Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio Maggio 2020

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view post Posted on 4/5/2020, 15:15
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Ciao a tutti.

Parte finalmente lo scannatoio di Maggio. Siete caldi?

Su richiesta del nostro adorato Master, questo skannatoio non presenterà coccarde.

TEMPISTICHE:
1) la fase di scrittura comincia dall'esatto momento in cui pubblicherò questo post e terminerà alle ore 23:59 di domenica 24/05/2020
2) Da lunedì 25/05/2020 ci sarà una settimana per commentare e votare i racconti degli altri partecipanti.
3) A partire dall'ultimo commento, ci sarà una settimana per votare il miglior commento al proprio racconto (1 punto) o i migliori commenti complessivi (2 punti)

SPECIFICHE
Lunghezza: Il racconto dovrà essere lungo al massimo 25.000 caratteri.

Generi: Fantasy, Fantascenza, Giallo, Horror, Sovrannaturale e relativi sottogeneri.

Tema:
... e non dimenticare la tuta spaziale!
(Se a qualcuno ricorda il titolo di una bellissima raccolta di racconti apparsa nella collana Urania, sappiate che non è un caso)
Il tema del vostro racconto sarà la mamma. Scegliete voi come interpretare questo tema all'interno del racconto: potete inserire un personaggio che è effettivamente una madre e analizzare il rapporto con i figli, oppure lasciate che il rapporto con la madre del protagonista sia importante.
L'unica cosa che vi chiedo è di evitare di relegare eventuali figure materne ai ruoli classici di vittima o carnefice tipici di molti horror o gialli.


Divertitevi

Edited by reiuky - 6/5/2020, 17:59
 
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view post Posted on 6/5/2020, 17:00
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Come promesso ecco le specifiche
 
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view post Posted on 6/5/2020, 17:35
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"Ecate, figlia mia..."

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Scopro solo ora la raccolta... me la sono persa, mannaggia alla pupazza sbumballata scardinata! Ma ormai è tardi... Comunque bei tempi quando gli Urania erano illustrati da quell'artigiano di Patrito...

Ci sarò, ho già un'ideuzza.
 
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view post Posted on 6/5/2020, 18:12
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CITAZIONE (Gargaros @ 6/5/2020, 18:35) 
Scopro solo ora la raccolta... me la sono persa, mannaggia alla pupazza sbumballata scardinata! Ma ormai è tardi... Comunque bei tempi quando gli Urania erano illustrati da quell'artigiano di Patrito...

Ci sarò, ho già un'ideuzza.

Mi dispiace che te la sei persa. Ricordo ancora i vari racconti che vi erano raccolti (qualcuno più per il Cringe ma vabbe' :D )

Sono curioso :D
 
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view post Posted on 7/5/2020, 05:33

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Ciao Reiuky, bellissimo tema. Mi piacerebbe tentare qualcosa di particolare.
 
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view post Posted on 12/5/2020, 18:16

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RACCONTO LUNGO MAX 25000 CAR
…E NON DIMENTICARE LA TUTA SPAZIALE!
TEMA LA MADRE: SE VISTA COME PERSONAGGIO, ANALIZZARE IL RAPPORTO MADRE E FIGLI, OPPURE IL RAPPORTO DEL PROTAGONISTA CON LA MADRE DEVE ESSERE IMPORTANTE. NIENTE MADRI VITTIME E CARNEFICI SECONDO LA TRADIZIONE HORROR O GIALLI

TRASGRESSIONE
Di Alexandra Fischer

La giovane donna chiuse le imposte: aveva visto abbastanza.
Aprì un cassetto e ne tirò fuori un codice e il suo dito si appuntò sulla fotografia della falce di luna: i colori la mostravano della stessa sfumatura arancio di quella che aveva appena visto fuori.
Si portò la mano alla bocca e soffocò un singhiozzo.
Passò a un libriccino di pelle rossa e lo aprì all’ultima riga: lesse un nome e una sfilza di numeri.
Scosse la testa.
Rimise a posto i due documenti e corse nella stanza successiva, dove riempì un paio di sacche di libri, abiti e scarpe da bambina di misure diverse.
Poi si sedette al tavolo di quella stessa stanza e alzò il coperchio di vetro dell’apparecchiatura che ne occupava una buona parte: controllò lo stato della bobina.
Sorrise, confortata dall’abbondanza di carta; diede un’occhiata al tasto e alla puntina.
Annuì: era ancora in ordine, malgrado non lo usasse da parecchi mesi; chiuse gli occhi, rievocando nella memoria tutti i passaggi necessari all’uso dell’apparecchiatura e tramise il suo messaggio in codice.
«È sorta la Luna Della Muta. Abito cappa 17. Grazie, Barbyla. Cliente 02 V»
Guardò uscire il nastro dalla calotta di vetro, bucherellato dai caratteri del suo appello in codice all’amica sarta: strappò la lingua di carta e accese subito il fuoco del caminetto, dove la vide accartocciarsi senza provarne alcun sollievo; scrivere quel messaggio le era costato molta fatica e non sono per la disposizione dei punti, così simile a quella dei disegni sulle pelli della grande anfisbena che dimorava nel tempio sulla collina: la perseguitavano già nel quotidiano, visto le squame, debitamente conciate, sostituivano gli assegni nelle grosse somme.
Le ne aveva un mucchio al piano di sopra, in un apposito cofanetto: il prezzo della vita di suo marito, caduto sul lavoro per colpa di un incidente casuale.
Si tastò la tasca del grembiule, avvertendo il peso di una di quelle squame: parte di quella somma sarebbe servita alle sue figlie e a chi si fosse preso cura di loro.
Spostò il foglio con i loro nomi: Hedyra e Gardyna, con in fondo al foglio il sigillo della serpentessa a due teste.
Era stata educata a essere onorata di ottenere l’attenzione del tempio: chi aveva dato l’esempio mostrando piena obbedienza, era stato ricompensato molto bene.
Lei pensò al proprio lavoro di addetta telegrafista e al salto di mansione che avrebbe avuto, dopo.
Molte donne al suo posto ne avrebbero gioito, lei no: alla sola idea di dare via le proprie figlie, si sentì lacerata.
C’era la pena di morte per chi si ribellava al sacrificio, ma lei non ricordava che ne fosse mai stata eseguita una da quando era al mondo.
Lei stessa era stata educata a rassegnarsi alla legge dalla sua stessa madre.
Ricordati chi sei, Vertumnia Helschlan: la nostra è una delle famiglie più devote alla Patrona di Zwillinga.
La gente aveva imparato i vantaggi dell’obbedienza all’anfisbena e ci era riuscita anche lei, almeno fino a quando aveva preso il tram quel mattino.
Si aggrappò al tavolo, e ricacciò lacrime di rabbia quando le riemersero dalla memoria brani della conversazione sul veicolo fra il controllore dei biglietti e un giovane turista giunto dalla città vicina; di quest’ultimo ricordava ancora gli occhi cerchiati per via del sonno mancato a causa della sirena notturna che annunciava il termine della lotteria; quando aveva appreso cosa era stato sorteggiato, si era aggrappato al sedile e aveva scosso incredulo la testa.
***
Il controllore lo aveva guardato con compatimento: «Cosa volete che sia? L’anfisbena si nutre di sole due gemelle a ogni fase lunare: bambine di due anni, che non si accorgeranno di niente.»
«Perché così piccole?»
Il controllore aveva alzato gli occhi al soffitto del tram elettrico: «Due è il suo numero sacro.»
«Come mai devono essere di sesso femminile?»
«Lei lo è e preferisce…assimilare tutto quello che può da spiriti affini.» recitò il controllore. «E non guardatemi così. Si tratta della Sua volontà. In cambio di poche vite, ci ha dato la città che siete venuto ad ammirare e le invenzioni che avete appena cominciato ad apprezzare, a partire dal tram sul quale state viaggiando.»
Il turista avrebbe voluto saperne di più, ma il controllore gli aveva indicato il cartello: DIVIETO DI DIVULGAZIONE DELLE MATERIE PRIME E DEI BREVETTI.
Era bastato il gesto a farlo tacere e chinare la testa, ma solo per un istante; la curiosità aveva avuto la meglio su di lui quando il controllore stava per arrivare a lei: «Aspettate, ma non si è mai ribellato nessuno?»
«E perché mai? Si ricorre al sorteggio e le famiglie hanno tempo di rifarsi. Perse due figlie, se ne possono sempre mettere al mondo delle altre, non è vero?»

***

Vertumnia, partita di casa piena di dolore e rassegnazione dopo aver ricevuto il foglio con il nome delle figlie tramite la posta pneumatica, si era ricreduta di colpo davanti all’espressione sprezzante del controllore.
L’istinto materno aveva preso il sopravvento: le sue figlie erano tutto ciò che le restava da quando era rimasta vedova per colpa di colleghi del marito altrettanto superficiali e spietati.
Si era decisa alla ribellione nel momento stesso in cui gli aveva consegnato la tessera di abbonamento.
Nella sua mente non c’era neppure un pensiero di rammarico all’idea di stare per deludere la sua stessa madre: Vigdìla Heschlan sarebbe sopravvissuta bene anche senza di lei, occupata com’era a mantenere il posto fra i sapienti che si occupavano di decifrare i messaggi dell’anfisbena.
Vertumnia mise bene al centro del tavolo il foglio con il nome delle figlie insieme alla culla a due posti protetta da una coperta.
Conteneva due bambole e qualche sacchetto di sabbia sul fondo: potevano passare benissimo per due piccine addormentate, almeno finché qualcuno non avesse alzato la coperta.
Aveva preso dal solaio quei due ricordi d’infanzia, lieta di averne avuto cura da quando era arrivata la lettera del sorteggio nella quale dal tempio reclamavano entrambe le piccole: la volontà di ribellarsi al loro sacrificio era divampata quando aveva ripensato agli oroscopi di entrambe, stilate proprio dagli anziani del tempio: preannunciavano un destino singolare per entrambe.
Lunga separazione e poi un ritrovamento; nel frattempo, avrebbero portato grandi benefici alla città.
Perché tanto spreco?
Scosse la testa e scoprì i denti: le sue piccole non avrebbero pagato per la scarsa natalità dell’ultima generazione, immersa in agi sempre più stravaganti a opera del serpente e divenuta spietata al punto di uccidere per una parola di troppo.
L’impresa era molto meno disperata di quanto apparisse in realtà: la sua amica Barbyla aveva il laboratorio di sartoria oltre il fiume; sarebbe arrivata presto, molto prima che l’anfisbena si risvegliasse e reclamasse il sacrificio.
I custodi del tempio l’aspettavano con la culla l’alba del giorno successivo: l’usanza richiedeva che l’atto fosse volontario.
Salì al piano di sopra, prese un paio di astucci legati con una cordicella nella quale mise, per sicurezza, altre due scaglie dell’anfisbena.
Poi le infilò al collo delle figlie addormentate e le abbracciò tutte e due: «Bambine mie. Mi dispiace non esserci per quando crescerete, ma Barbyla vi aiuterà.»
Tirò fuori da un cassetto del mobile una bottiglietta di liquido azzurro nel quale nuotavano pagliuzze argentate: gocce di veleno di anfisbena.
Lesse l’etichetta di avvertimento di non superare la dose di diciassette gocce con un sorrisetto di scherno.
Diciassette, come gli anni della maggiore età nella città di Zwylinga.
Trangugiò l’intero contenuto e poi preparò la culla per il trasporto delle piccole.
Si vestì e prese la culla con le figlie: diede appena un’occhiata distratta a quella che aveva messo sul tavolo accanto al foglio con l’estrazione dei nomi; due bambole in una culla riempita con dei sacchi di sabbia potevano aspettare benissimo ancora un po’.
Le sue piccole no; doveva fare presto, ma senza che nessuna delle due si svegliasse.
Le accarezzò e le coprì con gli stessi gesti che compiva da quando erano nate; sorrise compiaciuta al ricordo dei complimenti dei vicini per come fossero silenziose.
Scese al piano di sotto più in fretta che poté non appena avvertì un lieve bruciore di stomaco, che scomparve subito dopo.
Non si lasciò ingannare dalla scomparsa di quel sintomo: di lì in avanti, il veleno avrebbe cominciato a fare effetto in modo lento ma irreversibile e i dolori sarebbero diventati sempre più frequenti.
Guardò l’orologio quadrato dell’ingresso.
L’ora del turno di notte per le sarte della città vicina era appena finita e Barbyla abitava proprio sul confine.
Udì un paio di colpi leggeri alla porta e una donna di mezza età con una cuffia e un soprabito al quale era appeso un metro da sarta entrò con fare deciso; stringeva un involto sotto il braccio: «Ecco l’abito cappa. L’ho finito prima del previsto.»
Vertumnia le passò la culla: «Sul fondo della culla c’è il denaro per l’abito e anche denaro per le piccole. Te le affido. Tu non mi disprezzi, vero?»
Barbyla prese la culla: «Certo che no. Conosco il tempio. Ero una delle adepte più giovani, all’epoca. Poi il morso della prima testa mi fece impazzire, ricordi?»
Strinse gli occhi.
Vertumnia ribatté: «Io mi sono sempre servita da te. Mi è dispiaciuto per la tua sorte. Ma non sei pazza.»
Barbyla atteggiò le labbra a una smorfia dura: «Sì, invece. Di odio per l’anfisbena. Il suo veleno mi ha resa sterile. E mi ha portato a disprezzare il sapere inculcatomi da tua madre. Preferisco essere una sarta.»
Guardò le sacche in mano all’amica: «Hai pensato anche ai libri, vero?»
Vertumnia annuì.
L’amica le promise: «Mi occuperò della loro istruzione come avresti fatto tu.»
«Sapevo di poter contare su di te.»
Barbyla le domandò: «A pensarci, meglio, però, potresti venire con me a Mirabilia e là, confondersi, è molto facile, con tutto quel miscuglio di esseri umani e automi. Avere un’assistente non stupirebbe nessuno.»
Vertumnia scosse la testa: «Per quel che mi riguarda, preferisco consegnarmi.»
Si guardò alle spalle e l’amica capì: accelerò il passo e la precedette sul retro della casa, scese insieme a lei le scale scavate nella pietra e arrivarono al molo: c’era una barca, con tanto di remi, un sacchetto di provviste e una fiasca.
Giunta al molo, Barbyla spostò in un angolo il sacchetto e la fiasca, salì sulla barca e prese i sacchi.
Quando fu il turno della culla, la depose con delicatezza nel centro della barca e sussurrò all’amica: «Te le riporterò quando saremo sicuri che è fuori pericolo.»
Guardò l’amica correre viva senza voltarsi e si sedette allo scalmo; le sue mani si strinsero sui remi e cominciò a spingere la barca per sfogare il dolore: odiava dire bugie pietose.
***
Barbyla si tolse il soprabito e si sistemò l’abito di lana con il metro da sarta soltanto dopo aver sistemato le piccole al piano di sopra, nella stessa stanza per bambini che aveva occupato lei stessa quando i genitori erano vivi.
Sollevò la coperta della culla per trasferire le piccole nell’altra e diede loro un’occhiata di sfuggita: dimostravano i loro due anni, ma si vedeva già la rassomiglianza con la famiglia Helschlan a partire dalla fossetta sul mento e dai capelli ricciuti biondo platino.
Certo, avevano al polso la protezione dell’animale guardiano della città, ma sarebbe passata inosservata.
Accarezzò il capo a entrambe: dormivano tranquille grazie allo spirito della madre, che si era trasferito ai loro bracciali quando erano nate.
Poi pensò all’amica, il cui colorito si era fatto terreo quando l’aveva salutata sul molo e sperò che non si sentisse male al punto da non raggiungere il tempio: se l’avessero trovata in casa e con una culla piena di sacchi di sabbia, avrebbero usato i coltelli.
Sperò che potesse raggiungere il tempio e avere una morte onorevole.

***
La giovane adepta dal mantello grigio decorato a rombi rossi entrò nella stanza dove si erano riuniti gli anziani in attesa del sacrificio.
«Saggia Vigdìla. Venite subito. Vostra figlia…»
Gli occhi blu della donna rifletterono una luce compiaciuta: «È in anticipo. Che c’è di tanto sconvolgente?»
Si alzò dal sedile e fece un gesto di congedo agli altri presenti.
Chiuse la porta dietro di sé e scoprì il cappuccio che le lasciava scoperti i riccioli argentei.
Riconobbe la figlia seduta di spalle su una delle poltrone e le mise una mano sulla spalla; i suoi occhi corsero alla culla.
Sorrise fiera, ma la sua espressione cambiò quando vide cosa conteneva e anche lo stato del volto di Vertumnia, incorniciato dal cappuccio dell’abito cappa.
Il suo grido passò dalla collera a un pianto istintivo di madre; si trattenne a stento dall’abbracciare il corpo gelido della figlia e ad asciugarne il rivolo di bava nerastra dall’angolo del labbro.
Il suo ultimo pensiero prima di svenire, fu, che da qualche parte due piccole fuorilegge erano vive ed erano sangue del suo sangue, proprio come Vertumnia.
 
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view post Posted on 19/5/2020, 11:15
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Come state messi a pochi giorni dalla consegna?

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view post Posted on 19/5/2020, 15:54
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CITAZIONE (reiuky @ 19/5/2020, 12:15) 
Come state messi a pochi giorni dalla consegna?

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Ho cominciato ieri, ma non mi soddisfa per niente. Metto le mani avanti e dico che forse mancherò.
 
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CITAZIONE (Gargaros @ 19/5/2020, 16:54) 
CITAZIONE (reiuky @ 19/5/2020, 12:15) 
Come state messi a pochi giorni dalla consegna?

:1392239900.gif:

Ho cominciato ieri, ma non mi soddisfa per niente. Metto le mani avanti e dico che forse mancherò.

Noooo daiiiii

Per favore! Ci tengo a questo tema :D :D :D
 
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view post Posted on 19/5/2020, 21:14
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Arrotolatrice di boa

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SORPRESA!

Il soldato Alfa
"Decreto n 12, terzo comma: legge n 73 dell’81. Si stabilisce che: i Cloni fabbricati fuori dall’utero materno e accresciuti artificialmente non sono umani.
Creati dall’umano intelletto sono da considerarsi al pari dei droidi.”

Il traffico nel quartiere Marrakech era congestionato come sempre: moto, biciclette e risciò trainati a mano sembravano un muro compatto e multicromatico.
Gli ambulanti, con carretti rigonfi di felafel e kebab, in strada dall’alba, impregnavano di cipolla l’aria già satura di fumi. Il loro vociare allegro formava un brusio basso e continuo. Contrattazione su contrattazione, il tutto annaffiato con del tè alla mela.
La luce solare, bloccata dall’intricata rete di soprelevate e tubi a scorrimento pedonale, tardava ad arrivare. E sotto al dedalo di cavi e condutture dei livelli superiori era quasi buio nonostante fossero le dieci del mattino.
L’uomo in doppio petto indossava un mantello scuro, fuori moda, con il cappuccio ben sceso sul viso. Sceso dal taxi si guardò intorno, con un gesto secco della destra intimò al tassista di aspettarlo.
Percorse un centinaio di metri con passo veloce, continuando a guardare indietro. Alla prima svolta si infilò in un locale dalle vetrine rotte.
Il barista si scompose giusto il tempo di un’occhiata, ammiccò verso il lato opposto all’entrata, indicando una porta socchiusa. Tra le mani un panno lercio e un bicchiere vuoto.
La stanza era poco illuminata, soltanto una lampada da terra gettava la sua luce giallastra su una ragazza bruna, seduta dietro a una scrivania.
«Hai qualcosa per me?» Le chiese, senza preamboli.
«Ovvio, ti ho chiamato.» La ragazza si spostò indicando le due figure maschili alle proprie spalle.
Entrambi bloccati alla parete metallica da manette magnetiche. In ginocchio, le braccia divaricate e distanti dal corpo. I capelli, scuri e lunghi, ricadevano in modo scomposto sulle spalle muscolose.
«Esperimenti militari, sono addestrati a diversi tipi di lotta, molto resistenti al dolore. Saranno perfetti per i tuoi combattimenti.» Ancora un passo per permettere alla luce di irradiarli.
«Non hanno microchip. Abbiamo intercettato il blindato che li avrebbe trasportati al campo di addestramento finale. Fidati, questo non sono i cloni fallati che spaccia il turco, questa è merce di prima scelta.»
L’uomo si avvicinò sfilandosi il cappuccio, scoprì l’ampia cicatrice che gli traversava il viso. Il labbro superiore sollevato in un ghigno deforme.
«Vuoi fottermi Eliana? Che ci faccio di due cloni identici tra loro?» La donna non si scompose, accese con poca voglia una sigaretta e diede un’ampia boccata. «Non li fabbrico io Estevez, sono impazzita per trovarti questi due. Cavolo consumi più cloni che calzini!»
«I miei clienti vogliono scommettere e vogliono seguire bene l’incontro, come diavolo fanno se i due centurioni che gli offro sono uguali?»
«Rasane uno, vestili di colori differenti, uno dei due sfregialo, cazzo vuoi che me ne freghi? Questi sono problemi che non devo risolverti io.»
Intuendo il silenzio del suo cliente come dissenso sorrise e si spostò verso una porta a scomparsa.
Con uno stridio fastidioso la fece scorrere e ne trasse una ragazza. Stessi occhi e stessi capelli degli altri due.
«Dai, dammi ventimila e lei te la regalo.»
L’acquirente inforcò il cappuccio, coprendo lo sfregio. Con un gesto arrogante prese il filo d'acciaio che collegava le manette della ragazza e la strattonò. Pelle chiara e lunghi capelli scuri, lineamenti gentili, che rendevano quel corpo da ventenne ancora più desiderabile
Le prese il viso con una mano e strinse sull’incavo delle guance per farle aprire le labbra. Le cacciò due dita in bocca per ispezionarle i denti, poi la spinse con forza contro il muro.
Con una ferocia inutile le schiacciò il collo contro la parete e le sollevò la casacca fin sopra al seno, «bene, vediamo se puoi essermi utile.» La colpì con lo stivale tra le caviglie nude e, come le ebbe divaricate infilò a forza un ginocchio tra le cosce. Uno dei due prigionieri scattò, le manette stridettero contro il metallo della parete. «Lasciala!»
Estevez sorrise, scoprendo ancora di più i denti esposti dalla cicatrice. «Bene...» sussurrò senza accennare a mollare la presa, con la mano libera le artigliò il pube, cercando senza alcuna grazia il modo di violarla.
«Ti ho detto lasciala, figlio di puttana!» Il ragazzo che era scattato, era riuscito a spostare le manette di almeno mezzo metro, facendole scorrere sulla parete metallica. I pugni serrati e la pelle dei polsi lacerata.
Estevez lasciò la ragazza, permettendole di rovinare al suolo. «Quello che volevo. Abbiamo la motivazione alla lotta. Li prendo.»

“Dal decreto n 12, quinto comma, paragrafo C I cloni dotati di propria personalità saranno ricondizionati.
Paragrafo D I cloni ritenuti inadatti anche dopo il ricondizionamento saranno utilizzati a scopo scientifico e di ricerca.
Paragrafo E I cloni ritenuti inadatti alla ricerca, e/o i cloni usurati o fallati saranno abbattuti in maniera indolore.”


Il dormitorio non era altro che una stanza lunga e stretta, dieci letti a castello su un lato e qualche armadietto in metallo sull’altro.
I due prigionieri erano stati portati in maniera anonima e sicura già dal pomeriggio, gli era stata concessa una doccia e del cibo. Poi erano stati ammanettati alla spalliera metallica del letto.
A uno dei due erano stati rasati i capelli.

«Cosa accadrà secondo te adesso, Dodici?» Lui si passò la mano libera sulla testa rasata e parve pensare a una risposta. Si sporse fuori dal letto e si guardò in torno con circospezione. «Niente, non gliene daremo il tempo, Sette. Adesso, recuperiamo Una e ce la filiamo.»
Un rumore sordo da dietro la porta blindata li fece trasalire, il grido di donna, preoccupare.
Sette si sollevò di scatto e con tanta forza da spostare il letto di almeno venti centimetri, i profondi occhi scuri fissi sul metallo ossidato che li separava da lei. «Le sta facendo del male.»
Dodici gli poggiò una mano sul collo e lo accompagnò di nuovo a sedere, abbassò il tono di voce. «Una sa esattamente come cavarsela.»
Tolta la mano dal collo del fratello ammiccò verso il lato opposto della stanza. Da uno dei cinque letti occupati un uomo dai capelli biondo grano si era appena affacciato.
«Non salverete proprio nessuno, sacchi di carne.»
«E ce lo impedirai tu?» Di nuovo il ragazzo dai capelli lunghi era scattato, di nuovo Dodici lo aveva riportato alla calma con un gesto lento e pacato.
L’uomo sul letto si alzò e prese con ostentata flemma una sedia dalla parete. Li raggiunse trascinandola e vi si sedette a cavalcioni: braccia e mento appoggiate allo schienale. «Mi chiamo Max, sono il più anziano qui, quindi visto che sono ancora vivo sono anche il più forte.»
Dodici strinse gli occhi cercando di mettere a fuoco quella figura massiccia.
Aveva il respiro pesante, una lunga cicatrice sul torace glabro e braccia muscolose, cariche di vene.
«Che cosa vogliono fare con noi?»
«Sei un clone militare, quindi hai studiato. Ti ricordi i centurioni romani? Noi siamo la stessa cosa. Per quanto riguarda la donna che era con voi, quando Estevez si sarà stancato di lei, la lascerà a nostra disposizione. Lo fa sempre.»
«E voi con che coraggio ne abusate?» Sette era di nuovo in piedi, le narici e i pugni serrati.
L’altro si limitò a sollevare un sopracciglio, «quando avrai passato dieci anni qui dentro, queste domande non avranno senso.»
Uno sguardo di Dodici fu sufficiente a smorzare la furia del fratello che si sedette senza ribattere.
Le grida da dietro la porta nel frattempo erano cessate, lasciando il posto prima a lamenti sempre più flebili poi a un pianto sommesso.
Solo qualche istante dopo Estevez entrò con passo determinato. Un'occhiata al gigante biondo che si portò deferente al suo fianco.
«Puoi liberar loro le mani. Signori, bene arrivati nell’arena.»
Un’ondata di dolore esplose nella testa dei due prigionieri, per dipanarsi con la velocità del suono in ogni fibra del corpo.
Sette cadde in ginocchio, accovacciato. Le mani premute contro le tempie.
Dodici era rimasto in piedi anche se tutto il suo corpo sembrava pervaso da tremiti scomposti.
Guardò suo fratello contorcersi come un verme infilzato in un amo. Gli poggiò una mano sulla schiena. Pochi istanti e mentre Sette sembrava rilassarsi il naso di Dodici iniziò a sanguinare.
Estevez estrasse dalla tasca un telecomando in plastica nera e lo mostrò loro come un trofeo. Premette un pulsante e il dolore svanì. Improvviso, come era arrivato.
«Vi è stato impiantato un controllore del dolore, non starò a spiegarvi la sua meccanica, quello che dovete sapere però, è che io lo gestisco. Posso essere la vostra quiete o il vostro supplizio.
La scossa che avete provato è soltanto metà dell’intensità di dolore che il congegno può generare, quindi per il vostro bene vi consiglio di seguire i miei ordini. Vi garantisco che se farete quello che vi dico la vostra vita non sarà poi così terribile.»
Si avvicinò a Dodici e gli poggiò il congegno sotto il mento, obbligandolo a guardarlo negli occhi. «Sei tu che comandi a quanto pare, tieni a bada il tuo cagnolino o non vivrà una settimana qui dentro.» Estrasse un fazzoletto dalla tasca della giacca e glielo tirò sul viso. «Pulisciti ora.»
Si voltò per sparire dietro alla porta metallica.
Sette raccolse la salvietta da terra e, con più garbo, la porse al fratello. «Non avresti dovuto, potevi non sopravvivere a una scarica doppia.»
Dodici si limitò a stringersi nelle spalle, si schiacciò la stoffa sulle narici e si lasciò scivolare a terra con la schiena aderente al muro. Con mosse cadenzate appoggiò il viso tra le mani.
«Che vuol dire che hai ricevuto una scarica doppia, che gli hai fatto quando lo hai toccato?» Max prese una coperta color caramello e la avvolse intorno alle spalle nude di Dodici, che aveva iniziato a tremare.
«Mio fratello riesce a rilasciare ormoni di controllo dai pori dei palmi, questo gli permette di calmare e addirittura sedare le persone con cui viene in contatto, riesce anche a lenirne il dolore,
ma…» Max terminò la frase sottovoce tenendo lo sguardo fisso sul ragazzo che aveva appena ripreso colore. «Ma lo prova lui. Ragazzo mio non è una bella caratteristica, più che altro è una gran fregatura!»

Il mattino seguente Max mostrò ai due gemelli la palestra dove avrebbero dovuto allenarsi almeno cinque ore al giorno, gli indicò le docce e la sala mensa. Gli mostrò quasi tutta la struttura, compresa l’arena.
Quella sera erano previsti due incontri, il secondo dei quali vedeva impegnato Max, che quindi li lasciò dopo l’ora di pranzo per dedicarsi alla meditazione che faceva prima di ogni combattimento.
Si ritrovarono nel dormitorio che adesso era quasi al completo: un ragazzo stava leggendo nel primo letto, altri due dormivano. Solo un uomo dalla pelle molto scura gli concesse un segno di saluto.
Dopo che si furono seduti, una ragazza dai capelli rossi entrò, aprendo timidamente la porta. Lo sguardo fisso sul pavimento.
Il vestito gualcito aveva una sola spallina, l’altra pencolava strappata, lasciando un seno quasi scoperto.
La ragazza non se ne curò affatto, continuò a camminare dritta davanti a se fino a fermarsi al centro della stanza. La voce arrochita dal pianto.
«Sono il premio per la vittoria di Cassio.»
Il ragazzo che stava leggendo saltò giù dal letto lasciando cadere il libro a terra. Si tolse la blusa della divisa arancione scoprendo una grande fasciatura sul braccio destro e diversi lividi sul costato, le si avvicinò e le sollevò il viso tirandola per i capelli.
Nessun lamento mentre le lacrime le rigavano il viso. Sette si guardò intorno, nessuno sembrava neanche aver notato la scena, si portò avanti di due passi ma Dodici lo precedette. «Ehi amico, aspetta.» Cassio si voltò verso Dodici e gli fece un cenno col capo, «che vuoi?»
L'altro si avvicinò piano, sollevò la destra, attese il suo assenso e la poggiò sulla spalla fasciata. La sua voce era calda, rassicurante. «Deve essere una brutta ferita per avere una fasciatura tanto estesa.» Gli occhi di Dodici erano fissi su quelli di Cassio che stavano perdendo luminosità: lo sguardo era vacuo e fisso su quello del suo interlocutore. Annuì.
«Lasciati aiutare, posso lenire il tuo dolore.»
Lo sguardo di Dodici si fece più intenso, mentre grosse e tonde gocce di sudore fiorirono sulla sua fronte. Tu non vuoi questa donna, hai soltanto molto sonno.»
L’uomo dalla pelle scura si avvicinò di qualche passo, incuriosito. Giusto in tempo per vedere Cassio cadere a terra come un sacco. Addormentato.
Dodici sospirò poi iniziò a massaggiarsi la spalla destra, mentre Sette accompagnava la ragazza fuori dal dormitorio.
Singhiozzò un grazie asciugandosi le lacrime. Quando furono vicini alla porta gli prese le mani e le strinse. «La ragazza nuova, quella che ha i vostri occhi, aveva detto che mi avreste aiutata e che avrei dovuto dirvi di aspettarla stasera davanti alle docce, subito dopo la cena.

La ragazza dai capelli rossi era rientrata nella piccola stanza senza finestre nella quale dormiva con Una. Lei la stava aspettando seduta con le gambe incrociate sul letto, al quale era legata da una catena alla caviglia.
«Avevi ragione gli hanno impedito di farmi del male.» Abbassò lo sguardo, nella voce solo rammarico e tristezza. «Almeno per oggi e almeno a lui. Sono i tuoi fratelli?»
«I miei cloni.»
Una sollevò lo sguardo su di lei, i suoi profondi occhi scuri sembrarono scavarle fin dentro l'anima. «Hai riferito il messaggio, brava.» Socchiuse gli occhi, come se dovesse mettere a fuoco un'immagine lontana, «Sette è il solito impulsivo. Rimani vicino a me stanotte.»
Estevez entrò nella stanza, quando le due sembravano essersi rilassate. Guardò la ragazza dai capelli rossi e questo fu sufficiente perché lei corresse dalla parte opposta della camera e si accovacciasse nell’angolo.
Si rivolse a Una, sfoderando un sorriso sghembo, «ti sono mancato bellezza? Rossa, aiutala a spogliarsi, la catena le impedisce i movimenti.»
Una era nuda, in piedi davanti al letto disfatto.
«Sei davvero bellissima, e vedo che hai deciso di essere più arrendevole, brava. Sembra strano ma, in fondo non mi piace essere violento, non come lo sono stato ieri sera, almeno. Troppi lividi su questa pelle meravigliosa.»
Con l’indice seguì uno a uno i segni viola su quel corpo perfetto, indugiando sul livido bluastro che copriva in parte il capezzolo sinistro. La trasse a se e la baciò
Gli occhi di Una erano ridotti a fessure scure, a Estevez parve di intravedervi una scintilla un istante prima che la sua bocca iniziasse a liquefarsi. Cadde all’indietro coprendosi il viso con le mani mentre il sangue gli colava copioso fra le dita. Il grido si trasformò in un rantolo sommesso, simile al ribollire di olio sul fuoco, mentre bioccoli di schiuma giallastra e densa cadevano dal viso martoriato.
Soffocò in un rantolio, le braccia si allargarono sul pavimento scoprendo l’impasto di carne che prima era la sua faccia. I tessuti continuarono a ribollire e a sfrigolare esponendo del tutto le ossa della mascella e della mandibola.
Una si pulì le labbra col dorso della mano, poi prese la catena e sputò su una delle maglie che si squagliò in pochi attimi.
Si vestì e diede un colpetto sulla spalla della ragazza che non aveva ancora smesso di urlare.
«Se vuoi andartene da qui, smettila di frignare e seguimi.»
Una camminava veloce per i corridoi, la testa bassa protesa in avanti. Un boato preveniente dall’arena fece loro capire che il primo incontro era terminato, accelerarono il passo.
Superarono la porta a chiusura automatica che delimitava la zona delle docce, squagliandola, Una si limitò a poggiarci le mani aperte sopra e la porta in metallo si sciolse sotto di esse. Stammi vicina, ma non toccarmi se non vuoi fare la stessa fine.»
«L’uscita non è da questa parte.»
«Lo so, vado a riprendere i miei bambini.»
«Ma chi diavolo sei tu?» Dietro la seconda porta Dodici e Sette la stavano aspettando.
«Sono Una, il soldato alfa, l’arma suprema. Il mio potere non è controllabile, nemmeno da me, soltanto Dodici riesce a inibirlo, senza di lui sono inavvicinabile. Ma avevo bisogno di qualche ora per disintossicarmi dai suoi ormoni di controllo.»
Dodici le si avvicinò con un sorriso.
«Non toccarmi ancora, amore mio, prima dobbiamo andarcene di qui.»
Dalla pelle di Una iniziava a sollevarsi denso fumo giallo senape, come un’aura color oro antico, la nebbiolina che le usciva dai pori la circondava, ormai interamente, rendendola eterea.
Sette prese la mano della ragazza dai capelli rossi e la spostò delicatamente al suo fianco.
«Tieniti a distanza di sicurezza da lei.»
Una allargò le braccia e reclinò il capo in un gesto elegante, l’alone che la circondava aumentò di volume e quando spinse il vuoto davanti a sé con le braccia, la nebbia si schiantò contro il muro che avevano di fronte. Come fosse diventata materia solida, distrusse la parete di cemento armato.
Una sembrava danzare, mentre con le braccia esili modellava la materia e in pochi minuti la parete non esisteva più.
«Sette, trova i controllori del dolore.» Il ragazzo iniziò a sfiorare suo fratello, partendo dalla testa, il collo, le spalle, poi tutto il corpo, con degli scatti aritmici, come un rabdomante alle prese con una sorgente molto profonda.
Indicò un punto sulla spalla.
Una raccolse la nebbia davanti a se, quasi fosse tangibile, poi iniziò a modellarla con mani sapienti e veloci. Uno stiletto giallo uscì dalle sue dita affusolate, lo lasciò levitare qualche secondo sul palmo aperto, poi vi soffiò sopra.
La punta si infranse con uno sbuffo contro la pelle di Dodici che emise un gemito strozzato.
Subito dopo essersi pulito dal sangue che era scivolato dalla piccola ferita circolare, offrì la spalla a Sette perché controllasse che il piccolo apparecchio elettronico fosse andato distrutto. Quando ebbe risposta affermativa ripeterono l’operazione, finché non li disattivarono tutti.
Una mise per prima un piede fuori dallo squarcio nel muro poi offrì la mano delicata a Dodici che la strinse.
Per un attimo la pelle del ragazzo iniziò a sfrigolare, digrignò i denti in una smorfia di dolore, poi lentamente il suo viso si rilassò. La pelle di Una riprese la delicata sfumatura rosata che aveva la sera prima.

Sette si tolse la blusa e gliela offrì.
Era abbastanza grande e lunga da coprirla fino alle cosce.
«Dovremmo tornare alla base, Dodici?»
Lui ci pensò su soltanto qualche secondo.
«Io ero su quel blindato per sedare i vostri poteri, per evitare che cercaste di scappare finché non saremmo arrivati a destinazione.»
«Quale destinazione?»
Dodici prese un respiro profondo e strinse la mani dei due cloni. «Dovevo scortarvi fino al campo Omega, dove vi avrebbero abbattuto.»
I due si accorsero di essere più deboli, più assonnati.
Una cercò di divincolarsi dalla presa ma non ci riuscì, quindi lo guardò negli occhi «come puoi... è tuo fratello, cosa stai facendo?» balbettò.
Dodici lasciò loro le mani: caddero a terra, svenuti. Si aggiustò i pantaloni sulla vita e iniziò a camminare, il suo sorriso era visibile anche in quella notte scura.
«Porto a termine la mia missione, madre. Il soldato Alfa non sei mai stata tu.»
 
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view post Posted on 20/5/2020, 20:41
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Custode di Ryelh
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Potrei aver problemi anch'io, che ho partecipato a un minuti contati e a una sfida. Cerco di mettere in moto il cervello, ma potrei aver bisogno di una proroga.
 
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view post Posted on 21/5/2020, 11:09
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 20/5/2020, 21:41) 
Potrei aver problemi anch'io, che ho partecipato a un minuti contati e a una sfida. Cerco di mettere in moto il cervello, ma potrei aver bisogno di una proroga.

Proroga concessa. Avete tempo fino al 31.

Mi raccomando postate :)
 
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view post Posted on 21/5/2020, 20:19
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"Ecate, figlia mia..."

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CITAZIONE (reiuky @ 21/5/2020, 12:09) 
Proroga concessa. Avete tempo fino al 31.

Mi raccomando postate :)

Nel mio caso non è un problema di tempo, che sia chiaro :p101:

Bon, vediamo se l'estro parte...
 
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view post Posted on 21/5/2020, 22:37
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CITAZIONE (Gargaros @ 21/5/2020, 21:19) 
CITAZIONE (reiuky @ 21/5/2020, 12:09) 
Proroga concessa. Avete tempo fino al 31.

Mi raccomando postate :)

Nel mio caso non è un problema di tempo, che sia chiaro :p101:

Bon, vediamo se l'estro parte...

/me passa un paio di verdoni alla musa ispiratrice e indica Gargaros.
 
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view post Posted on 23/5/2020, 10:09
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Polly!!! Quanto mi sei mancata!! 🤩🤩🤩

Non ci lasciare più, ok? 😉👍
 
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