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Scannatoio di Gennaio 2020, L'ispirazione vien...

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view post Posted on 27/12/2019, 11:16
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Ed ecco il nuovo skannatoio del 2020. Forza ragazzi cominciamo quest'anno col botto!

TEMPISTICHE:
1) la fase di scrittura comincia dall'esatto momento in cui pubblicherò questo post e terminerà alle ore 23:59 di domenica 19/01/2020.
2) Da lunedì 20/01/2020 a domenica 26/01/2020 potete leggere e commentare e votare i racconti degli altri partecipanti.
3) A partire dall'ultimo commento, fino al giovedì 30/01/2020 potete votare il miglior commento al proprio racconto (1 punto) o i migliri commenti complessivi (2 punti)



LUNGHEZZA

Il racconto potrà essere compreso tra i 3000 e i 25000 caratteri.

Specifiche
Dato che l'ultima volta è piaciuto, propongo una variante dello scannatoio di halloween: qui di seguito verranno proposti 4 articoli che vi faranno da fonte di ispirazione. Vi chiedo di sceglierne uno e scrivere un racconto ispirato a tale articolo. Ovviamente dato che è "ispirato" non è necessario che si parli del soggetto specifico o della storia in particolare. L'importante è che voi abbiate tratto ispirazione dall'articolo. Come l'altra volta siete liberi di sceglierne più di uno ma non avrete punti aggiuntivi per averlo fatto.

Dovreste indicare l'articolo da cui traete ispirazione all'inizio del racconto.

1) Tutto il sapere dell'umanità nel frigorifero più grande del mondo
Un luogo che contiene tutto il sapere dell'umanità per preservarlo in caso di apocalisse. Quanti racconti ci si possono scrivere? Da un post apocalittico in cui questo bunker è il sacro graal a uno spionistico in cui questi dati sono in pericolo. Sbizzarritevi!

2) Fotografie di un'epoca bizzarra
Qui più che da leggere c'è da guardare: foto che vengono dal passato ma che per certi versi vengono da una cultura che non riconosciamo più. Qualcuna di queste foto vi ispira? Cosa vi ispira?

3) Una storia su cui è già stato scritto tutto... o forse no?
Immagino che tutti conosciate la storia molto creepy della ragazza che entra in ascensore terrorizzata e che scompare poco dopo. Vi ho proposto questo articolo non per il gusto di smontarvela, ma per l'analisi completa che ne fa: dalla storia dell'hotel (che già da sola basta a riempire una raccolta di racconti) a quello che è realmente accaduto alla ragazza, ci sono diversi spunti per dare a questa storia una nuova vita, che sia essa di vera paura o di angosciante realtà.

4) "Come state? Io tutto bene"
Si discosta un po' dagli altri, ma questa storia di umana normalità mi ha colpito. Spero che colpisca anche voi dandovi il giusto la per un racconto.


Come sempre bazzicherò in zona per i prossimi giorni. Per qualsiasi dubbio chiedete.

Edited by reiuky - 3/1/2020, 15:11
 
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view post Posted on 29/12/2019, 23:09
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A questo voglio partecipare a prescindere dalle specifiche... Sono fra quegli idioti che credono che se fai una cosa a capodanno poi la fai tutto l'anno :p109:
 
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view post Posted on 1/1/2020, 20:10

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Io invece sono incuriosita dalle specifiche e con tutta la buona volontà di rispettarle il meglio che posso, mettendoci quanto più impegno possibile (c'entrano molto la ricerca, ma anche quello che si vede e si legge).
 
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view post Posted on 1/1/2020, 22:29
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CITAZIONE (shanda06 @ 1/1/2020, 20:10) 
Io invece sono incuriosita dalle specifiche e con tutta la buona volontà di rispettarle il meglio che posso, mettendoci quanto più impegno possibile (c'entrano molto la ricerca, ma anche quello che si vede e si legge).

Ti prometto che la tua curiosità sarà ben ripagata :)
 
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view post Posted on 3/1/2020, 15:12
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Visto che tra un po' devo uscire metto le specifiche qualche ora prima. Non me ne vogliate.
 
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view post Posted on 3/1/2020, 19:04
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Spero di riuscire a gestire Skannatoio e Minuti Contati in contemporanea, ma ci voglio provare.
 
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view post Posted on 10/1/2020, 09:01
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Ancora 9 giorni. come siete messi?
 
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view post Posted on 10/1/2020, 10:10
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CITAZIONE (reiuky @ 10/1/2020, 09:01) 
Ancora 9 giorni. come siete messi?

A metà della metà più o meno. 9 giorni dovrebbero bastarmi :p109:
 
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view post Posted on 11/1/2020, 07:07

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Ciao Reiuky, io devo solo aggiustare il finale. Manderò il prima possibile (certo mai all'ultimo giorno).

Mi sono ripresa da uno spavento terribile. In biblioteca hanno ritardato l'apertura (non era nulla, solo che i bibliotecari avevano l'influenza), ma questo mi ha terrorizzata nel profondo (dove abitavo prima, un cartello simile ha significato dieci anni di chiusura della biblioteca e io sono rimasta sconvolta: per me i libri sono cibo. Mi sono sentita come uno che ha il frigo quasi vuoto e trova tutti i supermercati chiusi e con la data di riapertura rimandata chissà fino a quando).
 
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view post Posted on 11/1/2020, 16:50

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SPECIFICHE FOTOGRAFIE DI UN’EPOCA BIZZARRA: Qui, più che da leggere, c’è da guardare: foto che vengono dal passato ma che per certi versi vengono da una cultura che non riconosciamo più. Qualcuna di queste foto vi ispira? Cosa vi ispira?



IL BUON RACCOLTO

Di Alexandra Fischer


Passo accanto allo spazio transennato dove fino al mese scorso sorgeva il rudere di una casa evitata dalla maggior parte della gente del paese.
La mia è una scorciatoia per arrivare prima a fare la spesa per la settimana: da quando hanno spostato il supermercato ai confini con l’aperta campagna, c’è quasi un chilometro in più da fare a piedi e oggi c’è lo sciopero del pullman.
È quando arrivo a metà della strada in discesa che trovo un riquadro di carta ingiallita dai bordi dentellati come quelli di un francobollo.
La curiosità mi fa superare ogni timidezza: voglio vedere cosa raffigura, poi, se qualcuno l’ha persa, posso sempre andare alla stazioncina del pullman e lasciarla nella scatola trasparente degli oggetti smarriti.
L’immagine in bianco e nero raffigura il muro di una casa con accanto un fungo di pietra sul quale è appoggiato un bastone.
Poco lontano, c’è un braccio che lo indica.
Vado avanti per la mia strada, dopo aver messo la fotografia nella tasca del giaccone: con il disordine che c’è dentro, di sicuro si rovinerebbe e invece è d’epoca.
Ricordo di averne viste di simili nei mercatini di cimeli di un secolo fa e di sicuro, da qualche parte qualcuno starà maledicendo la propria distrazione.
Quando svolto la curva, però, riconosco il fungo della fotografia: gli manca un pezzo del cappello e la tinta marrone si è sbiadita, proprio come quella ocra del tronco, e ora sono incuriosita.
Sono venuta qui per fare la spesa e mi imbatto in un mistero legato alla casa.
Tiro fuori il cellulare dalla borsa.
Sono le nove di una domenica che si preannuncia noiosa: dopo la spesa e il pranzo, non mi rimane molto da fare.
Sonnecchierò e poi sbrigherò le faccende di casa prima che vengano le zie per la solita visita pomeridiana.
Passo accanto al perimetro cintato della casa e trovo un’altra fotografia: stavolta e quella nel bastone, nel dettaglio, collocato in piedi sulla stessa parete.
Riporta i simboli della luna e del sole stilizzati, ma anche quelli di una cesta e di un collare.
Si vedono benissimo e mi fanno pensare all’ultima visita in Comune, fatta la settimana scorsa per rinnovare la carta d’identità.
Per caso ho sbagliato stanza e sono finita in quella dell’archivio.
Visto che la fila non finiva più, ho aperto qualche armadio, leggiucchiato qua e là qualche libro e ho riconosciuto i soggetti delle fotografie.
Quelle che ho trovato io sono state riprese da angolazioni limitate: sui libri ho visto la casa da diversi punti, e in epoche sempre più remote.
Hanno lavorato in base alla cubatura, ma in una delle istantanee più recenti, si vede una cantina scavata in profondità e arredata con sedie disposte in cerchio intorno al simbolo del sole e di una cesta.
Sulla parete, ricorrono quelli della luna e del collare.
Quest’ultimo mi fa pensare ai latrati che sento durante la stagione della raccolta delle nocciole.
Ci ho visto gli stessi simboli su un giornale ingiallito, chiuso in una teca messa in un angolo in penombra; purtroppo non ho fatto in tempo a leggere l’articolo, perché sono stata sorpresa dall’impiegato dell’anagrafe, il classico stagista neo assunto per una stagione.
Non dimenticherò mai il suo sguardo invelenito.
E ho benedetto la mia previdenza nell’aver richiuso gli armadi con i libri: ora so che la casa è stata demolita per ragioni serie e ci sarà da avere paura per quando la ricostruiranno.
Certo, quel mondo è scomparso, ma, e se ne apparisse uno peggiore?
Non so fino a che punto ne sappia quel giovanotto: avrà ventitré, ventiquattro anni al massimo.
Per farsi notare dai pochi addetti fissi all’anagrafe, mi ha sbraitato contro e mi ha fatto svuotare la borsa e le tasche del cappotto, nel timore che fossi entrata per rubare.
Io sono stata al gioco.
Rido ancora adesso delle mie stesse parole.
Sicuro, oltre a rifare la carta d'identità elettronica, sono venuta qui apposta per procurarmi il necessario per vedere se a qualcuno interessa rimettere in piedi la Congrega della Nebbia. Ma qui ci sono appese solo le foto delle sagre di novant’anni fa e il solito articolo d’epoca che le loda come se il raccolto abbondante fosse stato una magia del sindaco di allora.
***

La seconda fotografia mi spinge a essere cauta riguardo al contenitore degli oggetti smarriti: quei simboli riguardano un culto dichiarato fuorilegge da almeno mezzo secolo.
Questo me lo ricordo, ripetuto più volte dalle didascalie alle foto pubblicate su quei libri.
Ci sono stati dei morti per questo e ora non vorrei risvegliare dei dolori nei sopravvissuti a quei fatti.
Roba da far impallidire la Caccia alle Streghe.
Ricordo di essere passata accanto a questa casa tante volte e di averne sempre viste le imposte chiuse.
In seguito, si sono aggiunti i cartelli con la dichiarazione di inagibilità e le transenne di plastica bianche e rosse fluorescenti, seguita dalla demolizione.
***
Entro nel supermercato e faccio la spesa in tutta fretta: ho l’impressione di sentire su di me gli sguardi degli altri clienti.
Può darsi che qualcuno mi abbia visto raccogliere quelle fotografie e fra di loro si nasconde la persona che le ha smarrite.
Se c’è, deve farsi avanti cercandomi a casa.
Niente da fare: mi aggiro fra gli scaffali, ma non noto nessun volto angosciato, ma mi consolo con il pensiero che forse sarà lui o lei a farsi vedere a casa mia.
Quelle fotografie sono saltate fuori quando tutti credevano ormai dimenticata la congrega.
Ora le ho io e mi chiedo il perché, visto che non proprio il tipo della prescelta, a casa nessuno ha mai parlato della leggenda.
L’ho appresa per la prima volta in Comune e ho letto di sfuggita di quelle morti di fanciulle.
Quando esco dal supermercato decido di cambiare strada: per una volta tanto voglio passare accanto a quella della casa della vecchia maestra.
Tutti se ne tengono alla larga perché sembra un edificio sopravvissuto a un’epoca così incomprensibile che vogliono dimenticarla.
Io ne sono incuriosita perché mi sono imbattuta in una terza fotografia: questa ritrae un uomo slanciato dal lungo mantello nero accanto a una giovane donna vestita di bianco e a un’altra ragazza dal vestito a quadretti dal colletto di piqué.
La casa abbattuta è sullo sfondo e capisco che è stata scattata accanto alla casa della vecchia maestra.
Ne rammento il pessimo carattere e la scelta di vivere da sola, ma mi incammino lungo il muro dalla cancellata invasa da tronchi di glicini bianchi.
I fiori mi stordiscono con un profumo talmente nauseante da farmi accelerare il passo; il fatto che pullulino di calabroni e bombi terrestri non mi tranquillizza di certo.
Così, arrivo davanti al cancello principale e vedo un album rilegato di cuoio ornato di iris e foglie lavorate al bulino.
Lo raccolgo e faccio per aprirlo quando una voce autoritaria di donna anziana mi lancia un richiamo dalla finestra: «Posalo sul davanzale della finestra e verrò a prenderlo.»
Lascia aperta la finestra e io vedo le tendine ingiallite dal tempo, con i ricami rovinati dai tarli e comincio a sentirmi male.
La mia non è paura, ma tristezza: sento che sto dando l’addio a qualcosa che non tornerà mai più.
Io le obbedisco, intimidita dal tono e non solo: ho appena visto l’ombra di un uomo alto stagliarsi dalla finestra.
L’album mi cade e io vedo una fanciulla incoronata di foglie di nocciolo e con una tunica bianca immortalata mentre balla sotto lo sguardo di un gruppo di uomini e donne di tutte le età.
Vedo la fatica sul suo volto, i capelli madidi di sudore, e sento su di me la fatica delle braccia e delle gambe provate dalla serie di salti e piroette a piedi nudi.
Alle sue spalle ci sono le decorazioni che ho già visto nelle altre istantanee.
La raccolgo e la metto nell’album, dalle pagine nere vuote, dove ci sono soltanto gli spazi dei triangoli adesivi vuoti.
La colla è disseccata e la carta trasparente è diventata fragile.
«Gliel’ho messa in mezzo alle altre. Può andarle bene così?»
«Sì» mi conferma lei mentre l’uomo alto, dal mantello nero, si allontana all’interno della stanza al piano di sopra.
Poi mi spiega: «Le morti di quelle ragazze, susseguitesi negli anni, non sono state né buone né cattive. Era il nostro modo di controllare la natura e le risorse. Affinché i più potessero sopravvivere alle guerre e alle carestie, una di noi doveva sacrificarsi ballando a morte. La sua energia si sarebbe trasferita ai noccioleti e l’uomo che hai visto faceva in modo di usarla saggiamente contro le forze malvagie. Casa sua è stata abbattuta perché lui ha fatto il suo tempo e sì, alcune fotografie sono le sue. Servivano a convincere le autorità della nostra buona fede.»
Sono raggelata da quello che ho appena sentito: conferma i miei peggiori sospetti.
Una volta accadevano vicende simili e nessuno pareva preoccuparsene.
La sento aprire la porta e scendere in giardino.
Prende l’album: «Grazie per avermelo riportato. Fra poco, anch’io dovrò andarmene. E non volevo che queste foto finissero nelle mani sbagliate.»
Mi lascio sfuggire un commento dettato dalla paura: «Oh, certo, altrimenti a qualche matto verrebbe in mente di ripristinarlo.»
Le mostro il mio Smartphone: «Vede? Sarebbe facile raccogliere adepti. Certo, molto meno i curiosi, ma sono sicura che non mancherebbe una rete di complici per far tacere i curiosi.»
Lei mi ascolta paziente, stringendo l’album come se fosse un registro di classe: «No, ormai esistono forze superiori alle nostre. La tecnologia è andata avanti e ha reso inutili i nostri sacrifici. Sai, devo confessarti che ti è andata bene per un soffio. Se non ci fossero state certe scoperte, tu saresti stata prescelta per la Danza del Raccolto.»
Deglutisco e lei mi rivolge un sorriso indulgente: «Sei al sicuro da ogni rischio.»
«Mi fa piacere» replico incerta. «Ma come mai sono saltate fuori tutte queste fotografie, se il vostro culto è scomparso dalla memoria collettiva?»
«Sono gli ultimi ricordi da aggiungere al resto del bagaglio. Le hai trovate solo perché la magia che le proteggeva al riparo nel loro nascondiglio è stata distrutta insieme alla casa.»
Mi porto la mano al petto, io che temevo tanto di essermi assunta una maledizione per il solo fatto di aver toccato quelle fotografie.
«Allora posso andare» le dico, timida come ai tempi della scuola.
Lei apre l’album e lo sfoglia: «Mi hai proprio dato tutte le fotografie?»
Io annuisco, convinta.
Il rumore della porta ci fa sussultare entrambe: l’uomo alto, intabarrato di nero e con il bastone intagliato con i simboli del culto le si affianca e scuote il dito indice sinistro.
Allora mi sento girare la testa.
Guardo nella borsa e trovo le prime fotografie raccolte per caso.
Mi viene da piangere quando le tendo alla maestra.
Lei le guarda severa e le mette nell’album insieme alle altre.
Quando torna a guardarmi, però, i suoi lineamenti si sono distesi.
«Non è stata colpa tua, ma le hai toccate e questo avrà delle conseguenze su di te.» mi avverte.
L’uomo intabarrato di nero fa un cenno del capo e si ritira di nuovo verso l’interno della casa.
Io scoppio in lacrime e tendo la mano attraverso le sbarre del cancello, come a fermarlo, ma lei la spinge indietro: «Ormai è inutile disperarsi. Sarai l’unica a ricordarti di noi per un po’, almeno, poi ti scorderai tutto quanto, un pezzo alla volta. Ti farà soffrire molto. Ma guai a te se ne parlerai con qualcuno. Uccideresti te stessa e il tuo interlocutore.»

***
Stamattina ho visto che hanno buttato giù anche la casa di lei e l’hanno transennata.
Questo particolare mi ha spinta a riportare tutta la mia esperienza con le fotografie: io non ricostruirei nessuna di quelle due case.
Mia zia Ada mi ha presa per un braccio: «Vieni via di lì. Non sai che è crollata su se stessa stanotte senza fare alcun rumore e c’è stato un incendio nell’archivio del Comune? Questa è roba da… non so neppure io da chi o da cosa. E… chi abitava lì?»
Mi guarda incerta.
Io la prendo sottobraccio: «Nessuno che conoscessimo.»
«Perché hanno cercato di bruciare il Comune?»
«È stato un cortocircuito, zia. Sai che negli ultimi anni non hanno più controllato il quadro elettrico.»
Annuisce come una bambina impaurita e si stringe ancora di più al mio braccio.
Proseguiamo e io cambio strada apposta, allungandola un po’: non voglio che veda anche l’altro spazio transennato.
Mi fa pena vederla così e a me sta venendo un feroce mal di testa.

***
Scrivere non è parlare con qualcuno a voce e dubito che il maleficio della mia ex maestra delle elementari possa davvero uccidere.
Certo, quel suo amico vestito di nero era davvero impressionante, lui sì, dava l’idea di poter fare qualcosa di stregonesco.
Per questo ho deciso di lasciare questa testimonianza.
E l’analgesico che ho preso per scriverla ha esaurito il suo effetto.
Vado a prenderne un altro.
Sempre che riesca ad alzarmi da questa poltroncina girevole.
***
Premo il tasto Invio e ricordo appena di essere uscita di mattina presto.
 
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view post Posted on 18/1/2020, 13:54
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Finito. Lo faccio decantare qualche ora, poi lo rileggo e correggo. O magari lo cestino :p099:

Ma solo Shanduccia e muà in questo giro?
 
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view post Posted on 18/1/2020, 18:10
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Io sono al lavoro. Purtroppo, completare il racconto per la Sfida a Minuti Contati mi ha richiesto più tempo del previsto, quindi sono parecchio in ritardo sulla tabella di marcia. Dato che questi due giorni ho anche alcune cose da fare, si può valutare, nel caso? Una piccola proroga?
Non è detto che serva, perché domani vorrei trovare il tempo per scrivere, ma metto le mani avanti.
 
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view post Posted on 18/1/2020, 20:03
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Vecchie foto






Che te lo dico a fare? Cominciò tutto nel più classico dei modi, e cioè con un giorno di pioggia.
Era venerdì mattina, e allo squillo della sveglia (leggi: le urla di mia madre dalla cucina) mi destai con un senso di malessere diffuso. Al mettere fuori dalle coperte un piede, mi colse un brivido. Non andava bene. O forse andava benissimo, perché se avessi passato con successo l'esame materno avrei saltato scuola, e me ne sarei stato tutto il giorno a smanettare con la PlayStation.
In effetti accadde proprio così. Non la faccenda della PlayStation, ma il superare l'esame medico.
Come entrai in cucina, dove mamma aveva già riscaldato il caffellatte e preso i miei biscotti preferiti, quelli integrali croccanti, da lei venne un lamento appena mi vide. Era un principio di febbre, ma i sintomi, ai suoi occhi dotati di attenzione chirurgica, furono evidenti. Mi tastò la fronte, e subito disse che dovevo starmene a casa.
Guarii all'istante, ma non potevo tradirmi. Così inzuppai solo un biscotto e claudicante, curvando appena la postura sotto un peso inesistente, ciabattai di nuovo verso la mia stanza.
Prima d'uscire per l'ufficio mamma venne a farmi visita. «Se ti senti ancora più male chiamami, capito? Non uscire dal letto, capito? O se esci copriti. Ho lasciato il riscaldamento acceso. Ciao, tesoro.» Mi stampò un bacio in faccia e corse via.
Che eroina, la mia mamma! A ventotto anni era già un carro armato nel crescermi tutta da sola, dopo che quel bastardo del mio genitore se ne era scappato con una fighetta adolescente. Me lo ricordavo appena, lo stronzo, perché ci aveva mollati quando avevo due anni e l'ultima volta che l'avevo visto fu quando era ritornato, mesi dopo, per avanzare diritti sulla casa, che gli apparteneva di eredità. La mamma allora gli intentò una causa, che vinse, ovviamente, perché il torto stava tutto dalla parte di lui. Il mattino di cui sto parlando, quello della febbre, di anni ne avevo dodici. Capisci quindi che mia mamma era rimasta incinta di me quando era appena sedicenne. Non c'era nulla da fare, il bastardo, pur avendo messo su famiglia, non aveva perso il vizio di volersi intrufolare nelle grazie di femmine giovani e vergini! Con la mamma aveva resistito appunto per tre anni, poi si era invaghito di un'altra ed era sparito. Dalla fine della causa, il bastardo era sparito definitivamente. Fortuna che la mamma, pur con molti sforzi, era riuscita a non smettere con la scuola e a diplomarsi, e poi a laurearsi facendo sforzi ancora maggiori, poiché era sola e con un moccioso da sfamare. Quindi, vedi quanto lei era meravigliosa?
Dopo la laurea aveva smesso coi lavori ingrati ed era riuscita a farsi assumere come impiegata amministrativa in una grande azienda di import/export, un lavoro duro che però pagava anche bene.
Comunque, appena sentii la porta d'ingresso chiudersi, lanciai via le coperte. E istantaneamente le recuperai. Non andava bene. La febbre c'era, e l'evitare scuola non mi aveva guarito come avevo immaginato.
Rimasi a letto nella penombra del temporale. L'ho detto che era una mattina di pioggia, no? I goccioloni venivano già a secchiate, oltre la finestra della mia cameretta. Tirava anche un ventaccio! Il silenzio della casa, stranamente sottolineato dal chiasso di fuori, mi mise addosso una misteriosa strizza. Non era la prima volta che mamma mi lasciava solo a casa, nell'ultimo anno. Ero diventato grande, ed ero un moccioso assennato e intelligente, quindi poteva fidarsi. D'altronde erano stati ben pochi i grattacapi che le avevo somministrato anche prima di quella precoce maturità.
Eppure quel giorno mi prese una sottile, stupidissima paura. Forse era la febbre che mi rendeva pavido senza alcun senso, perché si sa che la malattia acuisce il nostro senso di vulnerabilità. Non lo mettevo in questi termini, allora: non avevo la dialettica e le conoscenze attuali.
O forse fu la premonizione di cosa avrei scoperto...
Rimasi a letto per un po', sentendo la pioggia, la strizza e i brividi che aumentavano. Non ero però tanto sicuro che fossero brividi di febbre. Poi la fame mi vinse. Avvoltolatomi nella coperta, mi avviai verso la cucina, in cui feci fuori quasi mezzo barattolo di marmellata.
La PlayStation, ma certo!
Pur con una voglia minore rispetto a quella che avevo pregustato minuti prima, in salotto accesi TV e console. Credo che mi stessi sforzando per non tonare a letto, in quel silenzio. Avviai il mio gioco preferito. E lì, patatrak!, andò via la corrente.
Non so se tu ti sia mai trovato in una situazione simile, nell'infanzia. Trovarsi in una casa spenta, che se pure giorno, per il temporale, pare di essere in un pomeriggio inoltrato, quasi sera... Beh, fidati se ti dico che per un bambino è traumatizzante, anche per uno come ero io, che non credevo al fantastico già più.
Mi sbloccai da una paralisi con grande sforzo. Andai a controllare se non fosse scattato il contatore elettrico, magari per un sovraccarico generato da un fulmine caduto troppo lontano perché io ne udissi il tuono. Ma no: la leva di accensione era sollevata.
Mi colse il desiderio di chiamare mamma col telefonino. Ma avrei fatto una figura indegna di me... Cosa avrei dovuto dirle? Che ero al buio e che tremavo di strizza per nessun motivo logico oggettivo? La mamma avrebbe riso, prima di tornare. E quella risata avrebbe umiliano l'ometto che stava crescendo in me.
A quell'età questi ragionamenti sono reali. Beh, oddio, forse per lo più vengono a ragazzini più grandi. Ma ho detto che io ero precocetto nel maturare!
Non sapevo che fare. Tornarmene al letto non era cosa, il buio e il silenzio mi suggerivano altro. Bello sarebbe stato avere allora i telefonini di oggi, con tutti quei gingilli digitali totalmente inutili ma che attirano alla grande, quando non si ha niente fare... e anche quando se ne ha e si preferisce perdere tempo. Ma nel periodo di cui parlo il massimo della telefonia mobile erano dei cosini di plastica, duri come mattoni, che costavano un mese di stipendio di un colletto bianco e che facevano solo telefonare...
Cominciai ad andare in giro per la casa, senza alcun motivo. Cercavo di fare tutto il rumore possibile. Anche con le pantofole, le facevo sbattere sul pavimento a ogni passo, facendo una sorta di plop plop che echeggiava nella penombra.
A un certo punto, non so bene quando, la paura era passata e io ero diventato un pirata in cerca di un tesoro. La febbre doveva aver fatto retrocedere la mia maturità ed eccomi di nuovo lì con giochi degni di un cinquenne. Oppure fu una specie di autodifesa, la mia mente che apparecchiava un gioco per far sparire la paura ottusa. Non so.
Comunque ero un pirata che esplorava una regione del nord, infreddolito e pieno di brividi. Con la coperta addosso entravo nelle varie stanze figurandomi templi tibetani abbandonati o pagode mongole, sempre abbandonate, per giustificare il silenzio e l'assenza di vita. Nei corridoi immaginavo tunnel sotterranei, o miracolosi sentieri in giungle tanto intricate e alte che la luce del sole non vi giungeva al suolo se non in una percentuale risicata, per giustificare la cupa penombra del giorno.
Abbozzai delle corse per sfuggire a improbabili nemici, spettri di pirati morti nel tentativo di trovare lo stesso tesoro, o membri di misteriose popolazioni rimaste isolate e sconosciute dalla civiltà... Insomma, passavano così i minuti.
Mi trovai nel soffitto. A varcarne la soglia, ritornò la paura, perché l'ambiente era più oscuro non essendoci finestre. Solo un lucernario era fonte di luce, ma era là in fondo alla stanza oblunga, e da me a lui c'era un tratto di strada in cui l'ombra si addensava. Ero nella stanza del tesoro, senza alcun dubbio. L'illusione infantile scansò la stupida pavidità per cose inesistenti, ed entrai.
C'erano scatole ammassate senza alcun ordine a destra e a sinistra. L'unico ordine era il percorso sgombro che dalla porta attraversava il soffitto per lungo, fino alla parete in fondo, sotto il lucernario.
Camminando in quel corridoio, sbirciavo le scatole. Cominciai ad aprirne anche, quando mi era facile farlo. La quantità di roba che contenevano era spaventosa, così come era spaventoso che solo sfiorandole con una mano mi era possibile per lo più capire di cosa si trattasse. L'ho detto che era buio, e intendo buio buio buio. Le scatole stesse, ammassate e alte sopra la mia testa, apparivano come ombre sagomate insondabili. Potevano essere catafalchi di bare, o loculi scomposti pieni di cadaveri in putrefazione... o semplicemente casse del tesoro, ma piene di vecchiume senza valore... Così aprendone dove potevo ci passavo la mano, a volte sfiorando superfici lisce e fredde, altre setose e cedevoli. La mamma, in tutti gli anni che aveva vissuto lì, vi aveva stipato un po' di tutto: mobili rotti, vecchi vestiti, soprammobili passati di moda, libri, quaderni, utensili sostituiti con altri nuovi, elettrodomestici dismessi, e chissà cos'altro; senza contare che la casa era appartenuta ai genitori del mio fedifrago genitore, e altra roba ancora più antica c'era già da prima.
Avvicinandomi alla luce le casse si chiarivano e allora con coraggio accresciuto esploravo con più attenzione. In una trovai vecchie foto mischiate a carte volanti, forse documenti o diari; in un altra dei tappeti avvoltolati, in altre oggetti utili come piatti (dalle serigrafie sembravano antichi) o futili come vasi o soprammobili (mi colpì una sfera con dentro un modello di Fenice). Non aprivo tutti gli scatoloni, perché solo pochi non erano impilati. Mi chiesi se oltre la prima fila di scatoloni ce ne fossero altre, e se aprendo quelle avrei trovato cose via via più antiche. Immaginavo che alle origini i primi abitatori della casa avevano accumulato roba posizionandola addosso alle pareti, per poi coprirla, con gli anni, da altra roba, creando così sedimenti geologici di roba dimenticata. Sarebbe stato affascinante scavare in quei sedimenti, ma ero malato, ero piccolo, non avevo né il tempo né le energie per farlo. E ovviamente giocavo al pirata, e proprio perché gioco, il tesoro doveva essere alla mia portata, non sepolto dietro fila e fila di scatoloni ammassati.
Eccolo, il tesoro. Proprio sotto il lucernario. Era un baule, addossato alla parete di fondo. Ma certo! Era un baule antico, posizionato lì in epoche remote e obliate, e non coperto da altri sedimenti perché in quel modo avrebbero occluso il lucernario.
La pioggia batteva sul vetro della finestra in alto, lavandolo. Il ticchettio era ipnotico. Nella febbre mi sembrava che ogni goccia producesse una vibrazione nel mio corpo, ma erano i brividi maggiorati dal freddo che nella soffitta era assoluto.
Sollevai il coperchio del baule con una certa fatica, perché era in legno e davvero grande e antico. I cardini emisero in cigolio rugginoso che, anche quello, mi attraversò arricciandomi la pelle.
La prima cosa che fidi fu un panno di velluto che copriva tutto il contenuto. Una volta doveva essere stato rosso, ora appariva quasi rosa sotto il velo finissimo di polvere infiltratasi. Mi chiesi da quanto tempo non era stato aperto. Certo, vista la chiusura ermetica del coperchio, forse erano secoli che era stato messo lì: perché solo un periodo così vasto avrebbe permesso che la polvere formasse quel velo.
Ad ogni modo sollevai il panno con molta cautela. Ma non bastò per evitare che si sollevasse uno spettro soffocante, tanto sottile e impalpabile era quella polvere. Tossii a momenti anche l'anima.
Quando lo spettro si disperse e io mi ero calmato, cominciai a spulciare nel baule.
Incredibile ma vero, la prima cosa che presi in mano fu un fucile. Era adagiato di sbieco sopra tutti gli altri oggetti, ed era di sbieco perché troppo più lungo della larghezza del baule. La canna era davvero lunga e sottile, e siccome avevo visto tanti film western capii che doveva essere molto vecchio. Che fosse vecchio, comunque, lo testimoniava anche il fatto che era tutto arrugginito, e il calcio tarlato e marcio d'umidità. Lo sollevai pieno di riverenza, come fosse davvero un tesoro che meritasse rispetto, poi lo mesi sul pavimento accanto a me.
Per ora mi è inutile dire cos'altro c'era nel baule. Non è importante. Trovai però cartucce, cartucciere, un paio di stivali di cuoio logoro, c'era anche una briglia, delle staffe di legno e ferro, e altri finimenti. C'erano cassette più piccole, piene a loro volta di oggetti che non mi va di ricordare. Pezzo dopo pezzo svuotai il baule, esplorai ogni cosa. Poi aprii una delle ultime cassette che conteneva.
Trovai le foto.
Non continuai l'esplorazione del baule, perché dopo aver viste le prime foto, un terror panico mi rese ottuso e dominato dalla sola necessità di fuggire via.
Difatti fuggii urlante, nel buio della soffitta e poi nella penombra della casa, e poi nella mia stanza dove mi precipitai nel letto. Lì fui vittima di una recrudescenza imprevista della febbre. Ricordo che persi i sensi, per sguazzare in uno stato di delirio bollente in cui visioni grottesche e terrifiche mi precipitavano addosso da dimensioni oscure che a me non era dato vedere. A tratti mi destavo dall'incubo per trovarmi debole e bagnato, percosso da brividi e tremori.
Poi, quando rinvenni di nuovo, c'era mia madre che mi metteva una pezza fredda sulla fronte e aveva in faccia un'espressione spaventata e avvilita. «Non dovevo lasciarti, dannazione!» diceva mentre correva a prendere un termometro o a chiamare un medico o a recuperare la scatola della tachipirina.
L'averla accanto però ebbe un effetto benefico su me, che subito mi ripresi. Ricordai l'accaduto, e pur essendo in dubbio se fosse stato reale, ne parlai a lei. Era ritornata al capezzale e mi accarezzata i capelli, e ogni tanto spostava la mano sulla pezza per decidere se fosse da rinfrescare. Intanto che aspettavamo il medico, le raccontai tutto.
«Non dovevi andare a zonzo, me l'avevi promesso!» mi rimproverò.
«Ma, mamma, io non ho promesso nulla» balbettai.
«Vero, hai ragione. Ma non dovevi andare in giro lo stesso!»
Il medico venne, mi visitò, e il suo responso fu: una febbricola trascurabile. Andò via dopo aver prescritto riposo e tachipirina in supposte.
Era stato davvero lo shock, non la malattia, a farmi precipitare nel delirio in cui mi aveva ritrovato mia madre, spaventandosi molto.
Qualche ora dopo la vidi uscire dalla mia stanza con passo titubante, come se combattuta internamente tra un'azione che avrebbe dovuto compiere e un istinto che la tratteneva dal farlo.
La vidi sparire nel corridoio, di lato. Non so se fu la mia immaginazione, ma qualche minuto dopo udii una specie di urlo rimbombare nella casa, seppure flebile. Mi sembrava la voce di lei.
Ne riparlammo il giorno dopo, a colazione. La febbre mi era passata, ma lei aveva deciso di rimanere a casa con me.
«Sai» mi disse «questa casa è molto vecchia. Apparteneva ai bisnonni di tuo padre. Credo di non aver mai messo piede in soffitta in tutti gli anni in cui ci abbiamo abitato, se non per lanciare qualcosa di vecchio vicino la porta... Non dovei entrarci... non è sano per un bambino vedere certe cose...»
La interrogai con lo sguardo. Ero maturo abbastanza da sentire tutta la storia, e lei lo sapeva.
«Parliamo di molti anni fa» continuò. «Quelle cose sono sparite da... oddio, non credo di saperlo. Non ce n'erano già più quando i miei nonni erano giovani! La nostra civiltà ha preferito dimenticarne l'esistenza, cancellarla dai libri di storia... Io ricordo che me ne parlava mia madre, quando in certe sere ci veniva il capriccio di sentire storie spaventose. Ma credevo fossero favole. Negli anni, da certi indizi, da certe dicerie, mi convinsi che qualcosa di vero ci fosse... Beh, ora sappiamo, sia io che tu, che era tutto vero!»
La vidi rabbrividire. Bevve un sorso di caffè caldo.
«Ho preso quelle foto e le ho fatte sparire. Non avresti dovuto vederle...»
«Dove le hai messe?» chiesi.
«Non te lo dico, scordatelo!»
«Ma... mamma... cosa erano?»
«I parenti vecchi di tuo padre davano la caccia a quei cosi... a quel tempo era una pratica comune, a dire il vero: lo facevano tutti. C'era anche un corpo militare preposto alla ricerca degli ultimi esemplari, se non sbaglio. Almeno secondo quello che ho sentito... le dicerie e gli indizi di cui accennavo prima... Davano loro la caccia senza tregua, perché erano mostri spaventosi e pericolosi, e bisognava pulire il mondo dalla loro presenza... Beh, alla fine ci riuscimmo. Ci riuscimmo! La nostra specie sana debellò quella terribile deformità! Li spazzammo via tutti. Distruggemmo ogni loro manufatto che richiamasse la loro immagine... E li spazzammo via anche dalla memoria storica. Ecco perché i libri non ne parlano. Ma restano testimonianze sepolte... dimenticate per esempio in soffitte in cui i ragazzini non dovrebbero entrare, specie se sono febbricitanti!» Mi lanciò un'occhiata di rimbrotto.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare precisamente cosa avessi visto nelle foto, le foto sbiadite di un'epoca lontana. La mia memoria mi offriva un informe inferno di arti rigidi e bianchicci, coperti a volte di stracci o da abiti dalle fogge indescrivibili. Teste sferiche sui cui volti spiccavano bulbi incassati, bocche spalancate irte di denti... Ma non ricordavo che appunto vaghezze estreme. Il trauma forse aveva già minato la mia memoria, che stava cancellando, anche lei, quell'orrore del passato.
«Come si chiamavano?» volli chiedere, stupidamente.
«Oh, non so bene... Mi sembra... uomini... esseri umani... Prima che fossimo noi a prendere il controllo del mondo, erano loro a dominarlo... a rovinarlo con la loro follia...»
La mamma sembrò scacciare con una scrollata di pseudopodi e tentacoli le brutte impressioni che il racconto stava creando. Mi guardò con tutti i suoi trenta occhi, finalmente di nuovo allegra e forte. «Che ne dici se ce ne andiamo al parco e di pranzare poi nella trattoria di Fhfhrtrafh? Oggi dobbiamo ridere e svagarci. Ti va?»
Ovviamente dissi di sì.



Edited by Gargaros - 18/1/2020, 20:38
 
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view post Posted on 19/1/2020, 23:37
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Custode di Ryelh
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Confermo: non ce la faccio stasera a completare tutto. :( Se si potesse avere una proroga, cercherò di postare entro i nuovi termini.
 
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view post Posted on 20/1/2020, 07:18
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Ok. Tre giorni di proroga. ;)

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