Forum Scrittori e Lettori di Horror Giallo Fantastico

Skannatoio Settembre - Ottobre 2020, "Al cuore, Ramòn, al cuore!" Ma nessuno sentì.

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view post Posted on 21/9/2020, 13:09
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Custode di Ryelh
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CITAZIONE (Ukuulu @ 21/9/2020, 09:52) 
Alla fine mi sono messo d'impegno e ho dedicato tre/quattro ore al giorno al mio racconto. Devo solo revisionarlo con cura e sarà pronto per essere postato. Mi è sembrato doveroso mettercela tutta per non mancarvi di rispetto con uno scritto poco curato. A tal proposito ringrazio David che mi ha rimproverato per le mie infelici parole e mi scuso anche con gli altri utenti se in qualche modo vi ho offesi.
Magari il mio racconto farà schifo lo stesso, ma almeno ho cercato di dare il massimo ^_^ .

Ukulu, fidati: il tuo impegno è più che apprezzato. ^_^ ^_^
 
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view post Posted on 21/9/2020, 18:46
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Mi fa piacere sapere che qualcun altro è pronto a postare il suo racconto. Io avrei anche finito ma non la smetto di rileggere e cambiare qualcosina ad ogni rilettura. Vedendo che finora c'è un solo racconto postato avevo il timore che alla fine del mese non si riuscisse ad arrivare a quattro. Però almeno adesso siamo tre sicuri.
Per quanto riguarda il resto: penso che tu sia molto fortunato ad avere il tempo di scrivere per tre/quattro ore al giorno. Io è tanto se mantengo una media di mezz'ora al giorno. Penso che avere poco tempo permetta di distillare un pochino meglio le proprie idee e programmare le scene prima di mettersi a scrivere. Non so se è così a che per te, ma avere preso l'impegno di postare il racconto entro il mese mi costringe almeno a imparare a ottimizzare il tempo che uso per scrivere. Sono molto curioso di leggere il tuo lavoro, visto che ritengo questa gara una palestra, e imparare anche da te. Per quanto riguarda i tuoi commenti irriverenti, personalmente non mi sono sentito toccato, però hanno enormemente alzato le aspettative per il tuo lavoro, quindi mi sentirò in dovere di giudicarlo al massimo dell'onestà (e magari con un pizzico di severità in più, visto che non ti dici niubbo :) ). La stessa cosa chiedo di fare col mio (anche se sono un principiante). Grazie mille.
 
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view post Posted on 22/9/2020, 08:16
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 21/9/2020, 14:09) 
CITAZIONE (Ukuulu @ 21/9/2020, 09:52) 
Alla fine mi sono messo d'impegno e ho dedicato tre/quattro ore al giorno al mio racconto. Devo solo revisionarlo con cura e sarà pronto per essere postato. Mi è sembrato doveroso mettercela tutta per non mancarvi di rispetto con uno scritto poco curato. A tal proposito ringrazio David che mi ha rimproverato per le mie infelici parole e mi scuso anche con gli altri utenti se in qualche modo vi ho offesi.
Magari il mio racconto farà schifo lo stesso, ma almeno ho cercato di dare il massimo ^_^ .

Ukulu, fidati: il tuo impegno è più che apprezzato. ^_^ ^_^

Ne sono felice grazie

CITAZIONE (MentisKarakorum @ 21/9/2020, 19:46) 
Mi fa piacere sapere che qualcun altro è pronto a postare il suo racconto. Io avrei anche finito ma non la smetto di rileggere e cambiare qualcosina ad ogni rilettura. Vedendo che finora c'è un solo racconto postato avevo il timore che alla fine del mese non si riuscisse ad arrivare a quattro. Però almeno adesso siamo tre sicuri.
Per quanto riguarda il resto: penso che tu sia molto fortunato ad avere il tempo di scrivere per tre/quattro ore al giorno. Io è tanto se mantengo una media di mezz'ora al giorno. Penso che avere poco tempo permetta di distillare un pochino meglio le proprie idee e programmare le scene prima di mettersi a scrivere. Non so se è così a che per te, ma avere preso l'impegno di postare il racconto entro il mese mi costringe almeno a imparare a ottimizzare il tempo che uso per scrivere. Sono molto curioso di leggere il tuo lavoro, visto che ritengo questa gara una palestra, e imparare anche da te. Per quanto riguarda i tuoi commenti irriverenti, personalmente non mi sono sentito toccato, però hanno enormemente alzato le aspettative per il tuo lavoro, quindi mi sentirò in dovere di giudicarlo al massimo dell'onestà (e magari con un pizzico di severità in più, visto che non ti dici niubbo :) ). La stessa cosa chiedo di fare col mio (anche se sono un principiante). Grazie mille.

Anch'io mi reputo fortunato ad avere il tempo per scrivere. A me mezz'ora non basterebbe nemmeno per accendere il PC, come minimo mi servono due ore consecutive, sennò non vale la pena di iniziare. Comunque sia, in quattro ore non è che io scriva così tanto: a volte butto giù una pagina, altre volte una sola frase. Sono molto lento, e rifletto tantissimo sull'ordine e la scelta delle parole. Spero che arriveremo a quattro racconti, così potrò conoscere le vostre opinioni. Mi sembra giusto che siate onesti e severi, io non ho mai avuto favori da nessuno e nemmeno li ho mai chiesti ;P . Adoro le critiche, perché mi aiutano a migliorare.
Anch'io sarò onesto e leale :p100:
 
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view post Posted on 24/9/2020, 22:44
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Custode di Ryelh
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Sei giorni alla scadenza!! Coraggio, ragazzi!
 
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view post Posted on 25/9/2020, 06:13
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 24/9/2020, 23:44) 
Sei giorni alla scadenza!! Coraggio, ragazzi!

Io posterò il racconto il giorno prima della scadenza, mi prendo qualche altro giorno per revisionare. Ma potete contare sulla mia presenza questo mese ^_^
 
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view post Posted on 25/9/2020, 06:37
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Credo che anche io farò lo stesso. L'unica cosa che mi preoccupa a questo punto è se riusciamo ad essere almeno in quattro. È mai capitato che non ci fossero abbastanza racconti? In caso fossimo solo in tre si procederà comunque alla seconda fase? C'è qualcuno la fuori con un racconto in canna che aspetta l'ultimo giorno come noi?
 
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view post Posted on 25/9/2020, 20:28
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CITAZIONE (Ukuulu @ 21/9/2020, 09:52) 
Alla fine mi sono messo d'impegno e ho dedicato tre/quattro ore al giorno al mio racconto. Devo solo revisionarlo con cura e sarà pronto per essere postato. Mi è sembrato doveroso mettercela tutta per non mancarvi di rispetto con uno scritto poco curato. A tal proposito ringrazio David che mi ha rimproverato per le mie infelici parole e mi scuso anche con gli altri utenti se in qualche modo vi ho offesi.
Magari il mio racconto farà schifo lo stesso, ma almeno ho cercato di dare il massimo ^_^ .

Ammazza Ukulu, hai esagerato in sento opposto adesso :D
Sicuramente sarà un ottimo pezzo...
 
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view post Posted on 25/9/2020, 21:02

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Ciao ragazzi ci sono io come quarto, poco ma sicuro. Devo tagliare circa 2k caratteri e il lavoro spesso la fa da padrone, tanto nella scrittura quanto nella vita privata. Questo weekend mi ci rimetto come si deve, promesso. Cascasse il mondo parteciperò a questo skannatoio!
 
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view post Posted on 27/9/2020, 01:02

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IL PEZZO MANCANTE

Alberto vide il lampo a ovest e cominciò a contare sulle dita: milleuno, milledue, milletre, millequattro… Tuono. Si avvicina, pensò, scuotendosi in un fremito. Si affrettò sull’antenna, perché l’ultima cosa che gli serviva era rimanere lì appeso e fumante come una falena tra le maglie di una trappola elettrica.
Dall'interno della stazione di servizio una voce sguaiata, che Alberto avrebbe riconosciuto tra mille, continuava a gridargli di sbrigarsi, o si sarebbero persi la partita. Alberto gli urlò di non mettergli fretta, che diamine, o oltre alla partita avrebbero finito con il dire addio anche all’ultimo benzinaio del paese. Maneggiò di nuovo il braccio della parabola e attese. Doveva funzionare, dopotutto i pezzi erano tutti lì al loro posto. Nessun bullone, nessuna vite persa chissà dove. Doveva funzionare e basta.
Era una considerazione doverosa ma rassicurante per Alberto Sartini, ossessionato com’era da tutto ciò a cui mancasse un pezzo. Toccò appena l’asta metallica, una volta, poi una seconda, come se scottasse; ne strofinò l’occhio all’estremità e... Immediato gli giunse da sotto un coro scomposto di “Grande Alby!” e di “Fermo così!”, più una manciata di allegre oscenità da quell’impiastro insistente di Sergio, al diavolo lui e quella sua maledetta voce sguaiata. Alberto scese la traballante scala d’alluminio – era un omone di quasi due metri – e tornò di sotto, borbottando un’imprecazione soddisfatta. Il segnale video era finalmente ripristinato. A Milano un giocatore con la maglia sporca di fango si apprestava a battere un calcio d’angolo, sotto una pioggia scrosciante. Minuto ventidue del primo tempo, punteggio di zero a zero. Sai che palle.
Gli ultimi clienti della giornata presero posto al bancone dell’Albyluna, il minimarket dell'unica stazione di servizio sul tratto della Provinciale 2/1 noto come “Braccio di Torredelmonte”. Alberto, proprietario e gestore dell’impianto, li aveva invitati quella sera per un giro di birre e patatine gratis. La pay-tv trasmetteva il derby Milan-Inter, fuori si era alzato il vento e l’inverno aveva l’aria di voler bruciare le tappe.
Alberto aveva chiuso le pompe e disattivato il self-service mezz’ora prima del solito, subito dopo che la Freemont di Sergio Malesi aveva varcato il passo di accesso e si era fermata sullo sterrata accanto all’officina. Per qualche minuto, quella sera, l’intero Braccio si era ritrovato al buio per un corto alla centralina pubblica, e le luci d’emergenza del minimarket AlbyLuna avevano brillato debolmente per centinaia di metri, come le ultime stelle visibili in quel cielo che andava gonfiandosi di pioggia. Alberto era quasi impazzito all’idea di rimanere senza corrente – un guasto, un fusibile bruciato, chissà dove recuperare il pezzo rotto, chissà quando – ma aveva cercato di non darlo a vedere; poi per fortuna la luce era tornata. Adesso era stata la volta dell’antenna, ma anche quell’imprevisto era stato risolto. Si domandò se avrebbe visto qualche macchina passare di lì.
Non c’erano altre strade tra la Statale 16 e il paese di Torredelmonte. Intorno all’AlbyLuna era tutto un susseguirsi di capannoni agricoli, interrotti qua e là da un supermercato, uno sfasciacarrozze e un’officina che negli anni Ottanta era stato un locale a luci rosse.
A Torredelmonte la mentalità dell’uomo di mondo era merce rara. I giovani avevano cominciato a togliere le tende da un pezzo, tranne quelli che erano cresciuti sotto i portici del bar centrale e ne occupavano i tavolini quando gli anziani, finito il loro turno di scopone, glielo consentivano. Qualcuno ogni tanto moriva, qualcun altro si ostinava a non farlo; al bancone si servivano caffè all’anice e il sabato sera si azzardava qualche cocktail per i ragazzi del posto, diretti alla movida della riviera, o da qualunque altra parte, lontano da lì, dove poter smaltire la noia senza vergogna.
Alberto era arrivato a Torre all'età di nove anni, e adesso che stava per compierne sessantatré era certo di non essersi ancora ambientato del tutto. Amava starsene rintanato nella stazione di servizio perché era tutto quello che gli restava, da quando aveva perso sua moglie, appena due anni prima, in un incidente stradale. Gli amici facevano a turno per trascinarlo fuori da lì, ma Alberto non voleva più cambiamenti: aveva avuto la sua occasione per rendersi conto che li odiava.
Alberto e Luna Sartini non avevano avuto figli, per libera scelta. Avevano passato entrambi i quaranta, prima di scoprirsi incapaci di fare a meno l'uno dell'altra, e il pensiero di un figlio cui non avrebbero avuto le energie di provvedere appariva loro come un esercizio di puro egoismo. Avevano condiviso il desiderio e la promessa di volersi semplicemente bene l'uno accanto all'altra, bastandosi a vicenda per tutto il resto del tempo che gli fosse toccato in sorte.
Dopo la morte di Luna, Alberto iniziò a passare intere giornate al minimarket, rimanendoci ben oltre l’orario di chiusura e a volte perfino di notte. Scoprì che non dover dividere le proprie esigenze tra un luogo e l’altro lo faceva sentire meglio. Così, messi insieme i pochi pezzi necessari, si ricavò un alloggio privato, inviolabile e invisibile da fuori, nel piccolo magazzino dietro il bancone dell'AlbyLuna.
Frank Castigliani, ex comandante dei vigili di Torredelmonte, gli aveva regalato, mesi prima, un piccolo televisore a schermo piatto, che lì dentro stava un amore. Alberto ci passava davanti ore e ore, quando il self-service era acceso; in breve tempo, si innamorò perdutamente di polizieschi e thriller americani. Conosceva tutto della scientifica di Las Vegas, sapeva benissimo che il quartier generale della CIA era a Langley, in uno stato chiamato Virginia, e aveva imparato che in America polizia e pompieri rispondevano allo stesso numero di telefono.
Che regalo gli aveva fatto Frank – si chiamava Piero, in realtà: il nomignolo gli derivava dalla straordinaria somiglianza, in gioventù, con Frank Sinatra. Lui era proprio il migliore di tutti.
Luna era morta nel giorno del compleanno di Frank, ed era una cosa di cui Alberto quasi si vergognava, come se quello che era successo fosse stata una sua responsabilità non soltanto perché Luna era morta sola, ma anche perché quella tragedia aveva impresso, in un modo o nell’altro, un marchio indelebile nell’esistenza dell’amico.
A Frank non importava nulla di quello, lo ripeteva sempre ad Alberto: la sua preoccupazione era sapere l’amico tutto solo a dormire in quella fredda stazione di servizio, dove nessuno lo avrebbe sentito se avesse avuto bisogno di aiuto nel bel mezzo della notte. Ma i miei ricordi mi servono qui, non da qualche altra parte, gli rispondeva Alberto picchiettandosi la fronte. E ne era convinto. I ricordi lo avrebbero sopraffatto se fosse rimasto tutto il giorno chiuso in casa, mentre là dietro, nel suo riparo personale, poteva in qualche modo governarli e tenercisi aggrappato come ad una zattera nel pieno della tempesta. La sua vita era andata in pezzi, ma i pezzi erano tutti lì in bella mostra; non si nascondevano in un cassetto, o nel profumo di una vestaglia dentro l’armadio, o in una scatola da scarpe sotto il letto.

Per tutto il tempo della partita Alberto lavò e asciugò nervosamente tazzine e bicchieri già puliti e asciutti, raccogliendo, di tanto in tanto, i tappi a corona delle bottiglie di birra e spingendoli con il pollice su quelle rimaste vuote. Diceva che era un modo come un altro per rimettere insieme tutti i pezzi che poteva; non era la prima volta che Frank lo vedeva fare una cosa del genere.
Dopo che Sergio se ne fu andato, Frank chiese ad Alberto se poteva rimanere ancora un po’ a fargli compagnia.
«Certo, mi farebbe piacere» gli rispose Alberto. E, dopo qualche secondo passato a rincorrere con lo sguardo un granello di polvere che danzava sul pavimento, aggiunse mestamente: «Domani è il tuo compleanno».
«Non ho nulla da festeggiare.»
«Lo so.»
Rimasero per un lungo momento a fissare ciascuno un punto indefinito davanti a sé, lasciando che pensieri e ricordi sovrastassero il silenzio di quello spazio angusto con i loro schiamazzi. Poi Alberto riprese a passare la pezza sempre negli stessi punti, con indolenza, mentre Frank cercò di distrarsi scorrendo con lo sguardo le copertine dei dischi dei Beatles – la musica era un’altra delle passioni di Alberto – che tappezzavano la parete dietro il bancone. Fuori, folate di pioggia e vento avevano cominciato a sferzare la vetrata del minimarket, facendola vibrare in un ticchettio sommesso.
Alberto fissava l'acqua che defluiva in rigagnoli irregolari dalla tettoia sopra l'impianto, il piazzale esterno e il passo d’accesso erano già per metà allagati. Il sottile strato d’acqua sull’asfalto, mosso dal vento, disegnava lunghi semicerchi che attraversavano l’impianto da un lato all’altro come onde di bassa marea sulla battigia.
«Che pezzo, vero?» disse Frank spezzando l’incantesimo e indicando il poster di Eleanor Rigby alle spalle di Alberto. «E come lo suonavano!»
Alberto annuì e poi rise, come se Frank avesse appena detto qualcosa di comico.
«Che c’è, si può sapere?»
«Niente, ma non sono così sicuro che ai Beatles avrebbero fatto piacere le tue parole.»
«Perché?»
«Perché nessuno di loro suona un solo strumento, in quella canzone.»
Frank arrossì e agitò la mano. «Va bene, va bene, l’esperto sei tu.»

Dieci minuti più tardi il temporale si era calmato, e aveva smesso di piovere. Frank si alzò e fece per chiudersi il cappotto.
«Ti accompagno a casa» disse Alberto.
«Dammi prima cinque minuti di godimento e andiamo… E poi te ne vai a casa tua anche tu. Promesso?»
Alberto scorse il pacchetto mezzo sgualcito di Pall Mall nella mano dell’amico e si strinse nelle spalle, con fare evasivo.
Non ricordava quand’era l’ultima volta che aveva visto Frank con una sigaretta tra le mani. «Quella da dove salta fuori?» Gli domandò.
Frank gli rivolse un’occhiata vivace. «Tu non dirlo a mia moglie.»
Alberto sorrise. Anche Frank era vedovo, e conosceva da più tempo di lui i trucchi del mestiere.
Quando Frank uscì nell’aria fredda, Alberto rimase per un attimo ad osservare la sua figura esile da podista, immaginando un fascio di nervi e tendini guizzanti sotto vestiti che cadevano sempre abbondanti. Non avrebbe avuto un’ultima immagine dell’amico da vivo.
Alberto spense per prima l'insegna, poi passò alle luci interne, nell'ordine che era abituato a seguire ogni sera. Il rombo di un tuono gli arrivò alle orecchie, più lontano dei precedenti, forse segno che il temporale andava esaurendosi da qualche parte.
Frank disse qualcosa che Alberto non capì, e all’improvviso il rombo diventò un ruggito orribile e un lampo di luce illuminò l’interno del minimarket, percorrendolo per tutta la sua lunghezza fino al punto in cui si trovava Alberto. Questi si voltò istintivamente, un attimo prima di vedere Frank, a pochi passi dalla porta a vetri del minimarket, che veniva inondato da una luce bianca e poi spazzato via da un qualche mostro di ferraglia e lamiera che gli piombava addosso. Il botto che ne seguì un secondo più tardi vibrò in tutto il minimarket, fin sotto i piedi di Alberto e da lì in ogni nervo del suo corpo.
Il mondo reale cominciò ad appannarsi e a sgretolarsi. L’uomo ossessionato dalle cose che andavano in pezzi rimase immobile con le chiavi del quadro elettrico nella mano tremante, mentre un’espressione di angoscia, sopita da mesi e ora di nuovo traboccante, gli faceva sobbalzare gli angoli della bocca. Passato e presente si avvolsero l’uno nell’altro in un vortice indistinto e Alberto Sartini balzò fuori dal minimarket urlando disperatamente il nome di sua moglie Luna.
Di colpo fuori fu giorno. Alberto non si trovava più nello spiazzo dell’AlbyLuna ma in una strada di campagna, esattamente due anni prima. Era appena sceso dalla macchina, c’era una coda. Davanti a loro qualcosa ostruiva il traffico.
Scorse dei lampeggianti, poi riconobbe Frank che gli correva incontro; aveva un aspetto stravolto. Gli stava urlando di rimanere fermo, che c’era stato un grosso incidente più avanti ed era pericoloso uscire dalle macchine perché stava per arrivare l’ambulanza. Solo che aveva gli occhi lucidi mentre gli parlava. Stronzate, avrebbe voluto rispondergli Alberto. L’ambulanza è già lì davanti, riesco a vederla. Frank non riuscì a trattenere un gemito e le sue braccia deboli non furono in grado di bloccare Alberto, il quale avanzò a piedi per vedere chi fosse la persona che caricavano nell’ambulanza.
E di nuovo fu novembre. L’AlbyLuna. La sera della partita.
Alberto mosse passi lenti e incerti sull’asfalto viscido, sul quale danzava il riflesso tremulo delle luci rosse degli stop di una grossa auto ferma da qualche parte. Poi le luci si spensero, ma Alberto non vi fece caso. C’era del sangue non lontano dalla porta del minimarket. Alberto pensò a Lilly, la cagnetta randagia che a volte vagava da quelle parti in cerca di cibo. Forse un’auto non l’aveva vista e doveva averla centrata in pieno. Povera bestia.
Alberto provò un senso di vertigine. La nausea lo assalì stringendogli l’inguine in una morsa che si propagò all’intestino e allo stomaco, e vomitò. Si domandò se non fosse per colpa di quello che aveva bevuto con Frank, poi ricordò che era Frank quello che aveva bevuto, non lui. Questo glielo fece tornare in mente. Ebbe una visione improvvisa dell’amico che veniva travolto e divorato da un mostro.
Gli occhi di Alberto continuarono a percorrere l’asfalto, nelle pozzanghere il riverbero di qualche lampione là intorno, poi incontrarono, senza vederla, una piccola sagoma scura e informe, e qualche metro più in là l’auto ferma, con il motore probabilmente andato.
Alberto socchiuse gli occhi nel tentativo di scorgere l’interno dell’abitacolo, mosse passi cauti in direzione dell’auto e, nonostante questo, per poco non inciampò ugualmente. Aveva tra i piedi qualcosa di morbido, un mucchietto di stracci, forse, o la cagnetta Lilly. Abbassò lo sguardo su quell’ammasso indistinto che la sua mente confusa si era rifiutata di registrare in un primo momento. Poi cadde a terra, senza preavviso, senza un lamento, fissando inebetito la mano che usciva da quella cosa. Una delle dita si contrasse, tremò per un istante e poi rimase immobile.
Alberto sentì il cuore dargli strattoni tremendi nel petto, finché non avvertì il rantolo famelico di una creatura familiare, che l'aveva braccato per lunghe notti facendolo urlare come un pazzo nel suo letto; una creatura che credeva scomparsa e che adesso, di nuovo, più veloce e più forte di prima gli abbrancava le caviglie e lo trascinava giù nel posto buio e umido da cui era uscita. Scalciò l’aria, trascinandosi all’indietro e urlando e singhiozzando ad ogni spanna che riusciva a mettere tra sé e la visione insostenibile del corpo martoriato del suo amico.
Aspirando e inghiottendo boccate d’aria gelida, Alberto realizzò che il rantolo soffocato e animalesco che aveva sentito era il suo. Guardò ancora l’auto davanti a sé, la sua enorme sagoma nera contro quella più piccola del cadavere di Frank. Si portò le mani al petto e combatté per lunghi minuti con l'immagine sfilacciata di quella realtà.
E tornò il giorno, quel giorno di due anni prima, l’arancione accecante di un sole basso sull’orizzonte e il riverbero dei lampeggianti dell’ambulanza sui vetri delle auto in coda. Alberto arrivò alla barella e vide che qualcosa vi era disteso sopra, coperto da un telo. In un punto imprecisato alle sue spalle, o forse attraverso un ronzio dentro la sua testa, gli giunse la voce di Frank che lo chiamava per nome. Perché mi chiami, pensò Alberto. C’è una persona che sta male, qua sotto. Perché chiami me, vecchio testone. Perché non c’è nessuno accanto a questa barella? Dove sono tutti?
Uno dei paramedici lo vide e gli intimò di allontanarsi. Alberto guardò la sua bocca che si muoveva come se gli stesse parlando dal fondo del mare e, senza rendersene conto, gli sorrise, raccogliendo con delicatezza un lembo del lenzuolo tra le dita. Frank comparve alle sue spalle e gli afferrò la mano.
«Che sta succedendo?» Farfugliò Alberto senza mollare la presa. Frank lo fissava, con un’implorazione nello sguardo lucido e cerchiato dalle occhiaie. Alberto si divincolò e tirò via il telo, abbassando lo sguardo sulla barella, come al rallentatore. Poi tornò a guardare Frank, che aveva le mani nei capelli e il volto contorto dalla disperazione.
«Frank, amico mio, che cosa ci fa mia moglie distesa qui sopra?»

Le luci del mondo si spensero di nuovo, e Alberto si ritrovò a fissare i pallidi e ciechi bulbi di vetro dei lampioni lungo la Provinciale 2/1. Era seduto a terra, inerme.
Sopraffatto dai ricordi, pianse a lungo come un bambino, tenendo il volto nascosto tra le mani e liberando al cielo buio lunghi e lamentosi singhiozzi. Sua moglie era morta, quello stesso giorno di due anni prima, perché amava passeggiare al sole d’autunno per le strade di campagna che circondavano Torredelmonte. Le piaceva il crepitio familiare delle foglie sotto le scarpe da ginnastica, l’aria fresca e pungente sulle guance e l’odore della prima legna che veniva bruciata nei casolari in mezzo ai campi.
Si alzò in piedi, con una smorfia di dolore, e avanzò verso il cadavere di Frank. Doveva capire, riacquistare padronanza di sé, analizzare la situazione. Il corpo dell’amico giaceva prono, straziato in una posizione impossibile per qualcosa che era stato vivo fino a poco tempo prima, e c’era sangue dappertutto. Alberto si ritrasse velocemente dalla scena e vomitò di nuovo. Quando si riebbe, tornò a contemplare lo scempio ai suoi piedi e d'un tratto, incredulo della propria rinnovata freddezza, si ritrovò a farlo come se dovesse rimettere insieme i pezzi di un puzzle, come se studiare ogni parte di quel che restava dell’amico dovesse servirgli a ricostruire le cause della sua morte. Nei film era così che facevano sulla scena di un crimine, no?
Frank aveva ancora gli occhi aperti, vuoti come i lampioni sulla strada al di là delle pompe. Alberto si chinò sulle ginocchia e, con mano incerta, glieli chiuse per sempre. Era un gesto che nei film sembrava sempre così sentito, così enfaticamente rispettoso, ma nella realtà era solo un orpello inutile e impersonale, come appendere un cartellino all’alluce di un cadavere. Di colpo si sentiva come il personaggio di un film, uno di quei dottori taciturni e asociali che sguazzavano tra brandelli di corpi umani e risalivano all’ultimo pasto della vittima.
La macchina cigolò e sobbalzò, strappandolo alla sua immaginazione. Alberto alzò d’istinto un braccio, come per difendersi da qualcosa. Scrutò attraverso il lunotto bagnato di pioggia; sembrava ci fosse qualcosa, là dentro, che si contorceva e si agitava.
Il pensiero di non essere solo colse Alberto alla sprovvista, ma solo per un attimo. Non gli importava provare ad aiutare chiunque si trovasse là dentro più di quanto gli importasse di avere il culo bagnato. Dentro quella macchina nessuno era più vittima del suo migliore amico, o di sua moglie Luna, la cui schiena era finita spezzata in due contro un albero.
Si avvicinò all’auto, analizzandone il profilo con una lucidità che gli fece tremare le gambe. L’adrenalina che gli irrorava ogni millimetro del sistema nervoso gli faceva vedere pezzi di ogni cosa sparsi ovunque: pezzi della carrozzeria, pezzi dei bidoni contro i quali l'auto aveva arrestato la sua corsa, pezzi di vetro e rivoli di sangue che ne seguivano il profilo frastagliato. Era come se un fulmine incanalato attraverso funi metalliche avesse donato la vita al mostro in catene dentro la testa di Alberto, e ne stesse ora guidando i movimenti con uno scopo preciso. La sua parte razionale, al contrario, continuava a urlargli di rimanere cauto, perché tutto questo era già successo in passato, e quel passato era come uno scoglio destinato a riemergere con la bassa marea mentre lui ci passava sopra con la sua zattera di cartapesta. Nel metterlo in guardia da se stesso, quella parte gli tendeva una mano per aiutarlo a emergere dal fossato, chiamare aiuto con tutto il fiato che gli restava, e piangere ancora, se necessario.
Il mostro che lo abbrancava e lo tirava dentro, al contrario, rifiutava ogni debolezza; l’aveva sempre rifiutata, da due anni a quella parte, con la pazienza del predatore.
Alberto lasciò che l’oscurità che alimentava quel mostro lo pervadesse in ogni anfratto dell’anima, fino a diventare egli stesso il mostro. Con un movimento meccanico, si afferrò al tettuccio dell’auto e guardò l’interno dell’abitacolo. Un volto coperto di sangue comparve nella penombra, ma il mostro non gridò, limitandosi a fissarlo. Poi afferrò la maniglia e strattonò ripetutamente, finché la portiera non cedette aprendosi con un cigolio di lamiera che risuonò in tutto il piazzale. L’uomo dentro l’auto tese una mano verso di lui e disse qualcosa che il mostro non capì. Si chinò per cercare di afferrare le sue parole ma qualcosa di colpo lo fece ritrarre. Drizzò la schiena e guardò l'abitacolo, allontanandosi istintivamente da quel gesto implorante.

Il fulgore del tramonto di un’orribile giornata di due anni prima colse Alberto mentre, seduto su una pietra ai margini di una strada di campagna e circondato da paramedici, guardava le labbra di Frank muoversi velocemente senza produrre alcun suono. Qualcuno lo stava toccando, gli tastava il polso, gli sollevava il mento e lo faceva bere da una bottiglietta di plastica. Frank era inginocchiato davanti a lui e continuava a parlargli senza sosta. Come fanno i poliziotti nei telefilm americani quando ti leggono i diritti, pensò Alberto. Poi la voce di Frank arrivò a un volume altissimo e Alberto si ritrasse cercando di coprirsi le orecchie con le mani. Il suo sguardo andò a una macchina inclinata sul ciglio della strada, poi una sirena inghiottì le parole di Frank e colpì i timpani martoriati di Alberto ancora più forte. Due carabinieri tenevano un tizio per le braccia, mentre un terzo, con una bottiglia di vetro nella mano guantata, passò loro accanto e si diresse a passo svelto verso l'auto con i lampeggianti accesi.
Frank toccò delicatamente il viso di Alberto e si riprese la sua attenzione.
«Alberto… Sai che cos'è successo?»
«Dov'è Luna, Frank?»
«È… È successa una cosa, amico mio.»
«Lo so» rispose Alberto guardandosi i piedi. Non gli piaceva come uno dei lacci delle scarpe fosse lungo il doppio dell'altro.
«Lo sai?»
«Sì, lo so. L’ho capito. Glielo avevo detto a Luna di aspettarmi a casa, dovevo uscire anch’io con lei. Dovevamo stare insieme.»
«Voglio che tu sappia com'è andata, Alberto. Voglio che tu sappia che l'abbiamo preso.»
«Abbiamo preso chi? Non ti seguo, Frank, è così difficile!»
«L’uomo alla guida dell’auto. Era... puzzava d’alcol, Alberto. Non la passerà liscia.»
Alberto tornò a cercare con lo sguardo il carabiniere che aveva visto un minuto prima, quello con la bottiglia tra le mani, ma non lo trovò. Aveva raggiunto l’auto in tempo o era partita senza di lui? Si domandò se quella domanda avesse senso.
«Mi hai capito?» Disse Frank.
Alberto annuì stancamente. Aveva capito che il taxi era partito e l’uomo con la bottiglia era rimasto a piedi. Che peccato. Frank lo afferrò per le spalle e lo tirò forte a sé, stringendolo in un lungo e commosso abbraccio.
«Figlio di puttana» mormorò Alberto. Quello che disse dopo fece perdere un battito al suo amico. «Lo uccideranno, Frank? Uccideranno il figlio di puttana che me l'ha ammazzata?»
Frank balbettò nel tentativo di rispondere qualcosa di sensato, ma dalle sue labbra uscì solo un sibilo incerto. Si concentrò per cercare la risposta. «Marcirà in galera, te lo giuro, amico mio. Morirà come un cane, là dentro.»
Alberto rise, e i singulti di quella risata furono per Frank come dita di ghiaccio strette attorno al suo cuore.
«Non morirà» disse Alberto. «Troverà il modo di uscire e continuerà a vivere la sua vita.»
«Cerca di non stancarti, adesso. Verrò a casa con te e rimarrò tutto il tempo che vorrai.»
«Grazie, vecchio» rispose Alberto dopo un lungo sospiro. Stavolta fu lui ad abbracciare Frank. «Dimenticavo» disse poi, ritraendosi con delicatezza.
«Dimmi, ti ascolto. Tutto quello che vuoi.»
«Chiama Luna, dille che stiamo tornando a casa. Sarà così felice di vederti che ti chiederà sicuramente di rimanere a cena.»

Alberto fissava la bottiglia di Gordon's vuota sul sedile di fianco al posto di guida, mentre un odore infernale di gin e vomito gli assaliva le narici. L’uomo che gli aveva portato via Frank aveva gli occhi gonfi e inespressivi di una carcassa dimenticata, ma non era lo stesso uomo che aveva ucciso anche sua moglie. Non poteva essere lui.
Alberto lo afferrò e lo strappò di forza dall'auto, scaraventandolo a terra. Poi, in un attimo, gli fu sopra con tutto il peso del corpo e gli serrò le mani intorno alla gola. L'uomo spalancò gli occhi iniettati di sangue e cominciò a rantolare, scalciando l'aria e affondando le unghie nelle braccia di Alberto. Era pesante e muscoloso, le mani come morse, ma Alberto continuava a stringere e a schiacciare tra i pollici il pomo d'Adamo dell’essere. Sentiva sul viso il suo alito caldo e fetido, ma quando vide i suoi occhi rovesciarsi all’indietro e farsi completamente bianchi, Alberto mollò la presa e si gettò di lato sull'asfalto bagnato. L'uomo sussultò e si rotolò in preda a spasmi violentissimi, agitando le braccia come per cercare di mantenersi a galla nell'acqua immobile e fangosa di un lago.
Ma il mostro dentro Alberto tornò alla carica ridestandolo dai sensi di colpa, balzò in piedi e, con un gemito di rabbia ferina, piantò un calcio contro il fianco dell’uomo. Alberto non era mai stato un uomo religioso, ma da quando Luna era morta aveva provato sulla propria pelle l’esistenza dell’inferno – lo stesso inferno che avrebbe condiviso con l’uomo riverso a terra davanti a lui, il cui respiro lento condensava nell’aria fredda. Alberto aveva familiarizzato da tempo con i suoi demoni, e ora doveva lasciare che lo tenessero per mano mentre colpiva.
L’uomo tentò di alzarsi, puntellandosi sui gomiti. Alberto si mosse rapido e gli sferrò un altro calcio nel fianco. L’uomo compì un mezzo giro sul posto e sbatté la bocca sull’asfalto. Il respiro gli morì in gola e un grasso fiotto di sangue gli uscì dal labbro spaccato. Alberto gli girò intorno e con un ultimo calcio alla testa lo tramortì definitivamente.
Se solo avesse deciso di andare fino in fondo… Avrebbe avuto, dalla sua, la notte umida di un giorno qualunque, il silenzio di un intero quartiere. E nessun testimone. La consapevolezza di potersi finalmente vendicare del colpo al cuore subìto, aveva donato al mostro interiore di Alberto una risolutezza malata e contorta, come l'apparente e disperata lucidità che arma la mano dell'ubriaco e lo porta a puntarsi una pistola alla tempia in una folle mano di roulette russa.
La pioggia ricominciò a cadere, silenziosa, senza lampi né tuoni. Alberto respirava a fatica: dalla sua bocca usciva poco più che un debole fischio asmatico. Provò a trarre un respiro profondo, ma questo gli provocò soltanto un violento accesso di tosse. Gli si erano chiusi i polmoni, come quando, nel tepore illusorio del suo rifugio, gli capitava di abbandonarsi alla disperazione, fin quasi a perdere i sensi. Il flacone di Ventolin che teneva sempre accanto alla branda, in quel momento era così lontano da sembrargli appartenere alla vita di un'altra persona. Alla vita di un debole. Ma il suo mostro interiore, che mai più lo avrebbe lasciato solo, colse quella riflessione e in pochi minuti una rinnovata energia fluì nelle vene di Alberto.
L’assassino del suo migliore amico giaceva esanime. Alberto gli si avvicinò, notando appena la chiazza di sangue che si allargava sotto la sua nuca. Lo prese per le braccia e lo trascinò sull’asfalto umido, e da lì attraverso il piccolo rettangolo sterrato che li separava dall’officina, sul quale erano ancora impressi i solchi lasciati dalle ruote della Freemont di Sergio Malesi. L'uomo tentò di protestare, ma era un lamento lontano, comatoso. Alberto lo adagiò vicino a un cespuglio e si diresse verso il casottino basso dell'officina. Raggiunse a memoria un interruttore e un’anonima lampadina si accese con un debole sfrigolio.
Al centro dello stanzino lungo e stretto, sulle cui pareti erano allineate scaffalature in legno di compensato e pannelli portautensili perfettamente ordinati, c’era un tavolo da lavoro colmo di attrezzi e ferraglia, di forme e dimensioni diverse: pinze, chiavi inglesi, chiavi a brugola, cacciaviti, una vecchia targa, un pezzo di paraurti. In un angolo, un lavandino di cemento dal quale fuoriusciva il tanfo delle fognature intasate dalla pioggia.
Alberto aprì uno scaffale e ne tirò fuori un gomitolo di spago e una busta di plastica nera, di quelle che da qualche anno venivano distribuite per la raccolta dei rifiuti indifferenziati. Piegò la busta e la ripose nella tasca posteriore dei pantaloni, quindi uscì di nuovo nella pioggia e trascinò il corpo dell’uomo sul pavimento di cemento levigato dell’officina.
Con uno strattone che lo fece grugnire nella nebbia dell’incoscienza, gli legò mani e piedi con lo spago. Poi, vedendo che la ferita alla nuca dell’uomo continuava a sanguinare, raccolse dal lavandino uno straccio intriso di sporcizia e aprì il rubinetto; l’acqua fuoriuscì a singhiozzo, dapprima di colore giallastro, poi limpida e regolare. Alberto lavò e strizzò la pezza con cura, vi spruzzò sopra con uno smacchiatore e la strizzò di nuovo. Due secondi dopo la cosparse di un detergente incolore, attendendo che gli occhi smettessero di lacrimargli per le esalazioni della sostanza. Si voltò per tornare dall’uomo ma si bloccò subito, dandosi una piccola manata sulla fronte: aveva dimenticato un pezzo del puzzle. Con un movimento meccanico ruotò su se stesso e prese un rotolo di carta assorbente da uno degli scaffali più alti; se ne avvolse freneticamente metà intorno al braccio e inumidì l’involto con un po’ d’acqua. Infine tornò dall’uomo ancora privo di sensi, gli si inginocchiò davanti e gli appoggiò il cuscino improvvisato dietro la testa, mentre con l’altra mano gli premette sul volto lo straccio imbevuto di detergente chimico.
L’uomo prese a sussultare e ad emettere mugugni soffocati, in preda a un dolore bruciante. Spalancò gli occhi, per il terrore. Quando fu sicuro si aver ottenuto la sua attenzione, Alberto gettò via lo straccio e cominciò a parlare.
«Frank è morto.»
L’uomo non rispose. Aveva la mandibola rotta, e sangue e muco su tutta la parte inferiore del volto.
«Anche mia moglie è morta, più o meno nello stesso modo» continuò Alberto, il tono della voce appena incrinato. «E adesso tu sei tutto quello che mi rimane.»
L’uomo non disse nulla, limitandosi a fissare il suo sguardo sanguigno negli occhi di Alberto, il quale, in risposta a quella sfida, gli assestò uno schiaffo improvviso; quindi, senza scomporsi, si alzò e si diresse in un angolo del locale, dove una vecchia pala da neve era appoggiata al muro. Alberto la raccolse distrattamente, mantenendo il contatto visivo con quello che ormai era diventato il suo primo prigioniero, e uscì sotto la pioggia.
Dopo che ebbe girato l’angolo dell’officina si guardò intorno, tirò su con il naso e scelse il punto migliore nel piccolo campo adiacente alla stazione. Quindi tornò dentro all’officina e senza preavviso piantò il suo scarpone sul viso della bestia, facendogli perdere i sensi un’altra volta.
Quando, un’ora più tardi, con il bordo della fossa che gli arrivava già al petto, Alberto si accinse a uscirne, esausto, un ringhio animalesco lo fece trasalire, e si ritrovò a fissare gli occhietti marroni di Lilly, la bastardina che accudiva qualche volta durante le sue notti all’AlbyLuna. Mollò la pala e le si rivolse con tono dolce, rassicurandola e calmandola. La cagnetta cominciò a scodinzolare e ad abbaiare in direzione del vecchio amico, e Alberto cominciò ad agitarsi. Si affrettò verso il corpo di Frank, si chinò su di esso e gli accarezzò il viso. Poi, a voce alta, gli chiese scusa. Si scusò per tutto: per non essere stato lì con lui a fumare l’ultima sigaretta; per la morte di Luna; per la terribile incombenza che gli era toccata quel pomeriggio, proprio nel giorno del suo compleanno.
Pensò di doversi scusare anche per quello che stava per fare.
Mentre Lilly continuava ad abbaiare e a guaire con insistenza ora alla pioggia, ora al cadavere di Frank, ora in direzione dell’officina, Alberto avvolse il corpo di Frank nella busta di plastica raccolta nell’officina e lo prese tra le braccia. Pregò Dio che gli desse la forza di resistere alla sensazione di orrore che quel fagotto così misero e disarticolato trasmetteva, poi, piangendo e gemendo per l’atto che si accingeva a compiere, trasportò l’amico fino al margine della fossa e ve lo lasciò scivolare dentro.
Per la prima volta desiderò sconfiggere anche il mostro che lo divorava dall’interno, morire in quello stesso istante e tornare a ridere con l’amico, ovunque fosse. Cercò di darsi animo canticchiando Eleanor Rigby e facendo scattare la testa mentre imitava con la bocca – zum! zum! zum! – l’arpeggio iniziale degli archi, ma la prima manciata di terra che raccolse con la pala e gettò sul corpo dell’uomo che era stato per lui come un fratello, fu l’ennesimo colpo al cuore. A lui era toccato il ruolo di Padre McKenzie, che seppelliva la sventurata Eleanor, e come loro nessuno dei due, né Frank né Alberto, aveva trovato la salvezza in quella piccola e ipocrita chiesa che era Torredelmonte. Quando ebbe finito di ricoprire la buca, perso nel frastuono di quei pensieri sconnessi, Alberto concesse al mostro un’ultima mano affinché gli restituisse la determinazione necessaria a completare il lavoro.
Prelevò la sua vecchia Focus dal ciglio del Braccio, dove la parcheggiava abitualmente, e la guidò a fari spenti fino alle pompe. Aprì il bagagliaio e distese il telo che usava per proteggere la moquette interna. Poi pensò al cane; raccolse una scatola di biscotti dall’espositore del minimarket e ne sbriciolò qualcuno al centro del piazzale, facendo in modo che Lilly notasse quello che stava facendo. Dieci minuti dopo, spenta la luce e chiusa a chiave l’officina, trascinò il corpo ancora esanime del suo prigioniero fino alla macchina e lo caricò nel bagagliaio. Quindi ripassò mentalmente il piano che avrebbe seguito da lì in avanti.
Non poteva spostare l’auto, né pulire il sangue che la pioggia non aveva lavato via. Non poteva rimettere insieme tutti i pezzi, quindi si limitò all’evidenza dei fatti: qualcuno era entrato a velocità sostenuta nell’area di servizio, si era trovato davanti un animale e non era riuscito a evitarlo. Dove se ne fosse andato il guidatore a quel punto era impossibile stabilirlo, senza telecamere. Magari il suo nome sarebbe saltato fuori comunque, prima o poi, ma solo quello.
Quanto all’animale...
Alberto rimase per un po' a osservare Lilly alle prese con le briciole dei biscotti che aveva disseminato davanti alla porta del minimarket. Le si avvicinò adagio, lasciando che il mostro che aveva dentro le sorridesse. Allungò una mano che odorava ancora di cibo e se la fece leccare, mentre con l’altra rinsaldò la presa un centimetro sopra la lama triangolare della pala da neve.
Poi, con uno scatto fulmineo, calò il colpo con tutta la forza che gli era rimasta.

Edited by Marco S. Di Fonzo - 30/9/2020, 11:22
 
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view post Posted on 27/9/2020, 18:23
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FRUTTA APPASSITA

La suola imbrattata di sangue si incolla alle pietre che lastricano le scale. Appoggio il peso sulla gamba, il dolore sale come un fulmine fino al cervello. Fisso il guizzo rosso farsi strada tra le maglie della cotta. Sono stato addestrato a resistere al dolore, ma questa freccia piantata in pancia è la madre delle torture. Se la tolgo rischio di sanguinare di più. Posso spezzarla alla radice, così potrò muovermi senza ingombri. Il legno cede. Stringo i denti così forte da far scricchiolare i molari.
Premo sulla ferita e mi appoggio alla parete rocciosa. Cerco un appiglio. Le punte della roccia mi scorticano le dita; il dolore è una carezza al confronto di quello che mi arriva dal ventre.
Un altro scalino. Sono solo altri centodiciotto. Sorrido. Solo altri centodiciotto.
Il sostegno per la lanterna è scolpito con cura a raffigurare il viso di Horel. La torcia infilata nell’anello al naso poggia sulle labbra protese nel bacio della morte. Bagno le labbra di pietra con le dita insanguinate. Mio Signore, presto busserò alla tua dimora.
Centouno scalini rimasti. Rumore di scarpe di ferro che sbatacchiano sulla pietra. Non è il passo di un confratello. Sguaino la spada, pesa una tonnellata; ho perso troppo sangue. Se mi appiattisco al muro magari ho qualche possibilità. I passi sono vicini, spunta un elmo imperiale. Affondo la spada all’altezza dei piedi, proprio sulla fronte del nemico. Il soldato urla e ruzzola sotto. Il ferro della sua armatura stride sulla parete rocciosa.
Un altro fulmine parte dalla ferita, un fiotto di sangue caldo rinnova la colata sulle brache. Devo affrettare il passo prima di morire dissanguato. Gocce appiccicose scendono sulla mia fronte, le asciugo con la mano; per fortuna è soltanto sudore.
Ottantadue, Ottantuno. Mi bruciano gli occhi, ho combattuto nel tempio che ardeva, le statue di legno hanno fatto tantissimo fumo. L’incendio ha tenuto alla larga il nemico, ma ci ha intossicati.
Ho bisogno di una sola sosta. Una sola. Gli occhi chiusi non mi bruciano più.

«Poggiala ai piedi della statua.» Messer Grom mi sorride. Il volto è paterno, gli occhi buoni.
Stringo la mela al petto. Il suo profumo mi arriva alle narici. Ho fame e mi manca la mamma, la sua voce, il suo viso sporco ma fiero. Una lacrima sgorga dall’occhio destro, l’asciugo prima che Messer Grom la veda. Questa è la mia casa, che mi piaccia o no. La mamma è andata, meglio se non fosse mai esistita. Lo stomaco brontola.
«Teleron.» Il vecchio mi incalza. «Guardalo in faccia.»
Le candele illuminano la statua dal basso, la luce tremolante proietta ombre che sembrano fiamme nere. La testa del dio è paffuta, un ghigno evidenzia le zanne dei canini, un enorme anello di ferro penzola dal naso.
Gli occhi di legno mi fissano. Guardami pure, Horel, sono solo un bambino spaurito a cui manca la mamma e che non mangia da giorni. Il cibo ai piedi della statua sta marcendo, il riso cotto è diventato marrone. Puzza di rancido. La rugosa buccia dei frutti ospita colonie di larve.
Indico i rimasugli col dito. «Il dio non la mangia. Il cibo rimane ai suoi piedi e marcisce.»
Messer Grom sospira e si inginocchia al mio fianco.
«Adesso ascoltami bene.» Il suo tono è paziente. «Quello che dici è vero. Il cibo rimane ai piedi della statua e marcisce. Secondo te perché va a male?»
Stringo la mela ancora più forte e rimango in silenzio. Non voglio rispondere: ho paura delle bastonate.
Grom sorride. «Non temere. Dimmi quello che pensi.»
E bastonate siano. «Il cibo marcisce perché nessuno lo mangia.»
Il maestro non fa una grinza. «Pensaci meglio. Cosa succede se metti la mela su un tavolo e la lasci lì?»
Balbetto. «Dopo un po' se la mangiano i vermi e le mosche.»
«Vedi allora che non è vero che nessuno la mangia? I vermi e le mosche vivono e mangiano la frutta marcia.»
«E Horel è il dio delle mosche?»
«Non solo delle mosche. Di tutti.» Grom allunga il braccio e mi mette la mano sulla spalla. «Devi imparare che la vita e la morte sono simili. La vita di qualcuno è sempre la morte di qualcun altro. Il cibo appassisce e Dio vive.»
«Allora.» Riassumo. «Dio mangia il cibo e il cibo marcisce. Proprio come marcisce quando lo mangiano i vermi e le mosche.»
«Esatto. Bravo.» Grom si alza in piedi e con un gesto mi invita a posare la mela sul piedistallo.
«Io ho fame. Horel ha tanto da mangiare e io invece no. Perché devo dargli anche il mio cibo?»
Il tono di Grom è sempre paziente. «C'era una volta un uomo molto povero che camminando per strada vide un ferito steso nella polvere. Aveva poco per aiutarlo, solo un po' di pane secco, ma glielo diede. Il malato aprì gli occhi, prese il pane e lo mangiò, poi gli porse un bracciale d'oro: era un dono di un ricco che si era fermato per dargli aiuto, ma che invece di cibo gli aveva dato quell’oro.» Volge lo sguardo su di me «Ora, cosa ti insegna questa storia?»
Non voglio fare una brutta figura, rifletto a lungo prima di rispondere: «Il malato non aveva bisogno di un bracciale d’oro, ma solo di un po’ di pane per rimettersi in forze.»
Grom è raggiante. «Bravo. Ma c’è di più. Il pane era tutto quello che l’uomo povero possedeva, mentre il bracciale d’oro dell’uomo ricco era qualcosa di valore, ma quasi niente in confronto alle sue ricchezze. Il dono si misura sempre in funzione di quanto il donatore possiede, e più è grande il sacrificio più è grande la ricompensa.»
«Quindi.» Azzardo. «La mia mela è un dono grande per Horel, perché io ho solo questa e ho tanta fame.»
Il mio maestro sorride ancora di più. «Hai imparato una grande lezione.»
Annuisco. Mi avvicino al piedistallo della statua mostruosa e poso la mela ai suoi piedi. Il mio dono sprofonda nel marciume; nubi di moscerini si alzano in volo.
«Bravo, Teleron. Tu farai strada, vedrai.» Grom mi porta fuori dal tempio. La sua mano mi mette qualcosa in tasca. È un sacchetto di nocciole caramellate.

Il cadavere è steso sull’altare di marmo nero. Le candele disegnano ombre che strisciano sulle pareti di pietra. I confratelli circondano l’altare, le loro cappe nere hanno il cappuccio abbassato. Più avanti la statua di Horel mi lancia il suo solito ghigno. Ai lati dell'effigie due bracieri raccolgono tizzoni incandescenti. Odore di resina.
«Avanza, Teleron.»
Cammino verso il centro della sala. Arrivato all’altare estraggo il bisturi dalla valigetta e lacero le vesti del cadavere. Il petto ha un bozzo color porpora che spunta dall’addome. Lo tocco; è caldo. Affondo la lama e incido il ventre dall’alto verso il basso, poi taglio due linee oblique dalle spalle al plesso solare. Rivolto il lembo di pelle del torace sul viso e allargo lo squarcio della pancia. Gli intestini schizzano fuori come coperte pressate in un baule troppo piccolo. Alzo lo sguardo, i miei confratelli sono immobili, solo la punta dei nasi esce dall’ombra dei cappucci.
La puzza arriva alle narici. Respiro a fondo l’aria viziata per abituarmici. Il miasma di sangue e merda mi manda un attimo su di giri. Ripreso il controllo mi concentro di nuovo sul cadavere. Recido la membrana che tiene attaccato l’intestino al suo alloggiamento addominale, taglio il tubo di carne all’estremità e lo spremo. Grumi marroni colano sulla pietra ed emettono vapore.
«Non è morto da tanto.» Descrivo. «Le interiora sono ancora calde.» Nessuno mi risponde.
Il sangue sgorga da tutte le aperture, inclino il corpo per farlo colare; gorgoglia inghiottito dai fori scavati nel marmo.
Una voce profonda interrompe le mie azioni. «Non indugiare in facezie. L’intestino non è di nostro interesse.»
Annuisco, so qual è il mio compito. Cerco la forbice tra gli utensili, i denti di una seghetta mi graffiano le dita. Non sanguino: a furia di lavare piatti con l’acqua ghiacciata la pelle è diventata come il cuoio.
Con la forbice in mano mi inarco sopra al busto. La porzione di costole vicino allo sterno è più sottile; trincio le ossa e mi faccio strada tra i cumuli adiposi, poi recido le grosse arterie. Il cuore cede, lo colgo come un frutto delicato. Il grasso che ricopre la parte superiore ha la consistenza della polenta di mais. Tolgo questa buccia molliccia e soppeso l’organo ripulito. Un confratello si avvicina e lo prende dalle mie mani, prende un vaso da sotto all'altare e ce lo getta dentro. «Lo guarderai dopo, quando completerai il rito. Puoi ora concludere.» Indica il cadavere col palmo aperto.
Mi concentro sul bozzo sull’addome; la massa carnosa è talmente pronunciata da aver sollevato le costole. Il bisturi taglia la carne in circolo, le vene sono marce e vengono via con poco sforzo. Il cancro ha le dimensioni di due pugni, la massa spugnosa è maleodorante. Getto tutto in parte. Ciò che rimane del fegato è un mozzicone simile ad una linguaccia. Vene nere lo penetrano da tutte le parti.
Alzo l'organo come un trofeo e declamo: «Morte per tumore al fegato.»
Un naso si avvicina, il cappuccio dondola avanti e indietro. «Era abbastanza ovvio. Noi usciamo per deliberare, torniamo tra poco.»
Gli uomini procedono verso l'uscita. Rimango solo. Come da tradizione mi siedo sotto all'altare. I canali di scolo dei liquidi corporei riversano sangue, piscio e bile sui miei capelli. I rivoli mi solleticano la cute. L'odore è così nauseabondo che mi è difficile trattenere i conati di vomito. Allungo la mano e trascino vicino a me il vaso col cuore. Pesco il viscido organo e lo espongo alla luce delle candele.
Ho fatto quello che dovevo, Horel. I resti del cadavere sono tuoi. Il tuo spirito ha carne umana da poter divorare. Questo cuore, un tempo pulsante di vita, giace sradicato dal suo petto per mano mia. Non è altro che una pompa, un marchingegno naturale il cui unico scopo è far circolare il sangue. Nelle mie mani sembra un giocattolo. Siamo nulla. Scatole di ossa. Sacche di organi pressati all'inverosimile pronti a schizzare fuori al primo passaggio di una lama. Eppure viviamo, per poi morire. Come marionette balliamo la danza macabra della vita e tu Horel, dio della Morte, sei il burattinaio.
Metto la mano nella tasca e prendo il bisturi. Do un colpo al cuore, e un altro, un altro ancora. È tutto butterato. Lo spremo come un frutto succoso, il sangue impregna le mie mani. Lo spalmo sul volto. Odore di ferro. Mi alzo e mi allontano dall'altare. Raggiungo la statua di legno, dono il cuore svuotato a Dio, come ho imparato a fare quando ero piccolo. Mi raccolgo in silenzio. Il rito è compiuto; rimetto nelle tue mani il mio destino, Horel.
Le mie preghiere vengono interrotte dal rumore di passi alle mie spalle. Non mi muovo.
«Voltati, Teleron, e rimani in ginocchio.»
Obbedisco. I miei confratelli mi stanno di fronte. Il loro cappuccio è abbassato, li posso riconoscere, uno a uno. Il viso solcato dalle cicatrici del vaiolo è quello del Priore. La sua voce rimbomba tra le pareti di pietra: «Non dirai altro che la verità, anche se dovesse costarti la vita. Obbedirai al tuo Ordine, anche se dovesse costarti l'inferno. Curerai i feriti, anche se dovessero maledirti. Raccoglierai i morti, li donerai a Horel. Alzati.»
Il cuore mi batte forte. Ho superato l'esame. Mi metto in piedi. Le gambe mi tremano.
«Liberati dalle tue vesti.»
Obbedisco. La punta della spada si appoggia sul mio petto. Il Priore spinge sull'elsa, la carne mi sanguina.
«In nome di Horel, il cui vero nome è Morte, io ti nomino Cavaliere dell'Ordine del Cuore Nero. Rinasci, Messer Teleron.»
Sorrido. Non dovrò mai più lavare piatti.

Entro nella sala delle udienze. Faccio un cenno ai due novizi di seguirmi. Avanzano a passo di tartaruga: la cassa che trasportano è pesante. Cammino a passo sicuro verso la cattedra dell'imperatore. Alla sua destra il primo ministro gli parla all'orecchio. Poco distante un notaio col tipico abito di ermellino scribacchia con una penna di fagiano non accorciata, la punta si agita come una biscia. L'imperatore mi fissa da capo a piedi e io ricambio il suo interesse. Da vicino appare ancora più grasso, il colletto di pizzo è un tentativo mal riuscito di rendere il viso più presentabile, anche se gli occhi verdi infondono un certo fascino.
L'usciere mi annuncia: «Messere Teleron di Valgon, ambasciatore dell'Ordine del Cuore Nero.»
Mi inchino con la massima educazione. Un tonfo sgraziato alle mie spalle: i novizi hanno posato la cassa senza alcuna delicatezza. Stasera li frusto.
Raddrizzo la schiena. Sia il primo ministro che il notaio sono in attesa che l'imperatore si degni di rivolgermi la parola. Il pingue sovrano continua a fissarmi senza emettere un suono. Soffoco uno sbadiglio.
«Quanti anni avete?» Si decide infine.
«Altezza. Sono nato il ventunesimo anno del regno dell'imperatore Bolor II.»
L'imperatore Bolor III annuisce. «Abbiamo la stessa età.» Allunga le braccia sulla cattedra. «Noi siamo diventati imperatore e voi siete l'ambasciatore dell’Ordine dei Cavalieri del Cuore Nero. Direi che entrambi abbiamo ottenuto risultati notevoli, nonostante la nostra giovane età.»
Solo che io sono partito dal nulla. Sorrido: «Vostra maestà mi lusinga troppo. Non sono degno di essere paragonato a un servo, ancora meno ad un imperatore.»
Il ciccione soffoca una risata. Già mi sta antipatico. Sposto il peso da una gamba all'altra. Non vedo l'ora di lasciare questa città puzzolente.
«Dunque.» Riprende. «Vi è piaciuta la cerimonia di incoronazione di ieri?»
Ho la risposta pronta: «Ho pregato e ringraziato il nostro Signore per avermi donato di assistere a tale avvento durante la mia vita. Spero di meritare questo onore e farò di tutto per conservarne la memoria.»
«Il capo del vostro Ordine? Non è venuto anche lui?»
Ho la risposta anche per questo: «Con l'animo in pena vi devo confidare che Messer Gilon è anziano e infermo. Invero ha centodue anni. Ho qui per voi una lettera dettata da lui in persona al tempio di Valgon, e un dono.»
Prendo dalla tasca la lettera che ho scritto in locanda a nome del vecchio demente che non riesce nemmeno a pisciare da solo, poi faccio un gesto ai ragazzetti. I novizi scoperchiano la cassa e scoprono la scultura: è la riproduzione anatomica in scala da uno a dieci di un cuore umano. La pietra usata è alabastro rosso con venature nere. Rarissima.
L'imperatore mette delle piccole lenti davanti agli occhi, il suo viso diventa ancora meno attraente.
«È il simbolo del vostro Ordine, vero?»
«Sì maestà, come potete vedere.» Mostro il ciondolo nero che porto al collo. «Solo che per voi l'abbiamo fatto rosso; ci siamo informati sul vostro colore preferito.»
Bolor sorride. «Notevole davvero. Un dono degno della mia collezione.»
Fa un cenno a dei servitori che stanno appiattiti alle pareti. Gli ometti sgambettano verso di me, prendono la scultura e la portano via.
L'imperatore allarga il suo sorriso: «Deve esservi costato una fortuna.»
Il notaio intinge la penna nel calamaio e mi fissa in attesa. Mi schiarisco la voce.
«Il suo valore, per quanto notevole, non è comunque degno di vostra maestà.»
Bolor III sbuffa. «Onore, dignità.. non parlate d'altro, prete.»
Il primo ministro ride come una serpe. Nessuno mi aveva mai dato del prete. Incasso l'insulto e mi inchino per nascondere la rabbia.
«Sapete?» Prosegue il sovrano. «Non ci dispiacerebbe attingere alle sostanze del vostro Ordine.»
Eccoci arrivati al punto. So che l'impero è indebitato per miliardi di fiorini, colpa delle spese dell'erario e dei folli lussi in cui viveva Bolor II. So anche che il tesoro del mio Ordine fa gola agli imperatori da innumerevoli generazioni, ma non avevo mai sentito che un imperatore lo desse così tanto a vedere.
«Vostra maestà sa bene che le tasse vengono versate ogni anno con puntualità. Inoltre, noi non chiediamo nulla per tutti i servizi ospedalieri che forniamo da molti secoli, donando un servizio inestimabile al vostro regno.»
Il primo ministro bisbiglia qualcosa all'orecchio del sovrano. Trattengo la voglia di piantare un pugnale in faccia a quel leccapiedi.
«Mi dicono.» Sibila Bolor. «Che il vostro Ordine ha acquisito diverse terre negli ultimi decenni, terreni per cui non versate le tasse. Inoltre non è vero che non chiedete nulla per curare i bisognosi, infatti da loro esigete il pagamento di ingenti somme.»
Sorrido. Se questo ciccione cerca di fregarmi rimarrà deluso: «Vostra maestà sa di certo che i territori acquisiti dall'Ordine nel corso della guerra santa sono nostri soltanto, e sottratti ai regni nemici di vostra maestà. La corona imperiale non amministra tali terre, quindi noi non dobbiamo pagare tasse per il loro possesso. Quanto alle cure mediche: è vero, chiediamo dei compensi, ma proporzionati alle possibilità dei pazienti. I poveri non pagano nulla.»
Il ministro si piega ancora all'orecchio dell'imperatore. Comincio a seccarmi.
«Da come lo spiegate, vi converrebbe curate solo i ricchi e sbattere le porte in faccia ai poveri.»
Adesso non sorrido: «Maestà. Il mio Ordine serve Dio, non il danaro.»
«Già, il vostro dio: Horel. Brutto come un maiale e cattivo come una suocera.»
I cortigiani si piegano dalle risate. Stringo i denti e mi sforzo di rimanere impassibile. «Maestà. Come voi mi insegnate, un sovrano che non incute timore è come un tricheco vestito di velluto. La stessa cosa vale per gli dèi.»
Gelo. Tutti mi guardano con gli occhi sbarrati. L'imperatore apre e chiude le labbra di scatto, sembra un pesce.
«Comunque.» Riprendo. «In nome di Dio perdono le vostre bestemmie, maestà. In cuor mio so che è meglio non scherzare con la morte, Horel non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai sovrani.»
L'imperatore annuisce, i suoi doppi menti ondeggiano: «Tutti moriremo, chi prima e chi dopo.» Sfrega le dita sul velluto rosso del suo abito e finge di tossire. «Ambasciatore Teleron, ringraziate il vostro Ordine per il graditissimo dono. Voi capite che i nostri impegni ci sommergono, tuttavia troverò il tempo di venire a visitare la vostra capitale, Valgon.»
«Vi accoglieremo nel cuore del nostro modesto dominio con canti gioiosi e balli festevoli.»
L'imperatore mi lancia un gesto di congedo. Mi inchino, cammino come un gambero per qualche passo per non voltare le spalle al sovrano, quindi faccio un cenno ai novizi e mi dirigo verso l'uscita.
«Messer Teleron.»
Mi giro verso l'imperatore: «Altezza?»
Le sue parole sono frecce taglienti: «La religione è veleno.»

Odore di pietra e di ferro. Il mio naso è sul pavimento, la guancia appiccicata alla pozza di sangue rappreso. Sono svenuto e ho sognato pezzi della mia vita.
Muovo le braccia, pesano come montagne. Gli spallacci sono inutili, trascino il braccio verso la gola, trovo il nodo di cuoio e lo slaccio. Scrollo il corpo e la corazza rotola giù per le scale. Così va meglio.
Devo rialzarmi. Le gambe rispondono. La ferita alla pancia non fa più male come prima: brutto segno. Spingo con le mani il pavimento, poggio un ginocchio sulla pietra. Il dolore ritorna. Riesco a sollevare il busto.
Un rivolo caldo mi bagna la gamba, ho ancora del sangue in corpo. Mi aggrappo alle pareti, la spada pende dalla cintura; il suo peso mi trascina all’indietro. Sono in una zona senza lanterne. Un passo, uno scalino. Ho perso il conto di quanti gradini mancano.
Una feritoia; posso dare un’occhiata fuori. La luna piena illumina Valgon: non c’è traccia della battaglia. Sbatto le palpebre e stropiccio gli occhi. Ci sono i corpi luccicanti di confratelli e soldati imperiali sulle strade. Tutti morti. L’aria che viene dalla feritoia è fresca, pulita. Respiro a fondo, un po’ di vita mi scorre nelle vene flaccide.
Sono un frutto appassito, dissanguato.
Non posso fermarmi oltre. Dolore alla ferita, scalino, dolore alla ferita, scalino.
C’è un cadavere per terra, ha l’uniforme imperiale. La luce della lanterna sulla parete illumina la corazza dell’armatura. Sorrido alla vista dello stemma imperiale: un cuore rosso col disegno di un’ancora nera. Mi viene da ridere, il cuore stilizzato sembra il contorno di un culo, l’impero non è stato nemmeno capace di imitarci a dovere. Un bagliore lunare si riflette sull'armatura del morto. Sono quasi in cima.
Forza sulle braccia e sulle gambe, ancora pochi gradini. L’aria si rinfresca, la luce lunare sovrasta quella delle lanterne. Una piattaforma. Sono arrivato. Le montagne intorno alla valle sono puntellate di luci, le città dei confratelli sono ancora sveglie.
Modellata secondo la forma di un cuore umano di dodici metri, la campana nera è appesa sopra alla mia testa. Un colpo solo e orde di Cavalieri dell’Ordine del Cuore Nero si riverseranno dalle montagne per spazzare via questi soldatini imperiali.
Il meccanismo è alla mia destra, devo solo trovare la forza di girare l’argano. Barcollo e mi appoggio alla manovella. Giro, il dolore mi fulmina. Il martello sospeso sulla mia testa si sposta verso l’esterno man mano che i contrappesi scorrono sulle pulegge.
Rumore di passi che scalano la torre. Un soldato imperiale fa capolino dalla scala. Non ho tempo di occuparmi di lui. Ancora un giro e tutto sarà finito. Il soldato ringhia qualcosa e punta una balestra dritta su di me. Un altro giro. La freccia mi colpisce al petto, proprio sul ciondolo nero. Il dolore mi toglie il respiro. Cado sul meccanismo, la leva di rilascio si abbassa. Esulto col poco fiato che mi rimane. Il martello prende velocità. Un solo colpo e dalle montagne pioverà l’intera armata di Horel.
La campana vibra: il rumore è quello di un cucchiaio che sfrega una padella. Qualcosa non va: il suono della campana si dovrebbe sentire per diverse leghe; i miei timpani dovrebbero schizzare fuori dalle orecchie.
L’hanno crepata, quei maledetti l’hanno crepata! Che sia stata la catapulta? Ormai non ha più importanza.
Un colpo al Cuore e nessuno a sentirlo.
Una mano guantata di ferro mi scaraventa sulla pietra. Il soldato è su di me. La freccia con cui mi ha colpito ha inchiodato il ciondolo del Cuore Nero al mio petto. Il simbolo del mio Ordine è spezzato.
La balestra punta al mio occhio. Eccomi Horel, sono il tuo frutto appassito.
 
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view post Posted on 27/9/2020, 21:58
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Custode di Ryelh
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Ancora tre giorni, signori!!!
 
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view post Posted on 28/9/2020, 07:56
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Collezionista di carta igienica usata

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Edited by Ukulu - 14/3/2021, 21:17
 
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Elena Carpi
view post Posted on 29/9/2020, 12:12




Buongiorno a tutti. Questa è la mia prima volta in assoluto su un forum. Mi piacerebbe poter leggere alcuni dei racconti bubblicati ma non so come si fa. Se qualcuno può spiegarmi gliene sarei grata.
 
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view post Posted on 29/9/2020, 12:16
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Ciao Elena,
penso che tu debba scorrere le conversazioni dei thread relativi al forum stesso. Ad esempio il messaggio precedente al tuo in questo thread è uno dei racconti attualmente inserito nel concorso dello Skannatoio di questo mese.
Lo storico dei concorsi è qui:
https://latelanera.forumfree.it/?f=9135190

CITAZIONE (Elena Carpi @ 29/9/2020, 13:12) 
Buongiorno a tutti. Questa è la mia prima volta in assoluto su un forum. Mi piacerebbe poter leggere alcuni dei racconti bubblicati ma non so come si fa. Se qualcuno può spiegarmi gliene sarei grata.
 
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view post Posted on 29/9/2020, 14:15

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CITAZIONE (Elena Carpi @ 29/9/2020, 13:12) 
Buongiorno a tutti. Questa è la mia prima volta in assoluto su un forum. Mi piacerebbe poter leggere alcuni dei racconti bubblicati ma non so come si fa. Se qualcuno può spiegarmi gliene sarei grata.

Ciao Elena, mi accodo al buon Karakorum, benvenuta.
La sezione in cui ti trovi è lo Skannatoio e contiene il contest omonimo a cui puoi partecipare con un tuo racconto. Le regole sono riepilogate e linkate nel primo post.
Per le presentazioni formali puoi usare il thread apposito (per "thread" si intende, in gergo, una conversazione su un tema specifico, in questo caso, appunto, i convenevoli).
Se decidi di partecipare sei la quinta, credo, e hai tempo fino a domani sera.
In ogni caso, buona lettura e buona permanenza. ;)
 
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74 replies since 1/9/2020, 20:55   1693 views
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