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Skannatoio Maggio 2020

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shanda06
view post Posted on 12/5/2020, 18:16 by: shanda06

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RACCONTO LUNGO MAX 25000 CAR
…E NON DIMENTICARE LA TUTA SPAZIALE!
TEMA LA MADRE: SE VISTA COME PERSONAGGIO, ANALIZZARE IL RAPPORTO MADRE E FIGLI, OPPURE IL RAPPORTO DEL PROTAGONISTA CON LA MADRE DEVE ESSERE IMPORTANTE. NIENTE MADRI VITTIME E CARNEFICI SECONDO LA TRADIZIONE HORROR O GIALLI

TRASGRESSIONE
Di Alexandra Fischer

La giovane donna chiuse le imposte: aveva visto abbastanza.
Aprì un cassetto e ne tirò fuori un codice e il suo dito si appuntò sulla fotografia della falce di luna: i colori la mostravano della stessa sfumatura arancio di quella che aveva appena visto fuori.
Si portò la mano alla bocca e soffocò un singhiozzo.
Passò a un libriccino di pelle rossa e lo aprì all’ultima riga: lesse un nome e una sfilza di numeri.
Scosse la testa.
Rimise a posto i due documenti e corse nella stanza successiva, dove riempì un paio di sacche di libri, abiti e scarpe da bambina di misure diverse.
Poi si sedette al tavolo di quella stessa stanza e alzò il coperchio di vetro dell’apparecchiatura che ne occupava una buona parte: controllò lo stato della bobina.
Sorrise, confortata dall’abbondanza di carta; diede un’occhiata al tasto e alla puntina.
Annuì: era ancora in ordine, malgrado non lo usasse da parecchi mesi; chiuse gli occhi, rievocando nella memoria tutti i passaggi necessari all’uso dell’apparecchiatura e tramise il suo messaggio in codice.
«È sorta la Luna Della Muta. Abito cappa 17. Grazie, Barbyla. Cliente 02 V»
Guardò uscire il nastro dalla calotta di vetro, bucherellato dai caratteri del suo appello in codice all’amica sarta: strappò la lingua di carta e accese subito il fuoco del caminetto, dove la vide accartocciarsi senza provarne alcun sollievo; scrivere quel messaggio le era costato molta fatica e non sono per la disposizione dei punti, così simile a quella dei disegni sulle pelli della grande anfisbena che dimorava nel tempio sulla collina: la perseguitavano già nel quotidiano, visto le squame, debitamente conciate, sostituivano gli assegni nelle grosse somme.
Le ne aveva un mucchio al piano di sopra, in un apposito cofanetto: il prezzo della vita di suo marito, caduto sul lavoro per colpa di un incidente casuale.
Si tastò la tasca del grembiule, avvertendo il peso di una di quelle squame: parte di quella somma sarebbe servita alle sue figlie e a chi si fosse preso cura di loro.
Spostò il foglio con i loro nomi: Hedyra e Gardyna, con in fondo al foglio il sigillo della serpentessa a due teste.
Era stata educata a essere onorata di ottenere l’attenzione del tempio: chi aveva dato l’esempio mostrando piena obbedienza, era stato ricompensato molto bene.
Lei pensò al proprio lavoro di addetta telegrafista e al salto di mansione che avrebbe avuto, dopo.
Molte donne al suo posto ne avrebbero gioito, lei no: alla sola idea di dare via le proprie figlie, si sentì lacerata.
C’era la pena di morte per chi si ribellava al sacrificio, ma lei non ricordava che ne fosse mai stata eseguita una da quando era al mondo.
Lei stessa era stata educata a rassegnarsi alla legge dalla sua stessa madre.
Ricordati chi sei, Vertumnia Helschlan: la nostra è una delle famiglie più devote alla Patrona di Zwillinga.
La gente aveva imparato i vantaggi dell’obbedienza all’anfisbena e ci era riuscita anche lei, almeno fino a quando aveva preso il tram quel mattino.
Si aggrappò al tavolo, e ricacciò lacrime di rabbia quando le riemersero dalla memoria brani della conversazione sul veicolo fra il controllore dei biglietti e un giovane turista giunto dalla città vicina; di quest’ultimo ricordava ancora gli occhi cerchiati per via del sonno mancato a causa della sirena notturna che annunciava il termine della lotteria; quando aveva appreso cosa era stato sorteggiato, si era aggrappato al sedile e aveva scosso incredulo la testa.
***
Il controllore lo aveva guardato con compatimento: «Cosa volete che sia? L’anfisbena si nutre di sole due gemelle a ogni fase lunare: bambine di due anni, che non si accorgeranno di niente.»
«Perché così piccole?»
Il controllore aveva alzato gli occhi al soffitto del tram elettrico: «Due è il suo numero sacro.»
«Come mai devono essere di sesso femminile?»
«Lei lo è e preferisce…assimilare tutto quello che può da spiriti affini.» recitò il controllore. «E non guardatemi così. Si tratta della Sua volontà. In cambio di poche vite, ci ha dato la città che siete venuto ad ammirare e le invenzioni che avete appena cominciato ad apprezzare, a partire dal tram sul quale state viaggiando.»
Il turista avrebbe voluto saperne di più, ma il controllore gli aveva indicato il cartello: DIVIETO DI DIVULGAZIONE DELLE MATERIE PRIME E DEI BREVETTI.
Era bastato il gesto a farlo tacere e chinare la testa, ma solo per un istante; la curiosità aveva avuto la meglio su di lui quando il controllore stava per arrivare a lei: «Aspettate, ma non si è mai ribellato nessuno?»
«E perché mai? Si ricorre al sorteggio e le famiglie hanno tempo di rifarsi. Perse due figlie, se ne possono sempre mettere al mondo delle altre, non è vero?»

***

Vertumnia, partita di casa piena di dolore e rassegnazione dopo aver ricevuto il foglio con il nome delle figlie tramite la posta pneumatica, si era ricreduta di colpo davanti all’espressione sprezzante del controllore.
L’istinto materno aveva preso il sopravvento: le sue figlie erano tutto ciò che le restava da quando era rimasta vedova per colpa di colleghi del marito altrettanto superficiali e spietati.
Si era decisa alla ribellione nel momento stesso in cui gli aveva consegnato la tessera di abbonamento.
Nella sua mente non c’era neppure un pensiero di rammarico all’idea di stare per deludere la sua stessa madre: Vigdìla Heschlan sarebbe sopravvissuta bene anche senza di lei, occupata com’era a mantenere il posto fra i sapienti che si occupavano di decifrare i messaggi dell’anfisbena.
Vertumnia mise bene al centro del tavolo il foglio con il nome delle figlie insieme alla culla a due posti protetta da una coperta.
Conteneva due bambole e qualche sacchetto di sabbia sul fondo: potevano passare benissimo per due piccine addormentate, almeno finché qualcuno non avesse alzato la coperta.
Aveva preso dal solaio quei due ricordi d’infanzia, lieta di averne avuto cura da quando era arrivata la lettera del sorteggio nella quale dal tempio reclamavano entrambe le piccole: la volontà di ribellarsi al loro sacrificio era divampata quando aveva ripensato agli oroscopi di entrambe, stilate proprio dagli anziani del tempio: preannunciavano un destino singolare per entrambe.
Lunga separazione e poi un ritrovamento; nel frattempo, avrebbero portato grandi benefici alla città.
Perché tanto spreco?
Scosse la testa e scoprì i denti: le sue piccole non avrebbero pagato per la scarsa natalità dell’ultima generazione, immersa in agi sempre più stravaganti a opera del serpente e divenuta spietata al punto di uccidere per una parola di troppo.
L’impresa era molto meno disperata di quanto apparisse in realtà: la sua amica Barbyla aveva il laboratorio di sartoria oltre il fiume; sarebbe arrivata presto, molto prima che l’anfisbena si risvegliasse e reclamasse il sacrificio.
I custodi del tempio l’aspettavano con la culla l’alba del giorno successivo: l’usanza richiedeva che l’atto fosse volontario.
Salì al piano di sopra, prese un paio di astucci legati con una cordicella nella quale mise, per sicurezza, altre due scaglie dell’anfisbena.
Poi le infilò al collo delle figlie addormentate e le abbracciò tutte e due: «Bambine mie. Mi dispiace non esserci per quando crescerete, ma Barbyla vi aiuterà.»
Tirò fuori da un cassetto del mobile una bottiglietta di liquido azzurro nel quale nuotavano pagliuzze argentate: gocce di veleno di anfisbena.
Lesse l’etichetta di avvertimento di non superare la dose di diciassette gocce con un sorrisetto di scherno.
Diciassette, come gli anni della maggiore età nella città di Zwylinga.
Trangugiò l’intero contenuto e poi preparò la culla per il trasporto delle piccole.
Si vestì e prese la culla con le figlie: diede appena un’occhiata distratta a quella che aveva messo sul tavolo accanto al foglio con l’estrazione dei nomi; due bambole in una culla riempita con dei sacchi di sabbia potevano aspettare benissimo ancora un po’.
Le sue piccole no; doveva fare presto, ma senza che nessuna delle due si svegliasse.
Le accarezzò e le coprì con gli stessi gesti che compiva da quando erano nate; sorrise compiaciuta al ricordo dei complimenti dei vicini per come fossero silenziose.
Scese al piano di sotto più in fretta che poté non appena avvertì un lieve bruciore di stomaco, che scomparve subito dopo.
Non si lasciò ingannare dalla scomparsa di quel sintomo: di lì in avanti, il veleno avrebbe cominciato a fare effetto in modo lento ma irreversibile e i dolori sarebbero diventati sempre più frequenti.
Guardò l’orologio quadrato dell’ingresso.
L’ora del turno di notte per le sarte della città vicina era appena finita e Barbyla abitava proprio sul confine.
Udì un paio di colpi leggeri alla porta e una donna di mezza età con una cuffia e un soprabito al quale era appeso un metro da sarta entrò con fare deciso; stringeva un involto sotto il braccio: «Ecco l’abito cappa. L’ho finito prima del previsto.»
Vertumnia le passò la culla: «Sul fondo della culla c’è il denaro per l’abito e anche denaro per le piccole. Te le affido. Tu non mi disprezzi, vero?»
Barbyla prese la culla: «Certo che no. Conosco il tempio. Ero una delle adepte più giovani, all’epoca. Poi il morso della prima testa mi fece impazzire, ricordi?»
Strinse gli occhi.
Vertumnia ribatté: «Io mi sono sempre servita da te. Mi è dispiaciuto per la tua sorte. Ma non sei pazza.»
Barbyla atteggiò le labbra a una smorfia dura: «Sì, invece. Di odio per l’anfisbena. Il suo veleno mi ha resa sterile. E mi ha portato a disprezzare il sapere inculcatomi da tua madre. Preferisco essere una sarta.»
Guardò le sacche in mano all’amica: «Hai pensato anche ai libri, vero?»
Vertumnia annuì.
L’amica le promise: «Mi occuperò della loro istruzione come avresti fatto tu.»
«Sapevo di poter contare su di te.»
Barbyla le domandò: «A pensarci, meglio, però, potresti venire con me a Mirabilia e là, confondersi, è molto facile, con tutto quel miscuglio di esseri umani e automi. Avere un’assistente non stupirebbe nessuno.»
Vertumnia scosse la testa: «Per quel che mi riguarda, preferisco consegnarmi.»
Si guardò alle spalle e l’amica capì: accelerò il passo e la precedette sul retro della casa, scese insieme a lei le scale scavate nella pietra e arrivarono al molo: c’era una barca, con tanto di remi, un sacchetto di provviste e una fiasca.
Giunta al molo, Barbyla spostò in un angolo il sacchetto e la fiasca, salì sulla barca e prese i sacchi.
Quando fu il turno della culla, la depose con delicatezza nel centro della barca e sussurrò all’amica: «Te le riporterò quando saremo sicuri che è fuori pericolo.»
Guardò l’amica correre viva senza voltarsi e si sedette allo scalmo; le sue mani si strinsero sui remi e cominciò a spingere la barca per sfogare il dolore: odiava dire bugie pietose.
***
Barbyla si tolse il soprabito e si sistemò l’abito di lana con il metro da sarta soltanto dopo aver sistemato le piccole al piano di sopra, nella stessa stanza per bambini che aveva occupato lei stessa quando i genitori erano vivi.
Sollevò la coperta della culla per trasferire le piccole nell’altra e diede loro un’occhiata di sfuggita: dimostravano i loro due anni, ma si vedeva già la rassomiglianza con la famiglia Helschlan a partire dalla fossetta sul mento e dai capelli ricciuti biondo platino.
Certo, avevano al polso la protezione dell’animale guardiano della città, ma sarebbe passata inosservata.
Accarezzò il capo a entrambe: dormivano tranquille grazie allo spirito della madre, che si era trasferito ai loro bracciali quando erano nate.
Poi pensò all’amica, il cui colorito si era fatto terreo quando l’aveva salutata sul molo e sperò che non si sentisse male al punto da non raggiungere il tempio: se l’avessero trovata in casa e con una culla piena di sacchi di sabbia, avrebbero usato i coltelli.
Sperò che potesse raggiungere il tempio e avere una morte onorevole.

***
La giovane adepta dal mantello grigio decorato a rombi rossi entrò nella stanza dove si erano riuniti gli anziani in attesa del sacrificio.
«Saggia Vigdìla. Venite subito. Vostra figlia…»
Gli occhi blu della donna rifletterono una luce compiaciuta: «È in anticipo. Che c’è di tanto sconvolgente?»
Si alzò dal sedile e fece un gesto di congedo agli altri presenti.
Chiuse la porta dietro di sé e scoprì il cappuccio che le lasciava scoperti i riccioli argentei.
Riconobbe la figlia seduta di spalle su una delle poltrone e le mise una mano sulla spalla; i suoi occhi corsero alla culla.
Sorrise fiera, ma la sua espressione cambiò quando vide cosa conteneva e anche lo stato del volto di Vertumnia, incorniciato dal cappuccio dell’abito cappa.
Il suo grido passò dalla collera a un pianto istintivo di madre; si trattenne a stento dall’abbracciare il corpo gelido della figlia e ad asciugarne il rivolo di bava nerastra dall’angolo del labbro.
Il suo ultimo pensiero prima di svenire, fu, che da qualche parte due piccole fuorilegge erano vive ed erano sangue del suo sangue, proprio come Vertumnia.
 
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