Ciao a tutti. Ambisco a entrambi i bonus. Spero tanto che qualcun altro si aggiunga entro la fine del mese!
Vi avverto che il mio racconto contiene più di un esperimento, tra cui l'uso di un registro colloquiale e scurrile. Spero di non offendere nessuno. Per me la narrativa deve elevare lo spirito, ma allo stesso tempo immergerlo in un contesto verosimile. Sono aperto a discuterne con voi. Speriamo di leggerci presto!
Fidati dello zioQuesta siepe puzza di piscio di gatto. Piegato qui dentro mi fanno male le gambe e il freddo mi entra nei vestiti. L’Audi si avvicina, i fari si spengono, la portiera si apre. Ecco l’energumeno. Indossa lo stesso costume dell’altra volta: un lungo mantello e una di quelle maschere di Bali con occhi spiritati e dentoni sporgenti
O adesso o mai più! Appena si gira scatto in avanti e gli do il mattone in testa. Rantola e cade, l’ho ammazzato? Chissene. Gli slaccio il mantello di velluto nero e me lo avvolgo intorno alle spalle. Gli tolgo la maschera, la indosso. Mi calza alla perfezione: copre tutto, dalla fronte al mento. Perfetto.
Cos’hai in tasca, brutto riccone? Pistola e chiavi della macchina, ottimo. Intanto tu finisci chiuso nella tua Audi, quanto alla pistola, la prendo io. Meglio se ti do un’altra mattonata in testa per sicurezza.
Sistemo il corpo inerme sui sedili posteriori e richiudo la portiera.
Mi avvicino all’ingresso della villa. Il vialetto che va dal parcheggio all’ingresso è illuminato da lampioncini da giardino. Due tizi armati di Kalashnikov stanno di guardia: sono in costume anche loro, hanno una fascetta nera attorno agli occhi, e un maglione rosso con un riquadro giallo sul petto, come la Banda Bassotti.
Uno mi guarda: mi sistemo la maschera e alzo i baveri del mantello.
La guardia porta la mano tesa alla fronte per fare il saluto militare. «Buonasera signor Volpi. La riconosco dal costume, si accomodi.»
Un cenno col capo ed entro. L’ho scampata bella.
Che salone! Lampadario di Murano e statue greche. Molti convitati in costumi veneziani brulicano intorno al tavolo. Un buffet! Qua se ne fottono delle regole. Cammino verso un vassoio di tartine, le mie scarpe lasciano impronte di terra su un tappeto persiano dai ghirigori intricati. Chissene.
Il tavolo è vicino a un’enorme vetrata. C’è un giardino, fuori, con tanto di alberi e piante decorative. Maledetti ricchi.
Questi tramezzini mollicci sono rancidi come le ascelle di mia nonna, ma la fame è una brutta bestia. Sollevo un poco la maschera, infilo la roba in bocca, ficco tutto in gola senza masticare. Per fortuna questi paninetti al prosciutto hanno l’aria di essere abbastanza decenti. C'è anche il caviale: con la gente che muore per le strade, i ricconi si ingozzano come maiali. Classico, più la civiltà va a rotoli e più l’homo sapiens tira fuori il meglio di sé.
«Marcello! Tanto appetito come al solito?»
Una voce femminile; mi giro. Indossa una maschera dorata sormontata da piume di pavone, ha il corpo snello e le tette evidenziate dalla scollatura. Accidenti, quant’era che non vedevo una bella figa?
Mi impettisco. «L’appetito vien mangiando.»
Ride. «Le tue spalle! Era dai tempi del salone di bellezza che non vedevo così tanta forfora!»
Fisso il mantello, è ricoperto da una polvere fitta come parmigiano grattugiato. Passo la mano sul tessuto e lo ripulisco alla buona.
La gnocca si scansa schifata, mi fissa e si schiarisce la gola.
«Ti piace la mia nuova riproduzione di Michelangelo?»
Mi indica una delle statue ai lati del salone: un David alto sui due metri. Un ciccione, con una panza così, ci sta appoggiato e batte la coscia di marmo con la mano inanellata.
La donna sibila. «A mio marito piace, vedo.»
Il porco sarebbe il marito? «C’è chi apprezza l’arte a modo suo.»
Gli occhi sotto la maschera ammiccano. «Lo sai qual è il pezzo del David che preferisco?»
Qualcosa mi sussulta in mezzo alle gambe. Devo cambiare discorso. «Bella festa, tanta gente è venuta. Sono contento.»
«Sai com’è: forse questo è l’ultimo capodanno che festeggiamo.»
E lo vieni a raccontare a me? «Vorrei bere qualcosa.» Faccio schioccare la lingua. «Questi discorsi mi mettono sete.»
«Come no! Vado a cercare un cameriere e te lo mando.» Mi prende un braccio. «Per dopo… sai dove trovarmi, caro Marcello.»
Dopo cosa? Annuisco. La tipa se ne va, e ride. Ha una risata davvero appetitosa. Le piume di pavone scompaiono tra la folla.
Ok, devo concentrarmi e sbrigarmi prima che mi scoprano. Ci sarà qualcosa da sgraffignare qua dentro.
«Marcello! Eccoti qua, paladino della giustizia!»
Mi giro. Oh no, è il panzone inanellato. Indossa una testa di cinghiale, con tanto di zanne. Con la mano regge un bicchiere con un liquido ambrato, lo alza a mo' di brindisi.
«Allora? Dimmi qualcosa di nuovo. Sono tutt’orecchi!» Si tocca la punta delle orecchie finte.
Mi schiarisco la gola. Cosa m’invento? «Medusa sta mietendo sempre più vittime, l’economia è crollata. La Banca d’Italia ha chiuso. Non so se ci risolleveremo dall’anarchia.»
«Al genio militare vi occupate anche di politica?» Grugnisce. «Eddai, avete scoperto qualcosa di nuovo sul patogeno? Dammi qualche bella notizia.»
Ecchennessò. «Il micelio è visibile durante la fase riproduttiva. Gli sporofori devono uscire dalla pelle per emettere i loro semi. A differenza dei virus, che hanno bisogno di vettori umani, Medusa si trasmette a distanza anche di chilometri: le spore viaggiano trasportate dall’aria e sono molto resistenti.»
Il maiale sbuffa. «Tutta roba che si sa da mesi e che spiettallavano a ogni telegiornale. Piuttosto, avete capito qualcosa sugli effetti al cervello?»
Digrigno i denti; ma perché non te ne vai, mezzasega? «C’è chi impazzisce, ma la costante è che chi si ammala non riesce a capirlo. Il micelio impedisce all’ospite di rendersi conto dei sintomi. Ti spuntano i fili bianchi da tutti i pori della pelle, però non li vedi. Hai il cervello fottuto.»
Il panzone sbuffa. «Sì, è il patogeno perfetto. Avete scoperto altro? Tutta questa roba la sanno tutti! Mi sto stufando, hai voglia di dirmelo, o no?»
Stavolta hai rotto. «Senti, non so se voglio o devo parlarne con te. Con tutto il rispetto, sono segreti militari.»
Ride, mi dà una pacchetta sulla spalla. «Insomma niente di nuovo. Le migliori menti del mondo continuano a fallire. Tanto vale berci sopra.» Trangugia il contenuto del bicchiere. «Ci vediamo dopo, Marcello. Vado a intrattenere qualche ospite con più voglia di parlare di te.»
Muove le chiappe e si allontana.
Ok, stavolta non mi lascio più fregare. Lo stanzone ha due porte ai lati, a una ci sono due ricconi che parlottano tra loro, l’altra è libera. Bene. Iniziamo da lì. Qualcuno mi tocca il braccio. Mi si rizzano i peli dallo spavento, chi rompe adesso?
«Il suo aperitivo, signor Volpi.»
Un cameriere in costume da selvaggio africano, un anello d’oro gli penzola dal naso e un osso gli attraversa la parrucca. Afferro il bicchiere e faccio un cenno col capo. Si allontana. E va bene, un goccio non potrà far male. Mando giù. Cos’è, champagne? Prosecco? Chissene, l’alcol è alcol.
Ok, al lavoro.
Finalmente solo. C’è poca luce in questo corridoio: meglio così. Delle scale scendono giù. Che ci sia una cantina? Perfetto, quelle bottiglie e quel cibo devono pur venire da qualche parte. Lo stomaco mi si contorce. Ho ancora fame.
Giù in cantina allora! Scendo le scale, c’è una porta dalla serratura antica, con chiavistello e tutto. Tombola! Non è chiusa, per fortuna. L’interno è ancora più buio. Cerco un interruttore sulla parete. Trovato! Accendo la luce. Una lampada al neon ronza irritata.
Decine di prosciutti penzolano dalle travi, assieme a salami e altri insaccati di cui nemmeno conosco il nome. Gli armadietti scoppiano di forme di formaggio, e ci sono anche i vini! Mi avvicino e leggo le etichette: Refosco, Tocai, Ramandolo... non me ne intendo ma di sicuro costano parecchio. Merdosi ricchi. Ok, ci sarà una sacca da qualche parte.
«C’è qualcuno?»
Chi ha parlato? La voce è quella di un bambino. Mi guardo attorno. «Fatti avanti.»
«Sono qui!»
Faccio qualche passo in giro per la stanza, l’aria è pesante come piombo. «Dove sei?»
«Quaggiù!»
Guardo in basso. C’è una grata, non l’avevo vista. Mi inginocchio e guardo dentro. La luce non ci arriva. Una sagoma là sotto si muove, sarà profondo tre metri. «Chi sei tu?»
«Michele!»
«Che ci fai là dentro?»
«Mi hanno messo qui la mamma e il papà. Qua è buio. Chi sei?»
Qui si mette male. «Sono un amico di tua madre.»
La sagoma si appiattisce sul fondo. «No! Lei è cattiva. Non dirle niente per favore.»
«Tranquillo. Adesso me ne vado, ok?»
«No! fammi uscire! Non lasciarmi qui. Ho tanta paura!»
Ma che gli hanno fatto? «Torno presto. Ma intanto stai buono e non dire a nessuno che mi hai visto. Va bene?»
«Ritorni subito? Promesso?»
«Certo. Fidati dello zio.»
Mi allontano. Non piagnucola più. Poveretto. Meglio squagliarsela. Mi infilo un salame nelle braghe, sull’inguine. Vado alla porta e metto la mano all’interruttore. No, luce accesa, quel bimbetto si metterà a frignare e lo sentiranno tutti. Ma se l’hanno messo qui, con le luci spente, gliene fregherà qualcosa se si mette a piangere? E va bene, interessa a me. Luci accese.
In corridoio ci sono dei rumori: qualcuno ansima come se stesse correndo. Un filo luminoso esce da una porta socchiusa. Mi avvicino e ci guardo dentro. La donna è tutta nuda: ha la testa riversa oltre il bordo del letto, le piume di pavone sulla montatura dorata puntano al pavimento e i capezzoli indicano il soffitto. Sopra di lei, un uomo col fisico muscoloso la tromba senza sosta. Indossa una bombetta e una maschera veneziana, quelle col naso lunghissimo. Una cosa è sicura: quello non è suo marito.
Mi hanno visto.
Lo scimmione se la ride, lei ansima: «Volpi.
Vieni con noi,» mi chiama a sé. «Marcello.
Vieni, Marcello…» Stende un braccio verso di me. Il cuore mi batte forte, lo stomaco mi si comprime e il salame in mezzo alle gambe si muove da solo.
No, fanculo. Chiudo la porta e me la filo.
L’atrio è spoglio, guardo attraverso la vetrata. Sono tutti fuori in giardino. I fuochi artificiali dipingono le chiome degli alberi di colori che non hanno niente a che vedere con la vegetazione. Scoppi e risate accompagnano ogni nuovo lampo colorato. C’è pure un’altalena, che fosse del ragazzino?
I ricchi. Quanto li odio. Fanno figli e li abbandonano, poi continuano a gozzovigliare a festa con altri stronzi. Qui la madre si fa persino ingroppare da chiunque. Certo, siamo alla fine del mondo, chi non si è lasciato andare un po’? Prima c’era il covid, adesso c’è Medusa, e il coronavirus era letale come una scorreggina, in confronto al fungo bianco.
Eppure, mi ricordo di quando non ero costretto a rubare il cibo, di quando i bambini mi raccontavano i loro sogni, e insegnavo ai genitori come essere persone migliori.
Mi manca il mio studio in centro, mi mancano i miei pazienti. Chi ha bisogno di uno psicologo infantile, quando le famiglie non esistono più?
Che palle: e va bene, salverò anche questo bambino.
Giuro, è l’ultima volta.
«Michele, mi senti?»
«Sì.»
«Come posso tirarti fuori? Non c’è una scala in questo pozzo.»
«Non lo so! Portami una corda, poi mi arrampico. Sono forte, ce la posso fare.»
Una corda. E dove cavolo la vado a pescare? «Ok, fai il bravo. Io torno subito.»
I ricchi in costume continuano ad applaudire i fuochi d’artificio. L’altalena è al bordo del giardino: a debita distanza, per fortuna.
Luci colorate, uno, due, il botto.
Tre secondi. Ok. O la va o la spacca.
Estraggo la pistola, l’appoggio sul primo gancio.
Bagliore, uno, due, sparo. Applausi. Nessuno si è accorto di niente. Il sedile di legno penzola a pochi centimetri dall’erba e la catena cade a terra. Ancora un gancio e poi basta.
Un fiore colorato in cielo, uno, due.
Pum! Applausi
Raccolgo la ferraglia. Tiro un sospiro di sollievo. Felice anno nuovo, pezzi di merda.
Il lucchetto della grata è sottile, lo faccio saltare col calcio della pistola. Scoperchio il buco.
«Michele, ti lancio la catena. Prendila e tieniti forte!»
Butto dentro il sedile dell’altalena, il clangore risuona nel pozzo. Tengo ferma un’estremità e la stringo con le mani. Mi stendo vicino all'orlo. Il ragazzino si appende: però, quanto pesa! Tengo duro e tiro un po’ alla volta: ad ogni strappo le mie braccia urlano dallo sforzo. Ancora poco e sarà fuori! Una mano spunta, l’afferro. Quanto è viscida, è sudatissimo.
L’aiuto ad appoggiarsi al pavimento. Ha una folta chioma bianchissima, si gira a guardarmi. Mi sorride. Le sue guance sono ricoperte di candida peluria. Ha gli occhi iniettati di sangue.
Altro che folta chioma! Faccio un salto all’indietro. Mi allontano. Mi copro la faccia mascherata col mantello. Non devo respirare le spore!
Il bimbo si avvicina. Apre le braccia. «Prendimi e portami via, zietto!»
Metto le mani avanti. «No! Fermo, non ti muovere. Sei malato!» Adesso capisco perché l’avevano messo lì. Quanto sono deficiente.
Il visetto, ricoperto dai tentacoli di Medusa, si acciglia. «Che dici? Io non sono malato. Sto benissimo.»
Mi tremano le gambe. «No, figliolo. Il tuo viso è pieno di fili bianchi.»
Si porta una manina alle guance, accarezza gli sporofori. «Ma questa è la mia barba! Mi è cresciuta perché sono diventato grande!»
«Medusa non ti fa ragionare! Ascoltami, devi tornare sotto.»
Arretra tutto contratto e scuote la testa, il groviglio di funghi dondola sotto il mento. «No! Sei come loro! Come mia madre!»
Maledizione. «Michele, loro ti tenevano là sotto per il tuo bene! Se i soldati ti scoprono ti uccideranno! Quando trovano un infetto, gli sparano!»
Mi mostra i denti. «No! Io ucciderò loro.»
«Fermati!»
Corre verso la porta. Se ne va.
E adesso?
Chissene. Meglio se me la squaglio anch'io.
Spalanco la porta che torna al salone. Sono tutti in semicerchio attorno al tavolo, le loro maschere mi fissano. Mi stavano aspettando. Sorrido, il cuore mi scoppia in petto. Avanzo e alzo le mani a livello delle orecchie.
Il panzone vestito da cinghiale mi indica. «Getta la pistola e togliti la maschera.»
Balbetto. «La festa è già finita?»
«Per te sì. Il vero Marcello Volpi non sarebbe andato a svaligiarmi la cantina, senza contare il casino che hai combinato in giardino.»
Qualcuno ridacchia.
Sfilo il salame dalle braghe e lo poso al rallentatore sul tavolo.
«L’ho fatto solo per necessità. Una volta non rubavo, ma adesso devo farlo.»
Di nuovo risate.
«La pistola,» appoggia i pugni ai lati della trippona, adesso sembra una zuccheriera, «e la maschera.»
Fanculo. Corro verso la porta, mi faccio strada tra i corpi obesi. Un naso di cartapesta si accartoccia sotto il mio gomito. Raggiungo la porta d’ingresso.
Una delle guardie mi si para davanti. Mi sbatte il kalashnikov sulla tempia. Cado per terra. La mia mano scatta a cercare la pistola, ma un calcio al polso l’allontana. Il tizio si piega, mi disarma e mi strappa la maschera di Bali.
Urla concitate. Anche la guardia mi fissa con la bocca torta in un’espressione di orrore. Che succede?
«La sua faccia! Medusa! Medusa!»
Le voci dietro si allontanano, porte sbattono, finestre si rompono. Mi porto le dita al viso. I peli della mia barba mi carezzano i polpastrelli. Tiro un ciuffo, si spezza senza farmi male. Lo guardo: è lattiginoso, una polvere bianca cade dalle punte. Non capisco. Questa barba è strana, sì, però l’ho sempre avuta così e nessuno ci aveva mai fatto caso. Quanto alla forfora, solo un imbecille la confonderebbe con le spore di Medusa.
Mi gira la testa. Mi rialzo.
Uno sparo alle mie spalle, dolore alla schiena. Mamma, che male!
Cado sul tappeto, i suoi crini ispidi mi pungono il naso. Per fortuna la barba è morbida, mi conforta, come un caldo cuscino.
Una guardia mi punta il fucile in faccia. Indossa una maschera antigas, la fascetta nera da Banda Bassotti spicca sotto la visiera trasparente che gli protegge gli occhi.
«Muori, merdoso!»
Stavolta è la fine.
Passi ravvicinati mi rimbombano nelle orecchie. Rumore di sputacchi, no, è qualcuno che imita degli spari con la bocca: è il ragazzino!
Il militare lo rincorre per tutto il salone, punta il fucile su di lui, ma Michele apre una porta e scompare in un corridoio. Un altro membro della Banda Bassotti irrompe nella sala. Indossa l’imbracatura anti-contagio, non bada a me e corre all'inseguimento.
Adesso o mai più.
Mi rialzo. Il cuore mi martella nei timpani. Il dolore mi martoria la carne vicino alla spalla come una lama arrugginita. Che culo, hanno sbagliato la mira e non hanno colpito niente di vitale.
Barcollo più veloce che posso verso l’uscita. Zampillo sangue sul fottuto tappeto persiano, spero che la macchia non vada più via, alla faccia dei ricchi!
Attraverso il vialetto e raggiungo il parcheggio. Fa freddissimo, ogni respiro è come sniffare pezzi di vetro. Tossisco. Arrivo all’Audi. Dove cazzo è la chiave? Frugo in tasca, eccola.
Merda, il mantello è tutto macchiato di polverina bianca. Devono essere le spore che mi ha passato Michele. Sono spacciato. Ammesso che riesca a scappare, prima o poi mi ammalerò anch’io.
Salgo in macchina, le gocce cremisi tingono gli interni rivestiti di pelle chiara. Il signor Volpi è ancora inerme sui sedili posteriori. Di lui mi occuperò a tempo debito.
Metto in moto, tocco la leva del cambio, la stringo e ingrano la retromarcia. Senza lasciare la frizione, premo l’acceleratore. Il motore ringhia infoiato e la lancetta del contagiri si drizza come un cazzo davanti a una bella gnocca. Si va!
L’Audi sfreccia all’indietro; e si schianta.
Il mio corpo si schiaccia sullo schienale. Mi giro, il culone dell’auto si è spalmato sul muro della casa, il signor Volpi è cascato giù dai sedili e si è incastrato nello spazio per le gambe. Bene, lì sarai comodo.
Arriva la Banda Bassotti! Uno sparo, il finestrino posteriore esplode e condisce il signor Volpi con una spruzzata di vetri rotti.
Metto la prima, giro il volante con la mano destra: una fitta alla spalla mi fa urlare. Butto il peso sul pedale e do gas, i pneumatici lanciano un fischio disperato e la velocità mi appiccica al sedile. Travolgo il Bassotto, la sua sagoma sfonda il parabrezza: scarto a destra e il corpo scivola via. Uno scossone dal basso: l’ho preso sotto. Sorrido.
Mi immetto nella strada principale, cambio marcia e accelero. C'è l'ho fatta! Accendo i fari.
Merda! Michele è seduto a gambe incrociate sulla striscia continua, tiene le braccette aperte a chiedermi di prenderlo in braccio. La peluria sul suo viso riflette la luce dei fanali.
Non ho scelta, se cerco di evitarlo rischio di perdere il controllo dell'auto.
Ma mi vuole abbracciare!
Sono proprio un deficiente: sterzo a destra e mi butto di peso sul freno. Le gomme stridono e si grattugiano sull’asfalto. l'Audi si schianta sul guard-rail.
Male ovunque. Sbatto le palpebre, non riesco a mettere bene a fuoco.
Cerco di muovere il braccio, ma la ferita alla spalla mi lancia fitte di dolore dritte al cervello. Il volante sopra alle mie ginocchia è imbrattato di gelatina alla fragola. Faccio fatica a respirare: il mio naso perde come un rubinetto aperto. I sensi si appannano, forse mi prendo una pausa e schiaccio un brevissimo pisolino.
Mi appoggio al sedile del passeggero, la barba mi carezza tiepida la guancia. Che bella sensazione.
La portiera si apre, le luci sul tettuccio si accendono, il visetto popolato dai fili aggrovigliati compare accanto a me.
È lui. Mi scuote. «Zietto! Stai bene? Di’ qualcosa.» Gli occhi iniettati di sangue mi scrutano, attendono una risposta.
«Buon anno,» sorrido, «fanculo,» solo un riposino, «e buonanotte.»
Edited by MentisKarakorum - 27/1/2021, 19:49