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Skannatoio di Halloween 2019

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view post Posted on 10/10/2019, 17:26
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E senza indugi passiamo allo skannatoio speciale di Halloween!!!

TEMPISTICHE:
1) la fase di scrittura comincia dall'esatto momento in cui pubblicherò questo post e terminerà alle ore 23:59 di mercoledì 30/10/2019 (ATTENZIONE: non prorogabile! Non chiedetemi giorni in più.)
2) Da Giovedì 31/10/2019 a domenica 17/11/2019 potete leggere e commentare e votare i racconti degli altri partecipanti.
3) A partire dall'ultimo commento, ci sarà una settimana per votare il miglior commento al proprio racconto (1 punto) o i migliri commenti complessivi (2 punti)


LUNGHEZZA

1) Il racconto potrà essere compreso tra i 3000 e i 25000 caratteri.


ATTENZIONE: REGOLA SPERIMENTALE
(come sempre vi chiederò alla fine dello skanna se la regola vi è piaciuta e se posso riproporla in successivi contest)

Questa volta vi chiedo di scegliere almeno due tra le quattro specifiche proposte. Non ci saranno coccarde. Nulla vi vieta di seguire tutte e quattro le specifiche, ma non sono previsti premi aggiuntivi (nella fase dei commenti potete comunque premiare chi ha seguito più di due specifiche).

Ribadisco: 4 specifiche. Scegliete voi quali seguire. Almeno due.

È cortesia indicare quali sono le specifiche seguite nel racconto all'inizio dello stesso.

Specifiche

Leggenda metropolitana
Il racconto dovrà fare riferimento o contenere al suo interno una leggenda metropolitana. Non è necessario specificare esattamente quale o da quale folclore viene.

Alieni
Il racconto deve essere scritto da un punto di vista non umano. Nel racconto tutto quello che accadrà dovrà essere filtrato da tale punto di vista, quindi anche un bacio passionale potrebbe diventare un tentativo di mangiare la faccia dell'altro (sì lo so ho preso un esempio vecchio quanto il mondo).

Racconto intorno al fuoco
Il racconto dovrà essere o essere incentrato su un racconto intorno al fuoco.

Referto medico
Nel racconto dovrà essere presente e avere rilevanza per la trama un referto medico.


Come sempre bazzicherò in zona per i prossimi giorni. Per qualsiasi dubbio chiedete.
 
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view post Posted on 10/10/2019, 19:25
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"Ecate, figlia mia..."

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La leggenda metropolitana deve essere reale o possiamo inventarne una?
 
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view post Posted on 10/10/2019, 20:12
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Puoi inventare
 
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view post Posted on 10/10/2019, 21:06
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Custode di Ryelh
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Vediamo. Sono un po' occupato in questo periodo, ma spero di riuscire a partecipare.
 
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view post Posted on 11/10/2019, 19:29

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Ciao Reiuky, prenderò nota e vedrò di preparare qualcosa. Mi piacciono queste specifiche.
 
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view post Posted on 22/10/2019, 12:01
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Ciao a tutti,

spunto molto interessante.
Posso partecipare?
 
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view post Posted on 23/10/2019, 22:10
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CITAZIONE (Byron.RN @ 22/10/2019, 13:01) 
Ciao a tutti,

spunto molto interessante.
Posso partecipare?

DEVI :)
 
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view post Posted on 24/10/2019, 09:09
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Come state messi?
 
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view post Posted on 24/10/2019, 10:22
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CITAZIONE (reiuky @ 24/10/2019, 10:09) 
Come state messi?

Più o meno a metà, ma non mi piace e forse vi faccio il bidone :p099:
 
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view post Posted on 24/10/2019, 11:52
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Io devo inserire il finale. Tra venerdì e sabato lo posto
 
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view post Posted on 24/10/2019, 12:27
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CITAZIONE (Gargaros @ 24/10/2019, 11:22) 
CITAZIONE (reiuky @ 24/10/2019, 10:09) 
Come state messi?

Più o meno a metà, ma non mi piace e forse vi faccio il bidone :p099:

Toglietelo dalla testa! :p097:

CITAZIONE (Byron.RN @ 24/10/2019, 12:52) 
Io devo inserire il finale. Tra venerdì e sabato lo posto

Ottimo :1392239710.gif:
 
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view post Posted on 26/10/2019, 00:00
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Specifiche usate:

1-Leggenda metropolitana
2-Racconto intorno al fuoco
3-Referto medico




UN'ALTRA STORIA DA RACCONTARE



Mike e i suoi amici arrivarono al Gray Ghost Camps di Rockwood dopo il tramonto. Erano partiti da Portland verso le tre del pomeriggio e ora l'orologio della Ford segnava le 18,41.
Erano mesi che parlavano di andare a trascorrere un fine settimana sul lago Moosehead e immergersi nella natura: canoa, passeggiate nei boschi, avvistamenti di alci, cervi, volpi, e perché no, orsi. Alla fine, dopo decine di scuse e di rinvii, erano riusciti a organizzarsi per il week end di Halloween. Probabilmente tutta quella indecisione era stata un dono del cielo, perché lo spettacolo cromatico generato dall'autunno era sorprendentemente suggestivo. Già durante il viaggio ognuno di loro era stato toccato dalla consapevolezza che immergersi per un paio di giorni in quel carnevale di foglie sarebbe stato spettacolare, se non magico.
Mike, Linda, Alan e Shauna scesero dall'Explorer e recuperarono le valigie dal bagagliaio. David e Sarah invece erano ancora dentro la loro Toyota e stavano discutendo animatamente come al solito.
«Quei due non fanno che litigare» borbottò Mike mentre entrava nella casetta che avevano prenotato.
«Litigano perché si vogliono bene» lo rimbeccò Linda.
«Bella teoria. Infatti noi che non litighiamo mai ci detestiamo» disse Mike stizzito. Linda fece una smorfia, poi raggiunse il suo ragazzo nella casa.
Dietro di loro Alan e Shauna si erano fermati sulla piccola veranda e si stavano baciando. L'aria di ottobre era fresca ma non ancora fredda. Probabilmente durante la notte la temperatura sarebbe scesa sensibilmente.
«Ehi, niente male l'interno della catapecchia. Avete già provato i letti?» disse Alan dall'uscio.
«Ma è mai possibile che pensi sempre alla stessa cosa?» disse Shauna ridendo e rifilandogli un piccolo schiaffo sul collo.
«È proprio perché penso sempre alla stessa cosa che il buonumore non ti abbandona mai, bellezza. Hai visto quei due in macchina? Da quant'è che non scopano per te?»
«Non lo so e non mi interessa» rispose Shauna con un sorriso, afferrando il suo uomo per i fianchi.
David e Sarah arrivarono due minuti dopo, con le loro valigie e le buste con le provviste. La ragazza aveva gli occhi lucidi. Si vedeva che aveva pianto.
«Cos'era questa? La litigata numero cinque della giornata? Oppure siamo già alla sesta?»
«Fatti i cazzi tuoi Mike» ringhiò David.
«Già Mike, fatteli» ribadì Sarah.
Linda si avvicinò a Mike, intuendo che stava per reagire, e gli schioccò un bacio sulla bocca, poi cercò di smorzare la tensione.
«Dai ragazzi, siamo venuti qua per divertirci e non per bisticciare. Ora noi ragazze ci daremo da fare per mettere in tavola una bella cenetta, mentre voi ometti raccoglierete un po' di legna e penserete a qualche storia orripilante da raccontarci davanti al fuoco. Su, diamoci da fare.»

****


Al termine della cena le ragazze lavarono i piatti, poi raggiunsero i loro compagni sulla riva del lago. Mike, Alan e David erano già alla terza birra e stavano ridendo come matti. Nell'anello di pietra il fuoco scoppiettava allegramente come le anime dei tre amici. L'alterco di qualche ora prima era già uno sbiadito ricordo.
«Allora ragazzi, come va? Vi state divertendo?» chiese Linda stringendosi nel giaccone. Rispetto a quando erano arrivati la temperatura era calata di parecchio e ora faceva decisamente freddo.
«Sì tesoro» rispose Mike, «David ci ha appena raccontato della volta che si è ubriacato al matrimonio di suo cugino. Ha raccattato una bici fuori dal ristorante e in mutande si è messo a pedalare tra i tavoli del ricevimento.»
I tre ragazzi fecero tintinnare le loro bottiglie, riempendo nuovamente d'allegria l'aria gelata.
«Davvero un bello spettacolo, non c'è che dire» aggiunse Shauna ridendo. «Stasera però è la notte di Halloween. Noi vogliamo ascoltare storie agghiaccianti, storie di paura, non vecchi aneddoti divertenti.»
«Già, ci dovete mettere addosso una fifa del diavolo» rincarò Sarah.
«Avete voglia di spaventarvi? Davvero? Allora sedetevi qui con noi, aprite le orecchie e stringete le chiappe» disse David facendosi serio.
Le ragazze si sistemarono assieme agli uomini attorno al fuoco, poi David cominciò a raccontare.
«Mio zio Jonas, quando ero piccolo, era solito raccontarmi della bambina. Nessuno sapeva come si chiamasse o quanti anni avesse con esattezza. Non era chiaro neppure dove abitasse. L'unica cosa certa era che la si poteva avvistare lungo la Strada 302 a fare l'autostop, nel tratto che va da Portland a Bridgton. Mio zio faceva il piazzista e solcava in lungo e in largo tutte le strade del Maine, ma negli anni non aveva mai avuto occasione d'incontrala. Un giorno però, mentre si stava dirigendo a Lisbon per una convention di venditori la notò. Era sul ciglio della statale con la mano alzata, come riferito da chi l'aveva vista prima di lui. Si era fermato e l'aveva caricata su, chiedendole dove doveva andare. La bambina non aveva detto una parola, aveva soltanto allungato un dito davanti a loro, così lui era partito senza fare altre domande. La piccola aveva corti capelli neri, occhi scuri e profondi e indossava un vestitino bianco. A detta di mio zio emanava un sentore particolare. A lui ricordava l'odore di barbeque, solo più acuto e pungente. In mano stringeva una bambola di pezza che sembrava aver visto giorni migliori.»
David fece una piccola pausa, si schiarì la gola, poi ricominciò a raccontare.
«Avevano macinato qualche decina di chilometri, sempre in silenzio, fino a quando la piccola, in prossimità di Raymond, vicino alla sponda del lago Sebago, aveva dato cenni di nervosismo. All'inizio aveva cominciato a piagnucolare, poi a strillare, sempre più forte, fino a ripetere all'infinito la parola pericolo. PERICOLO! PERICOLO! urlava e al contempo indicava un punto sul ciglio della strada. Jonas allora fermò l'auto e scese a verificare cosa poteva aver impaurito la bambina. Non trovò nulla di strano, però quando rientrò in macchina della bambina non c'era più traccia. Sul sedile giaceva abbandonata solo la sua bambola di pezza. Successivamente, quando ritornò dalla convention volle andare in fondo a quella storia e fece
ricerche alla biblioteca di Raymond. Raccontò alla bibliotecaria per filo e
per segno ciò che gli era accaduto e lei gli disse che poteva trattarsi dell'incidente del 23 agosto 1972. Sfogliò le pagine del Raymond News di quel giorno e scoprì che effettivamente proprio nel punto che aveva indicato la bambina c'era stato un pauroso incidente. Un camion carico di legname aveva invaso la corsia opposta mentre sopraggiungeva la station wagon della famiglia Wilkins. La familiare nell'impatto si era incendiata, così Joseph e Ingrid Wilkins, assieme alla loro piccola figlia Elisabeth, erano morti carbonizzati.»
David si zittì per qualche secondo, giusto il tempo di fare metabolizzare agli altri ciò che aveva detto, poi si alzò, si avvicinò a Sarah e parlò nuovamente.«Dopo quella volta mio zio ha riprovato a battere la Strada 302 ogni volta che poteva, per rivedere lo spirito di Elisabeth, per salutarla un'ultima volta, per darle questa.»
Con noncuranza David estrasse una bambola di pezza dal giaccone e la lasciò cadere tra le braccia della sua fidanzata.
«AAAAHHHH» urlò Sarah, «ma vuoi farmi venire un infarto, brutto cazzone?»
Sarah si scrollò la bambola di dosso, come se fosse qualcosa d'infetto, poi si unì alle risate degli altri che stavano riempendo il buio della notte.
«Ora tocca a me» disse Alan, una volta scemata l'ilarità.«Penso che questa vicenda sarà particolarmente apprezzata dalle fanciulle qui presenti. È inutile che vi dica che questa è assolutamente una storia vera.»
Alan tracannò d'un fiato le quattro dita di birra che erano rimaste nella sua bottiglia, poi iniziò.
«Quando ero al mio secondo anno d'università, a Orono, dividevo la stanza con John O'Sullivan, un irlandese decisamente atipico. Non gli piaceva ubriacarsi, non aveva mai fatto a pugni in vita sua e sembrava avere un bastone infilato su per il culo tanto stava sulle sue. Non parlavamo molto, avevamo giri diversi. Ogni tanto però, quando gli girava bene, prendeva a raccontarmi delle storie bizzarre che leggeva in non so quali riviste o gli venivano narrate da non ben definiti amici o conoscenti. Comunque un giorno, al ritorno dalle vacanze natalizie, mi avvicina e inizia a raccontare
una storia che lì per lì ha il solo effetto di annoiarmi. C'era un tale, un bifolco arricchito, che possedeva un paio di aziende tessili e una cartiera nei pressi di Augusta. Questo tipo, Phil Bruwer, aveva una bella moglie, molto più giovane di lui, tipo reginetta di bellezza del liceo. Geena, la moglie, aveva un debole per i vestiti, e almeno una volta l'anno costringeva il povero Phil a una trasferta di shopping sfrenato a Beverly Hills. Per una settimana la biondona passava in rassegna tutti i negozi di Rodeo Drive, spendendo a più non posso. Phil per un po' l'assecondava, l'accompagnava nelle compere, poi preso dalla disperazione si rintanava nel bar dell'albergo ad ingannare l'attesa in compagnia del signor Jack Daniels. Una sera però, visto che si era fatto tardi e Geena ancora non era rientrata in hotel, Phil era tornato in Rodeo Drive, chiedendo informazioni della moglie in tutte le boutique dove poteva essere stata. Nessuno però aveva saputo dargli la minima notizia. Phil preoccupato era tornato in hotel, aveva atteso ancora un paio d'ore, poi aveva avvertito le autorità. La polizia indagò per una settimana, passò in rassegna tutto il viale, concentrandosi sull'ultimo negozio in cui il marito l'aveva lasciata prima di perderne le traccie, senza tuttavia ottenere alcun risultato. Phil affranto tornò ad Augusta, pur rimanendo in contatto col detective Jones della sezione persone scomparse del dipartimento di polizia di Beverly Hills. Passa più di un anno e la polizia californiana sembra incapace di tirare fuori un ragno dal buco. Phil Bruwer allora decide di agire in altro modo e qui entra in scena il fratello di John. Patrick O'Sullivan è il titolare di una piccola agenzia d'investigazione che ha sede in un palazzo cadente situato vicino a una delle industrie tessili del marito affranto. Bruwer è deciso a ritrovare la moglie e non bada a spese. Patrick così si sposta a Beverly Hills e comincia a investigare. Gira, osserva, fa domande, mostra la foto di Geena a chiunque gli passi sotto tiro. Ad insospettirlo è l'atteggiamento reticente di un dipendente della Bauman Boutique. Con discrezione inizia a tenere sotto controllo il negozio e a pedinare il commesso fuori dagli orari di lavoro. Le settimane passano, ma alla fine l'istinto e la tenacia di Patrick vengono premiate. Il negoziante un giorno incontra uno strano tipo, un messicano corpulento, in un bar dalle parti di
Inglewood. Parlano fitto, sembrano conoscersi bene, poi a un certo punto il messicano da al commesso una busta e se ne va. O'Sullivan non ci pensa su due volte e segue il grassone. Il pedinamento lo porta in Messico, ad Hermosillo per la precisione. Alla periferia della città c'è una sorta di Luna Park, un misto di attrazioni e stand gastronomici. Patrick segue il tipo sino al padiglione dei fenomeni da baraccone e qui s'imbatte in Geena. La riconosce subito, è identica alla foto che gli ha dato Mr. Bruwer, tranne un piccolo particolare: non ha più le braccia e le gambe. Sarà grazie a Patrick O'Sullivan che le autorità scopriranno un macabro traffico di esseri umani gestito dal commesso della Bauman Boutique assieme a bande criminali del Messico nord occidentale.»
Quando Alan smise di parlare nessuno ebbe il coraggio di fiatare. L'unico rumore era rappresentato dal crepitio del fuoco nell'anello di pietra. La prima a spezzare quel religioso silenzio fu Shauna.
«Ora tocca a te Mike. Sarà difficile fare meglio di Alan.»
«Hai ragione Shauna, non sarà per niente semplice, ma cercherò di fare del mio meglio. Prima di cominciare però vorrei fare un brindisi a noi, alla nostra amicizia e al soggiorno in questa splendida località.»
Detto questo Mike si allontanò un istante, raggiunse la sua auto e ritornò con in mano un thermos.
«Qua dentro c'è un punch all'arancia fatto appositamente da mia madre per l'occasione. È davvero fantastico, credetemi.»
Uno alla volta i ragazzi tesero i bicchieri e Mike li riempì sino all'orlo.
«Alla nostra» disse, e tutti ingollarono il liquido in un fiato.
«Bene» riprese Mike, «la storia che sto per raccontarvi è successa qualche anno fa in un posto come questo. Anzi, ci sono buone probabilità che il tutto sia accaduto proprio qui, al Gray Ghost Camps. I protagonisti sono un gruppo affiatato di amici, un'allegra combriccola come può essere la nostra. Questi ragazzi e ragazze erano davvero molto uniti, si raccontavano più o meno tutto e cercavano di passare il maggior tempo possibile assieme, compatibilmente coi propri impegni lavorativi. Fatto sta che un giorno all'esuberante del gruppo venne l'idea di organizzare il week end di
Halloween in un campeggio. Sarebbe stato come ritornare indietro nel tempo, un tuffo nel passato dell'adolescenza. L'idea era divertente e tutti aderirono con entusiasmo. Trascorsero un paio di giorni fantastici a fare interminabili passeggiate nei boschi e a pagaiare in serenità sul lago. Come da prassi poi, la sera del 31 ottobre, si erano riuniti attorno a un fuoco per raccontarsi storie bizzarre e paurose. Storie davvero terrificanti, non come le leggende metropolitane sulla bambina fantasma o sui trafficanti di esseri umani che abbiamo ascoltato questa sera.»
«Fanculo Mike» protestò Alan, «la mia era una storia vera, non una leggenda metropolitana del cazzo. Una fottuta storia reale da farti tremare i peli del culo.»
Tutti i ragazzi risero a quelle esternazioni. Anche Mike, sebbene la sua sembrasse una risata amara. Quasi triste.
«Va bene, va bene» disse alzando le mani in segno di resa, «non era mia intenzione sminuire alcunché.»
Mike osservò Linda, poi tutti gli altri. Sembravano sempre più stanchi; David addirittura collezionava uno sbadiglio dietro l'altro. Lui invece era vigile e sveglio come non mai.
«Quando arrivò il turno dell'ultimo ragazzo era quasi mezzanotte» riprese Mike dando un'occhiata all'orologio. «Lui aveva da raccontare una storia dell'orrore che gli altri si sognavano. Con un'intensità spaventosa squadrò gli amici attorno al fuoco, poi, con un gesto plateale tirò fuori dalla tasca posteriore dei calzoni una busta bianca. Mentre l'apriva si lasciò scappare una lacrima dispettosa che solcò il suo viso per l'intera lunghezza, andandosi poi a disperdere sul terreno.
A quel punto la voce di Mike si era incrinata e Linda, nonostante il sonno incombente se ne accorse subito.
«Tesoro cosa c'è? Qualcosa non va?» disse, lasciandosi sfuggire anch'ella un paio di sbadigli.
«No Linda, è tutto a posto, sono solo un po' emozionato. Il fatto è che quel ragazzo si era sottoposto a un esame, e la busta conteneva l'esito. Il risultato non era per niente buono. Sul referto c'era scritto che gli restavano davvero
pochi giorni. Meno di un mese probabilmente.»
Mike si soffermò un attimo a guardare la sua platea: si erano assopiti tutti. Si mise a piangere e continuò a parlare, anche se gli amici non potevano più sentirlo.
«Capite? Solo pochi giorni e avrebbe dovuto abbandonare questa terra. Solo che aveva paura. Non voleva andarsene. Non era per niente pronto. Come non lo sono io.»
Sempre singhiozzando Mike tirò fuori la busta che conteneva la sua condanna a morte, l'appallottolò e la lanciò nel fuoco che oramai si andava smorzando.
«E soprattutto non voglio andarmene da solo!» ringhiò pieno di rabbia e terrore. Poi tirò fuori la pistola del padre e sparò agli amici che giacevano in stato d'incoscienza. Non si sarebbero accorti di nulla o almeno così sperava. Mirò al cuore, la sede dei sentimenti, delle emozioni e forse dell'anima. Il cuore, la zona irrazionale degli uomini, la parte che li rendeva forti e vulnerabili allo stesso tempo. Il penultimo colpo lo dedicò alla sua Linda. L'aveva amata come nessun'altra. Avrebbe voluto invecchiare con lei, regalarle dei bambini, ma il destino aveva deciso diversamente.
Ora mancava l'ultimo colpo. Prese il punch, quello che prima aveva finto di bere, e stavolta lo ingurgitò veramente. Aspettò che il sedativo che vi era stato sciolto facesse effetto. Una sedia abbandonata davanti al lago lo chiamò. Si sedette. Le acque del Moosehead erano piatte e scure come una condanna. Si chiese se dall'altra parte avrebbe incontrato nuovamente i suoi amici e Linda. Si augurò di sì. Certo, doveva essere così. Sarebbero stati insieme per l'eternità come lo erano stati nei loro giorni da mortali.
Percepì l'inizio del torpore che stava cominciando a scavare un tunnel nel suo stato di coscienza. Non fece trascorrere altro tempo. Appoggiò l'arma al petto e sparò l'ultimo colpo. Al cuore, sempre al cuore, l'inizio e la fine di ogni cosa.
Il custode del complesso scoprì i corpi privi di vita il mattino seguente. Sei giovani, sei esistenze, per una sola storia. Una storia macabra, feroce, cruda, da raccontare davanti a un fuoco per tutti gli Halloween a venire.
 
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view post Posted on 29/10/2019, 20:05
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CITAZIONE (reiuky @ 24/10/2019, 12:27) 
Toglietelo dalla testa! :p097:

Occhei, uffa!


Spunti seguiti:
Leggenda metropolitana
Racconto intorno al fuoco




IL BUON FALCIATORE




Nel buio più totale, rannicchiato tra buste marce, altra roba molliccia e oggetti solidi non identificati che gli ammaccavano il corpo qua e là dove la pressione era maggiore, Sam non sapeva dire se il liquido affiorato dal fondo del cassonetto fosse acqua piovana infiltratasi nella spazzatura o percolato. Di certo il puzzo asfissiante del nascondiglio non l'aiutava a farsi un'idea. Il liquido lo aveva inzuppato per metà.
Ma non poteva ancora uscire: nel vicolo le voci dei tirapiedi di Yosemite echeggiavano ancora tra le pareti di mattoni lerci e sbrecciati e nei tubi di grondaie arrugginite. Li sentiva però a stento, perché ormai lo avevano superato e si stavano allontanando. Fortunatamente non si erano accorti che li aveva fregati.
Ma Sam non poteva rimanere lì dentro. Presto si sarebbero accorti di non avere più una preda d'avanti al naso e, fatto due più due, sarebbero ritornati sui propri passi per controllare il breve segmento del percorso in cui l'avevano perso di vista.
Sollevò adagio il coperchio, creando appena una fessura. Da quella poteva avere una visuale completa del vicolo. Non che vedesse molto, a dire il vero: l'unica luminosità era il vago riverbero dei lampioni che penetrava dalle strade laterali.
Il vicolo sembrava deserto. Da molto lontano, gli giunse un grido d'ordine. La distanza lo incoraggiò.
Con movimenti quasi disarticolati, patetici, uscì dal cassonetto. Le gambe gli dolevano per la corsa che era durata varie decine di minuti. Il fiatone, che prima aveva cercato di rallentare, adesso, liberato, venne fuori asmatico e disperato. Si concesse solo un minuto per riprendersi, poi si avviò verso l'imboccatura del vicolo da cui era arrivato.
Prima di immettersi nella strada, controllò sbirciando se la via fosse libera.
Poco dopo camminava rasente i muri, ancora guardingo. Le orecchie diventate sensibili quasi come quelle dei cani. La strada però risultava deserta e silenziosa. Era una strada stretta, illuminata vagamente da pochi lampioni funzionanti; qualcuno si animava e moriva a intermittenza, e pareva lanciare SOS alla compagnia elettrica. Non c'erano auto parcheggiate, e i casermoni scoloriti avevano solo finestre spente.
Sam si chiese dove diavolo fosse finito. Durante la fuga a un certo punto aveva perso la cognizione dell'ambiente, e la mentre era stata presa del tutto dalla sola idea di tenere lontani i farabutti. Non si era quindi avveduto di dove svoltasse. In una trentina di minuti, con quella velocità, doveva aver superato interi quartieri della vasta metropoli. E ora si trovava in uno che non conosceva.
Il peggio però non era quello... Col rubinetto dell'adrenalina chiuso, zuppo di sudore e di un qualche liquido che continuava a puzzare, cominciava a sentire il freddo di novembre inoltrato penetrargli nelle ossa. Quasi a suggellare la grandiosità della sua sfortuna, un fiocco di neve scese candido dal cielo e andò a squagliarglisi sotto un occhio.
Imprecò. Per riscaldarsi accelerò il passo.
Era dovuto uscire dal club di Yosemite alla svelta, senza poter recuperare il pastrano. Ora si pentiva ancora di più di ciò che aveva cercato di combinare ai danni di quella pallida e ridicola figura di boss da bassifondi.
Sam non aveva pensato alle conseguenze in caso di fallimento. Per lui si era trattato di un'occasione, forse l'unica in tutta la sua vita, per andare via da quello schifo di mondo e salvarsi, e salvare la sorella scema. Yosemite aveva mangiato la foglia, e l'aveva invitato lì al club, mostrando all'inizio la faccia di chi ignora che sta per essere inculato. Ancora Sam non si capacitava di come fosse riuscito a scappare da quella trappola.
Ormai era nella merda. Si era giocato l'esistenza in quella città, perché Yosemite gli avrebbe dato la caccia in ogni angolo. Non riusciva a pensare a quale pena gli avrebbe commisurato, ma certo sarebbe stata una gran brutta cosa. La morte? Sì, Yo era capace di farlo sparire per sempre. Con la sorella sulle spalle, era la prospettiva peggiore a cui pensava Sam. Doveva stare lontano da quella possibilità, per il bene di lei, che incapace di provvedere a se stessa.
Era quindi deciso: appena tornato a casa, avrebbe riempito gli zaini con le poche cose che poteva portare via, e sarebbe partito, trascinandosi Sammy appresso.
Per andare dove? E con quali soldi? Erano domande difficili, ma il tentare di soddisfarle era meglio che finire come cibo per vermi.
Distratto dai mesti pensieri, attraversò varie stradacce della periferia ignota. Le palazzine erano troppo alte perché potesse scorgere un grattacielo o uno scorcio che rivelasse la sua posizione. Poi per fortuna, girando un angolo, si trovò in uno slargo, una specie di incrocio-piazza. Là in fondo notò nella semioscurità i tralicci in metallo di una sopraelevata. Doveva essere la metro. Era già qualcosa. Seguendo la sopraelevata poteva giungere a una stazione e capire così come ritornare a casa.
Si avviò in quella direzione.
Un vago baluginio sotto il ponteggio rivelò tre o quattro figure che proprio al chiarore sembravano raccogliersi. Erano tre barboni, capì Sam quando si fu avvicinato. Tre baciati dalla malasorte che si riscaldavano al fuoco acceso in un bidone.
Un fuoco salvifico, in una notte come quella. Sam non chiese permessi, si accostò e protese le mani, piegando il busto per essere investito in volto dall'aria calda, anche se puzzolente di fumi non ecologici.
I barboni non lamentarono nessun fastidio. Uno sorrideva un minimo; vide i compagni e fece un gesto di comprensione con la testa.
Uno dei tre, sfregandosi le mani, quasi per noia del silenzio, disse: «Pare che nevica».
Infatti ora i fiocchi, fuori dalla protezione della sopraelevata, cadevano copiosi, quasi dritti perché non c'era un alito di vento.
«Amico, quanto puzzi» disse un altro barbone verso Sam.
Lo stesso barbone diede di gomito a un compagno. «Non è conciato proprio bene, eh?»
«Puoi dirlo» fu il commento dell'altro.
Il terzo: «Non sembri della zona. Sei forestiero?»
«Sì» rispose Sam. «Vengo da un posto che si chiama Vattelapesca.»
«Vattelapesca?» chiese uno dei tre sventurati, massaggiandosi meditabondo il mento cespuglioso. «Mi sembra quel paese che disse James Senzaduedenti...»
«Chi se lo ricorda» fece un compagno «è stato un paio di mezze dozzine più due lustri d'anni fa.»
«Non sei messo bene» ripeté di nuovo uno dei tre. Sam non scollava gli occhi dal fuoco e non prestava grande attenzione a quelle voci. Era troppo grato per la fiamma, la mente distratta dall'ambasceria del momento. Doveva riprendersi alla svelta e correre a casa.
Se solo avesse avuto un centesimo di ricarica nel telefonino, avrebbe già chiamato Sammy: con indicazioni chiare e semplici, lei poteva cominciare il lavoro per un trasloco... tirare fuori gli zaini, aprire cassetti e prendere roba a caso...
«... un bel tipo, quello» disse uno dei tre barboni.
«Sarai bello tu» fu la risposta di un compagno.
Senza che Sam se ne ravvedesse, distratto com'era, vicino si era accesa una discussione. Coglieva frasi spezzate, un battibecco frammentario, perché la sua attenzione solo parzialmente e molto vagamente ne veniva attratta. «... mano di pasta frolla...» «... la sedicente...» «... non poteva proprio farcela...» «... Senzaduedenti...» «... il Buon Falciatore...» «... non credevo, accidenti...» «... con questo tempaccio...» «... buttaci quel tuo cartone...» Poi si sentì urtato da un gomito, che richiamava la sua partecipazione. «Oh, m'hai sentito, forestiero?»
«Che?» chiese lui trasalendo, infastidito dal tocco.
«Dicevo che devi pensarci. Non sei messo proprio bene, sai? C'hai quella disperazione di Senzaduedenti in faccia...»
«Ma di che cazzo parli?»
Un secondo barbone: «Del nostro compare, quello che si fece portare via dal Buon Falciatore.»
Il terzo: «È stato due mezze dozzine d'anni fa, più due lustri.»
Il primo: «Pidocchiera su due gambe, non sai dire ventidue?»
Il terzo: «Mi piace la precisione, fanculo.»
Il primo: «Eh... Senzaduedenti...»
«Di che cazzo parlate?» chiese Sam.
«Del nostro compare Senzaduedenti» ripeté uno dei tre.
«È stato qualcosa come due mezze dozz...»
«Oh, e piantala!»
Sam intanto si era riscaldato abbastanza da sentire nelle vene una parvenza di vita. Fra un po' sarebbe dovuto uscire di nuovo nel freddo. Quella prospettiva non gli piaceva granché, anche se la disperazione di partire, di correre presto a casa, fosse dominante. Il fuoco lo ipnotizzava.
Aveva lanciato ai tre compagni solo fugaci occhiate. Nel riverbero fiabesco del fuoco rosso gli erano parsi uguali, salvo qualche piccola differenza nel grado d'arruffamento di barbe e capelli, o nella disposizione di buchi e strappi sui cappotti lerci. Però la sensazione che aveva avuto era di filosofica accettazione delle sventure terrene.
Minuti dopo, decise consapevolmente di aspettare ancora un po', e di farsi divertire dalla combriccola. «E chi sarebbe questo falciatore?» chiese a mezza voce.
«Eh, ma allora sei proprio nuovo» rispose uno.
Un secondo: «Nuovo di miseria, eh eh eh!»
Il primo: «Sfido che non lo sai.»
Il terzo: «Ce lo dobbiamo dire, allora.»
«Noi tutti si sa» fece ancora il primo.
«Noi chi?» chiese Sam.
«Noi della miseria.»
«Il Buon Falciatore...»
«Il nostro amicone, si fa per dire, eh eh eh!»
«Perché ridacchi, tu?»
«Eh eh eh!»
«Noi che non teniamo niente, tutti si sa, esatto.»
«Anche Senzaduedenti lo sapeva.»
«Aveva la stessa disperazione, sai?»
«Allora ce lo dobbiamo dire, eh eh eh!»
«Il Buon Falciatore...»
«Il nostro compagnone che viene quando non ne possiamo più.»
«Se sei proprio disperato e vuoi farla finita.»
«Allora lui viene e ti porta via, senza farti soffrire. Zac
«Senzaduedenti però aveva una gran brutta faccia, dicono...»
«Dicono.»
«Tu l'hai vista?»
«No, io no! Dicono, dicevo.»
«Noi miserabili senza niente tutti si sa.»
«Di', hai mai visto uno di noi disperato?»
«Che piangiamo o ci lamentiamo?»
«Vero, anche senza un soldo, ce ne stiamo belli tranquilli e silenziosi.»
«Ci godiamo la vita, eh eh eh!»
«Però quando non va più...»
«Quando ci viene quella disperazione che hai tu sulla faccia...»
«... o siamo davvero stanchi...»
«... Allora invochiamo il Buon Falciatore, che viene a prenderci e ci porta via, senza un dolore.»
«Però Senzaduedenti...»
«Oh, piantala!»
«Vero, non lo sai. Dicono.»
«Ma molto meglio chiamare lui che farlo da noi...»
«Che magari sbagliamo e restiamo li coi dolori...»
«... che già ne patiamo troppi da vivi.»
Sam spezzò quel serrato discorso a più voci: «E come lo chiamo questo falciatore?» Lo chiese più per far smettere quel vocio che non per reale interesse.
«Devi dire la formula» gli rispose uno dei tre, forse quello che stava all'opposto del bidone.
«La formula magica» ripeté un altro.
«Noi te la diciamo, ma devi essere sicuro.»
«Quando dici la parola magica, il Falciatore viene e ti porta via.»
«Garantito, sicuro come la morte.»
«Come la morte, eh eh eh!»
«Però dilla quando sei solo...
«... che non sia mai il Falciatore fa confusione tra te e altri...»
«Avanti» disse Sam. «Sparate la parolina magica.»
«Te la dobbiamo dire una sola volta, ascoltala bene.»
«Perché lui viene se la ripeti tre volte.»
«Solo una volta, esatto.»
«Massimo due.»
«La seconda però dobbiamo farlo sottovoce...»
«... non sia mai che lui è nei paraggi, capisci.»
E uno dei tre gli disse la parola. Sam la registrò nella memoria con una strana facilità, considerato il momento. Non fu per interesse, non fu per curiosità: il motivo era sfuggente. Era una parola bislacca, insensata, almeno per lui, qualcosa che poteva essere paragonata ad “abracadabra”.
I tre barboni tacquero come se avessero assolto un compito. Sam avrebbe voluto canzonarli, se avesse avuto uno stato d'animo consono.
Proprio allora gli trillò il telefonino.
«Ehi, cosa diavolo è?» chiese un barbone.
«Che mi venga un accidente se non sembra un cellulare!» disse un secondo.
«Amico» concluse il terzo, quando Sam tirò fuori l'apparecchio dalla tasca dei jeans lerci «tu imbrogli!»
Ma per Sam i tre erano spariti dall'universo; sul display era apparso il nome della sorella. Si portò il telefono all'orecchio. «Sammy, ora arrivo, non preoccuparti.»
«Bravo, arriva presto.» Sam ebbe l'impressione di precipitare. «Non vuoi certo che alla sorellina gli capitasse qualcosa di brutto, vero?»
«Yosemite...» Non seppe cosa aggiungere.
«Esatto, io. E ora ti faccio il culo. Ma puoi salvarti, se fuggi. Però a tua sorella non andrà meglio.»
In sottofondo Sam sentì un mugolio, una voce troppo familiare. «Yosemite, se torci un capello a...»
«Piantala. I capelli non glieli torco, tranquillo. Sono così biondi, sarebbe un peccato rovinarli. Però solo quelli.»
«Ascolta, ho sbagliato, ok! Farò tutto quel che vuoi per rimediare, per farmi perdonare. Ma lascia Sammy!»
«Ok, per me va bene. Vieni subito a casa, e ne parleremo a quattrocchi.»
La voce di Yosemite era parsa ragionevole e disponibile, senza venature di minaccia e risentimento. Ma Sam ebbe il fastidioso ricordo di quando ore prima lo aveva invitato nel club: anche allora il tono era stato lo stesso. Tuttavia ormai non aveva scelta. Sammy non doveva pagare per la sua colpa.

Fu una corsa precipitosa nella neve. Tre quarti d'ora aveva impiegato per fuggire dagli scagnozzi, un'ora intera impiegò per capire dove fosse e per dove dirigersi verso casa. Nella periferia degradata a quell'ora della notte i taxi non bazzicavano. Non transitava quasi nessuno, anzi. Sam solo una volta vide un auto, sfrecciava con fretta e sembrava dirigersi a un rifugio; tentantò di fare un segno chiedendo un passaggio, sperando di guadagnare qualche minuto e un po' di respiro, ma il conducente non gli badò neanche. Un paio di volte dovette nascondersi dalle solitarie pattuglie della polizia; non che dovesse sfuggire alla legge, essendo riuscito a conservare una fedina pulita, pur con tutti i lavori sporchi che aveva dovuto svolgere per Yosemite; ma ci mancava solo che uno sbirro arrabbiato col mondo decidesse di sfogarsi su lui, arrestandolo per vagabondaggio.
Poi fu sotto casa, ai piedi del palazzo scalcinato e stinto. Era senza fiato, il sudore copioso gelato dall'aria, la puzza emanata dalla sua persona viepiù accresciuta. Si sentiva sfinito, abissalmente prostrato, quasi sulla soglia di quella condizione mentale per cui tutto perde di significato, nella futilità estrema, e la vita e la morte acquistano la medesima importanza. Forse la febbre lo stava cogliendo.
Sollevò a malapena gli occhi verso la proprio finestra, oltre la quale la luce era accesa. Era una luce fioca, quella della lampada vicino al divano sfondato dove dormiva lui. L'unico letto, nell'unica stanza da letto, lo aveva sempre voluto per Sammy, fin dal primo giorno in cui aveva dovuto provvedere a lei, essendo la madre morta per overdose. Erano passati ormai cinque anni.
Senza perdere ulteriore tempo, si precipitò nell'ingresso, e poi su per le scale. Bussò alla porta, perché le chiavi le aveva lasciate nel pastrano. Era stato un errore, perché indubbiamente Yosemite aveva usato quelle per entrare: Sammy aveva l'inviolabile istruzione di non aprire mai a nessuno, se non al fratello. Era una delle poche cose che era riuscito a inculcarle nella mente ritardata, insistendoci per anni.
La porta fu aperta da uno degli uomini di Yo. «Entra» disse nettamente.
Nella stanza che faceva da salottino e cucina, Yosemite sedeva su una sedia, vicino al divano. Sul divano era semisdraiata Sammy, spoglia dei pantaloni del pigiama e delle mutandine. Il contrasto del rosso sul biondo fu eloquente. Lo sguardo idiota terrorizzato, ma anche sperso, come confuso da cose nuove che non poteva capire.
La vista di lei in quello stato mandò in bestia Sam, che si lanciò verso Yosemite. Fu un'azione improvvisa e imprevista, perché nessuno riuscì a fermarlo, non lo scagnozzo che aveva aperto, non gli altri due che piantonavano dappresso. In un battito di ciglia era avvinghiato al nemico, caduto dalla sedia, e lo stringeva tra le braccia, come a volerlo stritolare. Si rotolarono tre o quattro volte sul pavimento, mentre Yosemite strillava ai compagni di spiccicarli, e tirava pallidi pugni per rispondere in qualche modo.
Sam si sentì sollevato dal pavimento, ma non lasciò la presa. Non sapeva neanche lui come volesse agire: la rabbia era tale da avergli obnubilato la ragione; ma certamente l'idea era di procurare a Yosemite tutto il dolore fisico che riuscisse a creare. Poi un dolore terribile ai reni. Poi un mancamento, quando qualcosa gli cozzò sulla testa. Le braccia cedettero. Anche le gambe cedettero, ma non cadde, perché un paio di presente lo tennero su.
«Figlio di puttana!» Era la voce di Yosemite, distorta nella sua percezione da trauma. «E cos'è questa puzza? Cristo santo!» Anche la vista era appannata, perché il bastardo appariva offuscato, una figura appena umanoide che nella luce fioca della lampada sollevava le braccia e si annusava da per tutto, e sbraitava maledizioni. Il breve stordimento passò in fretta.
«Lavoratelo un po'» ordinò Yosemite al terzo.
Sam fu pestato per bene, sul volto, allo stomaco. Le prese per cinque minuti buoni: un'eternità. Vomitò sangue. Solo allora i due che lo tenevano lo mollarono, e fracassò sul pavimento, distrutto, ma ancora cosciente.
«Bas... tardo...» tentò di dire. «Lascia... la... anda... re...»
«Dovevi pensarci prima, stronzo» fu la risposta di Yosemite, che adesso era di nuovo seduto vicino al divano. «Di', non è carina?» disse, facendo un sorriso malizioso. «Vedi? I capelli non li ho toccati.» Rise, seguito a pappagallo dagli altri tre. «Comunque non sono stato io. Uno dei miei ragazzi non ha saputo resistere, eh già. Ma è stato delicato, te l'assicuro.» Altre risate. «Però, sai?» proseguì Yosemite «quasi quasi me la porto con me. La faccio sistemare, me la tengo e mi ci diverto. Non è carina? Davvero una bambolina!»
«E per te» aggiunse poco dopo, tornando serio. «Dovevi pensarci prima. Ora sei fregato.»
Un silenzio da condanna scese nella stanza. Poi Yosemite fece un gesto finale con la testa ai suoi uomini.
«As... petta!»
«Fermi. Cosa vuoi?»
«Un... ultimo... desiderio...»
«Oh!» Yosemite allargò le braccia e fece un teatrale inchino. Chissà da quale gangster movie di serie B aveva preso quell'idea. «Un ultimo desiderio per il condannato! Ma certo, certo! Non vogliamo negarglielo mica, eh?» Una risata dai compagni. «Sentiamo, che vuoi?»
«Una... piccola cosa... Devi dire una... parola... tre volte...» Nella disperazione ci si appiglia a tutto. Rintronato e devastato, quella fu l'unica idea che era affiorata nella mente di Sam. Era consapevole che fosse un'idiozia, ma ormai non gli restava davvero più nulla.
Yosemite fece una faccia buffa, canzonatoria, divertita, disgustata. Dovette decidere che la condanna sarebbe stata più divertente con quel gioco. «Sentiamo» disse.
E Sam pronunciò la parola. Senza incertezza. Senza difetto. Una sola volta.
E Yosemite disse la parola, per tre volte.
E non accadde nulla.
Subito.
Nella stanza, però, qualcosa cambiò. La temperatura scese, sebbene non fosse proprio gradevole già prima, ma in una frazione di secondo crollò di vari gradi. Dalle bocche i vapori si plasmarono in forme inquiete e instabili. Quell'evento non sfuggì dall'attenzione di nessuno, perché un disagio irrequieto colse tutti, vittime e prede. Due degli scagnozzi cominciarono a guardarsi attorno, come presagendo una presenza invisibile. Il terzo si lasciò sfuggire un «Ma che...» senza poter proseguire, perché fu ammutolito da Yosemite. «Silenzio! Prendete questo stronzo e andiamo.» C'era fretta nella sua voce.
Sam si sentì afferrato per le braccia, ma la presa lo mollò subito, lasciandolo a terra. Uno degli scagnozzi aveva lanciato un urlo di sorpresa facendo spostare l'attenzione di tutti da Sam a qualcos'altro. Gli altri seguirono lo sguardo allarmato e tutti furono colti dall'imprevisto, dalla sorpresa. Poco dopo anche dal terrore. Là, in un angolo, dove la fioca luce della lampada arrivava appena, era apparsa dal nulla una figura nera, sembrava una macchia di nero nell'ombra, perché era evanescente, senza un contorno netto. Era così alta da toccare quasi il soffitto con la testa, al cui confronto la falce, stretta in una mano, sembrava una miniatura.
Uno degli uomini di Yosemite tirò fuori la pistola, istintivamente. Fece fuoco, ma le pallottole furono sprecate.
La figura avanzò con una calma surreale nella stanza. Non camminava, perché nella vaghezza della forma non si scorgevano movimenti di gambe. Levitava, forse.
Quello che aveva sparato fuggì. Gli altri due lo seguirono quasi subito. Yosemite non si accorse del tradimento, tanto era attratto e paralizzato dalla presenza.
Sammy cominciò a piagnucolare. Si nascose la faccia tra le mani.
Sam, facendo uno sforzo immenso, si sollevò e andò al divano. Abbracciò la sorella e le alitò parole d'incoraggiamento e consolazione. Ma i suoi occhi non si scollarono dalla presenza.
Questa arrivò loro vicinissimo. Incredibile a dirsi, pareva confusa, anche se non aveva un volto e tutto di lei era sfumato e inintelligibile. Sembrò spostare la sua attenzione da Sam a Yosemite a Sammy, anche se non aveva una testa propriamente detta che poteva ruotare su un collo propriamente detto. Eppure la sensazione di confusione che emanava era così intensa che Sam pensò sarebbe stato futile cercare una conferma oggettiva.
Poi capì. Una frase sentita dai tre barboni si riaccese nella sua memoria come un'insegna stradale: «Chiamalo quando sei solo, perché solo così non può sbagliare.» Si caricò di coraggio, e cercò di afferrare una visione positiva, un progetto da fare, per esempio andar via con Sammy ed essere felici insieme da qualche parte; magari racimolare qualche soldo in più per pagare un medico, uno psicologo che trovasse una cura per lei... ma forse non ce ne sarebbe stato bisogno, e forse bastava spostarsi in un ambiente più sano e positivo per avere un risultato... Una stilla di ottimismo, ne sentì solo una stilla, ma poteva bastare. Con un sorriso, con una voce calmata il più possibile, disse: «E lui che ti ha chiamato» indicando Yosemite all'ombra. «È lui il disperato. Guardagli la faccia... sentine la puzza... è uno dei tuoi... clienti. Io e mia sorella siamo a casa... Questa è casa nostra! Abbiamo una casa!»
«Ma cosa cazz...» cominciò Yosemite. Non finì la frase, perché al Falciatore bastò poco per avere una conferma. La stessa voce del richiamo.

Sam non avrebbe mai saputo dire perché lo chiamassero così, e perché tenesse effettivamente una falce. Non aveva usato la falce per “portare via” Yosemite. Sul corpo del bastardo non notò nessuna ferita, quando riaprì gli occhi interi minuti dopo, essendosi accorto che la temperatura nella stanza era di nuovo la solita, cioè il freddo reso tollerabile dalle pareti, essendo l'impianto di riscaldamento fuori uso da un tempo indefinito. Solo allora aveva quindi riaperto gli occhi. Perché quando il Falciatore si era scagliato su Yosemite, inglobandolo nel suo nero fumoso, e un urlo indicibilmente soffocato della vittima gli aveva fatto raggricciare le carni, aveva abbracciato ancora più strettamente Sammy e chiuso gli occhi.
Le orecchie purtroppo erano rimaste aperte, e aveva seguito atrocemente l'evoluzione della morte di Yosemite. Cosa era accaduto in quella cecità, non riusciva a immaginarlo. Solo nei sogni, sfuggenti visioni suggerivano qualcosa, e bastavano quei suggerimenti a farlo destare con un urlo.
I barboni si sbagliavano: non era con benevolenza e tatto che il Falciatore veniva a togliere l'ultimo fiato. E dicono bene che la faccia di Senzaduedenti era sfigurata da un terrore e da una sofferenza incommensurabili. Forse non era un benefattore, ma un giustiziere, e tanta doveva essere la tortura finale quanto in rapporto era il fallimento di una vita.
Ma queste erano considerazioni che Sam formulava senza volerlo, quando il ferreo controllo che applicava ai suoi pensieri gli sfuggiva di mano. Per il resto, tentava di essere positivo e di aiutare Sammy come poteva. Erano fuggiti da quella casa, da quella città. Dopo un breve peregrinare approdarono in una di quelle tipiche cittadine americane dove tutti si conoscono e si vogliono bene, o quantomeno si sopportano con civile rispetto. E in breve tempo tutti si affezionarono a Sammy per la sua angelica sventura, e a Sam perché si dimostrò volenteroso e umile.
Eh, sì, i barboni sbagliavano. Quando riaprì gli occhi, quella note in cui aveva sfiorato per tre volte la fatalità, e vide la faccia di Yosemite, tutto poteva pensare tranne che la dipartita fosse avvenuta con leggerezza e sensibilità. Perché Yosemite aveva anche lui, Sam ci avrebbe potuto scommettere, l'espressione di quel tale, Senzaduedenti: quella di chi ha subito una tortura inenarrabile. Il giusto coronamento di una vita buttata nel cesso.



Edited by Gargaros - 30/10/2019, 11:07
 
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UN INCONTRO SFORTUNATO

di BLOODFAIRY

Il crepuscolo avvolgeva la piccola piazza ormai affollata, bambini mascherati saltavano fuori dai vicoli, tentando di incutere terrore ad adulti che fingevano di spaventarsi. Altri giocavano a rincorrersi, o bussavano alle porte delle case per chiedere dolci e minacciare scherzi. Bancarelle colorate esponevano dolciumi, panini, bibite e qualche maschera per i mostri dell’ultimo minuto. C’era anche il chiosco con le castagne appena cotte. Marianne osservava con vivace curiosità il via vai di gente, seduta su una fredda panchina di cemento accanto al parco. Amava le feste di paese e quella di Halloween era la sua preferita, la rallegravano i colori, gli odori, le zucche intagliate, le luci dei lampioni che illuminavano il tappeto di foglie rosse e gialle, simbolo dell’autunno che aveva ingoiato l’ultima traccia d’estate. I suoi genitori non gradivano molto che uscisse da sola, dicevano che era troppo bella e innocente per passare inosservata, e tredici anni erano pochi per sapersi difendere dai pericoli e in giro c’era un sacco di brutte persone. Ma quello che i profondi occhi neri di Marianne vedevano quella sera era solo gente che si divertiva, portava a spasso i cani, sorrideva alla luna e alla vita. Era bella Marianne, ne era consapevole. Aveva lineamenti delicati, una pelle di alabastro e una folta chioma corvina, i riccioli morbidi le cadevano lungo le spalle e la giacca imbottita nascondeva solo in parte un corpo che stava sbocciando. La sua amica Bea diceva che fra pochi anni nessun ragazzo avrebbe saputo resistere alla sua bellezza, ma Marianne non se ne faceva un gran vanto, lei non aveva nessuna voglia di crescere, tanto meno di avere una vita sentimentale, al contrario di Bea. Bea, che aveva la sua stessa età e aveva già avuto storie con i ragazzi. Bea, che si truccava e indossava i tacchi alti; Bea che mangiava poco perché era a dieta, anche se era uno spillo; Bea, che anche quella sera era in ritardo. Marianne si alzò sbuffando, si aggiustò la gonna di raso nera e si strinse nella giacca. Un fresco venticello autunnale le scompose la chioma, i grandi occhi cercarono tra la folla l’amica ancora una volta. Le parve quasi di vederla mentre arrivava trafelata, incespicando nei tacchi e agitando le braccia in segno di saluto. Ma rimase delusa. Doveva andarle incontro, come sempre. Stava per incamminarsi, quando un bambino la travolse, facendole perdere l’equilibrio. Marianne cadde in avanti e sarebbe atterrata malamente sul cemento se una mano non l’avesse afferrata saldamente. Il bambino si rialzò da terra, biascicò qualche scusa incomprensibile e corse via, verso un gruppetto di bambini che lo chiamavano. Marianne sollevò lo sguardo. Era ancora al sicuro tra le braccia del suo salvatore. Si guardò intorno. Due ragazzini vestiti da scheletri le passarono accanto, un vecchio in bicicletta suonava il campanello e quasi travolse una signora vestita da strega che lo mandò a quel paese. Una campana suonava in lontananza. Marianne sorrise riconoscente al clown con la faccia dipinta di bianco. Indossava un costume ricoperto di lustrini dorati e un cappuccio di feltro del domino. Sembrava piuttosto grosso di corporatura, ma dietro quel trucco e quel cappuccio, l’età era indecifrabile.
- Stai bene? Che ci fa una bambina come te da sola a quest’ora? -
Marianne sbatté le ciglia. - Aspettavo una mia amica. - rispose, cercando di mantenersi forte e risoluta. A primo sguardo quel tipo non sembrava pericoloso, ma meglio stare attente.
- Capisco. - Fece l’uomo, sorridendo. - Io ero qui con mia moglie e mia nipote, per la festa di Halloween sai… Ma mi sento ridicolo con questo costume. -
Marianne sorrise. Non aveva tutti i torti in fondo.
- Beh, grazie per avermi evitato una caduta. Vado… a cercare la mia amica, scusa. -
Si salutarono. Il cuore le pulsava nel petto. Non ne capiva il motivo. Corse via ignorando il tentativo dell’uomo di trattenerla.
Rallentò il passo solo quando si sentì al sicuro. Era fuori dalla piazza affollata, ma la casa di Bea era a quindici minuti da lì e se la sua irresponsabile amica era già uscita di casa l’avrebbe incrociata. Si fermò un attimo a prender fiato, si guardò indietro. Nessuno. L’aria fresca le accarezzò il viso, insieme all’odore di polvere e di erba secca. Le foglie umide scricchiolavano ad ogni suo passo sotto gli stivali neri. Da lontano sentiva ancora il vocio della gente in festa, si vedevano le luci irradiare il cielo buio. Ma in quel punto era avvolta dall’oscurità. Non fece in tempo a chiedersi se avesse fatto bene ad allontanarsi. Non era certo una che aveva paura per nulla, ma le tornarono in mente le parole dei suoi genitori. Era ancora troppo giovane per avventurarsi da sola nella notte buia. Troppo piccola, troppo indifesa…
- Eccoti qua! Ma perché sei scappata a quel modo? -
Marianne sobbalzò. Il clown le stava davanti. Rimase di pietra. Quando l’uomo le catturò il polso non tentò neanche di divincolarsi. E lui dovette sentire il suo tremito perché si affrettò a calmarla. - Hey, non aver paura. Voglio solo assicurarmi che non ti accada nulla. Tranquilla piccola, potrei essere tuo nonno..-
La giovane ingoiò l’emozione. C’era qualcosa di rassicurante in quell’uomo. Perché avrebbe dovuto mentire?
- Stavo andando a casa della mia amica. -
- Ti accompagno. Come ti ho detto… Ho una nipote della tua età! Non oso immaginare se le capitasse qualcosa! Permettimi di accompagnarti. -
Marianne avrebbe dovuto dire no, lo sapeva, Ma disse sì. Si incamminarono. La luna illuminava parte del sentiero. Non c’era nessuna casa in quel tratto. Ma perché Bea abitava così isolata, maledizione? Forse avrebbe potuto scappare, ma si sentiva in trappola, lui era troppo vicino.
- Mi chiamo Giorgio. -
- Io Marianne. - disse la ragazzina, con la voce impastata.
- Ecco, vedi? Adesso abbiamo fatto amicizia. Non devi avere paura di me. - Le pose una mano sulla spalla, in un gesto che voleva sembrare protettivo. La ragazzina sussultò, ma non lo fermò.
- Quanti anni hai, Marianne? -
- Tredici… -
- Bene. - commentò l’uomo. - Vedi Marianne, una ragazzina di tredici anni non può girare da sola per vie così buie… Rischia di essere vittima di Roxy la sanguinaria. -
Paura e disagio vennero sostituiti da una vivace curiosità. - Chi è?- chiese, attenta. L’uomo cercò di assumere un atteggiamento serio e distaccato.
- Una ragazza morta nel 700, proprio qui vicino. Non dirmi che non conosci la leggenda! Beh, qualcuno sostiene che questa ragazza fosse gravemente malata e condannata a morire. Il padre, non potendo vedere la figlia in quello stato, decise di darle un potente sonnifero che la facesse sembrare morta. Fecero il funerale e la madre, disperata, lego un filo attorno al polso della figlia. Questo filo era collegato ad una campanella appesa ad un’asticella. Se la ragazza si fosse mossa, la campanella avrebbe suonato. -
L’attenzione della ragazzina era completamente assorbita dal racconto di quell’uomo. - E.. che accadde? -
L’uomo sorrise. La luna illuminava il volto bianco del clown triste. - La madre voleva restare accanto alla tomba della figlia, per vedere se la campanella suonava, ma il padre, che sapeva che la figlia non era morta ma solo addormentata, preparò lo stesso sonnifero per la moglie, che così si addormentò. Due giorni dopo, il becchino arrivò al cimitero e presso la tomba di Roxanne trovò asticella e campanella a terra. Corse dai genitori, riesumarono il cadavere e lo trovarono che era in una posizione di dolore e sofferenza, con gli occhi spalancati, le mani sporche di sangue e le unghie conficcate nel coperchio pieno di graffi. -
Marianne si accorse di trattenere il respiro. - E poi? - chiese. La stretta dell’uomo sulle sue spalle esili si era fatta più intensa ma non vi fece caso.
- Il padre della fanciulla venne trovato in fin di vita, il giorno dopo, coperto di graffi che gli avevano lacerato la pelle. Morì dopo un giorno di coma. Ma sai qual è la cosa più orribile? - l’uomo si era fermato davanti a lei, le afferrava solidamente le braccia e la spingeva al bordo del sentiero. Marianne si sentì impotente mentre si sentiva spingere verso l’interno del bosco e veniva gettata violentemente a terra. Non riuscì neanche a tentare di rialzarsi, lui le fu subito sopra, il suo alito fetido le alitava sul collo. La forza dell’uomo era dieci volte la sua, non poteva opporsi.
- Roxy la sanguinaria si aggira da queste parti, proprio la notte di Halloween… e cerca ragazze vergini, come lei, per poterne bere il sangue e mangiarne la tenera carne. Tu sei vergine, Marianne? - La voce dell’uomo si fece roca, il respiro ansimante. Schiacciandola col suo peso per impedirle di fuggire, le accarezzò i piccoli seni con le mani. La ragazza lo sentì armeggiare con i pantaloni. Si sentiva confusa, venne sopraffatta da un attacco di nausea. Il malessere aumentò quando la mano dell’uomo s’intrufolò sotto la sottana e le accarezzò le gambe, raggiungendo le cosce lisce e morbide. E mentre ansimava di piacere e le stringeva l’altra mano attorno al collo, le guance alabastro di Marianne si erano fatte rosse, i suoi occhi lucidi di lacrime, la sua pelle più fredda. Dalle labbra le uscì solo un gemito leggero. - Mamma, papà… perdonatemi… -

Bea si sfregò le mani per il freddo. Aveva dimenticato i guanti, accidenti a Mike e ai suoi ardori del cavolo.. E le aveva fatto fare tardi, Marianne non le avrebbe rivolto la parola per mesi. E aveva ragione! Lasciarla un’ora ad aspettare la sera di Halloween era piuttosto scortese. Ma dove si era cacciata?
- Hey. - Sobbalzò. I lunghi capelli biondi sembravano bianchi sotto la luna. Si sentiva euforica. Aveva impiegato un’ora a truccarsi per quella serata, unghie nere e rossetto vivace, minigonna di pelle, calze a rete e cappello a punta. Una strega moderna e molto sexy.
- Ma dove eri finita? Pensavo fossi tornata a casa! -
Marianne aveva il volto corrucciato. - Ah, io dove sono finita! Si da il caso che è dalle sette che ti aspetto! Sono morta di freddo! E se verrò rimproverata dai miei genitori sappi che darò la colpa a te! -
Bea strinse gli occhi e si sporse in avanti. Avvicinò le dita ai capelli dell’amica e prese una ciocca striata di rosso.
- Che ti è successo? - si guardò le dita sporche di un liquido denso e appiccicoso. - Cos’è? - chiese, schifata.
Marianne alzò le spalle. - Sarà il sangue di quel porco… - mormorò.
- Quale porco? - chiese Bea, confusa.
- Lascia stare, una lunga storia. Un vecchio che blaterava di una morta che fa a pezzi le vergini. Penso che nel medioevo girassero meno stronzate di adesso. -
Bea scosse il capo. Non capiva niente ma in fondo non aveva importanza.
- Guarda che non hai più il rossetto. - Le fece notare Marianne, aspra.
- Sì, è stato Mike. E’ per colpa sua se sono in ritardo.. Fa’ niente, tanto devo mangiare… Dove andiamo? -
- Ah, io ho già mangiato. -
- Davvero? E papà lo sa? - la schernì Bea.
- Se lo saprà darò la colpa a te! - Le loro voci si confusero tra le urla e i giochi dei bambini in festa. Una musica allegra suonava nella piazza adornata di zucche e candele dalla luce tremula.

“ Maschio, 69 anni, altezza 1,85, peso 92 chili. Il cadavere è stato rinvenuto nel boschetto vicino a piazza Fanti, la sera di Halloween, con indosso un costume da clown. L’esame autoptico attribuisce l’ora della morte alle 21,00 del 31 ottobre 2010. Il cadavere presentava un profondo squarcio alla carotide ma poche e irrilevanti traccie di sangue sul corpo, dopo l’esame tuttavia appare chiaro che l’uomo sia morto per dissanguamento. la consulente della procura ha prelevato campioni di organi e liquidi biologici che saranno sottoposti ad ulteriori esami di laboratorio (compresi quelli tossicologici) per stabilire con certezza le cause della morte.”
Il commissario Carson ripose il comunicato stampa nel cassetto della scrivania assieme alle altre scartoffie. Per come la pensava lui, la festa di Halloween era una ricorrenza da abolire, ogni anno la stessa storia, crimini e delitti si moltiplicavano, la gente sembrava come impazzita. Quell’ultimo caso poi aveva dell’incredibile, un uomo anziano sgozzato, ritrovato esangue nel boschetto di un paesino di cui neanche si ricordava il nome. Morto dissanguato, ma la cosa buffa – o tragica a seconda dei punti di vista – era attorno al cadavere non era stata trovata alcuna traccia di sangue, a parte qualche schizzo sulla camicia e attorno allo squarcio alla gola. Squarcio che non era stato eseguito con un’arma da taglio, ma che, a detta del referto del medico legale, sembrava una lacerazione. Come se la pelle fosse stata strappata via con un unico morso. Ad avvalorare la tesi, un’impronta dentale simile a quella di un animale. Un grosso animale. Carson si grattò la testa. Un brutto affare. E adesso c’erano una moglie e una nipotina che piangevano per la perdita di un povero Cristo. Si alzò rumorosamente dalla sedia e salutò due dei suoi agenti, fortuna che aveva le spalle larghe e ne aveva viste di tutti i colori in quegli anni, altrimenti a far quel mestiere si poteva anche diventare matti. Prese la giacca e si diresse verso l’uscita, pregando in cuor suo di non fare brutti incontri. In fondo e per fortuna, Halloween c’era una sola volta all’anno!

Edited by Bloodfairy - 30/10/2019, 19:19
 
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view post Posted on 30/10/2019, 18:57

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Racconto intorno al fuoco
Referto medico




FALSO ALLARME

Di Alexandra Fischer

I suoi passi sono difficoltosi per via del fango.
Sta camminando ancora stordito, e ogni tanto usa il bastone per allontanare arti secchi che minacciano di ghermirlo e si toglie di dosso materia verde.
Non gli ha ancora fatto nulla, ma è persuaso si tratti di armi delle creature che si stagliano alte e rugose.
Il loro colore gli ricorda quello della superficie che sta calpestando: forse è un immenso allevamento.
Ha visto creature di ogni tipo sul suo cammino e ne ha mandate le immagini per via telepatica ai sapienti.
Il materiale che le ricopre gli ricorda quello della fauna del luogo dal quale proviene.
Si fermò per una sosta una volta avvistata la casa.
Il corpo fittizio che si era creato gli pesava molto.
Ma non dovrò sopportarlo ancora per molto. Devo verificare se la dichiarazione inviataci da questo pianeta è vera oppure no.
Sfiorò il tronco di una delle creature per sondarne la mente: lo aveva già fatto a partire dal suo arrivo, e gli arrivò l’ennesima risposta, un dolore lancinante.
Credevo stessero fingendo per indurmi a ripartire, ma ora sto cominciando a ricredermi. C’è molta sofferenza. Questo mondo è in declino. Vorrei sapere chi è stato a decifrare il messaggio.
Giunto davanti alla porta, gli venne l’impulso di smaterializzarsi e tornare alla base: c’era parecchia sofferenza fra quelle pareti.
Le menti che aveva sondato gli erano parse molto più evolute di quelle delle creature intorno a lui, ma, tutto sommato, paralizzate.
Sanno di essere in pericolo e non fanno nulla per scongiurarlo. Mi dispiace di dovermi limitare al mio compito di osservatore.


***

Sul tavolo rustico il foglio bruciacchiato riportava ancora leggibile gli estremi dello studio specialistico, la data e parte della diagnosi: ‟Il paziente è vigile, attento, collaborativo, ma l’ipnosi ha portato alla luce l’esistenza di una seconda personalità, responsabile del comportamento disturbato rivelato in precedenza. Psicosi latente, probabile. Si consiglia il …”

Il resto del foglio era stato consumato dal fuoco, ancora acceso.

Una giovane donna si stava passando le dita con un unguento per le ustioni.
− Raccogli le molle e sistema il parafuoco.
− Fallo tu.
Lui si allungò sulla poltrona foderata di lana a scacchi blu e ruggine e accavallò i piedi sullo sgabellino che ne riproduceva il motivo.
− Sai che ti dico? Si sta bene anche così. Credo sia un tempo da storie intorno al fuoco.
− Quali? – indagò lei aspra girandosi verso di lui.
Fletté le dita e ci soffiò sopra, dopodiché rimise a posto le molle e il parafuoco.
Poi aprì un armadio a muro e prese una lattina di birra e una bottiglia di assenzio, mischiò le due bevande e si sedette sulla poltrona di fronte a lui.
− Racconta pure.
− Devi proprio buttare giù quella brodaglia?
− Da lucida non reggo la vista della tua faccia.
La donna riprese: − Perché hai cercato di distruggere la diagnosi? Devi pur renderti conto di quanto stai male.
− Livia, per favore. Mi hai trascinato da Corderi facendomi perdere una giornata preziosa per le ricerche.
− Saverio è precipitato nel ghiacciaio. Lo avevi sconsigliato anche tu dal fare quell’escursione.
L’uomo si versò da bere a propria volta.
− Smettila. Dovrai rinunciare ai liquori, quando comincerai la cura.
Lui ingollò il bicchiere d’un fiato: − Mio fratello è vivo. E mi ha assicurato che è andato tutto bene.
Livia si alzò: − Non era lui. Quando gli hai chiesto cos’era andato a fare nel crepaccio ti ha guardato in modo strano.
− Lo sai che è sempre stato un ecologista convinto. Ora crede più che mai al movimento di quella bambina, Greta. Uscendo di casa mi ha detto che avrebbe scattato delle fotografie del ghiacciaio per inviarle ai giornali.
Livia si portò la mano alla fronte: − Di nuovo? L’altra volta era il bracconaggio ai danni dei camosci e delle marmotte.
Tacque per aggiungere un altro ciocco al fuoco e riprese: − L’altra volta è finito all’ospedale. Possibile che non gli sia bastata la lezione?
− Lo sai com’è fatto.
− Non ha denunciato i picchiatori. Il maresciallo ha riso sotto i baffi quando lui gli ha detto di essere caduto dal costone. Figuriamoci, una guida alpina come lui.
Livia andò dal marito e gli prese una mano: − Quando è partito per la sua escursione nel ghiacciaio? Quattro mesi fa. Ha mai dato sue notizie?
− È tornato ieri – si intestardì Emanuele.
− Ma perché tanto ritardo? Non ha voluto dirci niente.
Lui drizzò la schiena: − Ha preso da nostro padre. Poche parole e tanti fatti.
− Dovremo pur tornare a casa nostra. Non possiamo restare nella sua baita.
− Lo faremo – la rassicurò lui. – Giusto il tempo di farci raccontare cosa ha fatto oggi. In effetti, è diventato più taciturno del solito.
− Perché oggi non hai voluto che entrassi nella rimessa?
Emanuele sorseggiò un po’ di liquore: − Sai che è geloso della sua attrezzatura. Mi ha lasciato entrare solo dopo avergli promesso di non toccare nulla.
− Credi che risponderà alle nostre domande?
Lui tacque.
Fai così quando vuoi nascondermi qualcosa, ho imparato a conoscerti bene. E hai assecondato Saverio perché non sopporti di sentire la verità.
Livia ripensò con un brivido alla colazione consumata con il cognato: non aveva detto una parola, scrutandoli come se fossero stati animali dello zoo.
Guardò le mensole: si era immerso nella lettura dei libri di botanica e zoologia del Parco sul Monte delle Resurrezioni come se gli fossero appena arrivati.
Una volta terminati, aveva esaminato incuriosito la mappa del ghiacciaio, disegnata da lui basandosi su una vecchia cartina topografica.
Le sue dita avevano sfogliato distratte le guide del CAI e si erano rigirate stupefatte le foto che lo ritraevano con i clienti alla cima della montagna o all’imbocco del crepaccio.
Lo aveva capito osservando i gesti e le espressioni sul volto di lui.
Da quando Emanuele è crollato, ho imparato a studiarne il comportamento come mi ha consigliato il dottor Corderi, e ora faccio lo stesso con Saverio. È irriconoscibile. Sembra che si sia dimenticato della sua vita qui, per come osserva i suoi oggetti. Sulle prime ho pensato che la sua fosse stata una finta per evitare le domande di suo fratello, ma l’ho sorpreso al piano di sopra: aveva svuotato il suo armadio a muro e palpava i vestiti come se fossero stati la scoperta del secolo e il piumone e le lenzuola erano sottosopra, un gesto non da lui.
Livia aprì l’armadietto della cucina e spostò i pacchetti e le scatole delle provviste: la rivista che tirò fuori fece soffiare Emanuele di esasperazione.
− Di nuovo quella robaccia? Ora sappiamo che sono mattoidi in cerca di sensazionalismi.
− Ti avverto che è della settimana scorsa. E tu per primo ci hai creduto.
Emanuele alzò gli occhi al soffitto: − E va bene. Vuoi una storiella da brivido intorno al fuoco? Qui si va a finire nelle leggende. Pensa al nome di questo posto: dicono che ogni tanto, qualcuno riesca a beffare la morte confondendole le idee.
Prese un boccale dalla mensola accanto ai pensili e ne tirò fuori un cordino di cuoio intrecciato a una pelle essiccata: − Questa è la pelle di una muta di vipera e questo cuoio era quello di una carcassa di volpe. Credo sia stato questo amuleto a salvargli di nuovo la vita.
− Davvero? Pensavo si dovesse portare al polso.
− Basta già così. Nel suo caso è servito.
Emanuele prese la rivista: su una pagina c’era il dettaglio della foto di un cadavere in atteggiamento scomposto, nell’istantanea successiva, era scomparso, e c’erano debolissime tracce di impronte.
L’articolo era preceduto da un titolo inquietante: POSSIBILE RITORNO DELLA MALEDIZIONE DEL MONACO RINNEGATO?
− Questi giornalisti sono pazzi. Cosa c’entra questa leggenda?
− Dà il nome alla montagna. E poi è una spiegazione alla scomparsa del corpo di Saverio e al suo ritorno da noi. Certo, ci è voluta la magia d’oltretomba di un monaco spergiuro per far tornare tuo fratello. Si vede che la sua è l’anima di un giusto venuta a mancare troppo presto e lui l’ha rispedita fra noi per avere sollievo dalle pene infernali. Non è la prima volta che succede. Mi sa che con tuo fratello ora avrà una pena mitissima: magari esiste un girone dove ti fanno solo il solletico con una piuma.
− Non ci scherzare, Livia.
− Dico la verità. Allora l’amuleto funziona.

***
Il rumore di passi dietro alla porta e il colpo al batacchio la fecero urtare il tavolino con il bicchiere.
− E stai attenta. Aprigli, piuttosto. Non senti che è tornato?
− Senti, Emanuele, dovremmo telefonare alle autorità.
Lui rise amaro: − Il matto sarei io, eh?
Si alzò: − Eccomi, Saverio.
Gli aprì e lo fece accomodare, dandogli una pacca sulla spalla: − C’è la mia poltrona, io prendo una sedia in cucina. Vuoi …
Non finì la frase e si portò la mano al torace, cadendo all’indietro.
Livia accorse da lui e lo chiamò.
Emanuele tacque, pallidissimo e con gli occhi sbarrati.
Lei prese il cellulare dal tavolo della cucina e telefonò ai soccorsi, mentre Saverio si chinava su di lui.
Gli occhi di Emanuele si coprirono di una pellicola spessa come una cataratta trascurata da decenni.
Lui gli sfiorò la fronte.
Il respiro pesante dell’uomo si ridusse al minimo.
I soccorritori esaminarono Emanuele.
Il loro capo si rivolse a Livia: − Quest’uomo è in coma vigile. Cosa gli è successo?
Livia indicò il cognato: − È stato poco dopo il suo arrivo.
Si era morsa la lingua.
Meglio tacere. Altrimenti penseranno che sono ridotta anche peggio di mio marito. Ma Saverio è ridotto anche peggio di quanto credessi.
Lei e il cognato raggiunsero l’ospedale della valle e attesero insieme nella saletta.
Livia trovò il coraggio di parlargli quando furono soli.
− Allora? Mi puoi dire tutto.
Saverio si voltò verso di lei con gli occhi gelidi e parve metterla a fuoco solo in quel momento: − Mi sono salvato proprio quando stavo per arrendermi.
Disse quelle parole per prendere tempo, mentre la sua mente metteva in ordine tutte le informazioni ricavate dal fratello.
Livia, moglie di Emanuele. Ora so quello che mi serve da lui. Mi dispiace che il suo organismo si sia rivelato tanto fragile. La nostra razza si risana con il tocco, ma nel suo caso è stato diverso: volevo togliergli il male che gli sta devastando la mente, invece, l’ho danneggiato anche di più.
Questa donna vuole sapere di certo cosa ha combinato Saverio e io mi rifiuto di dirglielo. Venire qui è stato un errore colossale. Non c’è nessuna guerra in preparazione contro di noi. Semmai, è il loro stesso pianeta che si sta ribellando loro, cercando di auto ripararsi come può. Quanto a loro, stanno scontando un modo di vivere troppo logorante: non sono programmati per tutte queste sollecitazioni.

La donna rincarò: − Mi puoi dire come?
− No.
Fece una smorfia infastidita sentendo i rumori del vicino Pronto Soccorso.
Da quando era arrivato sulla Terra, il caos sonoro lo aveva aggredito: a differenza del suo pianeta, non esistevano Camere del Silenzio.
E la mente della gente era arrivata al limite.
Nel suo viaggio aveva sondato parecchie persone, arrivando a capire che certe malattie come quelle di Emanuele non si sarebbero mai scatenate senza tutta la serie di sollecitazioni che arrivavano dall’esterno.

Tu stesso, Emanuele, ti sei ridotto ad aspettare Saverio, arrivando a immaginare di sentirlo vicino a te anche se non era così per via di una vecchia competizione fra voi: per un certo periodo della tua vita avresti voluto vederlo morto e quando il destino è sembrato sul punto di accontentarti, sei impazzito. Ovvio. La tua mente ha un meccanismo molto delicato.
Pensò alle leggi del suo pianeta.

Persone come te vengono tolte dalla circolazione e chiuse nel Palazzo della Rigenerazione. Alcune non ne escono più, ma per loro è meglio restare immerse in un sonno profondo piuttosto che rischiare di far finire anche le altre come loro.
Gli sondò la mente, e arrivò a vedere i sogni di Emanuele: erano entrambi insieme e camminavano nel bosco dietro alla baita in cerca di funghi e ridevano felici.

So di essere crudele a interrompere la tua passeggiata, ma devo avvertire la mia gente: c’è stato un malinteso. Forse dovreste rivedere le vostre apparecchiature per le comunicazioni. Siete così primitivi.
Tornò in sé e uscì in corridoio, dirigendosi verso l’Unità di Rianimazione.
Entrò nella stanza, dove Emanuele giaceva intubato e gli sfiorò la fronte prima di abbandonare il corpo preso a prestito.
Saverio cadde con un tonfo.
Qualche minuto dopo, l’infermiere di turno diede l’allarme: il paziente e il fratello erano deceduti entrambi.
Quest’ultimo era in avanzato stato di decomposizione e con in mano un cordino spezzato a metà.
Livia ebbe la forza di bruciarlo sul davanzale della stanza e fu il suo ultimo gesto giudicato stravagante dagli infermieri.
***
Da allora, Livia è controllata: sul lavoro dimostra un’efficienza anche maggiore rispetto a quella dell’epoca del suo matrimonio, ma è andata a vivere in una città sul mare e ha venduto la baita e la casa di città senza portarsi dietro nulla.
Non ha neppure più il cellulare: le è capitato troppe volte di sentirsi richiedere interviste sul mistero del cognato scomparso cadavere e poi riapparso in vita per morire nuovamente.
Vive felice così e quando si sente sola, si connette all’Internet Point.
 
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