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Scannatoio di Gennaio 2020, L'ispirazione vien...

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Gargaros
view post Posted on 18/1/2020, 20:03 by: Gargaros
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"Ecate, figlia mia..."

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Un po' da qui, un po' da lalà

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Vecchie foto






Che te lo dico a fare? Cominciò tutto nel più classico dei modi, e cioè con un giorno di pioggia.
Era venerdì mattina, e allo squillo della sveglia (leggi: le urla di mia madre dalla cucina) mi destai con un senso di malessere diffuso. Al mettere fuori dalle coperte un piede, mi colse un brivido. Non andava bene. O forse andava benissimo, perché se avessi passato con successo l'esame materno avrei saltato scuola, e me ne sarei stato tutto il giorno a smanettare con la PlayStation.
In effetti accadde proprio così. Non la faccenda della PlayStation, ma il superare l'esame medico.
Come entrai in cucina, dove mamma aveva già riscaldato il caffellatte e preso i miei biscotti preferiti, quelli integrali croccanti, da lei venne un lamento appena mi vide. Era un principio di febbre, ma i sintomi, ai suoi occhi dotati di attenzione chirurgica, furono evidenti. Mi tastò la fronte, e subito disse che dovevo starmene a casa.
Guarii all'istante, ma non potevo tradirmi. Così inzuppai solo un biscotto e claudicante, curvando appena la postura sotto un peso inesistente, ciabattai di nuovo verso la mia stanza.
Prima d'uscire per l'ufficio mamma venne a farmi visita. «Se ti senti ancora più male chiamami, capito? Non uscire dal letto, capito? O se esci copriti. Ho lasciato il riscaldamento acceso. Ciao, tesoro.» Mi stampò un bacio in faccia e corse via.
Che eroina, la mia mamma! A ventotto anni era già un carro armato nel crescermi tutta da sola, dopo che quel bastardo del mio genitore se ne era scappato con una fighetta adolescente. Me lo ricordavo appena, lo stronzo, perché ci aveva mollati quando avevo due anni e l'ultima volta che l'avevo visto fu quando era ritornato, mesi dopo, per avanzare diritti sulla casa, che gli apparteneva di eredità. La mamma allora gli intentò una causa, che vinse, ovviamente, perché il torto stava tutto dalla parte di lui. Il mattino di cui sto parlando, quello della febbre, di anni ne avevo dodici. Capisci quindi che mia mamma era rimasta incinta di me quando era appena sedicenne. Non c'era nulla da fare, il bastardo, pur avendo messo su famiglia, non aveva perso il vizio di volersi intrufolare nelle grazie di femmine giovani e vergini! Con la mamma aveva resistito appunto per tre anni, poi si era invaghito di un'altra ed era sparito. Dalla fine della causa, il bastardo era sparito definitivamente. Fortuna che la mamma, pur con molti sforzi, era riuscita a non smettere con la scuola e a diplomarsi, e poi a laurearsi facendo sforzi ancora maggiori, poiché era sola e con un moccioso da sfamare. Quindi, vedi quanto lei era meravigliosa?
Dopo la laurea aveva smesso coi lavori ingrati ed era riuscita a farsi assumere come impiegata amministrativa in una grande azienda di import/export, un lavoro duro che però pagava anche bene.
Comunque, appena sentii la porta d'ingresso chiudersi, lanciai via le coperte. E istantaneamente le recuperai. Non andava bene. La febbre c'era, e l'evitare scuola non mi aveva guarito come avevo immaginato.
Rimasi a letto nella penombra del temporale. L'ho detto che era una mattina di pioggia, no? I goccioloni venivano già a secchiate, oltre la finestra della mia cameretta. Tirava anche un ventaccio! Il silenzio della casa, stranamente sottolineato dal chiasso di fuori, mi mise addosso una misteriosa strizza. Non era la prima volta che mamma mi lasciava solo a casa, nell'ultimo anno. Ero diventato grande, ed ero un moccioso assennato e intelligente, quindi poteva fidarsi. D'altronde erano stati ben pochi i grattacapi che le avevo somministrato anche prima di quella precoce maturità.
Eppure quel giorno mi prese una sottile, stupidissima paura. Forse era la febbre che mi rendeva pavido senza alcun senso, perché si sa che la malattia acuisce il nostro senso di vulnerabilità. Non lo mettevo in questi termini, allora: non avevo la dialettica e le conoscenze attuali.
O forse fu la premonizione di cosa avrei scoperto...
Rimasi a letto per un po', sentendo la pioggia, la strizza e i brividi che aumentavano. Non ero però tanto sicuro che fossero brividi di febbre. Poi la fame mi vinse. Avvoltolatomi nella coperta, mi avviai verso la cucina, in cui feci fuori quasi mezzo barattolo di marmellata.
La PlayStation, ma certo!
Pur con una voglia minore rispetto a quella che avevo pregustato minuti prima, in salotto accesi TV e console. Credo che mi stessi sforzando per non tonare a letto, in quel silenzio. Avviai il mio gioco preferito. E lì, patatrak!, andò via la corrente.
Non so se tu ti sia mai trovato in una situazione simile, nell'infanzia. Trovarsi in una casa spenta, che se pure giorno, per il temporale, pare di essere in un pomeriggio inoltrato, quasi sera... Beh, fidati se ti dico che per un bambino è traumatizzante, anche per uno come ero io, che non credevo al fantastico già più.
Mi sbloccai da una paralisi con grande sforzo. Andai a controllare se non fosse scattato il contatore elettrico, magari per un sovraccarico generato da un fulmine caduto troppo lontano perché io ne udissi il tuono. Ma no: la leva di accensione era sollevata.
Mi colse il desiderio di chiamare mamma col telefonino. Ma avrei fatto una figura indegna di me... Cosa avrei dovuto dirle? Che ero al buio e che tremavo di strizza per nessun motivo logico oggettivo? La mamma avrebbe riso, prima di tornare. E quella risata avrebbe umiliano l'ometto che stava crescendo in me.
A quell'età questi ragionamenti sono reali. Beh, oddio, forse per lo più vengono a ragazzini più grandi. Ma ho detto che io ero precocetto nel maturare!
Non sapevo che fare. Tornarmene al letto non era cosa, il buio e il silenzio mi suggerivano altro. Bello sarebbe stato avere allora i telefonini di oggi, con tutti quei gingilli digitali totalmente inutili ma che attirano alla grande, quando non si ha niente fare... e anche quando se ne ha e si preferisce perdere tempo. Ma nel periodo di cui parlo il massimo della telefonia mobile erano dei cosini di plastica, duri come mattoni, che costavano un mese di stipendio di un colletto bianco e che facevano solo telefonare...
Cominciai ad andare in giro per la casa, senza alcun motivo. Cercavo di fare tutto il rumore possibile. Anche con le pantofole, le facevo sbattere sul pavimento a ogni passo, facendo una sorta di plop plop che echeggiava nella penombra.
A un certo punto, non so bene quando, la paura era passata e io ero diventato un pirata in cerca di un tesoro. La febbre doveva aver fatto retrocedere la mia maturità ed eccomi di nuovo lì con giochi degni di un cinquenne. Oppure fu una specie di autodifesa, la mia mente che apparecchiava un gioco per far sparire la paura ottusa. Non so.
Comunque ero un pirata che esplorava una regione del nord, infreddolito e pieno di brividi. Con la coperta addosso entravo nelle varie stanze figurandomi templi tibetani abbandonati o pagode mongole, sempre abbandonate, per giustificare il silenzio e l'assenza di vita. Nei corridoi immaginavo tunnel sotterranei, o miracolosi sentieri in giungle tanto intricate e alte che la luce del sole non vi giungeva al suolo se non in una percentuale risicata, per giustificare la cupa penombra del giorno.
Abbozzai delle corse per sfuggire a improbabili nemici, spettri di pirati morti nel tentativo di trovare lo stesso tesoro, o membri di misteriose popolazioni rimaste isolate e sconosciute dalla civiltà... Insomma, passavano così i minuti.
Mi trovai nel soffitto. A varcarne la soglia, ritornò la paura, perché l'ambiente era più oscuro non essendoci finestre. Solo un lucernario era fonte di luce, ma era là in fondo alla stanza oblunga, e da me a lui c'era un tratto di strada in cui l'ombra si addensava. Ero nella stanza del tesoro, senza alcun dubbio. L'illusione infantile scansò la stupida pavidità per cose inesistenti, ed entrai.
C'erano scatole ammassate senza alcun ordine a destra e a sinistra. L'unico ordine era il percorso sgombro che dalla porta attraversava il soffitto per lungo, fino alla parete in fondo, sotto il lucernario.
Camminando in quel corridoio, sbirciavo le scatole. Cominciai ad aprirne anche, quando mi era facile farlo. La quantità di roba che contenevano era spaventosa, così come era spaventoso che solo sfiorandole con una mano mi era possibile per lo più capire di cosa si trattasse. L'ho detto che era buio, e intendo buio buio buio. Le scatole stesse, ammassate e alte sopra la mia testa, apparivano come ombre sagomate insondabili. Potevano essere catafalchi di bare, o loculi scomposti pieni di cadaveri in putrefazione... o semplicemente casse del tesoro, ma piene di vecchiume senza valore... Così aprendone dove potevo ci passavo la mano, a volte sfiorando superfici lisce e fredde, altre setose e cedevoli. La mamma, in tutti gli anni che aveva vissuto lì, vi aveva stipato un po' di tutto: mobili rotti, vecchi vestiti, soprammobili passati di moda, libri, quaderni, utensili sostituiti con altri nuovi, elettrodomestici dismessi, e chissà cos'altro; senza contare che la casa era appartenuta ai genitori del mio fedifrago genitore, e altra roba ancora più antica c'era già da prima.
Avvicinandomi alla luce le casse si chiarivano e allora con coraggio accresciuto esploravo con più attenzione. In una trovai vecchie foto mischiate a carte volanti, forse documenti o diari; in un altra dei tappeti avvoltolati, in altre oggetti utili come piatti (dalle serigrafie sembravano antichi) o futili come vasi o soprammobili (mi colpì una sfera con dentro un modello di Fenice). Non aprivo tutti gli scatoloni, perché solo pochi non erano impilati. Mi chiesi se oltre la prima fila di scatoloni ce ne fossero altre, e se aprendo quelle avrei trovato cose via via più antiche. Immaginavo che alle origini i primi abitatori della casa avevano accumulato roba posizionandola addosso alle pareti, per poi coprirla, con gli anni, da altra roba, creando così sedimenti geologici di roba dimenticata. Sarebbe stato affascinante scavare in quei sedimenti, ma ero malato, ero piccolo, non avevo né il tempo né le energie per farlo. E ovviamente giocavo al pirata, e proprio perché gioco, il tesoro doveva essere alla mia portata, non sepolto dietro fila e fila di scatoloni ammassati.
Eccolo, il tesoro. Proprio sotto il lucernario. Era un baule, addossato alla parete di fondo. Ma certo! Era un baule antico, posizionato lì in epoche remote e obliate, e non coperto da altri sedimenti perché in quel modo avrebbero occluso il lucernario.
La pioggia batteva sul vetro della finestra in alto, lavandolo. Il ticchettio era ipnotico. Nella febbre mi sembrava che ogni goccia producesse una vibrazione nel mio corpo, ma erano i brividi maggiorati dal freddo che nella soffitta era assoluto.
Sollevai il coperchio del baule con una certa fatica, perché era in legno e davvero grande e antico. I cardini emisero in cigolio rugginoso che, anche quello, mi attraversò arricciandomi la pelle.
La prima cosa che fidi fu un panno di velluto che copriva tutto il contenuto. Una volta doveva essere stato rosso, ora appariva quasi rosa sotto il velo finissimo di polvere infiltratasi. Mi chiesi da quanto tempo non era stato aperto. Certo, vista la chiusura ermetica del coperchio, forse erano secoli che era stato messo lì: perché solo un periodo così vasto avrebbe permesso che la polvere formasse quel velo.
Ad ogni modo sollevai il panno con molta cautela. Ma non bastò per evitare che si sollevasse uno spettro soffocante, tanto sottile e impalpabile era quella polvere. Tossii a momenti anche l'anima.
Quando lo spettro si disperse e io mi ero calmato, cominciai a spulciare nel baule.
Incredibile ma vero, la prima cosa che presi in mano fu un fucile. Era adagiato di sbieco sopra tutti gli altri oggetti, ed era di sbieco perché troppo più lungo della larghezza del baule. La canna era davvero lunga e sottile, e siccome avevo visto tanti film western capii che doveva essere molto vecchio. Che fosse vecchio, comunque, lo testimoniava anche il fatto che era tutto arrugginito, e il calcio tarlato e marcio d'umidità. Lo sollevai pieno di riverenza, come fosse davvero un tesoro che meritasse rispetto, poi lo mesi sul pavimento accanto a me.
Per ora mi è inutile dire cos'altro c'era nel baule. Non è importante. Trovai però cartucce, cartucciere, un paio di stivali di cuoio logoro, c'era anche una briglia, delle staffe di legno e ferro, e altri finimenti. C'erano cassette più piccole, piene a loro volta di oggetti che non mi va di ricordare. Pezzo dopo pezzo svuotai il baule, esplorai ogni cosa. Poi aprii una delle ultime cassette che conteneva.
Trovai le foto.
Non continuai l'esplorazione del baule, perché dopo aver viste le prime foto, un terror panico mi rese ottuso e dominato dalla sola necessità di fuggire via.
Difatti fuggii urlante, nel buio della soffitta e poi nella penombra della casa, e poi nella mia stanza dove mi precipitai nel letto. Lì fui vittima di una recrudescenza imprevista della febbre. Ricordo che persi i sensi, per sguazzare in uno stato di delirio bollente in cui visioni grottesche e terrifiche mi precipitavano addosso da dimensioni oscure che a me non era dato vedere. A tratti mi destavo dall'incubo per trovarmi debole e bagnato, percosso da brividi e tremori.
Poi, quando rinvenni di nuovo, c'era mia madre che mi metteva una pezza fredda sulla fronte e aveva in faccia un'espressione spaventata e avvilita. «Non dovevo lasciarti, dannazione!» diceva mentre correva a prendere un termometro o a chiamare un medico o a recuperare la scatola della tachipirina.
L'averla accanto però ebbe un effetto benefico su me, che subito mi ripresi. Ricordai l'accaduto, e pur essendo in dubbio se fosse stato reale, ne parlai a lei. Era ritornata al capezzale e mi accarezzata i capelli, e ogni tanto spostava la mano sulla pezza per decidere se fosse da rinfrescare. Intanto che aspettavamo il medico, le raccontai tutto.
«Non dovevi andare a zonzo, me l'avevi promesso!» mi rimproverò.
«Ma, mamma, io non ho promesso nulla» balbettai.
«Vero, hai ragione. Ma non dovevi andare in giro lo stesso!»
Il medico venne, mi visitò, e il suo responso fu: una febbricola trascurabile. Andò via dopo aver prescritto riposo e tachipirina in supposte.
Era stato davvero lo shock, non la malattia, a farmi precipitare nel delirio in cui mi aveva ritrovato mia madre, spaventandosi molto.
Qualche ora dopo la vidi uscire dalla mia stanza con passo titubante, come se combattuta internamente tra un'azione che avrebbe dovuto compiere e un istinto che la tratteneva dal farlo.
La vidi sparire nel corridoio, di lato. Non so se fu la mia immaginazione, ma qualche minuto dopo udii una specie di urlo rimbombare nella casa, seppure flebile. Mi sembrava la voce di lei.
Ne riparlammo il giorno dopo, a colazione. La febbre mi era passata, ma lei aveva deciso di rimanere a casa con me.
«Sai» mi disse «questa casa è molto vecchia. Apparteneva ai bisnonni di tuo padre. Credo di non aver mai messo piede in soffitta in tutti gli anni in cui ci abbiamo abitato, se non per lanciare qualcosa di vecchio vicino la porta... Non dovei entrarci... non è sano per un bambino vedere certe cose...»
La interrogai con lo sguardo. Ero maturo abbastanza da sentire tutta la storia, e lei lo sapeva.
«Parliamo di molti anni fa» continuò. «Quelle cose sono sparite da... oddio, non credo di saperlo. Non ce n'erano già più quando i miei nonni erano giovani! La nostra civiltà ha preferito dimenticarne l'esistenza, cancellarla dai libri di storia... Io ricordo che me ne parlava mia madre, quando in certe sere ci veniva il capriccio di sentire storie spaventose. Ma credevo fossero favole. Negli anni, da certi indizi, da certe dicerie, mi convinsi che qualcosa di vero ci fosse... Beh, ora sappiamo, sia io che tu, che era tutto vero!»
La vidi rabbrividire. Bevve un sorso di caffè caldo.
«Ho preso quelle foto e le ho fatte sparire. Non avresti dovuto vederle...»
«Dove le hai messe?» chiesi.
«Non te lo dico, scordatelo!»
«Ma... mamma... cosa erano?»
«I parenti vecchi di tuo padre davano la caccia a quei cosi... a quel tempo era una pratica comune, a dire il vero: lo facevano tutti. C'era anche un corpo militare preposto alla ricerca degli ultimi esemplari, se non sbaglio. Almeno secondo quello che ho sentito... le dicerie e gli indizi di cui accennavo prima... Davano loro la caccia senza tregua, perché erano mostri spaventosi e pericolosi, e bisognava pulire il mondo dalla loro presenza... Beh, alla fine ci riuscimmo. Ci riuscimmo! La nostra specie sana debellò quella terribile deformità! Li spazzammo via tutti. Distruggemmo ogni loro manufatto che richiamasse la loro immagine... E li spazzammo via anche dalla memoria storica. Ecco perché i libri non ne parlano. Ma restano testimonianze sepolte... dimenticate per esempio in soffitte in cui i ragazzini non dovrebbero entrare, specie se sono febbricitanti!» Mi lanciò un'occhiata di rimbrotto.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare precisamente cosa avessi visto nelle foto, le foto sbiadite di un'epoca lontana. La mia memoria mi offriva un informe inferno di arti rigidi e bianchicci, coperti a volte di stracci o da abiti dalle fogge indescrivibili. Teste sferiche sui cui volti spiccavano bulbi incassati, bocche spalancate irte di denti... Ma non ricordavo che appunto vaghezze estreme. Il trauma forse aveva già minato la mia memoria, che stava cancellando, anche lei, quell'orrore del passato.
«Come si chiamavano?» volli chiedere, stupidamente.
«Oh, non so bene... Mi sembra... uomini... esseri umani... Prima che fossimo noi a prendere il controllo del mondo, erano loro a dominarlo... a rovinarlo con la loro follia...»
La mamma sembrò scacciare con una scrollata di pseudopodi e tentacoli le brutte impressioni che il racconto stava creando. Mi guardò con tutti i suoi trenta occhi, finalmente di nuovo allegra e forte. «Che ne dici se ce ne andiamo al parco e di pranzare poi nella trattoria di Fhfhrtrafh? Oggi dobbiamo ridere e svagarci. Ti va?»
Ovviamente dissi di sì.



Edited by Gargaros - 18/1/2020, 20:38
 
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