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Scannatoio di Gennaio 2020, L'ispirazione vien...

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shanda06
view post Posted on 11/1/2020, 16:50 by: shanda06

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SPECIFICHE FOTOGRAFIE DI UN’EPOCA BIZZARRA: Qui, più che da leggere, c’è da guardare: foto che vengono dal passato ma che per certi versi vengono da una cultura che non riconosciamo più. Qualcuna di queste foto vi ispira? Cosa vi ispira?



IL BUON RACCOLTO

Di Alexandra Fischer


Passo accanto allo spazio transennato dove fino al mese scorso sorgeva il rudere di una casa evitata dalla maggior parte della gente del paese.
La mia è una scorciatoia per arrivare prima a fare la spesa per la settimana: da quando hanno spostato il supermercato ai confini con l’aperta campagna, c’è quasi un chilometro in più da fare a piedi e oggi c’è lo sciopero del pullman.
È quando arrivo a metà della strada in discesa che trovo un riquadro di carta ingiallita dai bordi dentellati come quelli di un francobollo.
La curiosità mi fa superare ogni timidezza: voglio vedere cosa raffigura, poi, se qualcuno l’ha persa, posso sempre andare alla stazioncina del pullman e lasciarla nella scatola trasparente degli oggetti smarriti.
L’immagine in bianco e nero raffigura il muro di una casa con accanto un fungo di pietra sul quale è appoggiato un bastone.
Poco lontano, c’è un braccio che lo indica.
Vado avanti per la mia strada, dopo aver messo la fotografia nella tasca del giaccone: con il disordine che c’è dentro, di sicuro si rovinerebbe e invece è d’epoca.
Ricordo di averne viste di simili nei mercatini di cimeli di un secolo fa e di sicuro, da qualche parte qualcuno starà maledicendo la propria distrazione.
Quando svolto la curva, però, riconosco il fungo della fotografia: gli manca un pezzo del cappello e la tinta marrone si è sbiadita, proprio come quella ocra del tronco, e ora sono incuriosita.
Sono venuta qui per fare la spesa e mi imbatto in un mistero legato alla casa.
Tiro fuori il cellulare dalla borsa.
Sono le nove di una domenica che si preannuncia noiosa: dopo la spesa e il pranzo, non mi rimane molto da fare.
Sonnecchierò e poi sbrigherò le faccende di casa prima che vengano le zie per la solita visita pomeridiana.
Passo accanto al perimetro cintato della casa e trovo un’altra fotografia: stavolta e quella nel bastone, nel dettaglio, collocato in piedi sulla stessa parete.
Riporta i simboli della luna e del sole stilizzati, ma anche quelli di una cesta e di un collare.
Si vedono benissimo e mi fanno pensare all’ultima visita in Comune, fatta la settimana scorsa per rinnovare la carta d’identità.
Per caso ho sbagliato stanza e sono finita in quella dell’archivio.
Visto che la fila non finiva più, ho aperto qualche armadio, leggiucchiato qua e là qualche libro e ho riconosciuto i soggetti delle fotografie.
Quelle che ho trovato io sono state riprese da angolazioni limitate: sui libri ho visto la casa da diversi punti, e in epoche sempre più remote.
Hanno lavorato in base alla cubatura, ma in una delle istantanee più recenti, si vede una cantina scavata in profondità e arredata con sedie disposte in cerchio intorno al simbolo del sole e di una cesta.
Sulla parete, ricorrono quelli della luna e del collare.
Quest’ultimo mi fa pensare ai latrati che sento durante la stagione della raccolta delle nocciole.
Ci ho visto gli stessi simboli su un giornale ingiallito, chiuso in una teca messa in un angolo in penombra; purtroppo non ho fatto in tempo a leggere l’articolo, perché sono stata sorpresa dall’impiegato dell’anagrafe, il classico stagista neo assunto per una stagione.
Non dimenticherò mai il suo sguardo invelenito.
E ho benedetto la mia previdenza nell’aver richiuso gli armadi con i libri: ora so che la casa è stata demolita per ragioni serie e ci sarà da avere paura per quando la ricostruiranno.
Certo, quel mondo è scomparso, ma, e se ne apparisse uno peggiore?
Non so fino a che punto ne sappia quel giovanotto: avrà ventitré, ventiquattro anni al massimo.
Per farsi notare dai pochi addetti fissi all’anagrafe, mi ha sbraitato contro e mi ha fatto svuotare la borsa e le tasche del cappotto, nel timore che fossi entrata per rubare.
Io sono stata al gioco.
Rido ancora adesso delle mie stesse parole.
Sicuro, oltre a rifare la carta d'identità elettronica, sono venuta qui apposta per procurarmi il necessario per vedere se a qualcuno interessa rimettere in piedi la Congrega della Nebbia. Ma qui ci sono appese solo le foto delle sagre di novant’anni fa e il solito articolo d’epoca che le loda come se il raccolto abbondante fosse stato una magia del sindaco di allora.
***

La seconda fotografia mi spinge a essere cauta riguardo al contenitore degli oggetti smarriti: quei simboli riguardano un culto dichiarato fuorilegge da almeno mezzo secolo.
Questo me lo ricordo, ripetuto più volte dalle didascalie alle foto pubblicate su quei libri.
Ci sono stati dei morti per questo e ora non vorrei risvegliare dei dolori nei sopravvissuti a quei fatti.
Roba da far impallidire la Caccia alle Streghe.
Ricordo di essere passata accanto a questa casa tante volte e di averne sempre viste le imposte chiuse.
In seguito, si sono aggiunti i cartelli con la dichiarazione di inagibilità e le transenne di plastica bianche e rosse fluorescenti, seguita dalla demolizione.
***
Entro nel supermercato e faccio la spesa in tutta fretta: ho l’impressione di sentire su di me gli sguardi degli altri clienti.
Può darsi che qualcuno mi abbia visto raccogliere quelle fotografie e fra di loro si nasconde la persona che le ha smarrite.
Se c’è, deve farsi avanti cercandomi a casa.
Niente da fare: mi aggiro fra gli scaffali, ma non noto nessun volto angosciato, ma mi consolo con il pensiero che forse sarà lui o lei a farsi vedere a casa mia.
Quelle fotografie sono saltate fuori quando tutti credevano ormai dimenticata la congrega.
Ora le ho io e mi chiedo il perché, visto che non proprio il tipo della prescelta, a casa nessuno ha mai parlato della leggenda.
L’ho appresa per la prima volta in Comune e ho letto di sfuggita di quelle morti di fanciulle.
Quando esco dal supermercato decido di cambiare strada: per una volta tanto voglio passare accanto a quella della casa della vecchia maestra.
Tutti se ne tengono alla larga perché sembra un edificio sopravvissuto a un’epoca così incomprensibile che vogliono dimenticarla.
Io ne sono incuriosita perché mi sono imbattuta in una terza fotografia: questa ritrae un uomo slanciato dal lungo mantello nero accanto a una giovane donna vestita di bianco e a un’altra ragazza dal vestito a quadretti dal colletto di piqué.
La casa abbattuta è sullo sfondo e capisco che è stata scattata accanto alla casa della vecchia maestra.
Ne rammento il pessimo carattere e la scelta di vivere da sola, ma mi incammino lungo il muro dalla cancellata invasa da tronchi di glicini bianchi.
I fiori mi stordiscono con un profumo talmente nauseante da farmi accelerare il passo; il fatto che pullulino di calabroni e bombi terrestri non mi tranquillizza di certo.
Così, arrivo davanti al cancello principale e vedo un album rilegato di cuoio ornato di iris e foglie lavorate al bulino.
Lo raccolgo e faccio per aprirlo quando una voce autoritaria di donna anziana mi lancia un richiamo dalla finestra: «Posalo sul davanzale della finestra e verrò a prenderlo.»
Lascia aperta la finestra e io vedo le tendine ingiallite dal tempo, con i ricami rovinati dai tarli e comincio a sentirmi male.
La mia non è paura, ma tristezza: sento che sto dando l’addio a qualcosa che non tornerà mai più.
Io le obbedisco, intimidita dal tono e non solo: ho appena visto l’ombra di un uomo alto stagliarsi dalla finestra.
L’album mi cade e io vedo una fanciulla incoronata di foglie di nocciolo e con una tunica bianca immortalata mentre balla sotto lo sguardo di un gruppo di uomini e donne di tutte le età.
Vedo la fatica sul suo volto, i capelli madidi di sudore, e sento su di me la fatica delle braccia e delle gambe provate dalla serie di salti e piroette a piedi nudi.
Alle sue spalle ci sono le decorazioni che ho già visto nelle altre istantanee.
La raccolgo e la metto nell’album, dalle pagine nere vuote, dove ci sono soltanto gli spazi dei triangoli adesivi vuoti.
La colla è disseccata e la carta trasparente è diventata fragile.
«Gliel’ho messa in mezzo alle altre. Può andarle bene così?»
«Sì» mi conferma lei mentre l’uomo alto, dal mantello nero, si allontana all’interno della stanza al piano di sopra.
Poi mi spiega: «Le morti di quelle ragazze, susseguitesi negli anni, non sono state né buone né cattive. Era il nostro modo di controllare la natura e le risorse. Affinché i più potessero sopravvivere alle guerre e alle carestie, una di noi doveva sacrificarsi ballando a morte. La sua energia si sarebbe trasferita ai noccioleti e l’uomo che hai visto faceva in modo di usarla saggiamente contro le forze malvagie. Casa sua è stata abbattuta perché lui ha fatto il suo tempo e sì, alcune fotografie sono le sue. Servivano a convincere le autorità della nostra buona fede.»
Sono raggelata da quello che ho appena sentito: conferma i miei peggiori sospetti.
Una volta accadevano vicende simili e nessuno pareva preoccuparsene.
La sento aprire la porta e scendere in giardino.
Prende l’album: «Grazie per avermelo riportato. Fra poco, anch’io dovrò andarmene. E non volevo che queste foto finissero nelle mani sbagliate.»
Mi lascio sfuggire un commento dettato dalla paura: «Oh, certo, altrimenti a qualche matto verrebbe in mente di ripristinarlo.»
Le mostro il mio Smartphone: «Vede? Sarebbe facile raccogliere adepti. Certo, molto meno i curiosi, ma sono sicura che non mancherebbe una rete di complici per far tacere i curiosi.»
Lei mi ascolta paziente, stringendo l’album come se fosse un registro di classe: «No, ormai esistono forze superiori alle nostre. La tecnologia è andata avanti e ha reso inutili i nostri sacrifici. Sai, devo confessarti che ti è andata bene per un soffio. Se non ci fossero state certe scoperte, tu saresti stata prescelta per la Danza del Raccolto.»
Deglutisco e lei mi rivolge un sorriso indulgente: «Sei al sicuro da ogni rischio.»
«Mi fa piacere» replico incerta. «Ma come mai sono saltate fuori tutte queste fotografie, se il vostro culto è scomparso dalla memoria collettiva?»
«Sono gli ultimi ricordi da aggiungere al resto del bagaglio. Le hai trovate solo perché la magia che le proteggeva al riparo nel loro nascondiglio è stata distrutta insieme alla casa.»
Mi porto la mano al petto, io che temevo tanto di essermi assunta una maledizione per il solo fatto di aver toccato quelle fotografie.
«Allora posso andare» le dico, timida come ai tempi della scuola.
Lei apre l’album e lo sfoglia: «Mi hai proprio dato tutte le fotografie?»
Io annuisco, convinta.
Il rumore della porta ci fa sussultare entrambe: l’uomo alto, intabarrato di nero e con il bastone intagliato con i simboli del culto le si affianca e scuote il dito indice sinistro.
Allora mi sento girare la testa.
Guardo nella borsa e trovo le prime fotografie raccolte per caso.
Mi viene da piangere quando le tendo alla maestra.
Lei le guarda severa e le mette nell’album insieme alle altre.
Quando torna a guardarmi, però, i suoi lineamenti si sono distesi.
«Non è stata colpa tua, ma le hai toccate e questo avrà delle conseguenze su di te.» mi avverte.
L’uomo intabarrato di nero fa un cenno del capo e si ritira di nuovo verso l’interno della casa.
Io scoppio in lacrime e tendo la mano attraverso le sbarre del cancello, come a fermarlo, ma lei la spinge indietro: «Ormai è inutile disperarsi. Sarai l’unica a ricordarti di noi per un po’, almeno, poi ti scorderai tutto quanto, un pezzo alla volta. Ti farà soffrire molto. Ma guai a te se ne parlerai con qualcuno. Uccideresti te stessa e il tuo interlocutore.»

***
Stamattina ho visto che hanno buttato giù anche la casa di lei e l’hanno transennata.
Questo particolare mi ha spinta a riportare tutta la mia esperienza con le fotografie: io non ricostruirei nessuna di quelle due case.
Mia zia Ada mi ha presa per un braccio: «Vieni via di lì. Non sai che è crollata su se stessa stanotte senza fare alcun rumore e c’è stato un incendio nell’archivio del Comune? Questa è roba da… non so neppure io da chi o da cosa. E… chi abitava lì?»
Mi guarda incerta.
Io la prendo sottobraccio: «Nessuno che conoscessimo.»
«Perché hanno cercato di bruciare il Comune?»
«È stato un cortocircuito, zia. Sai che negli ultimi anni non hanno più controllato il quadro elettrico.»
Annuisce come una bambina impaurita e si stringe ancora di più al mio braccio.
Proseguiamo e io cambio strada apposta, allungandola un po’: non voglio che veda anche l’altro spazio transennato.
Mi fa pena vederla così e a me sta venendo un feroce mal di testa.

***
Scrivere non è parlare con qualcuno a voce e dubito che il maleficio della mia ex maestra delle elementari possa davvero uccidere.
Certo, quel suo amico vestito di nero era davvero impressionante, lui sì, dava l’idea di poter fare qualcosa di stregonesco.
Per questo ho deciso di lasciare questa testimonianza.
E l’analgesico che ho preso per scriverla ha esaurito il suo effetto.
Vado a prenderne un altro.
Sempre che riesca ad alzarmi da questa poltroncina girevole.
***
Premo il tasto Invio e ricordo appena di essere uscita di mattina presto.
 
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