… Per favore. Fammi parlare.»
«Ma dicono che ci vorrà qualche mese… Sì dimmi.»
«Papà è…» gli ci volle un altro profondo respiro per dire quella parola. «Morto.»
Mentre il volto della madre diventava sempre più bianco, Todd continuò. «Le paratie si stavano chiudendo e lui mi ha dato una spinta. Mi ha salvato, ma è rimasto indietro.» Lei scuoteva la testa, con gli occhi pieni di lacrime. «Poi quando le paratie si sono chiuse, mi hanno… Schiacciato le gambe. Da metà coscia. È Stato…»
«Oh, piccolo mio… Tieni duro va bene? La mamma verrà a prenderti. Faranno uno shuttle. Ti vengo a prendere e ti porto a casa.»
«No, mamma.»
«Cosa?»
«Non torno sulla terra. Non voglio essere solo un povero disabile. Qui, anche senza gambe, posso fare qualcosa. Le gambe non mi servono nello spazio.»
«Ma pulcino mio…»
«Mamma, ho deciso. Non posso più tornare giù.»
Prima di rispondere, la donna si asciugò malamente gli occhi e si soffiò il naso. «Prometti che mi scriverai?»
«Sì.»
«Verrò a trovarti. Promesso.»
«Ci conto.»


Doveroso: le specifiche chiedevano una commistione di generi.
Anche se ho iniziato come un giallo la mia idea era di fare un triller fantascientifico. Il plot twist è dovuto solo alla necessità di giustificare la presenza di un robot Sherlock Holmes, anche se solo come attrazione.

Spero che il risultato sia comunque piacevole.
 
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Beatrice S.
view post Posted on 18/12/2017, 03:33




LA VENDETTA DELLA SPADA

Ho capito il significato dell’odio quando avevo dieci anni.
Quella sera l’inverno insinuava le sue dita fredde tra le pietre, attraversava gli arazzi delle battaglie appesi alle pareti, con il suo fiato testardo faceva tremare le vetrate. Il fuoco del grande camino della sala dei banchetti non riusciva a vincere la tenacia del gelo; avevo le dita intirizzite, nascoste nelle ampie maniche della tunica.
Sentivo addosso lo sguardo di tutta la mia famiglia; i grandi erano seduti sulle sedie di velluto rosso che per l’occasione erano state disposte su uno dei lati corti della sala, come i sedili di un teatro. Noi, i piccoli, eravamo dall’altra parte, in piedi, ad aspettare il nostro turno. Era il grande giorno, il giorno in cui avremmo fatto vedere a tutti quello che ci avevano insegnato i maestri: il nostro primo incantesimo.
Ficcai le unghie nei palmi per impedirmi di piangere, cercai il cielo; oltre la grande vetrata, la notte era una coperta di velluto nero bucata dalle stelle. Spostai lo sguardo sugli arazzi alle pareti, tra il fragore silenzioso di quei soldati di fili intrecciati c’era un cavallo che moriva. Mi aveva sempre fatto paura, con quegli occhi che sembravano vetro, spalancati verso il cielo, come se la morte l’avesse sorpreso e con quella bocca piena di denti digrignata alle stelle in una bestemmia senza voce. Guardavo verso quel cavallo mentre aspettavo il mio turno e sentii per la prima volta di comprendere il suo dolore.
La prima fu mia cugina Alissa: le sue braccia erano sottili, aggraziate, alzò la mano destra, le fiamme sgorgarono dal suo palmo e le si arrampicarono placide intorno alle dita. Sorrideva mentre giocava con il suo fuoco, lo faceva roteare sui polpastrelli. Dai grandi provenne un mormorio di assenso, seguito da un silenzio d’attesa. Tutti guardavano verso l’uomo seduto in prima fila, sullo scranno d’argento; fece un cenno con la testa. Solo allora partì un discreto applauso al quale Alissa rispose con un piccolo inchino, come ci avevano insegnato.
L’uomo sullo scranno d’argento fece un gesto come per dire: proseguiamo.
Non badai più agli incantesimi dei miei cugini, la testa mi pulsava e le gambe erano diventate molli, sentivo il calore crescente dei fuochi che si accendevano tra le loro mani e non riuscivano a smettere di tremare. Qualcuno mi prese la mano, sussultai. Tristan mi sorrise. La sua mano era calda, forte. Si era legato i lunghi capelli in una coda, le orecchie a punta erano rosse per il freddo. Gli dicevano di nasconderle ma lui non era uno di quelli che si lascia spaventare dagli ordini dei grandi. Suo padre era stato allontanato dalla famiglia per essersi unito a un’elfa. Lui, un mezzosangue, come lo definiva mio padre con disprezzo, sapeva far danzare le fiamme come nessun’altro.
“Anche tu avrai il fuoco.” disse.
“Lo sai che non ci riesco.”
“Oggi sì.”
Quando mi lasciò la mano, sentii qualcosa di freddo tra le dita. Mi guardai il palmo: c’erano un pezzo di metallo con degli uncini e un sasso dal bordo appuntito con della stoppa.
Prima di me toccò a Tristan. Alzò la mano destra e chiuse il pugno, rubò il fuoco del camino, lo fece ondeggiare tra le dita, disegnò cerchi e scintille alte fino al soffitto. Tutti erano rimasti in silenzio a guardare il suo fuoco più caldo del sole. Tristan aprì il palmo, soffiò e il fuoco tornò ad accendersi nel camino, più forte di prima, più caldo. Tutti applaudirono, l’uomo sullo scranno d’argento fece un gesto e l’applauso morì. Increspó le labbra celando il disprezzo.
“Bresterl, ora tocca a te.” Disse, la sua voce era placida e profonda, come quella di un lago nero dove non si vede il fondo. “Bada di non deludermi.”
Non riuscivo nemmeno a respirare, inghiottii un grumo di angoscia.“Sì, padre.”
Strinsi l’acciarino, le mani nascoste dalle maniche della tunica. Alzai la mano destra, feci cozzare il ferro contro il sasso. Niente. Lo feci ancora. Scintille arancioni saltarono via dalle mie mani. La stoppa prese fuoco, la strinsi nel pugno. Bruciava, faceva male. Ma non m’importava. C’ero riuscita! Anche io avevo il fuoco!
Guardai verso mio padre.
“Non vale!” urló Alissa con la sua vocetta acuta. “Non è magia.” Disse, scattò verso di me, si aggrappò alle maniche della mia tunica, strappandole via fino al gomito.
I miei cugini scoppiarono a ridere. Tristan mi guardò con gli occhi pieni di paura.
Le mie braccia erano piene di lividi, di cicatrici rosse; i maestri avevano tentato di tutto per cercare di instillarmi almeno un po’ di magia. Feci cadere l’acciarino che rimbalzò tra le pietre.
“Non è capace. Bresterl non è capace!” urlò Alissa.
“La maledizione.” disse lo zio Albus, dalla seconda fila. “Allora è reale.”
Mio padre arricciò le labbra, schioccò le dita verso di lui e lo zio Albus venne scaraventato dall’altra parte della stanza, cozzò la schiena contro la parete e crollò a terra.
Nessuno osava più parlare.
Mio padre strinse le dita intorno ai braccioli del trono, si alzò. Mio guardò come si guarda la mosca che si posa sul tuo cibo. Poi il suo sguardo scivolò via da me come acqua gelida contro una pietra e senza dire una parola mi diede le spalle e uscì dalla sala, il mantello che scivolava sulle pietre del pavimento.
Quando se ne fu andato il silenzio venne forato dalle voci del resto della mia famiglia. Nessuno badò allo zio Albus.
“Un Treland che non sa usare la magia. Inammissibile.” Disse la zia Flora, nascondendo il viso dietro un ventaglio di piume.
“Non è mai accaduto nella storia della nostra famiglia.” Le fece eco il marito, lisciandosi i baffi.
“Pensavo fossero solo delle voci.”
“E la figlia di Aaron, poi. L’unica erede del nostro capofamiglia priva di poteri”
“Come potrà superare l’Ordalia quando arriverà il momento?”
“Un affronto” chiocciò la zia Herta.
“Non sopravvivrà fino ad allora.”
“Sará la prima ad essere eliminata” rise lo zio Rupert.
“Ti piacerebbe fare un incantesimo adesso per scomparire, vero?” mi motteggiò Alissa.
Avrei voluto bruciare ogni cosa.
Schiacciai le lacrime con i palmi delle mani, diedi uno spintone ad Alissa e mi buttai fuori dalla stanza.
Il corridoio era freddo, scuro. Mio padre camminava silenzioso, le mani incrociate dietro la schiena.
“Papá” lo chiamai. Lui non si voltó nemmeno.
“Padre.” Ripetei. Questa volta si fermó, sempre senza voltarsi.
Mi fermai anche io, il fiato bloccato in gola, la mano destra che mi bruciava premuta contro la pancia. “Mi dispiace, padre.” Dissi, lo sguardo fisso contro la seta scarlatta della sua tunica. “Io non ci riesco proprio. Non è colpa mia. Vorrei tanto essere capace.”
La voce di mio padre mi arrivò cupa, come di qualcuno che parla sottacqua.
“Sai, Bresterl, la vita mi ha insegnato una lezione importante: devi valutare con attenzione le scelte che ti presenta d’innanzi, e scegliere con cura. Altrimenti te ne pentirai per sempre.” Disse. “Dieci anni fa, quando il cerusico mi disse di scegliere.” Continuó. “Avrei dovuto salvare tua madre.”
Riprese a camminare fino a scomparire in fondo al corridoio.
“Bresterl, aspetta!” Tristan mi mise una mano su una spalla. Lo scostai, con rabbia. “Io la odio la magia.”
Mi misi a correre, spalancai la porta del balcone, il respiro del freddo mi schiaffeggió, mi aggrappai al parapetto, premetti la mano contro il ghiaccio che si era formato sulla pietra e trovai sollievo alle mie bruciature. Solo allora riuscii a piangere, la faccia schiacciata contro le braccia.
Un rumore metallico mi fece alzare la testa. Nel cortile c’erano un uomo e un ragazzino che si stavano allenando alla luce delle torce; indossavano solo un corto farsetto d’arme, sprezzanti del freddo e impugnavano entrambi uno spadone a due mani.
L’uomo vorticava con grazia, tracciando onde nella neve a ogni attacco, come se danzasse, il ragazzo si difendeva, goffo, impacciato. L’uomo lo spronava, lo correggeva, gli faceva riprovare la stessa mossa ancora e ancora. Mi massaggiai le cicatrici sulle braccia; quello era un vero maestro.
“Non hai freddo?” disse Tristan mettendosi al mio fianco, le sue parole diventavano vapore tra le labbra.
“Chi sono quelli?”
“Soldati” disse. “Tuo padre non si stanca mai di mandarli in guerra”
Continuai a guardarli combattere, senza dire niente.
“Fammi vedere la mano” disse Tristan. Sollevai il palmo, era rosso, coperto di bolle gialle piene di liquido. Lui premette la sua mano contro la mia.
“Ahia” dissi, mentre un liquido freddo mi scorreva sul palmo.
“Non è vero che la odio la magia” dissi quando Tristan ritirò la mano, passai due dita contro il palmo; era tornato morbido, il dolore era scomparso.
“Lo so. Non è colpa tua”
“Dicono che sono maledetta. È vero?”
Tristan espirò, il fumo dalle sue labbra sembrava il respiro di un drago. “Mio padre mi ha raccontato che tuo padre non avrebbe dovuto vincere l’Ordalia, che quell’anno tutti si aspettavano che sarebbe stato suo fratello maggiore, Fingon, a vincere. Ma lui l’ha ferito prima che entrasse nell’arena. Stava male e allora non è riuscito a superare la prova, è stato ucciso nell’arena. Ma sua madre l’ha scoperto, per questo ha maledetto Aaron. Non sei tu a essere maledetta. La colpa è sua.”
Mi guardai le mani, erano piene di vecchie cicatrici. Chiusi le dita. “Io non voglio essere così. Non voglio essere sbagliata”
“Guarda” disse Tristan, indicando il cielo con un dito. Alzai lo sguardo e vidi un’ombra attraversare la luce della luna. “Hai visto?”
“Che cos’era?”
“Un assiolo.” disse.
“È bellissimo.”
“Vedi? Non puoi costringere un giovane assiolo a imparare a nuotare. Passerebbe la vita a guardare i pesci e a invidiarli. Invece un giorno impara a volare. E allora sono loro a dover alzare lo sguardo.”
“Ma io non posso volare”
“Sí, invece. Devi solo capire come.”
Il rumore delle spade si era fermato. Guardai in basso. Il ragazzino era caduto a terra, piangeva. L’uomo gli prese una mano e lo sollevò, rimettendolo in piedi. “Riproviamo” dicevano le sue labbra.
“Grazie” dissi a Tristan e mi misi a correre. Scesi le scale di corsa rischiando più volte di inciampare nella tunica. Dovetti usare tutta la mia forza per aprire il pesante portone che dava sul cortile. Il cielo si stava ovattando di nubi, stava iniziando a nevicare.
I piedi mi affondavano nella neve mentre correvo verso il centro del cortile, il rumore delle spade che cozzavano si faceva più forte, i due combattenti si muovevano come se quel rumore di metallo scandisse il ritmo di una danza.
“Insegnami” dissi quando li raggiunsi.
I due continuavano a combattere, i respiri che si condensavano in denso vapore e si confondevano tra loro. Il ragazzo fece vorticare la spada con forza, come se dovesse abbattere un albero, il vecchio fece rimbalzare la propria lama su quella del ragazzo sfruttando la sua forza per farla roteare in alto, fece un passo verso destra e appoggiò la spada sulla nuca del ragazzo.
“Insegnami” ripetei, più forte. Il vecchio alzó lo sguardo e mi vide.
Il ragazzo si voltó, scoppiò a ridere. Il suo sorriso si spense. “È la figlia di Aaron Treland.” Disse in un sussurro.
“Lo so” disse il vecchio senza scomporsi.
“Insegnami.” Dissi ancora. “Voglio imparare a combattere.”
“Perché?” disse il vecchio. Fece roteare la spada, me la puntó alla gola.
Il ragazzó sussultò. “Sei pazzo” gli disse.
“Perché dovrei insegnarti?” ripeté il vecchio.
Non arretrai. Rimasi in piedi, a fissare la lama che brillava alla luce della luna mentre i fiocchi di neve mi cadevano addosso e si scioglievano contro la mia pelle accaldata. “Perché non voglio più essere debole.” Dissi.
Il vecchio sorrise. “Prendi una spada.” Disse. “Iniziamo.”

***

Il portone che dava accesso all’arena era chiuso ma le urla degli spettatori sugli spalti arrivavano come se fossero lì con me, a gridarmi nelle orecchie.
Non mancava molto.
Strinsi l’elsa della spada che portavo in vita, grattai il cuoio dell’impugnatura e cercai di controllare il respiro.
Tornai di colpo la bambina che stava in piedi nella sala dei banchetti ad aspettare il proprio turno. Dovetti scuotere la testa per togliermi quella sensazione di dosso.
Mi avvicinai alla piccola grata di metallo aperta al centro del portone e guardai fuori.
L’arena era vuota, la sabbia era stata ripulita dal sangue delle precedenti prove. Il cielo era coperto, dalle nuvole cominciavano a cadere i primi fiocchi.
“Nevica” dissi.
Alle mie spalle la risata del maestro Sichel echeggiò contro le pareti della galleria.
“Sono gli dei che la mandano. È un segno, per tutti i campi di battaglia! Nevicava anche allora, ti ricordi?” disse, mordicchiando il bocchino della sua pipa in avorio. “Se ripenso alla bambina con i capelli arruffati che è venuta a implorarmi di insegnarle a combattere…” rise, scuotendo la testa. “E guardati ora… sei una donna, ormai. Quanti anni saranno passati? Dieci?”
“Tredici.” Dissi.
Sichel sospirò. “Avrei tanto voluto che mio figlio fosse qui a vederti.”
“Anche io, maestro.”
“Ti ha sempre invidiato, lo sai? E aveva ragione, per mille spade! Non ho mai conosciuto nessuno che maneggiasse una spada come fai tu. Ce l’hai nel sangue, credimi.”
Guardai verso l’arena, il mormorio della folla sembrava il respiro di un drago addormentato. Inspirai. “Non so se sono pronta.” Dissi. Mi avvicinai a lui, appoggiai la schiena contro la parete.
“Non dire scempiaggini! Certo che lo sei. Ti ho allenata io, per tutti i cavalieri ubriachi! E proprio per questo momento. Come diciamo sempre?”
Sorrisi. “Ovunque tu vada, sempre avanti” dissi.
“Precisamente”
Inspiró, espirò fumo.“Pensa se dovessi ricevere il Dono. Saresti l’incubo di ogni campo di battaglia.”
“Il Dono è solo per il capofamiglia, Sichel.”
Scrolló le spalle. “Non c’è nulla che ti impedisca di diventarlo. L’Ordalia è stata creata apposta per questo, no?”
“Io?” Scoppiai a ridere. “Mio padre non lo permetterebbe mai.”
Sichel fece un gesto di taglio con la mano. “Non pensare a tuo padre. Si pentirà di averti sottovalutata. Basta che ti veda combattere.”
Mi guardai la mano destra, strinsi il pugno, lo riaprii. “Non riesco a smettere di tremare. Guarda.”
“Basta.” Disse Sichel, sbattendo un pugno contro la parete. “Smettila di pensare a quello che dice tuo padre o te stessa.” scosse la testa. “O persino io.” alzò in alto la pipa. “C’è solo una cosa a cui devi prestare attenzione.”
“Cosa?”
“La tua spada.” Disse, indicando la lama che pendeva dalla mia vita. “Perché di nessuno al mondo ti potrai fidare, né uomo, né donna. Solo l'acciaio di una lama non mente mai, sia che tu la stringa salda in pugno, sia che laceri la tua carne." Disse, picchiandomi il bocchino della pipa contro il pettorale dell’armatura.
Strinsi l’elsa della spada, una sensazione che era diventata così familiare in tutti quegli anni.
D’improvviso dall’arena provenne un boato. Mi slanciai verso il portone e guardai oltre la grata. In mezzo all’arena c’era Tristan. Portava i capelli cortissimi, le orecchie a punta erano decorate con anelli d’argento. Stava in piedi, con gli occhi chiusi mentre le gabbie venivano aperte. In pochi secondi l’arena si riempì di una dozzina di grossi goblin che graffiavano la sabbia con le unghie per gettarsi verso di lui. Dalla gabbia più grande venne liberato un orco con un’armatura di pelle e un’ascia insanguinata tra le mani dalle unghie spaccate. Il terreno tremava a ogni suo passo. Tristan si liberò in pochi secondi dei goblin, tutto intorno a lui sapeva di fumo, la sabbia era vermiglia, impregnata del loro sangue, la sua tunica era rimasta immacolata. Una frusta di fuoco nero emerse dal suo palmo e attraversò il collo dell’ultimo goblin rimasto che cercava penosamente di strisciare via. La frusta venne riassorbita dal palmo di Tristan che chiuse il pugno e guardò verso l’orco che si avvicinava barcollando. Quando gli fu vicino alzó l’ascia con un grugnito. Tristan mosse le labbra e compose un incantesimo silenzioso. L’ascia si infranse, frammenti di metallo rovente si conficcarono nel collo e negli occhi dell’orco che emise un urlo di dolore e si accasciò sulle ginocchia portandosi entrambe le mani alla faccia. Il fuoco pose fine alle sue sofferenze. Tristan soffio via le fiamme dal palmo e guardò verso il balcone reale, sotto il baldacchino dal quale mio padre assisteva a tutte le prove; ormai non era altro che un vecchio stanco. L’Ordalia avrebbe deciso il suo successore, colui al quale sarebbe stato costretto a passare il Dono, un potere tanto pericoloso da poter essere controllato solo da una persona: l’invulnerabilità.
Né fame, né sete né alcun tipo di arma o magia possono togliere la vita. Solo il tempo può farlo.
Al termine dell’Ordalia il capofamiglia ha il dovere di cedere il posto al proprio successore e ritirarsi ad aspettare il momento in cui camminerà mano a mano con la morte, come con una vecchia amica il cui incontro è stato troppo a lungo rimandato.
La folla scoppiò in un boato; la grande clessidra d’argento che segnava il tempo di ogni sfida non si era vuotata nemmeno di metà e Tristan aveva già concluso la sua prova. Il primo membro della famiglia Treland a terminare la prova con tanta rapidità. Ed era un mezzosangue.
Tristan diede le spalle al palco reale senza fare l’inchino di rito e venne verso l’uscita dell’arena.
Il portone si aprì. Il boato della folla si dilatò tra le pietre della galleria.
Sorrise quando mi vide. “Una passeggiata” disse, scrollando le spalle. Solo i suoi stivali e l’orlo della sua tunica erano macchiati di sangue.
“Lo sapevo” dissi.
“Che cosa?”
Gli pizzicai un orecchio. “Che saresti stato il migliore.”
“Ahia” disse, ridendo e scuotendo la testa. “Non è ancora detto.”
“E perché?”
“Manchi ancora tu, no?”
Feci schioccare la lingua contro al palato. “Mio padre non vede l’ora di vedermi fallire.”
“Quello che si dice amore paterno.” Disse Tristan, batté due dita contro la mia fronte. “Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando ti vedrá combattere. Sarai uno spettacolo.”
“Certo che lo sará.” Intervenne il maestro Sichel, le braccia incrociate al petto.
“Farai una prova grandiosa.” Disse Tristan.
Inspirai, piano, dal naso, tentando di nascondere la paura. “E poi?” dissi.
“E poi cosa?”
“Ho passato tutta la vita a prepararmi per questo momento. E adesso che è arrivato non so…”
“E poi sarai libera.” Disse Tristan.
“Giá. Libera.” Sospirai. “Spero davvero che sarai tu a diventare il prossimo capofamiglia. Allora le cose potranno cambiare davvero. Per tutti.” Dissi.
“Tocca a te.” Disse il maestro Sichel.
Tristan mi diede un bacio sulla fronte. “Fatti valere.”

***

La sabbia puzzava ancora di sangue.
Aveva smesso di nevicare ma faceva ancora freddo, il respiro si congelava in vapore.
Quando entrai nell’arena il mormorio della folla divenne fragore. La maggior parte di loro era lì per vederci fallire. La folla vuole il sangue, vuole la disfatta, vuole vedere l’eroe cadere nella polvere. La vittoria porta invidia, la sconfitta consolazione per la banalità della propria vita.
Sapevano tutti chi ero: la figlia maledetta del più potente dei Treland. Se fossi caduta avrei fatto un gran fragore, con me sarebbe caduta nel fango l’intera stirpe. Non che mi importasse molto della famiglia, fosse stato per me, quel nome avrebbe potuto diventare cenere.
Mio padre dal suo baldacchino non mi guardava nemmeno. Sperava di poter sfruttare quella prova per potersi liberare per sempre della sua più grande vergogna.
La clessidra venne girata e le gabbie furono aperte. Quando estrassi la spada il fragore della folla si trasformò in una risata. Le risate si affievolirono quando uccisi i primi due goblin con un unico fendente dal basso, si smorzarono quando tranciai lo stomaco del terzo e divennero silenzio quando spaccai il cranio del quarto con un colpo d’elsa.
Allora si mutarono in grida d’incitamento mentre una dozzina di goblin dalla pelle marcia mi saltavano addosso da ogni direzione.
Concentrazione, un bersaglio alla volta, non perdere il ritmo del respiro, non permettere a nessuno di penetrare la tua difesa.
Le parole del maestro Sichel erano la mia legge, la mia preghiera.
I goblin cadevano nella sabbia, il loro sangue era scuro, rovente, puzzava di foglie marce. Ansimai, la punta della spada rivolta verso terra. L’ultima creatura rantolava a terra, cercando di respirare mentre veniva soffocata dal suo stesso sangue. Mi premetti una mano sulla guancia. Il guanto d’arme era freddo contro la pelle accaldata. Mi pulii il viso dal sangue. Abbassai lo sguardo, mi guardai l’armatura e sorrisi al pensiero della tunica immacolata di Tristan.
La gabbia più grande fu aperta: ne venne fuori un orco dall’armatura di piastre che stringeva un grosso spadone. Corse verso di me con la sua andatura barcollante e un feroce urlo di guerra nella gola. Alzó l’arma e la fece crollare a terra. Feci appena in tempo a buttarmi di lato per evitare il colpo ma lo spostamento d’aria mi fece sbilanciare. Mi abbassai per evitare il secondo colpo che diede come se stesse falciando spighe di grano, mi spinsi in avanti e allungai la spada, lo colpii di falso filo nell’incavo del ginocchio. La sua gamba cedette mentre lui urlava in una lingua che era un’unica bestemmia di grugniti.
Mi portai fuori dalla sua portata per riprendere fiato mentre lui tornava in piedi.
Contrastare la sua forza era impossibile. Avrei dovuto sfruttarla: era la tecnica di Sichel. Aspettai che l’orco corresse vero di me, sollevasse lo spadone e lo facesse crollare dall’alto, come se volesse abbattere un albero. Allora sollevai la spada, feci un passo verso destra per sottrarre la mia testa dalla sua traiettoria. Feci cozzare il filo della spada contro la sua e sfruttai la forza del suo colpo per dare impulso alla mia lama, la roteai sopra la testa e la feci crollare sulla sua nuca mentre lui, colto di sorpresa, si sbilanciava in avanti. Il sangue gli zampillò dalla ferita, crollò a terra, sulle ginocchia, poi di faccia nella sabbia.
L’arena era silenziosa adesso, il respiro della folla era un unico fiato.
Alzai la spada e divenne un boato. La clessidra era ancora mezza piena. Ce l’avevo fatta!
In quel momento qualcosa si mosse sotto i miei piedi, come se la terra stesse tremando o come se un grande serpente fosse nascosto sotto la sabbia e si stesse srotolando sotto di me. Il terreno divenne molle, cedevole, i piedi affondarono tra le onde di sabbia. Caddi all’indietro, trascinata da quel mare dorato. La spada mi scivolò dalle dita, mi buttai in avanti per non farla portare via da quelle onde che mi tagliavano la pelle, ma le mie dita si serrarono intorno a un pugno di sabbia.
Le onde di sabbia si mossero, si incontrarono, si amalgamarono fino a sollevarsi. Da quella montagna di sabbia emersero delle braccia, poi delle gambe, poi quella che avrebbe dovuto assomigliare a una testa.
Il gigante di sabbia si mosse, le sue membra si contrassero, la testa ruotó due volte oltre le spalle. I buchi che aveva al posto dello sguardo si fissarono su di me. Avanzó, le colonne che aveva per gambe sbattevano contro la sabbia, inglobandola, inghiottendola, il gigante aumentava di dimensione ad ogni passo.
Guardai verso il palco reale. Mio padre! Le sue labbra si muovevano, frenetiche, rincorrendo le parole di un incantesimo.
“Maledetto”
L’uomo di sabbia urló, le sue parole erano il vento caldo dell’estate che ti ferisce le orecchie. Alzó un pugno e lo fece crollare a terra. Mi buttai di lato per evitarlo ma il gigante fu più veloce; fece scivolare il pugno contro il terreno e mi colpí con il suo pugno di sabbia. Era solido e tagliente insieme, i granelli mi graffiarono il viso come tante lame sottili mentre il colpo mi sbatteva via. Rotolai a terra, il respiro spezzato. Il mostro gridó, venne verso di me. C’era qualcosa di metallico dentro una delle sue gambe. La mia spada! Mi puntellai sulle ginocchia per alzarmi, dall’armatura scivolarono granelli di sabbia.
Lo aspettai, in piedi, immobile. Quando fu abbastanza vicino feci una finta verso sinistra poi una scivolata dalla parte opposta, mentre scivolavo sulla sabbia alzai un braccio e mi aggrappai alla spada. Era conficcata dentro la sabbia. Non si muoveva. Spinsi la mano sinistra dentro la gamba del mostro per aprire un varco e svellere la lama. All’interno i granelli si muovevano come in un vortice, mi strapparono via il guanto d’arme, mi tagliarono la pelle. Con un grido riuscii a strappare la spada dalla sua prigione di sabbia. Mi rimisi in piedi, il mostro si voltó, i fori sul suo volto mi fissarono, abbatté un pugno su di me, scartai di lato e alzai la spada per tagliarla, la lama entró nella sabbia e ne uscí fuori dalla parte opposta. La sabbia scivolò nel taglio e lo ricompose. Il mostro sollevò il braccio integro e tentó ancora di colpirmi.
Inutile. Non potevo tagliarlo. Allora come?
Mi guardai intorno, guardai una delle lanterne che bruciava ai lati dell’arena. Il fuoco! Ma non avrei mai potuto raggiungere la temperatura giusta.
Il mostro abbatté ancora una volta il pugno, mi buttai di lato, lo spostamento d’aria era rovente.
Dovevo almeno provarci.
Mi misi a correre, raggiunsi la parete e svelsi una delle lanterne dal muro, la ciotola di ceramica era piena d’olio. Feci uno scatto e corsi verso il gigante. Lo aggirai, facendo cadere l’olio a disegnare un cerchio intorno a lui, poi feci cadere la lanterna dentro al cerchio. Il fuoco si accese, gli lambí le gambe e il mostro urló, ma le fiamme erano basse e stavano giá per spegnersi.
“Maledizione” imprecai, stringendo la spada.
Allora le fiamme si alzarono, divennero vermiglie, il calore mi scottò la faccia, mi costrinse ad allontanarmi, il metallo dell’armatura cominciava a scaldarsi.
Non avevo mai sentito tanto caldo in vita mia. Come era possibile?
Guardai verso il portone dal quale ero entrata: Tristan! Era lui a nutrire le fiamme.
Il mostro urlava, la sabbia crepitò, le gambe si erano giá trasformate in vetro. Il fuoco tacque per un istante, permettendomi di sferrare un fendente contro una delle due colonne. La gamba si infranse, il mostro crollò di lato, le fiamme tornarono ad avvolgerlo. Il gigante rantolava mentre la sabbia si cristallizzava. Quando il fuoco si spense il mostro era diventato trasparente, fragile come una vetrata. Feci crollare la spada su di lui e il gigante si infranse, crollando nella sabbia in minuscoli frammenti taglienti.
Guardai verso il palco reale. Il volto di Aaron Treland era deformato dalla rabbia.
“Ho superato la tua stupida sfida.” Urlai. “Adesso basta!”
La folla rumoreggiava. Mio padre si alzó, fece un gesto per imporre il silenzio. Non mi degnó di uno sguardo. “I sopravvissuti all’Ordalia siano radunati nell’arena.” Ordinò. “Un annuncio deve essere fatto.”
I cancelli vennero aperti, tutti coloro che si erano dimostrati degni della prova rientrarono nell’arena.
Mia cugina Alissa, avvolta nella sua tunica scarlatta mi rivolse, per la prima volta in tutta la mia vita, uno sguardo di ammirazione.
Tristan mi raggiunse.
Gli rivolsi un sorriso sfinito. “Ho perso un guanto.” Dissi, alzando la mano sinistra.
Lui mi gettó le braccia al collo e mi strinse. Premetti il viso contro il suo petto. Profumava. Doveva essere proprio un mezz’elfo per poter profumare in quel modo dopo aver combattuto contro un esercito di goblin.
“Ha cercato di fregarti.” Disse. “Diavolo, quel golem di sabbia è stato davvero un colpo basso.” Sciolse l’abbraccio e mi guardò. “Ma l’hai battuto.”
“Grazie a te.” Dissi. “Senza le tue fiamme…”
Mi premette un dito sulle labbra. “Sei stata tu a vincere la sfida.” Disse. Sorrise. “Credo che tu oggi abbia insegnato una lezione che i Treland non dimenticheranno tanto facilmente.”
“E sarebbe?”
“Una lama può battere un mago.”
Aaron Treland entró nell’arena scortato da una ventina di soldati in armatura scarlatta.
Si fermò davanti a noi, l’orlo del suo abito si era riempito di sabbia e sangue.
“Oggi è un grande giorno.” Disse. “Il giorno in cui anche i grandi devono imparare a cedere il posto e farsi da parte. Ma prima di incoronare il vincitore” disse con una smorfia che voleva essere un sorriso. “È necessario abbattere i perdenti.”
Trattenni il fiato. Mio padre mi guardò, sorrise. Mi indicò a dei soldati. “Prendetela.” Disse.
Non c’è disperazione peggiore di quella preceduta dalla speranza.
“Cosa? Perché?” urlai.
Tre soldati si avvicinarono, uno di loro mi colpí a una gamba, facendomi crollare sulle ginocchia.
“Le regole della famiglia Treland parlano chiaro” disse Aaron, rivolgendosi alla folla, la braccia alzate per raccogliere il consenso. “L’Ordalia va superata tramite l’uso della magia appresa in anni di studio. Questa ragazza non ha superato la prova come avrebbe fatto un degno membro della famiglia Treland. Per questo non merita di farne parte.” Sorrideva mentre pronunciava quelle parole. Schioccò le dita e uno dei soldati mi strappò la spada, l’altro premette una mano contro la mia nuca e mi spinse a terra, la lama della spada contro il mio collo. “Pertanto merita il destino di tutti i perdenti: venire eliminata.”
“No!” urló una voce.
Era Tristan. Avanzó verso Aaron. I soldati si frapposero tra loro, impedendogli di avvicinarsi. “Non puoi farlo.” soffiò Tristan tra i denti serrati. “Ha superato la sua prova, non importa come. Se ora tu la trattassi come una perdente saresti maledetto.”
Aaron sorrise. “Io sono giá stato maledetto una volta.” Disse. “Ora non sto facendo che rimediare al risultato di quella maledizione.”
“Non potrai mai liberarti dalla tua maledizione”
“Che irrispettoso mezzosangue.” Aaron rise. “Osi opporti a me? Sono ancora io il capofamiglia. Ho ancora io il potere.”
Tristan scosse la testa. “Non sei mai stato degno di portare quel titolo. Tuo fratello lo era. Ma gli hai tagliato la gola prima che potesse protestare.”
Gli occhi di Aaron vennero percorsi da un lampo d’odio. Sorrise, e l’odio e il piacere lottarono per il dominio del suo volto. “Lo sapevo.” Disse. “Uno sporco mezzosangue non è degno di diventare il capofamiglia dei Treland.”
Aaron schioccó le dita e un gruppo di soldati scattò verso Tristan. Cercó di difendersi, investì uno con una fiammata nera e premette il palmo sull’armatura di un altro che divenne incandescente. Ma erano in troppi, non poté opporsi a lungo, lo buttarono a terra, la faccia schiacciata contro la sabbia.
“Maledetto” urlai verso mio padre. Se l’odio avesse lama sarebbe morto.
Gli altri membri della famiglia mormoravano tra loro, increduli.
“Non è giusto!” urlò qualcuno.
“Bresterl ha superato la prova!”
“Devi cedere il posto Aaron, è così che vuole la legge della famiglia.”
Aaron gli fece circondare dai soldati. “Non cederò il mio posto.” Disse. “Ho intenzione di starmene seduto sul mio trono ancora a lungo.”
Sugli spalti la folla rumoreggiava ma non osava protestare, il terrore paralizzava.
Aaron fece un cenno verso i soldati che tenevano bloccato Tristan.
Uno di loro sollevo la spada e la abbatté sul suo collo.
La lama colpí il collo, fu come se avesse colpito la pietra. Si crepó, si spezzò.
“Che cosa?” disse Aaron. Rise, una risata spezzata, nervosa.
“Il successore è già stato scelto. Il Dono è stato trasmesso.” Disse una voce.
Una vecchia avvolta in un mantello nero era scesa dagli spalti, veniva accompagnata al centro dell’arena da una giovane.
“Madre.” Urló Aaron. “Vattene da qui.”
“No.” Disse la vecchia. “Sono io ad averti maledetto più di trent’anni fa quando hai ucciso tuo fratello. E adesso assisterò alla tua rovina. Il Dono è giá stato trasmesso, Aaron.”
Aaron urló. “Non è possibile.”
“Lo é. È il sangue a decidere.” Disse la vecchia. “Alzati, Tristan.” Disse. “E voi, lascia telo.” Aggiunse, rivolta ai soldati.
Tristan alzó la testa, premette le mani su un ginocchio e si sollevò.
“Prendetelo” disse ai soldati, indicando Aaron che si era accasciato a terra, svuotato. I soldati si inchinarono al nuovo padrone, poi scattarono verso Aaron e lo bloccarono. Anche i soldati che bloccavano me mi lasciarono andare, mi restituirono la spada. Mi sollevai, ripulendomi dalla sabbia.
“E adesso?” disse Tristan.
La vecchia scrollò la testa e le spalle. “Adesso sei tu il capofamiglia dei Treland.” Disse con la sua voce sottile. “Spetta a te decidere, come è giusto che sia.”
Tristan sorrise. Si voltó verso di me e mi porse la mano. “Questa decisione non è mia.” disse. “Bresterl. Lascio la scelta a te.”
Strinsi la spada, mi avvicinai ad Aaron Treland che giaceva in ginocchi nella polvere. Mi piaceva quella vista.
“Sai, padre” dissi.
Lui alzó lo sguardo, mi fissava con un singulto di sprezzo.
“Ora che sei qui, in ginocchio davanti a me potrei scegliere di perdonarti. Gli eroi fanno così, giusto?”
Lui buttó la testa all’indietro e scoppiò a ridere.
“Ma qualcuno una volta mi ha detto che bisogna riflettere attentamente sulle scelte che la vita ci mette davanti e scegliere con coscienza e senso pratico se non si vuole pentirsene dieci anni dopo. E poi, io non sono un eroe.”
Il sorriso sulle sua labbra si spense. Allora mi guardò negli occhi e, forse per la prima volta, mi vide davvero.
“Addio, padre.” Dissi, immergendogli la spada nel petto.
 
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view post Posted on 18/12/2017, 10:36
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Entro oggi forse arrivo pure io. O al massimo domani.
 
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view post Posted on 19/12/2017, 00:19
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Custode di Ryelh
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Molto bene. Coraggio, gente: avete tempo fino al 21 per completare!!
 
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view post Posted on 19/12/2017, 04:07
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"Ecate, figlia mia..."

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*rimosso*


Edited by Gargaros - 2/1/2018, 22:41
 
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view post Posted on 19/12/2017, 08:15
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Fantastico. Manca solo incantatore quindi?
 
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view post Posted on 21/12/2017, 11:27
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Posterò domani in nottata (prima delle 23.59).

Abbiate pazienza, ma mi riduco sempre all'ultimo... :p100: :1391975826.gif: :1392239588.gif:
 
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view post Posted on 21/12/2017, 12:44
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CITAZIONE (Incantatore Incompleto @ 21/12/2017, 11:27) 
Posterò domani in nottata (prima delle 23.59).

Abbiate pazienza, ma mi riduco sempre all'ultimo... :p100: :1391975826.gif: :1392239588.gif:

Ehm... però scadrebbe oggi.

Riesci ad accelerare un po' i tempi?
 
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view post Posted on 21/12/2017, 14:43
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Apprendista stregone

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Ma... White Pretorian ha scritto: "Non dovremmo andare oltre il 22" e il 22 è domani... :huh:

Perché mi dici che scade oggi? :cry:
 
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78 replies since 15/11/2017, 23:54   1049 views
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