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Skannatoio Marzo - Aprile 2021, Mors tua vita mea

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view post Posted on 27/3/2021, 15:23

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Per me, una proroga non sarebbe un problema.
 
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view post Posted on 27/3/2021, 17:54
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anche per me, nessun problema.

Forza Nazareno!
 
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view post Posted on 28/3/2021, 09:22

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Anche per me nessun problema con la proroga.
Personalmente sono alla chiusa finale e mi tengo stretta la deadline tra due giorni, ma una proroga schifo non fa di certo.
 
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view post Posted on 29/3/2021, 09:05
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 27/3/2021, 15:12) 
CITAZIONE (truemet @ 23/3/2021, 10:21) 
Ciao a tutti.
Sono un nuovo iscritto, mi piacerebbe partecipare allo skannatoio.
Essendo un dilettante non so che giudizi costruttivi potrò dare agli altri, se non un "mi è/non mi è piaciuto perché".
Ho fatto un po' di pratica con i precedenti racconti, non ne ho tirato fuori molto, ma ci proverò.

Tu commenta e non pensarci. Sono cose che imparerai con il tempo e facendoti Skannare. ^_^

CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 25/3/2021, 11:47) 
CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 20/3/2021, 18:20) 
Come sta andando gentaglia? A che punto siete con i vostri lavori? Non vorrete costringermi a inseguirvi con un (metaforico... o forse no...) scudiscio?

Io sono fuori tempo massimo e talmente stressato che manco riesco a mettermi a scrivere due parole in fila.

Non hai scritto ancora nulla? Sennò, se li altri sono d'accordo potremmo dare una proroga.

Nulla di nulla. Ho avuto anche un momento stressante. Dai riprovo per lo scanna Maggio / Giugno
 
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view post Posted on 29/3/2021, 20:35
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La midriasi bianca



Tiro su la zip della zanzariera e scosto il telo che copre l’ingresso della tenda. La luce del mattino proietta una linea gialla sul sacco a pelo.
Dov’è finito il cellulare?
Tasto la stoffa umidiccia ma non trovo nulla. Ispeziono la felpa che ho ancora addosso. La mia mano si chiude su un rettangolo duro intrappolato sotto il cotone di una tasca. Eccolo.
Faccio scorrere il pollice sullo schermo. Sono già le otto e mezza. L’ora della colazione sta per finire.
Metto le gambe fuori. L’aria sa di terra bagnata, penetra sotto le calze e mi rinfresca i piedi. Gocce d’acqua gelida mi cadono sulla nuca. Anche stanotte ha piovuto. Speriamo che almeno per la mattinata il tempo tenga. Ma è una giungla pluviale dopotutto.
Capovolgo gli scarponi. Si sono asciugati, bene. Li sbatto uno contro l’altro. Cade fuori una cimice, azzurra come una pietruzza d’acquamarina, con due punti bianchi sulle ali chiuse. Vorrei trovare una di quelle tarantole pelose dal dorso rosso come è successo a Sarah. Si è quasi presa un infarto per così poco.
Mi alzo e mi stiracchio. Una fitta mi arriva al fianco destro come se qualcuno mi avesse tirato un pugno a tradimento nelle costole. Le radici che sporgevano dalla terra mi hanno massacrato tutta la notte. Ho dormito una merda.
La vegetazione è sommersa dai versi delle cicale, sembra sfrigolare come verdura unta sotto il sole d’estate. Mi tolgo la felpa e la annodo alla vita.
Sarah è in piedi davanti alla sua tenda, si sta spazzolando i denti. Si gira verso di me e scosta una ciocca ondulata di capelli rossi dalla fronte. «Era ora» sbiascica col suo accento inglese.
«Hanno trovato qualcosa stanotte?»
«Toboga dice di aver raccolto una specie di uovo. Ha detto che gli servi tu.»
«Non mi dire.» Sono l’unico biologo con una buona competenza in embriologia.
«Tieni.» Sarah mi lancia una saponetta. L’afferro al volo.
Mi metto di fianco a lei, sollevo il mestolo dalla bacinella piena d’acqua e la verso nella lattina d’alluminio appesa al paletto di legno. L’acqua cade dal fondo traforato a mo’ di scolapasta. Mi sciacquo le mani.
Sarah sputa il dentifricio per terra; resta una macchia bianca schiumosa. «Perché ieri sera non sei venuto a cena? C’eravamo tutti. Era anche il tuo turno di esporre il progetto.»
Eccola che riparte. Un altro tentativo di trasformare una ricerca sul campo in una vita comunitaria. «Avevo mal di testa.»
«Mmh.» Mi fissa con i suoi occhietti chiari; fa ruotare tra le dita la stella di David appesa al collo: il talismano in orgonite scompone la luce in un grappolo di puntini che irradia il suo petto.
Passo i polpastrelli sulla barba di due giorni. «Che c’è?»
«Condividere le proprie esperienze crea armonia ed energia positiva nel gruppo. Lima le differenze. Non dovresti stare sempre sulle tue.» Arriccia il naso; le lentiggini si sollevano impertinenti sul viso struccato.
«Ero solo stanco.» Le do le spalle e prendo la borraccia e la borsa a tracolla rimaste nella tenda.
Dio santo, più la conosco più sembra lo stereotipo vivente dell’hipster inglesina. Sciatta, con le sue gambe secche e bianchicce, pronta a sciorinare quella vocazione comunitaria da brava sessantottina. La sua laurea al MIT rende ancora più irritante questo suo atteggiamento progressista.
Ma che cazzo ci vengono a fare persone così in un posto primordiale come questo? Per trasformarlo in una fiera new age di demenza ottimistica e kitsch?
Il richiamo acuto di un uccello attraversa la vegetazione. Sarah indica gli alberi dai tronchi sottili che si sollevano davanti a noi. «Look!»
È una specie dal collo azzurro, con due lunghe piume smeraldo che scendono dalla coda. Vola da un ramo all’altro e si ferma in cima a un albero di caffè. Stacca una bacca rossa dalle fronde e la lascia cadere nel muro di felci che circonda il campo base.
L’uccello mette la testa di profilo e punta quella biglia nera che è il suo occhio sui miei. «Prendila» gracchia.
Il cuore mi salta un battito. Oh cristo, ecco che ricominciano gli animali parlanti. Ogni giorno questa foresta ci fa uno scherzo.
«Prendila.»
Ma dice a me? Mi giro verso Sarah. Lei fa spallucce.
L’uccello lancia un cinguettio acuto e segmentato come una raffica di mitragliatrice. Il gozzo si gonfia e saltella su e giù. «Prendila! Prendila! Pre-pre-prendila.» Sembra molto spazientito. «Prendila, puttanella.»
Mi giro di nuovo verso Sarah.
«Parla con te. Fai come ti dice» sussurra lei.
Ma che cazzo… Perché proprio io?
Faccio qualche passo verso le felci. L’uccello è sopra di me, mi fissa immobile, sembra il corvo della poesia di Poe. Un brivido mi attraversa le spalle così forte da farmi male.
Scosto le foglie.
Dal guscio della bacca è germogliato un fiore dai petali bianchi, si muovono ad onde regolari come i tentacoli di un’anemone.
«C’è un fiore.»
«A flower?»
È lo stesso che ha trovato quel ricercatore francese il mese scorso. La descrizione corrisponde. Ha detto che il fiore si era seccato prima che potesse raccoglierlo.
Allungo la mano. Le dita mi tremano. Passo i polpastrelli sugli stami con le antere a forma di uncino. I petali si dispiegano, sembra che dal centro stia uscendo qualcosa.
Gli stami si avvolgono sulle mie dita. Lancio un urlo. I petali si intrecciano intorno alla pelle. La mia mano si serra in un pugno come se una scarica elettrica mi avesse paralizzato. Qualcosa di caldo è appuntito scorre nella mia carne.
Mi butto sull’erba e rotolo. Grido ancora. La mia testa urta contro una superficie dura. La terra mi entra nei bronchi. Tossisco e sbatto più volte la mano al suolo.
«Luca! Che succede? Cos’hai!?» La voce di Sarah è ovattata.
Sbatto ancora una volta la mano.
Perché non mi aiuta?
Il mio braccio non si solleva più.
Perché sono solo?

***

Tossisco. Qualcosa di ruvido e dal sapore ferroso mi impasta la bocca.
«Luca.» La voce preoccupata di Sarah mi raggiunge. Le sue mani fredde si posano sulle mie guance.
Da quanto sono svenuto?
Apro gli occhi. Sarah è piegata su di me, con un’espressione accigliata. Le punte dei suoi capelli mi solleticano il viso.
Deglutisco. «Cos’è successo?» Spingo sui gomiti per alzarmi.
Sulla mia fronte si posa un’altra mano, più grande e calda, che mi tiene bloccato a terra. «Fermo, fermo.»
È Toboga. È lui.
«Non ti alzare subito. Bevi questo.» Mi passa un bicchiere d’acqua e mi sorride. Le sue labbra scure e carnose creano un contrasto netto con i denti bianchissimi.
Perché ci sono solo loro due? Gli altri stanno ancora dormendo?
Piego la testa in avanti e bevo. L’acqua ha un sapore salmastro. Mi starà dando un medicinale di qualche tipo.
«Cosa ti ha detto la foresta?» Il suo viso si fa serio. I suoi occhi con le sclere gialle mi fissano senza sbattere.
Gli restituisco il bicchiere vuoto. «Ma niente di che. Mi ha preso in giro parlandomi tramite una specie di uccello.»
«Il fiore. Dov’è?»
Il fiore… Il dolore.
Apro la mano. Non c’è nulla. La giro. Niente anche sul dorso. Non ha lasciato segni.
«Non lo so.»
«Hai visto qualcosa quando lo hai toccato?»
Faccio un respiro profondo e mi massaggio la tempia. «Non credo. Non mi sembra.»
Toboga e Sarah si scambiano un’occhiata.
Lei mi allunga la mano e mi aiuta ad alzarmi. La testa mi gira per un momento. Mi sostiene per il braccio. «Ce la fai?»
«Sì.»
«Vieni.» Toboga punta l’antenna del satellitare verso il capannone in legno al centro del campo. «Gli altri sono partiti per una spedizione verso il cratere. Sono state registrate delle attività.»
«Che genere di attività?»
«Una fonte di calore.»
«Che intendi dire?»
«Non lo sappiamo.» Toboga mi sorride di nuovo. C’è una strana luce nel suo sguardo.
Con il sole che mi batte sulla nuca, attraversiamo le coppie di tende, disposte in file concentriche. Raggiungiamo lo spiazzo in terra battuta che circonda la mensa.
I tavoli sotto la tettoia di canne sono vuoti. Il pentolone scuro è sospeso sulla cenere della brace ormai spenta. Accanto, sul banco delle pietanze, ci sono ancora pile di pancake e una bottiglia di miele sul cui orlo si affannano le api. La cuoca se ne sta buttata su una sedia con gli occhi chiusi; muove piano il ventaglio su e giù sulla pappagorgia lucida di sudore.
Quasi mi dispiace che questa calma non durerà per sempre. Vorrei che gli altri ricercatori non tornassero mai. Vorrei essere qui quando la razza umana si sarà estinta, e non ci sarà nessuno sguardo oltre il mio su questi fossili reclamati dalla natura.
Varchiamo la soglia del capannone. Nel corridoio c’è odore di legno umido. Le assi scricchiolano sotto gli scarponi.
Toboga gira le chiavi nella prima porta a sinistra e spinge. L’anta gratta contro il pavimento; un altro spintone e si apre con un rumore sordo.
Su un tavolo di legno scuro c’è un uovo dal guscio grigiastro, steso dentro un panno verde. È grande come quello di uno struzzo.
Guardo Toboga. «È una specie nuova?»
Lui si piega a sedere su uno sgabello, si muove piano, come se fosse improvvisamente invecchiato di venti anni. Abbassa la testa e si passa le dita sul cuoio capelluto sudato. «All’inizio pensavamo fosse una nuova specie e basta. Una delle tante stranezze che vivono in questa misteriosa foresta. Poi l’ho sentita… e ho iniziato ad avere fede.»
«Hai sentito una voce?»
Toboga alza gli occhi sui miei. «Ho sentito la foresta.»
Sarah si avvicina all’uovo e ne sfiora la superficie. Ritrae di colpo la mano. Mi guarda con occhi stupiti. «Prova a toccarlo.»
Toboga si rialza, lo raccoglie e me lo mette tra le mani.
Il suo peso è notevole. La mia mano destra vibra. Una sensazione fredda mi arriva sul palmo, come se ci premesse contro una punta di ferro. C’è una strana energia concentrata all’interno del guscio.
Vediamo se è vivo.
Poggio l’uovo sul tavolo. Prendo il cellulare e accendo la torcia. La stanza dovrebbe essere abbastanza buia.
Controluce, sulla superficie compare un punto scuro da cui si irradiano le venature. È fecondato. «Qualunque cosa sia, è viva. Ci serve un’incubatrice.»
Toboga annuisce. «Andrete in città.» Prende l’uovo e lo avvolge nel panno; lo infila nella tracolla di Sarah. «Portatelo al centro ricerche. Devono fare altri esami. Li ho già avvertiti. La dottoressa Gravieri vi aspetta.»
Di nuovo quella scintilla nel suo sguardo. Come se dopo aver trovato quell’uovo qualcosa in lui fosse cambiato con uno scatto secco.
«Gli altri cos’hanno detto dell’uovo?»
«Nulla.»
«Come nulla?»
Toboga allarga le braccia. «Non abbiamo avuto troppo tempo per parlare. Quello strano calore, quella luce bianca al centro della foresta li ha chiamati.»
«Luce?»
«Basta. Non c’è tempo. Ti spiegherò meglio quando tornerai.»

***

L’autista passa i nostri documenti al soldato nella guardiola.
Forse finalmente sono riuscito a mettere le mani su qualcosa di valore. In tre anni di ricerche nessuno ha mai trovato una cosa così.
Il cancello si apre. I tetti dei palazzi del centro sono a poco più di duecento metri. Nello specchietto retrovisore della jeep gli alberi al margine della foresta si fanno più piccoli.
Forse sarò il primo. Forse finalmente abbiamo qualcosa che può svelare il mistero di questo posto. Ricercatori da tutto il mondo sono venuti e io sarò il primo.
Eppure c’è qualcosa che sento da questa mattina. Una sensazione sgradevole, come un brutto presentimento. Una presenza che non mi lascia. Viscida. Come se avessi la mano di un lebbroso che mi tasta delicatamente in un punto sensibile.
Sarah guarda dal finestrino con aria assorta.
È incredibile la naturalezza con cui abbiamo accettato tutto questo. La foresta è apparsa in una sola notte nel centro della città, fagocitandone un’intera metà. Una vegetazione primordiale popolata da specie mai viste. Mi lascia ancora impressionato la velocità con cui il mondo intero ha accettato questa assurdità.
Lo sterrato lascia posto all’asfalto. Alcune persone escono dall’ingresso del teatro Morlacchi.
Ed hanno imparato ad accettare in fretta l’assurdo anche gli abitanti di Perugia.

Uccidi la ragazza e la dottoressa.

Sussulto. Un’onda fredda si espande nel mio petto.
Sarah si gira verso di me. «Che c’è?»
Ingoio la saliva. «No, niente.» La mia voce trema. «Devo andare in bagno. Ho un po’ di mal d’auto.»

Il marchio che hai sulla mano è il nostro sguardo. Se non le uccidi ti consumerà. Devi proteggere l’uovo.

La voce nella mia testa è diversa da quella dell’uccello di stamattina. Ma è la stessa entità, lo sento.
Chi sei!? Non capisco.

Quando sarà il momento guarda l’occhio. Sarà tutto semplice e veloce. Uccidile o morirai.

Un fischio mi attraversa le orecchie.
La jeep si ferma davanti all’edificio in fondo alla piazza.
Il fischio continua.
Apro la portiera ed esco. La testa mi gira. Ansimo. L’aria calda e secca della città mi riempie di polmoni. L’umidità della foresta è rimasta circoscritta ai suoi margini, ma mi sembra di essere comunque in apnea.
Un odore di carne e spezie riempie l’aria. È la bancarella del porchettaro. I ragazzini appena usciti dalla scuola si accalcano sul cilindro di cotenna dorata, incuranti del caldo. Sembrano saprofagi intorno a una carcassa fumante.
Metto la mano davanti alla bocca per trattenere un conato. Non rimetto niente. Resta solo un bruciore acido in fondo alla bocca. Grazie a dio non ho fatto colazione.
Sto meglio. Sì. Ora va meglio.
La voce di prima mi ha minacciato. Deve essere stato solo uno scherzo della foresta. Uno dei tanti. Non sono il primo a cui succedono cose simili, mi basterà ignorarlo. Una volta a una ricercatrice è capitato di sentire la voce del marito defunto, è andata dallo psicologo per qualche mese ed è stata meglio. Sarà così anche per me, mi basterà ignorare la voce.
L’edificio settecentesco color mattone è davanti a noi. Due camion militari affiancano il portone in legno. Su una targa di ottone di fianco si legge C.R.B.A. Centro ricerche sulla biomassa anomala. Quindi è qui che hanno spostato la sede. In effetti un posto il più vicino possibile alla foresta era necessario.
Attraversiamo il corridoio di marmo e scendiamo nel seminterrato.
Sarah indica davanti a sé. «Il laboratorio della dottoressa Gravieri è la porta in fondo.»
«Ci sei già stata?»
«Sì. Il mese scorso. Dovresti uscire dalla foresta più spesso.»
Invece no che non dovrei uscire. La foresta era l’unico luogo su cui si potesse ancora posare uno sguardo vergine, prima che arrivassero filosofi, religiosi e mistici vari ad addomesticare quell’ignoto con le loro puttanate. Voi costruite favole per proteggervi dal caos. Io non ho paura del caos, è il mio habitat. Quella foresta dovrei studiarla da solo. Se solo fossi l’unico ad averla scoperta…
Gli occhi mi si riempiono di lacrime. La mia mano destra pulsa. Il dolore è come una punta nella carne, simile a quello che ho provato quando ho toccato il fiore.
Sarah va avanti senza di me. La sua schiena scompare oltre lo stipite della porta. Dice qualcosa; una voce femminile le risponde. Non riesco a distinguere le parole; le orecchie mi fischiano. Vuole prendersi tutto il merito la puttanella. È mio, quell’oggetto mi appartiene. Perché Toboga lo ha dato a lei? Traditore.
Sul palmo della mia mano compare uno squarcio orizzontale. Si apre con uno schiocco umido formando una sorta di ellisse. Al suo centro c’è un cerchio bianco come un’iride. Mi guarda piena di desiderio.
Distolgo lo sguardo.
È un’allucinazione. Non guardare.
La gola mi si secca. Cado in ginocchio. Il fischio ritorna più forte.
No, ti prego!
Premo le mani contro le tempie. La mia testa sta per esplodere.

Guarda l’occhio.

Se non lo faccio morirò. Lo so. Lo sento. Toboga aveva ragione. L’ha sentito anche lui. Se guardo l’occhio qualcuno morirà. La voce non mente. Ma devo farlo.
L’iride bianca si espande. La pupilla è di un bianco più intenso.
È bello perdersi al suo interno.
Il fischio scompare. Mi sento scoppiare di energia. Potrei correre per cinque ore senza stancarmi. Stringo i pugni. È questa la pace che cercavo?
Mi rialzo. Ora sto davvero meglio.
Delle grida attraversano il corridoio. Sarah indietreggia sull’uscio dello studio. Fissa qualcosa davanti a sé con un’espressione di terrore. Una secchiata di sangue la investe. Lei si piega in avanti e urla come una madre che vede morire suo figlio.
La dottoressa è morta. Ci sono riuscito. Così come ci è riuscito Toboga con gli altri indegni.
Sarah corre verso di me e scivola cadendo sul fianco. Mi guarda col viso pieno di sangue e il naso che cola. È bellissima.
La sua bocca si apre larga e si chiude più volte, ma non sento nulla.
Si rialza, mi afferra il braccio e mi trascina su per le scale.
Alcuni ricercatori ci superano correndo, si spintonano l’un l’altro attraverso l’uscita; altri rotolano per terra come se andassero a fuoco.
Usciamo dal palazzo. Piazza Grimana è innervata di rampicanti. Nascono da crepe sull’asfalto e si contorcono in spasmi epilettici.
I ragazzini intorno alla bancarella cercano di sollevare una macchina per tirare fuori un loro amico rimasto sotto la ruota. Il porchettaro guarda fisso davanti a sé, con le braccia stese lungo i fianchi, e un sorriso smagliante.
Un soldato sbatte contro la portiera del camion. Con le mani tremanti cerca di infilare la punta della chiave nella serratura. Un altro gli si avvicina, estrae la pistola dalla fondina, gliela punta sulla tempia e gli fa esplodere il cranio. Raccoglie le chiavi ed entra. Le ruote stridono sull’asfalto, ma il veicolo non si muove. Il telone del camion si rigonfia come se dentro si agitasse una bestia con troppe zampe. Quella cosa afferra il soldato e lo trascina sul retro. Uno schizzo di sangue oscura il parabrezza.
Lascio la mano di Sarah e prendo il coltellino svizzero dalla mia tracolla. Lo punto verso il palmo della mia mano destra e premo. La lama non entra. Premo più forte. Non funziona.
Sollevo il braccio e mi preparo a pugnalare con tutta la forza.
Sarah stringe le mani sul mio polso. Grida qualcosa. Gocce di saliva mi bagnano il viso. Ma non la sento, non mi serve.
Lasciami.
Strattono.
Lasciami.
Spingo il braccio nella sua direzione e il coltello si infila nel suo collo.
Lei mi guarda con un’espressione stupita e stanca, come se l’avessi appena svegliata da un sogno. Si accascia per terra, con la schiena poggiata contro la ruota del camion.
Sta facendo buio. Le rampicanti salgono fin sopra i palazzi. Formano una rete tra un edificio e l’altro che esclude il sole dal nostro mondo.
Mi siedo a gambe incrociate sull’asfalto davanti a Sarah. Lei ansima e tiene una mano sul collo; un rivolo di sangue le scorre tra le dita.
Le sirene di un’ambulanza attraversano le strade del centro, o forse è un camion dei pompieri. Chissà.
Tanto non importa. Il tempo del nostro sguardo sul mondo è finito.
Le grida dei ragazzini tacciono; i passi delle prede si quietano. La luce inizia a scarseggiare eppure ci vedo benissimo. Le foglie non sono mai state così vere e l’odore della terra mai così fresco. Ora so cosa cercavo in quella foresta. Questo sguardo. Ora sono fuori.
Finalmente è buio pesto.
Sarah allunga la mano e la poggia sulla mia. La sento sorridere.
Resta solo il suo respiro regolare.
 
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view post Posted on 29/3/2021, 21:13
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Custode di Ryelh
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CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 29/3/2021, 10:05) 
CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 27/3/2021, 15:12) 
CITAZIONE (truemet @ 23/3/2021, 10:21) 
Ciao a tutti.
Sono un nuovo iscritto, mi piacerebbe partecipare allo skannatoio.
Essendo un dilettante non so che giudizi costruttivi potrò dare agli altri, se non un "mi è/non mi è piaciuto perché".
Ho fatto un po' di pratica con i precedenti racconti, non ne ho tirato fuori molto, ma ci proverò.

Tu commenta e non pensarci. Sono cose che imparerai con il tempo e facendoti Skannare. ^_^

CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 25/3/2021, 11:47) 
CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 20/3/2021, 18:20) 
Come sta andando gentaglia? A che punto siete con i vostri lavori? Non vorrete costringermi a inseguirvi con un (metaforico... o forse no...) scudiscio?

Io sono fuori tempo massimo e talmente stressato che manco riesco a mettermi a scrivere due parole in fila.

Non hai scritto ancora nulla? Sennò, se li altri sono d'accordo potremmo dare una proroga.

Nulla di nulla. Ho avuto anche un momento stressante. Dai riprovo per lo scanna Maggio / Giugno

Only sad reaction ;_; ;_;
 
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view post Posted on 29/3/2021, 21:48

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Ma quindi la proroga c'è o no?
 
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view post Posted on 30/3/2021, 17:26

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1478

“Amen” Mi portai la mano destra sulla fronte e composi il segno della croce, poi guardai il quadro della Madonna appeso alla parete. La Vergine mi infondeva coraggio, con quei soliti occhi azzurri e fedeli. “Madre mia, aiutaci tu.”
Qualcuno bussò alla porta, il mio petto si gonfiò con uno scatto per lo spavento. “Prego, entrate.”
La mia adorata Lucia sbucò dall’uscio con titubanza. Aveva sempre paura di dare noia! “Caterina cara, ti disturbo?” Il suo sguardo si spostò sul libro dei carmi che poggiava sopra le mie ginocchia. “Oh! Vedo che sei in preghiera. Scusami tanto, il signore e la signora de' Pazzi desiderano che tu prenda posto a tavola, ti aspettano per il pranzo.”
Per il cielo, quante volte dovevo ripetere ai miei genitori che non volevo partecipare ai loro pasti di carne, vino e alimenti di lusso? Non lo capivano. Dal corridoio proveniva un buon profumo di stufato, e le risate grasse e pastose si alternavano con ringhi voraci. Mi strinsi le tempie tra i polpastrelli. “Buona Lucia, sii così cortese da prepararmi un po’ di pane e un bicchiere d’acqua. Scenderò in sala da pranzo tra un minuto.”
“Certo, mia signora.” Lucia socchiuse la porta ed io rimasi sola. Guardai la stanza dove alloggiavo, il letto a baldacchino, le pareti piene di arazzi, le finestre luminose decorate d’oro. Solo il giaciglio di coperte che avevo preparato per riposarmi la notte mi faceva sentire più a casa. Sospirai e lasciai la camera.
Lungo le scalinate, i dipinti della famiglia Medici e i loro stemmi che decoravano le pareti mi facevano sentire in colpa. Non avremmo dovuto essere noi ad abitare quel palazzo. Tutti quei volti mi fissavano e io mi sentivo un’impostora. Giunsi in sala da pranzo e i miei genitori stavano già banchettando.
“Salve.” Mi sedetti e subito un’ancella mi servì un vassoio pieno di pane. Abbassai il capo, grata.
Sentii lo sguardo di mio padre farsi pesante su di me.
“Figliuola, anche oggi non mangi? Guarda quanto ben di Dio abbiamo in tavola, perché ti accontenti di un pezzo di pane vecchio?”
Davvero dovevo rispiegarglielo un’altra volta? “Padre, ne discutiamo ogni giorno. La vita che conducete voi non mi appartiene. Ho fatto una promessa.” Presi un tozzo di pane farinoso e me lo portai alla bocca. Era raffermo e senza sale.
Mio padre deglutì rumorosamente. “Lo so, lo so. Io e tua madre siamo fieri della strada che vuoi percorrere. Ma il tuo babbo ha faticato tanto per ottenere questa vita, queste pietanze, questo palazzo.”
Faticato? Ma se aveva lasciato fare il lavoro sporco ad altri… Mi morsi la lingua e lo lasciai proseguire.
“Molti dei tuoi parenti sono morti per aiutarmi a diventare signore di Firenze. I tuoi cugini, Francesco e Renato… dovresti portare rispetto per loro.”
Il mio cuore accelerò violentemente tutto d’un colpo. “Cosa? Renato… è morto anche lui?”
Mia madre allungò una mano e la poggiò sopra la mia. “L’hanno trovato ieri, fuori da Firenze. Stamani l’hanno impiccato…”
Sentii la testa girare e mi aggrappai alla tovaglia. “Ma come? Non c’entrava niente con la faccenda dei Medici. Non aveva neppure partecipato alle riunioni.”
“E che vuoi che gli importi, a loro? Cercano vendetta, quelle carogne!” Mio padre addentò una coscia di pollo con forza.
Perché doveva usare quel linguaggio? E poi, i primi a spargere sangue eravamo stati noi. Ero l’unica in quel palazzo a ricordarselo? Per fortuna non mi era concesso esprimere un’opinione contrastante a quella dei miei genitori, o avrei di sicuro finito per pentirmene.
Mio padre succhiò l’osso del suo pollo e lo guardò concentrato. “Mie dilette… sapete, se dovessi incontrare i pochi Medici rimasti gli romperei il collo” Feci un balzo indietro e sbattei la schiena sulla spalliera della sedia. Mio padre strinse l’osso tra le mani. “Li distruggerei, sì. Gli squarterei la gola, li calpesterei e li getterei nell’Arno.” Spezzò l’osso in due metà, con un colpo secco.
Mi stava passando la fame. Rimisi la pagnotta di pane sul il vassoio. Presi un respiro e pensai al mio Signore, che vedeva e sentiva tutto ciò, e mi vergognai.
Mia madre si portò una mano al cuore. “Jacopo, tesoro, non esagerare… abbiamo quello che volevi. Hai fatto assassinare Giuliano e Lorenzo de’ Medici, e ora sei il signore della città. Non inimichiamoci il nostro popolo…”
Grazie agli angeli mia madre la pensava come me.
“Babbo, sono d’accordo con la mamma. Abbiamo già fatto tanto male e provocato tanto dolore. Firenze era affezionata ai Medici e ora dobbiamo farci perdonare, portare la pace e la fede al nostro giglio.”
Mio padre scosse la testa. “Si vede che non ci capite una ceppa di politica… La città è già in subbuglio. Noi non possiamo uscire, perché ad ogni angolo potremmo incontrare un sostenitore di quei cani dei Medici. Ognuno di loro rappresenta un rischio per noi. Firenze la possediamo noi, ma non sarà davvero nostra finché tutta la stirpe non sarà domata e noi potremo circolare liberi per le strade. E poi… guardate attraverso queste finestre regali che ci ritroviamo. La gente parla, si organizza. Prima giurerei di aver visto uno di quei maiali confabulare qualcosa con il Nori e con degli altri popolani. Questa guerra non è finita per nulla.” Tracannò il suo calice di vino, si pulì il mento con la manica e si alzò. Con un cenno diede ordine alla servitù di riportare i vassoi in cucina. Poi abbassò il capo verso mia madre e se ne andò.
Mi alzai anche io ma sentì la mano morbida di mia madre stringermi il polso. Addolcì gli occhi.
“Caterina, figlia mia. So bene cosa ti costa sopportare tutto questo. Conosco la mia bambina, hai un animo nobile e pacifico, non ti piace tutto questo parlar di uccisioni e sangue. Il tuo babbo lo sa, ma è accecato dal potere, tu porta pazienza: appena saremo liberi da questa situazione potrai farti internare nel monastero.”
Sorrisi e mia madre mi mise a posto un ciuffo di capelli. “Tu pensi che avremmo voluto che ti sposassi e crescessi una famiglia, ma non è così. Una vita consacrata a Dio è una vita dignitosa, e non conosco persona che sarebbe più adatta di te.” Le sue labbra delicate mi sfiorarono la fronte.
Come era buona la mia mamma. Anche se avrei voluto sposasse un uomo più gentile di mio padre, solo un’anima premurosa come la sua avrebbe potuto stargli accanto e continuare ad amarlo.
Ruotò le spalle. “Ora vai, bambina, lo so quanto ci tieni ad essere puntuale per la tua preghiera della nona!”
Feci un piccolo inchino, poi mi voltai e mi avvicinai alla finestra. Spostai il tendaggio ricamato d’oro e mi poggiai al davanzale. Il Sole era ancora alto, di certo mancava ancora un po’ di tempo all’ora della mia preghiera. Avrei potuto approfittarne e aiutare le domestiche nelle pulizie della sala da pranzo. Non volevo che faticassero per me, non avevo bisogno di essere trattata come una nobile. Solo il voto alla povertà mi avrebbe avvicinata a Dio.
Un uomo dai vestiti strappati e malconci passava di corsa nel vicolo che dava all’entrata del nostro palazzo. Rivolse uno sguardo indiavolato al portone e sputò per terra. Forse aveva ragione mio padre. Forse davvero ci disprezzavano. Sentii una lacrima calda percorrermi il viso, facendomi pizzicare la guancia. L’asciugai con la mano e richiusi il tendaggio.
***
Stava arrivando il vespro, il cielo era di un blu cobalto acceso, e le sfumature rosa e arancioni del Sole che tramontava tingevano le nuvole. Che meraviglia. Raccolsi il cesto pieno di mele dal muretto pietroso e percorsi il corridoio. Lucia mi stava venendo incontro accompagnando mia madre a braccetto e portava un libro in mano.
“Mia cara, hai raccolto tutte le mele del chiostro?”
“Sì, Lucia. Guardate che splendido tramonto ci offre il nostro Signore questa sera!” Alzarono lo sguardo ad ammirare la volta celeste, ed io feci lo stesso. Una rondine fece una piroetta e cinguettò serena.
“Magnifico! È un peccato poter godere di questa vista solo dall’interno del nostro palazzo.” Mia madre prese il libro dalla stretta di Lucia e me lo porse. “Caterina, vorresti unirti a noi nella lettura di qualche poesia?”
Annuii. Afferrai il libro. La miniatura verde e rossa della copertina adornava il titolo: Laudi. Le pagine erano ruvide e polverose, doveva essere un manuale molto antico. Mi sedetti sul muretto, mia madre e Lucia mi imitarono. Mi poggiai comodamente a una colonna marmorea, un brivido mi scosse il capo. Consultai il testo, cercando una poesia che mi incuriosisse. Il mio sguardo si posò su una ballata che già conoscevo.
“Leggerò questa! L’autore è Iacopone da Todi, un religioso francescano.” Mi schiarii la gola.
“O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!

Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ‘l dolzore.

Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare…”

Delle urla mi distrassero dalla mia lettura. Mia madre si riscosse e alzò la testa fulminea, vigile. Tutte e tre ci voltammo verso l’entrata. D’istinto scattai in piedi, mi avvicinai al corridoio, dentro il portone del palazzo non vidi alcun movimento. Le urla persistevano, sembravano provenire da una folla. Lucia mi raggiunse.
“Vado a controllare, voi aspettatemi qui.”
Non fece in tempo ad entrare che un’ancella e una domestica ci corsero incontro trafelati. Lei era rossa in viso e respirava a fatica, lui le poggiava una mano sulla schiena per aiutarla a procedere, e nell’altra mano teneva un bastone. Si fermarono davanti a noi, gli occhi della signora lampeggiavano di terrore. Sembrava sconvolta. A quella visione, il mio stomaco si contorse e si annodò. Cosa stava succedendo?
“Madama, madama! Ci stanno attaccando! Stanno entrando! Sono qui, tutti!” L’ancella stringeva il braccio di mia madre. Lei si divincolò, ma le rimase il segno della stretta chiara sulla pelle.
“Chi è qui? Chi sono, i Medici?” Mia madre iniziò a rigirarsi il ciondolo della sua collana tra le dita. Oh no. Per quanto volesse rimanere calma, sapevo che quel gesto lo faceva solo quando era molto preoccupata.
“No, mia signora. Tutti sono qui! I Medici, il popolo, tutta Firenze! La strada è piena, e sono armati!”
Le mie gambe si rammollirono e rischiai di perdere l’equilibrio. Lucia mi fermò giusto in tempo e mi cinse la vita. Mia madre si portò una mano alla fronte. “Perché sono tutti qui? Cosa vogliono?”
“Vogliono vendicarsi! Uccidere noi come vostro marito ha fatto uccidere i loro parenti e i loro signori! È la fine, è la fine per tutti!”
Mi mancava l’aria. Annaspai, l’ancella si buttò in ginocchio e si tirò i capelli, alcuni ciuffi gli rimasero in mano; la domestica diventò paonazza e copiose lacrime le attraversarono le guance paffute. Non sentivo più nulla, mi voltai e Lucia era a terra, pallida e immobile, mia madre era china su di lei e le stava scuotendo le spalle. Saremmo morti tutti così? Non potevo permetterlo. Dov’era mio padre? Dovevo andare a cercarlo prima che fosse troppo tardi, dovevamo provare a fuggire. Lucia aprii gli occhi, mia madre l’aiutò ad alzarsi.
“Alzatevi! Dobbiamo nasconderci! Tra poco riusciranno ad abbattere il portone e ci troveranno! E tu, ancella, vai a combattere al fianco di mio marito! Forse moriremo, ma con dignità.”
L’uomo si alzò, fece un inchino. “Come lei desidera, madonna Maddalena.” Si voltò e percorse il corridoio. Un suo singhiozzo rimbombò nell’androne.
Mia madre gli andò dietro, e ci fece cenno di seguirla. Io respiravo ancora a fatica. Sforzavo le narici per catturare più aria, ma la mia gola era ostruita e il petto era pesante. Le due domestiche si alzarono, tesi la mano a Lucia e lei me la strinse, poi attraversammo la galleria ed entrammo nel palazzo. Il mio volto bruciava. Scendemmo le scale, le calzature mi logoravano i piedi. Signore, ti prego, aiutaci. Mio padre era in piedi al centro del salone, accanto a degli inservienti e alle guardie. Indossava la sua corazza d’acciaio, e teneva in mano la spada della nostra famiglia, con i due delfini incisi nel pomolo.
“Babbo!”
Si voltò e sgranò gli occhi.
“Caterina, figliuola!” Mi abbracciò, la sua armatura era fredda e liscia. Le sue labbra si posarono sulla mia fronte e la barba mi graffiò. Si staccò e prese le mani di mia madre, le accarezzò.
“Maddalena, amore mio. Non c’è tempo. Il portone sta cedendo. Io combatterò, ma sono a centinaia...” Arricciò con le dita un ciuffo di capelli che era sfuggito dall’acconciatura di mia madre, e lo sistemò dietro al suo orecchio. Un boato fece tremare il pavimento. Avevano abbattuto il portone. Le urla selvagge erano sempre più vicine.
“Addio, donne mie!” Il babbo impugnò la spada.
“Addio!” La gola mi grattava acidamente, gli occhi bruciavano, ma cercai di non piangere. Dovevamo andare. “Correte!” Le gambe mi si muovevano fluide e spontanee, più veloci di quanto volessi. L’aria era un soffio pungente sul volto bagnato. Non avevo nessuno davanti, ero io a fare strada. Forse il luogo migliore dove nascondersi era la sagrestia. O almeno, era l’unica stanza che conoscessi veramente in quel palazzo. Ed era lontana dal combattimento, almeno non avremmo sentito gli orrori della battaglia. E quale posto migliore per pregare, per avere fede che questa tragedia potesse risolversi per il meglio? Dovevo fare veloce. Le mie compagne mi seguivano, ansimavano.
Il capitello di San Giovanni Battista anticipava il portone in legno della sagrestia. Eravamo arrivate. Tossii piano. “Entrate qui dentro, svelte. È il posto più sicuro per noi.”
La grande croce sulla parete era ancora lì, come l’ultima volta. Chiusi il portone e mi guardai intorno. Armadi in legno scuro occupavano ogni lato della parete, ci saremmo nascoste lì. Girai la chiave dell’anta più vicina, talari colorati, tonache scure e vesti sacre riempivano lo sportello. Mi feci spazio e m’infilai, l’odore di muffa mi punse le narici. Mi trascinai all’altro lato del mobile, scorrendo sulla superficie; era ricoperta da uno strato di polvere. Mi rannicchiai nell’angolo.
Mia madre s’avvicinò. Profumava di fiori e aveva il respiro affannato. “Credo che dovremo aspettare qui a lungo.”
Iniziai a pregare.
***

Dei passi echeggiavano nel corridoio. Con un cigolio, la porta si aprì. Il mio cuore pulsava veloce, rimbombava nell’incavo dell’armadio.
“Tu, controlla dentro tutte le ante.” Era un uomo. “Vediamo se qualcuno ha cercato di nascondersi qui.” Guardai mia madre, i nostri respiri si fecero veloci.
Uno scricchiolio. La luce irruppe nel vano, Lucia soffocò un grido. Ci avevano stanate.
“Signore, ne abbiamo trovate alcune!” L’uomo agguantò Lucia per la manica e la costrinse fuori dal nostro rifugio. “Fuori! Uscite tutte, se non volete che sia la mia spada a cacciarvi di lì!”
Madre mia, era la fine.
“Con calma, con calma. Un po’ d’eleganza, ti stai rivolgendo a delle signore…” Lo ammonì l’altro uomo.
Mi spinsi fuori, pregavo solo che andasse tutto bene. Uscii dall’anta, mia madre e le due domestiche erano schiacciate contro il tavolo al centro della stanza, minacciate da un nobile e un uomo malconcio.
“Molto bene, qui abbiamo anche la padrona di casa e sua figlia…” Il nobile sorrise beffardo. Porse il suo scudo all’altro uomo. Nel centro stagliava lucente lo stemma dei Medici. Era uno di loro. Teneva stretta una spada dalla lama insanguinata. Aveva ucciso qualcuno. Speravo non fosse mio padre… Fece un inchino.
“Signore, mi presento: sono Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico e suo legittimo erede. Penso possiate capirmi, se vi dico che ho appena sgozzato messere Jacopo de’ Pazzi con questa stessa spada.” Mostrò la lama bagnata di sangue, fiero. La cena mi risalì dallo stomaco, il sapore di pane inacidito mi invase la gola. Mi protesi in avanti, pronta a vomitare. Un singulto esplose nella stanza e riecheggiò tra le pareti. Mia madre singhiozzava e ululava di dolore. Lorenzo le porse un fazzoletto.
“Signora de’ Pazzi, non disperi. È stata una morte veloce e indolore, e vostro marito è morto combattendo per il suo onore e per la sua famiglia… Mi dovete perdonare questo spargimento di sangue, non è nella mia indole.” Le viscere mi si attorcigliarono dalla rabbia. Mio padre doveva aver sofferto come un cane… e moriva da criminale, da impostore! Lorenzo strinse un pugno e strizzò gli occhi, feroce. “Jacopo de’ Pazzi ha ucciso il più potente esponente della nostra famiglia, nonché tutore mio e di mio fratello Giovanni… E questo solo per un po’ di ricchezza e riconoscenza! Ma Firenze sa chi deve regnarla… Pensate, sono stati i popolani a venire da me per organizzare questa rivolta!”
“Che cosa volete farci?” Mia madre si era asciugata le lacrime. Le sopracciglia aggrottate nascondevano gli occhi gonfi e lucidi.
“Madonna, come ho detto, non mi interessa uccidervi. Ora che l’unico ostacolo nella vostra famiglia è stato eliminato, non mi preoccupo di due donnicciole con la loro servitù. Vi risparmierò…”
Grazie a Dio… mio padre era morto, ma io e mia madre ci saremmo salvate, saremmo andate in monastero e ci saremmo dimenticate delle atrocità a cui ci avevano sottoposte...
“…Ad una condizione! Se vorrete continuare a vivere, devo essere sicuro che non vorrete ribellarvi. Sanciamo la pace tra le nostre famiglie con un matrimonio, e scordiamoci dell’odio di cui ci siamo alimentati negli ultimi mesi!” Un matrimonio? Ma non avevo fratelli o sorelle, o cugini stretti…
Lorenzo buttò la spada a terra. “Madonna, io sposerò vostra figlia, e così risparmierò la vita a voi, alla vostra figliola e alla servitù, e vi permetterò di vivere nella ricchezza di chi ha il signore di Firenze come genero!”
“No!” Avevo parlato io? Non me ne ero neppure accorta. “Io non posso sposarmi! Ho fatto un voto a Dio, gli ho promesso la castità a vita, sarò sua sposa!”
“Mia bella fanciulla, in questo caso dovrò rivedere i miei piani…” Lorenzo raccolse la spada da terra.
Mia madre scattò in piedi. Tremava. “Figliola! Pensaci, almeno. Preferisci morire piuttosto che sposarti? Potrai comunque pregare e frequentare la Chiesa, anche dopo il matrimonio… “
Come faceva a non capire? Avevo fatto una promessa… se l’avessi infranta, avrei mentito al mio Signore, avrei macchiato la mia anima e avrei annullato ogni mio valore… Avrei rinunciato alla vita che sognavo da quando ero bambina. E non volevo vivere da signora di Firenze! Non volevo allontanarmi dai precetti cristiani, volevo seguire i miei voti. Ma non potevo lasciare che ammazzassero mia madre, Lucia e chissà quante altre persone… per colpa mia! Cosa dovevo fare?
“Va bene, ci penserò. È notte, sono molto stanca, non posso decidere ora…”
Lorenzo porse il braccio e mi aiutò ad alzarmi. Con un leggero ribrezzo mi appoggiai a lui. Sapeva di sudore acre, e di sangue… Come potevo sposare l’uccisore di mio padre? Mi si annebbiò la vista. Le lacrime mi solleticarono il viso, una mi si fermò sul labbro. Era salata. Lorenzo me l’asciugò col pollice rugoso, mi venne voglia di vomitare.
“Tornerò qui, domani mattina, per sapere la vostra risposta. Le mie guardie controlleranno che nessuno fugga.” Lorenzo afferrò lo scudo e la spada, e uscì dalla sagrestia.
***
Il pavimento era rigido e gelido. Non riuscivo a chiudere occhio. La Luna illuminava le pareti della mia stanza, gli arazzi, il baldacchino. Era inutile provare a dormire. Mi alzai in piedi. Guardai la Luna piena. Era così tonda e luminosa, rischiarava le notti terrestri da millenni. Lei sì che si trovava al posto giusto. Non doveva essere costretta a scegliere tra la sua famiglia, la sua vita e la sua Fede… Mia madre non mi avrebbe mai costretta a scegliere di sposarmi. In fondo, quell’uomo era una bestia, l’assassino di mio padre! Come potevo anche solo fingere di amare un bruto del genere? Ma se avessi rinunciato al matrimonio… la mia scelta sarebbe ricaduta sulla vita mia e di tutti i sopravvissuti alla rivolta. Mia madre non sarebbe riuscita a guardarmi in faccia, se l’avessi sacrificata per rispettare il voto a Dio… Mi immaginavo la sua espressione delusa, lo sguardo rivolto a terra per non provocarmi dolore nel vederlo… Anche nello sconforto più profondo, mia madre avrebbe cercato di proteggermi dai sensi di colpa. Non potevo farle questo. Ma non volevo nemmeno tradire il mio Signore e vivere un’eternità da peccatrice… C’era anche un’altra possibilità: avrei potuto sposarmi, sciogliere il voto e poi suicidarmi, o farmi uccidere. Avrei salvato mia madre… ma… no, era infattibile, avrei macchiato il mio onore in qualunque caso. Non c’era soluzione: dovevo fare una scelta. M’inginocchiai davanti al quadro della Madonna, iniziai a pregare… Magari la Fede mi avrebbe aiutata.
M’alzai. Maria avrebbe vegliato su di loro, e su di me, ne ero certa. Strappai le lenzuola dal letto e le spiegai, annodai gli angoli tra di loro. Maria avrebbe fatto in modo che nessuno soffrisse. Strinsi il nodo. Guardai attraverso la finestra, il Sole sorgeva, ma era ancora buio, la strada era sgombra.
“Santa Monica, Santa Perpetua, proteggete mia madre, vi prego!” Girai la manopola della finestra, una folata di vento freddo m’ investì. Legai l’estremità della coperta alla maniglia, strinsi il nodo. Salii sul davanzale. Guardai giù. I sanpietrini si muovevano in tondo, parevano impazziti. Mi aggrappai al panno e scivolai giù. La pelle delle dita e dei palmi ardeva e si scorticava, ma non volevo mollare. Stringevo le cosce sulla coperta, poi sentii il vuoto sotto di me. Saltai, la mia tonaca fu portata su dal vento, era piena di aria. Le mani e le ginocchia impattarono con il selciato ghiaioso, mi graffiai. Mi rialzai, guardai in alto. Un chiarore giallo preannunciava il sorgere del sole. Era quasi giorno. Dovevo muovermi a fuggire dalla città, non avevo molto tempo. Dovevo arrivare in monastero entro qualche ora o mi avrebbero trovata. Un gatto grigio che attanagliava un roditore s’infilò in un pertugio sul muro dell’edificio di fronte. Magari lo portava dalla sua famiglia. Strinsi la manica tra le dita. Lo sapevo, mia madre e Lucia sarebbero morte per colpa mia. Una lacrima tiepida scivolò a terra, mi feci il segno della croce e sospirai.
 
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view post Posted on 30/3/2021, 17:28
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"Ecate, figlia mia..."

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Eccomi qui. Ci provo.
Spero di aver preso tutti e tre i temi, non so se li considererete tali.


Mordimi

Si portò l’indice alla bocca. Shame smise di parlare.
Con la mano sfilò la Glock dalla fondina.
Appoggiò la schiena al muro e avanzò con passo leggero.
Raccolse un barattolo di fagioli in scatola e lo fece rotolare nell’altra stanza.
Nessun rumore. Non era uno di loro. Trattenne il fiato e si affacciò alla porta.
«Bu!»
Dick chiuse gli occhi e bestemmiò.
«Stavo per ammazzarti!»
«E avresti riparato al danno?» Marie gli accarezzò la guancia.
Dick sbuffò. Fece scivolare l’arma nella fondina «Hai trovato qualcosa?»
«C’è un gruppo non troppo distante da qui. Quattro Dormienti e un Perduto.»
Dick si grattò il mento. La barba solleticò i polpastrelli.
Annuì. «Andiamo.»
Distribuii i tre bastoni appoggiati al muro e le tre corde di canapa.
Uscirono dall’officina a passi decisi. Passarono attraverso le auto ferme sulla carreggiata. Una radice aveva aperto uno squarcio sull’asfalto; Shame inciampò. Dick lo afferrò prima che potesse cadere.
Marie si aprì un altro bottone della camicia; il sole cominciava a darle fastidio.
Si accovacciarono dietro una Ford. Con un cenno della testa indicò un cinema poco più avanti.
A piccoli passi proseguirono verso l’ingresso. Dick afferrò Marie per un braccio, trascinandola dietro di lui. Lanciò un’occhiata all’interno. La hall era deserta.
Marie indicò tre volte la porta tagliafuoco che conduceva alla sala cinematografica.
Dick prese un respiro e tirò la maniglia.
Una mano viscida cercò di braccarlo.
Afferrò il braccio e lo trascinò a sé. Il corpo volò oltre la porta.
«Prendetelo!» Dick piantò il bastone sul petto del non-morto.
Shame lo guardò senza muoversi. «Lo fai tu?»
Dick sospirò. «Sì, tienilo fermo.»
Shame lo afferrò da dietro. Marie cercò di afferrargli la testa. I denti sfiorarono le sue dita.
Lo prese per un ciuffo di capelli e tirò la testa indietro.
«Ora!»
Dick tenne d’occhio entrambe le porte. Tolse il bastone dal petto. Fece tre respiri profondi e morsicò il collo del Dormiente con forza.
Gli occhi spenti si accesero, riportando alla luce iride e pupille. Shame mollò la presa.
Dick sputò a terra. Trattenne i conati di vomito e cercò di alzarsi.
Il volto bianco del non-morto si scurì. Aprì e chiuse la bocca. Spalancò gli occhi.
«Cosa sta succedendo?» Aveva le mani sporche e spellate; i vestiti insanguinati. Ansimò.
Shame gli si parò davanti. «Bevi.» Gli passò una borraccia d’acqua.
«Chi siete?» Fece una smorfia e si portò una mano al collo. «Dove siamo?»
Dick gli prese la borraccia dalle mani. «Riposa.» Bevve un sorso e la passò a Shame.
Aprì la porta e la bloccò. Un Dormiente era a metà della stanza; altri due vagavano vicino al proiettore accompagnati da un Perduto; Dick deglutì, due erano enormi.
Avanzarono accovacciati fino alle prime file di sedili. Si stesero a terra e strisciarono verso il non-morto. Marie e Shame da un lato, Dick da quello opposto.
Dondolava braccia e busto a destra e a sinistra rimanendo sul posto, postandosi solo di pochi centimetri.
Marie e Shame lo raggiunsero alle spalle. Dick passò dalla fila anteriore.
Alzò la mano con tre dita in mostra. Due dita. Una. Pugno chiuso.
Shame si alzò e lo afferrò alle spalle, bloccandogli le braccia. Marie gli bloccò la testa. Dick scavalcò i sedili e lo morse al collo. Strinse con decisione, affondando i denti nella carne.
Dalla penombra riuscì a intravedere soltanto il Perduto. Stava correndo verso di loro e ruggiva come un animale.
La pelle che stava mordendo si staccò; se la ritrovò in gola. Cercò di vomitare. Sputò solo qualche pezzo di carne morta. Si piegò su se stesso e con due dita riprovò a rigurgitare.
«Dick! Arrivano.» La voce di Marie venne seguita da un colpo di Glock.
Si sollevò in piedi.
Il Perduto giaceva a terra con il cranio bucato; il sangue sgorgava dalla ferita.
Marie tenne i non-morti a distanza di sicurezza con il bastone. Shame era fermo dietro di lei.
«Shame, aiutala!» Dick venne strattonato. Una signora sulla cinquantina si teneva il collo con l’altra mano e urlava di dolore. Del sangue rosso vivo colò passando tra le dita.
Dick si liberò dalla presa e si alzò di scatto. Prese il pezzo di corda col nodo e lo lanciò al collo del non-morto più minuto.
«È ferita. Vai dalla vecchia, qui ci pensiamo noi.»
Tirò la corda. Il Dormiente venne trascinato di qualche metro e cadde a terra.
Marie colpì allo stomaco l’altro, allontanandolo di qualche passo.
«Vai. Prima che muoia di nuovo. C’è Shame con me.»
Marie diede un altro colpo e si allontanò tra le fila di sedili.
«Shame!» Dick legò la corda ai piedi del sedile. «Shame!»
Il Dormiente si avvicinò. Il bastone in mano a Shame tremò con lui.
La sua bocca si spalancò ma non disse nulla. Lo colpì sulla spalla. Il bastone si spezzò. Shame si coprì il volto con le braccia.
Razza di codardo!
Dick avanzò impugnando il proprio bastone. Il non-morto a terra lo afferrò per la caviglia, interrompendo la corsa.
Stese le mani in avanti per non sbattere la faccia.
Merda!
Tirò il piede a sé, senza riuscire a liberarsi. Shame urlò.
Marie conficcò il bastone sulla mano del non-morto che lo tratteneva; Dick si sollevò da terra e si lanciò sul Dormiente. Era più alto di lui, con spalle troppo larghe per poterlo tenere fermo con le braccia.
«Vai! Ora!»
«Devo…» Shame rimase bloccato. «Devo farlo io?»
«Muoviti!»
Shame chiuse gli occhi e si avvicinò.
«Tieni gli occhi aperti, idiota!» Shame deglutì.
Il non-morto si voltò di scatto. Dick precipitò sui sedili in pvc.
L’urlo lo gelò. «Shame!»
Il Dormiente lo stava mordendo. Dick gli montò sopra la schiena e replicò il gesto.
Era la pelle più dura che avesse mai sentito. Non riusciva a penetrarla e scendere in profondità. Maledì tutti i culturisti. Quel collo era grande quanto la sua testa.
Lo morse in più punti, finché non trovò un pezzo di pelle morbido. Affondò i denti e li sentì penetrare nella carne.
Il corpo sotto di lui frenò la sua furia e cadde sopra il suo compagno.
Marie era piegata sulle ginocchia, con una mano sullo stomaco e l’altra davanti alla bocca. Al suo fianco c’era un ragazzo spaesato, con una corda legata al collo e il volto pallido, seppur umano.
Dal collo di Shame continuava a sgorgare del sangue rosso e denso.
Dick cercò di sollevare il corpo del culturista; era troppo pesante. Emetteva dei gorgoglii striduli. La pelle cadaverica riprese un colore più umano.
«Signore. Si alzi.»
Gli occhi di Shame si spalancarono. Dick si bloccò.
No! Dannazione!
Lo Shame zombie morse il culturista ancora stordito e disorientato.
«Marie!» Dick fece un gesto col braccio. «Porta una corda.»
Il culturista prese a pugni Shame zombie sul volto, spaccandogli il naso. Dick vide dei denti volare fuori dalla bocca.
«Fermati!» Cavalcò di nuovo il culturista. Cercò di fermalo ma la forza non bastò. Marie legò la corda attorno al collo dell’uomo.
«No, non è per lui.»
Il culturista calmò la sua furia e cadde ancora una volta sopra Shame.
La pelle stava tornando giallastra. Dick Sbuffò; aveva ancora in bocca il sapore della sua pelle morta.
«Quando si risveglia lo lascio alzare. Tu occupati di Shame. Pensi di farcela?» La ragazza annuì.
Il bicipite del culturista schiacciava la faccia di Shame, che emetteva gemiti e suoni molesti.
«Ci siamo!» Il corpo sotto di lui si mosse.
Si strinse con forza attorno alle spalle. In un istante fu sollevato da terra, perse la presa per un istante.
Marie infilò il cappio alla testa di Shame e tirò.
Dick affondò i denti nel punto in cui la ferita era aperta. Un colpo da sparo lo fece trasalire. Un altro colpo e un altro ancora seguirono il primo.
Dick mollò la presa e alzò lo sguardo.
«Mostro!» Un ragazzino con un cappio di canapa attorno al collo impugnava una Glock. La fondina di Marie era vuota.
«Fermati, idiota!» Dick si lasciò andare, riparandosi dietro il culturista.
Marie tirò Shame con una mano e colpì col gomito il ragazzino.
Il culturista camminava verso di lei con le braccia distese e le mani aperte. Le sue urla sparirono in un lampo. Gli occhi tornarono vispi. Cadde sulle ginocchia, portandosi le mani al petto.
Si risvegliò. Sputò sangue e urlò.
Shame zombie si allungò verso di lui. Marie strattonò la corda e allungò un braccio verso Dick. «No. Aspetta!»
«È troppo tardi, Marie.» Dick puntò l’arma verso il culturista. «Quell’idiota l’ha già ammazzato.»
«Possiamo portare anche lui.» Zombie Shame si spinse in avanti, spalancando la bocca sdentata. Marie si attorcigliò la corda attorno alla mano e tirò.
Il culturista si schiantò a terra e morì.
«Non possiamo!» Dick armò il cane e sparò un colpo alla nuca.
Dagli occhi di Marie sgorgarono delle lacrime. Prese il bastone e colpì il ragazzo con forza.
Dick le bloccò il braccio. «Dammi Shame. Lo porto io. Come sta la vecchia?»
Si slegò il nodo dalla mano e passò la corda tesa all’amico.
«Dobbiamo portarla da Martin, ma sta bene.»

All’officina abbandonata radunarono il gruppo. Fecero salire tutti sul cassone del camion. Dick salì per ultimo, tenendo Shame in disparte.
Marie guidò fino all’accampamento. L’allergia le fece colare il naso.
Del fumo nero anticipò la vista del cancello.
«Che cazzo è successo?» Sollevò il piede dall’acceleratore.
Si avvicinarono a passo d’uomo. La torre di guardia era deserta e inclinata in avanti.
Il cancello disteso a terra, era piegato e spaccato in più parti. Ci passarono sopra con le ruote. Le sospensioni attutirono i rimbalzi.
Jake agitò le braccia. «Ci hanno attaccato!»
Marie scosse la testa, indicandosi l’orecchio con l’indice.
Jake si avvicinò e aprì lo sportello.
«I Predatori! Ci hanno attaccato.»
«Cos’hanno portato via questa volta?» Marie scese dal camion con un balzo.
Il volto di Jake si accartocciò. «Hanno…»
«No!» Dick corse verso di loro, trascinando con forza Shame. Il suo volto strisciò sull’asfalto.
«Dov’è Laurie? I ragazzi stanno bene?»
Il vecchio iniziò a piangere. Scosse la testa.
«Mi dispiace. Hanno detto…» Singhiozzò. «Che così avresti capito.»
Dick urlò. Colpì lo sportello con tutta la sua forza. La mano diventò violacea. Si portò le mani al volto e urlò.
Zombie Shame strisciò verso di lui.
«Oddio! È Shane!»
«Sì» Marie si asciugò una lacrima. «Dobbiamo portarlo da Martin. Non possiamo trasformarlo così.»
«È in ospedale, sta curando i feriti.» Jake si asciugò il moccio con le dita.
Dick lasciò la corda e si allontanò.
Jake allargò le braccia. «Dove sta andando?»
Marie afferrò la corda e colpì Shame. «A farsi ammazzare. Dobbiamo seguirlo.»

***

I capelli di Dick cavalcavano il vento. Gli occhiali riflettevano i raggi del sole.
La strada era piena di aghi di pino. Gli pneumatici della moto li alzavano da terra, sparandoli a lato della carreggiata.
Prese una curva in derapata, calcolando male i tempi della frenata. La moto uscì di strada e si rovesciò. Scivolò sul fianco.
Aprì gli occhi e si toccò la testa. Sangue.
Il sole si era abbassato; l’afa era diminuita.
Per fortuna nessuno zombie si è fatto un picnic mentre dormivo.
Tastò il terreno un paio di volte. Raccolse da terra lo zaino e se lo ripose in spalla.
Raddrizzò la moto e ripartì.
La croce sul campanile si fece spazio tra i pini. Sterzò il manubrio e parcheggiò la moto a lato della strada. Proseguì a piedi passando per il boschetto.
Davanti alla basilica l’uomo di ronda impugnava un Remington semiautomatico.
Dick strisciò a terra. La tuta scura l’aiutò a mimetizzarsi tra i cespugli. Si avvicinò a pochi metri di distanza. L’uomo gli diede le spalle per accendersi una sigaretta. Lo accoltellò alla schiena e lo finì conficcando la lama nella nuca.
Appoggiò lo zaino a terra e l’aprì. Prese un fumogeno e due granate, mettendoli nella tasca interna della giacca. Si caricò l’M4 sulla spalla. Prese la Glock dalla fondina e la caricò. Nascose lo zaino tra i cespugli. una folata di vento trascinò via le foglie.
Afferrò il cancello e spinse. Era aperto. Salì gli scalini che portavano all’ingresso.
Ripose la Glock nella fondina e prese una granata. Impugnò la maniglia del portone e spinse con forza. Le giunture cigolarono. Un forte odore di sigari gli riempì le narici.
«Non smontavi alle otto?»
Tre predatori vicino l’ingresso si girarono. Uno di loro si avvicinò al portone.
Dick tolse la spoletta e lanciò la granata all’interno.
«Granata!»
La osservarono passare sopra le loro teste. Uno la indicò con il braccio.
In fondo alla navata centrale, cinque uomini seduti attorno a un tavolo fuggirono spaventati verso la sagrestia. L’esplosione li fece volare indietro. Due colonne della navata destra si spezzarono, una cadde sopra due uomini. Il capitello ne colpì un terzo. Il mosaico a sfondo dorato calò su di loro come pezzi di grandine.
Due uomini si ripararono dietro le panche e spararono senza sosta verso l’ingresso, alternandosi per dare tempo all’altro di ricaricare gli Uzi.
Il tintinnio ai loro piedi venne coperto dagli spari. La seconda granata scoppiò sotto di loro.
Dick lanciò il fumogeno ed entrò.
Attraversò la navata impugnando l’M4.
«Dove sei, Reagan?»
L’uomo rannicchiato vicino all’acquasantiera si alzò in piedi e sparò.
«Io sono Reagan!»
Dick si lanciò dietro le panche ancora intatte.
Un predatore sparò da dietro l’altare. «Io sono Reagan! Siamo tutti Reagan!»
«Finitela con ‘sta stronzata. Datemi il vostro capo.»
Una porta di legno cigolò.
«Dick.» Reagan si affacciò dalla porta. «Se avessi rispettato le regole, Laurie, Bart e… Come si chiamava? Judith?»
«Julie! Si chiamava Julie. Bastardo!»
«L’hai ritrasformata? Ah, già…» Rise. L’eco rimbombò per tutta la navata.
Una raffica di spari stese il predatore all’ingresso.
«Siamo qui, amico!» La voce di Shame echeggiò nelle sue orecchie.
L’uomo dietro l’altare sparò di nuovo.
Shame si lanciò a terra. Dick sparò verso Reagan.
La porta della sagrestia si spalancò. Marie sparò al predatore nascosto dietro l’altare.
«Dobbiamo andarcene! Questo casino ha attirato una mandria, non possiamo trasformarli tutti.»
Dick si sollevò da terra e corse verso Reagan. La porta di legno era serrata. Al terzo calcio si spalancò. Una scalinata a chiocciola si presentò d’innanzi a lui. Salì i gradini due a due, impugnando la Glock.
La frenesia della scalata gli diede un giramento di testa e un leggero senso di nausea. Spinse la porta con la mano. Reagan gli afferrò il braccio e lo trascinò dentro.
«Sei venuto a uccidermi come un vigliacco?»
Reagan raccolse la Glock e l’M4, finiti a terra dopo il capitombolo.
Rise e chiuse la porta a chiave. La risata echeggiò fuori dagli archi della cella campanaria.
Il battito di Dick si fece sempre più forte. Le gocce di sudore gli colarono sulle labbra.
«Non guardarmi così. Non voglio ucciderti.» Si avvicinò a un arco e buttò le armi giù dal campanile.
«Che gusto ci sarebbe?»
Dick si tastò la giacca. Non aveva con sé nient’altro. Si sollevò da terra e serrò i pugni.
«Fammi un sorriso. Uno solo!» Reagan si appoggiò al batacchio della campana.
Dick avanzò a denti stretti. I primi due pugni andarono a vuoto, il terzo lo colpì alla mandibola.
Reagan sputò a terra una colata di sangue. «Così, più forte!»
Avanzò a passo lento verso Dick, imitando i gesti di un pugile.
La maniglia della porta girò a vuoto.
«Dick! Dick!» La voce di Marie accompagnò i colpi alla porta.
Si precipitò per aprire. Reagan lo calciò al calcagno. Rotolò fino alla porta; si sollevò in ginocchio e aprì.
«Dick! Giochi sporco.»
Dall’interno della giacca Reagan sfilò una Beretta e la puntò verso le scale. La porta si spalancò. Shame cadde in avanti. Marie entrò nella cella cercando di trattenerlo in piedi. Reagan la colpì al volto con un proiettile calibro 9.
Gli occhi di Dick diventarono due palle da biliardo. Gli schizzi di sangue gli dipinsero il viso.
Si sollevò da terra. Il suo sguardo incontrò quello di Reagan. Digrignò i denti e strinse le mani a pugno. Gli si avvicinò a passi lunghi. Reagan indietreggiò, parandosi con la mano con cui impugnava l’arma. Sbatté la testa contro la campana, la botta lo rintronò. Dick si avventò su di lui, buttandolo a terra. Lo colpì con una serie di pugni al viso. Gli prese la testa e la sbatté contro uno spigolo di mattoni. Lo sentì gemere. Il suo battito sparì. Dick continuò a colpirlo.
«Stanno arrivando!» Shame trascinò il corpo di Marie all’interno e chiuse la porta. «Non reggerà.»
Dick si sollevò da terra; il suo viso era ricoperto di schizzi di sangue.
Si inginocchiò davanti a Marie. Le smosse i capelli e le accarezzò il viso; era già fredda. Il buco dell’occhio sinistro le deturpava il viso.
La porta tremò. Gemiti e grida disumane arrivarono dalle scale.
Shame ansimò. «Non ne usciremo vivi.»
Reagan si alzò in piedi. Con gli occhi senza pupille sembrò guardare verso di loro. Un grugnito anomalo uscì dalla sua bocca.
«Dammi un’arma.» Dick allungò una mano verso Shame.
La porta tremò di nuovo.
Portò la mano alla schiena. La porta si spalancò. Un gruppo di non-morti e già-morti penetrò nella cella. indietreggiò di qualche passo.
«Shame! Non fare il codardo!»
Dick calciò zombie Reagan sullo stomaco.
«Vuoi che smetta di chiamarti così? Dimostrami di meritarlo.»
Shame corse verso l’angolo più lontano della cella e stese il braccio verso un Dormiente. La mano con la Glock vibrò come una campana.
«No! Ogni vita è preziosa!» Dick spinse zombie Reagan a terra, pensando che quella fosse l’unica vita che non valesse la pena salvare.
Un colpo di Glock rimbombò nelle orecchie.
Un Dormiente colpito alla testa cadde a terra, calpestato dal gruppo dietro di lui.
Due proiettili bucarono una camicia e penetrarono nella carne, senza frenare la corsa del Perduto.
«Shame!» Dick calciò allo stomaco un non-morto che cadde indietro, travolgendone altri tre «Fermati!»
Shame urlò. Sparò in avanti senza mirare. Un gruppo si avvicinò, rallentato solo dai proiettili conficcati nella carne morta. Uno lo morse alla mano. La Glock precipitò ai suoi piedi. Denti marci si conficcarono sulla sua spalla.
Dick si riempì d’aria i polmoni. Shame urlò di nuovo.
Tre zombie si avvicinarono. Alle sue spalle Reagan camminava con le braccia distese e la bava alla bocca. Sembrava ridere anche da morto.
Lo scaraventò a terra e gli montò sopra. Con l’avambraccio gli bloccò il mento a terra. Frugò all’interno della giacca; la fondina era vuota. Nella tasca trovò un tirapugni in ferro. Infilò le dita nei buchi e lo testò sul volto di Reagan. L’osso del naso si spezzò. I grugniti alle sue spalle si fecero sempre più vicini. Si alzò facendosi forza con le ginocchia e colpì uno di loro con la sua nuova arma. Si fece strada dilaniando la loro carne.
Scivolò sopra qualcosa di rigido. Si aggrappò a un Perduto per non cadere. Con l’altra mano lo colpì. La Beretta di Reagan passò dalla suola delle sue scarpe a quelle del già-morto.
Con un doppio pugno allontanò quello che gli era sopra. Raccolse l’arma da terra e la puntò sui suoi assalitori. La canna era perfettamente in linea con la testa di uno di loro.
L’indice si spostò verso il grilletto; lo sfiorò appena, sentendo il contatto col polpastrello. Sparò alla nuca dei due Perduti.
Buttò fuori tutta l’aria dai polmoni. Spostò la Beretta nell’altra mano e colpì un Dormiente col tirapugni. I già-morti su Shame si alzarono, avanzando verso di lui. Erano sporchi di sangue dalla mascella in giù. Dietro di loro il corpo tumefatto e insanguinato di Shame li seguiva. La testa era stata risparmiata, sembrò il solito Shame, se non per le pupille rivolte verso l’alto e la bava alla bocca.
Dick si liberò dei tre già-morti con tre colpi secchi alla testa. Avanzò con lunghe falcate e colpì Shame al ginocchio con un calcio. Si tolse la giacca e la legò al collo dell’amico. Strinse forte il nodo e legò una manica al batacchio della campana. Zombie Shame cercò di afferrarlo. Lo schivò spostandosi di lato. Una fitta pungente lo colpì alle caviglie. Un Dormiente disteso a terra aveva i denti conficcati su di lui.
Non riuscì a tirare a sé la gamba. Lo colpì alla nuca con un pugno.
Morse più forte. Lo colpì sulla guancia col tirapugni; la mandibola lasciò la presa; cinque denti caddero a terra.
La vista si annebbiò. Chiuse gli occhi solo un attimo. Li riaprì e colpì con violenza un non-morto davanti a lui. O era un già-morto? Un altro colpo, con una cattiveria che non gli apparteneva. Si bloccò. Inspirando ed espirando.
Il dolore alla caviglia ricominciò a farsi sentire.
Un non-morto con i capelli biondi si avvicinò. Marie era ancora viva.
Dick si sfilò la t-shirt, la arrotolò su se stessa per formare una corda. Si abbassò sulle ginocchia per sfuggire a Marie, schivandone la presa. Le legò la t-shirt al collo e si sfilò la cintura. La passò tra il collo e la maglietta nera; diede uno strattone; il nodo non cedette e Marie venne trascinata indietro. Strinse la cintura alla gamba di Shame. Spero siate ancora qui al mio ritorno.
I jeans erano strappati da metà coscia; il sangue colava sopra le ossa e la pelle scarnificata.
Mi sa che non potrai più venire con noi.
Con una gomitata sullo sterno allontanò un Dormiente. Tossì, piegandosi in avanti. Lasciò una chiazza di sangue sul pavimento di legno. Dalla bocca fuoriuscì della bava bianca.
I già-morti lo circondarono. Avevano le budella di fuori. Non erano più da considerare umani, con la pelle in fase avanzata di decomposizione. Uno aveva soltanto metà faccia spaccata e scarnificata, ma Martin l’avrebbe considerato un Dormiente.
La vista si annebbiò di nuovo. Le sagome dei già-morti si avvicinarono.
Scambiò di mano la Beretta, armò il cane e la puntò in avanti. Dalla sua bocca uscì un ringhio. Scosse la testa.
Non ho più molto tempo.
Sparò alla testa della sagoma di fronte a lui; cadde a terra.
La nebbia sparì. Sparò altri cinque colpi, nessuno a vuoto. I già-morti erano stesi a terra, ricoperti di sangue fresco e secco.
Cibo!
Scosse la testa.
Il Dormiente camminò verso di lui. Dondolava il suo corpo bianco cadaverico, mordendo l’aria.
Gli tirò indietro la testa e lo morse. Non ringhiò più.
Mi dispiace, farà male.
Sollevò il mento. «Mordimi!»
L’uomo urlò. Si toccò il petto e sputò sangue rosso acceso.
Dick gli aprì la giacca. Merda! La t-shirt era bucata al centro dello sterno e all’altezza dello stomaco. Il cerchietto bruciato era ricoperto di rosso scuro.
Appoggiò la canna alla tempia, deglutì e sparò.
A Shame era stata scarnificata una gamba e il braccio opposto. Martin l’avrebbe potuto salvare. Le condizioni di Marie erano peggiori. Una pallottola era conficcata nell’occhio. E poi…
C’era Reagan.
Carne!
Si schiaffeggiò la faccia a mano aperta. Il ferro del tirapugni schiacciò la guancia sui denti.
Sputò sangue.
Laurie gli sorrise nella mente. Bart e Julie giocavano ai non-morti. Non era più un gioco ormai.
Ringhiò. In parte per il sangue corrotto, in parte per rabbia.
L’indice tamburellò sul grilletto senza toccarlo. Scosse la testa. Chiuse gli occhi ed espirò.
Focalizzò Reagan nella sua mente.
L’avresti vinta anche da morto!
Strinse la mani a pugno. Le unghie tagliarono il palmo.
Mirò alle gambe. Due colpi vicino alle ginocchia di Reagan. Cadde a terra. Lo girò, tenendogli la mascella bloccata. Le dita penetrarono nelle guance.
Spalancò la bocca e addentò il collo con forza.
Strappò più carne che poté. La ingoiò. Non era putrida e maleodorante. Era buona!
Diede un altro morso, con meno cattiveria e più ingordigia. Gustò il sapore del sangue fresco che gli scendeva in gola. Masticò la carne come ai tempi dei ristoranti e dei bistrot.
Le pupille si dilatarono. Sputò, cercando di liberarsi di quello che aveva in gola.
«Svegl»iati bastardo!
La forza sulla mascella di Reagan cessò. Non sarebbe comunque servita, si stava risvegliando. Urlò.
Spero che il dolore sia insopportabile!
Gli puntò la Beretta alla tempia.
«Cibo!»
«Cosa?» Reagan lo scrutò. Gli stava a fianco come un innamorato, con parte del suo corpo su di lui e una gamba sopra il petto.
«Mordimi!» Dick aveva tenuto da parte un soffio di voce.
Reagan rise.
«Mi hai ammazzato. Fa…» Si portò la mano libera al collo. «Male.»
«E ti am»mazzo di nuovo!
Le pupille di Dick stavano sparendo. La bocca si aprì e chiuse di scatto.
Reagan avvicinò la mano alla Beretta.
Le pupille di Dick ritornarono al loro posto. La canna dell’arma spinse sulla tempia.
«Togli il caricatore.» Reagan trattenne un urlo di dolore e sorrise.
Con le ultime forze rimaste Dick lo sganciò.
«C’è. Colpo. Canna.»
«Sì. E lo disperderai quando ti avrò morso.»
Dick annuì.
Credici!
Reagan impugnò la canna della Beretta, spingendola sulla propria tempia.
Dick si sollevò per farsi mordere il collo. Sentì i denti su di lui; non provò dolore, ma rabbia.
L’indice calò sul grilletto. Reagan sollevò la mano di scatto. Dick sparò. Il proiettile colpì la campana che risuonò come l’avvio di un ring.
Si rotolarono, avvinghiati l’uno all’altro.
Cibo! Uccidere! Sparare!
Un rantolo affaticato uscì dalla gola di Dick.
I proiettili nelle ginocchia di Reagan punsero come punte di lance. Strisciò via, portandosi con sé il caricatore.
Le due sagome sopra Dick presero forma. Marie e Shame avevano le braccia distese; l’apri e chiudi delle mandibole faceva schizzare bava ovunque.
Aprì la mano e distese le dita. La chiuse a pugno e la riaprì. Fece lo stesso con l’altra. La sensibilità del suo corpo stava tornando. Potè percepire il freddo della cella campanaria.
«Ci rivedremo, Dick!» Reagan rise dal cortile della chiesa. Uscì dal cancello, trascinandosi una gamba dopo l’altra.
Dick lo osservò dall’arco del campanile.
Puoi scommetterci. E non ti piacerà!
 
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view post Posted on 30/3/2021, 19:08

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Pronti!
Eccomi a riprovarci con il mio testo di 23mila e rotti caratteri.

LA VOCE DELLE FOGLIE

Donnie fissò il suo sguardo di indifferenza negli occhi del vecchio, e il vecchio ricambiò.
Il vento si andava rinforzando, foglie secche turbinavano intorno ai polpacci nudi di Donnie e gli pungevano la pelle, ma lui non se ne curò e riprese a scavare. Un brontolio familiare, simile a uno sbuffo, gli arrivò da dietro, ma ignorò anche quello. Continuò ad affondare la pala nel terreno umido, a ripetere il gesto con sempre maggiore veemenza, per un tempo che parve rallentare fino a fermarsi del tutto. Gli fischiavano le orecchie. Appena ebbe finito, scagliò via l’attrezzo, si arrampicò oltre il bordo della fossa e si fermò a scrutare in ogni direzione il vuoto pezzo di terra nel quale si trovava. Era solo.
Di nuovo lo sbuffo contrariato alle sue spalle. Donnie si voltò. «Va tutto bene, Jack. È solo il vento. Calmati, bello.»
Ma Donnie comprendeva lo stato d’animo del suo cavallo. Doveva sbrigarsi a tirare giù dal carro quell’ultima cassa, o Jack l’avrebbe abbandonato lì in compagnia di un morto che non voleva restare morto.
Devi imparare ad avere più rispetto per quello che fai, amico.
«Non è il momento, Billy» disse Donnie alla voce di bambino che gli parlava nella testa. «Lasciami in pace.»
Non è colpa mia se vedi quello che vedi.
Donnie sospirò. Billy aveva ragione, vedeva delle cose e nessuno poteva farci niente. Mestamente, scrollò via il fango dalle scarpe, raccolse la pala e la conficcò nel terreno. Quindi scaricò a terra la cassa (non senza accertarsi prima che il coperchio fosse ben inchiodato) e la trascinò sul fondo della fossa. Dai giovani muscoli in tensione sotto la blusa pulsavano lampi di dolore, un formicolio persistente si riverberava fino ai palmi delle mani. Dodici anime aveva consegnato alla terra in un solo pomeriggio, e ciascuna di esse gli stava presentando il conto.
Donnie si domandò se era questo che suo padre voleva davvero, quando saltava sulla sedia a ogni offerta di lavoro pesante e ben pagato per quel suo possente figliolo. «Prestami quel portento di ragazzino» gli dicevano, «e ti do un extra se finisce prima del previsto». Era stata gente di parola, per la maggior parte. Il resto, contava meno dei vermi che brulicavano a ogni colpo di pala.
«Donalbain è un nome troppo complicato per quelli come te, figliolo» gli ripeteva spesso suo padre. «Quella santa donna di tua madre è morta con quel nome sulle labbra, quando sei nato. Ma per me Donnie è perfetto. Donnie è quello che sarai d’ora in avanti, e imparerai a farti portare rispetto dalla gente, anche con quel nome.»
Donnie non aveva mai capito se prenderlo come un complimento, ma fare lo scavafosse per tutto il Territorio gli aveva fatto guadagnare, se non altro, la considerazione dei morti. «Sono un papa» disse, lasciando che il vento gli rinfrescasse il viso. «Se mai incontrerò un altro scavafosse su questa stessa terra, vorrà dire che il morto da sotterrare sarò io.»
Jack levò un nitrito basso e gutturale.
È ora di muoversi, Santità, disse Billy nella sua testa. Lo senti?
Donnie tirò su con il naso. Odore di pioggia. «Merda, hai ragione.»
Guardò il cielo pesante, poi il viottolo da cui era arrivato, poco più che un ammasso di pietruzze che il fango avrebbe inghiottito in pochi minuti. Se fosse rimasto bloccato lì, con le ruote del carro impantanate fino ai mozzi, suo padre gli avrebbe spaccato la testa in due e fatto uscire anche l’ultima eco di quella vocina indiscreta.
«Prima devo fare una cosa.»
Donnie...
«Devo, ho detto.»
Lo sai come andrà a finire.
Ma a Donnie non importava. Raccolse la pala e ricoprì l’ultima fossa, poi indugiò davanti alla bassa lapide. Si portò tre dita della mano destra sulla fronte, da lì alla bocca e infine al centro del petto. Era il segno distintivo dell’antica Chiesa degli Uomini di Gareth, di cui suo padre era stato per molti anni un importante esponente. Professava il credo del Territorio, uno spoglio altopiano al di sotto del quale si allungavano a perdita d’occhio le lussureggianti colline dell’Enclave Elfica. Laggiù erano soliti seppellire i loro morti nei tronchi cavi degli alberi più vecchi, perché con le piante vivevano una sorta di simbiosi; agli uomini di Gareth, invece, non era rimasta che una nuda terra da riempire e nutrire con i metodi antichi. E a Donnie, in fondo, andava bene così.
Saltò sul carro per riprendere la strada di casa, accolto da un nitrito vivace di Jack, e si voltò a guardare un’ultima volta il campo che si accingeva a lasciare. Una piccola folla di spiriti lo fissava imperturbabile, chi seduto sulla propria lapide, chi in piedi con un moschetto tra le mani o appoggiato a esso a mo’ di bastone, chi semplicemente a braccia conserte. Donnie sapeva che non si sarebbe mai abituato a tutto quello. Percorse lo stretto viottolo in una sorta di parata silenziosa, dondolando sul sedile e ricambiando gli sguardi vuoti di uomini e donne di ogni età ed estrazione. Pensò ai loro corpi, a come si stessero consumando in quella terra arida, alcuni soltanto da giorni, altri probabilmente da prima che lui nascesse. Si abbandonò a un lungo e misurato sospiro, stringendo le redini fino a farsi diventare le mani esangui, pronto a rispondere a uno scarto improvviso da parte di Jack, o a qualunque altro segnale che gli comunicasse che il povero animale stava per cedere al panico.
«I cavalli sanno essere più espressivi degli esseri umani» era stato un altro degli insegnamenti di suo padre. Subito dopo aver pronunciato quelle parole, gli aveva mostrato gli impercettibili movimenti delle orecchie del suo Jack, quei piccoli scatti avanti e indietro che sembravano del tutto involontari. «Lo fa perché è nervoso, non ti conosce ancora» gli aveva detto. «Adesso calmalo.»
E Donnie aveva imparato a calmarlo. Ora, in quella passerella all’inferno, era come se entrambi sapessero di poter contare solamente l’uno sull’altro.
La pioggia iniziò a picchiettare le braccia di Donnie come una miriade di minuscoli strali roventi. Il ragazzo si massaggiò la pelle, scoprendola gelata.
Una donna con un bambino in fasce emerse da dietro un cespuglio, tagliò loro la strada e si dissolse in un fruscio di foglie secche dall’altro lato del viottolo. Jack levò un nitrito lungo e dolente e per un attimo Donnie temette il peggio. «Sono qui, amico mio. Sono qui con te.»
Ha paura.
«Lo so.»
Tu no?
«Non me lo posso permettere. Devo prima fare una cosa.»
La pioggia iniziò ad appesantire il terreno, fagocitando le anime e disperdendole in un velo d’acqua che diventava sempre più spesso. Donnie fletté i muscoli e sporse la testa in avanti, come la polena minacciosa su un vascello da guerra in mezzo alla tempesta.
Non farlo, disse la vocina dentro la sua testa.

***

«Vedi di non dirlo a nessuno» disse Donnie, tossicchiando e sputacchiando ai piedi di Billy pezzetti di roba marrone.
Billy era rimasto a fissare l’amico intento ad arrotolare un pezzo di carta e a infilarvi dentro qualcosa che assomigliava a ciuffi d’erba scura, ma quando l’aveva visto accendere un fiammifero e portarsi la sigaretta alla bocca, aveva sgranato gli occhi.
Si erano nascosti nel loro posto segreto, un muro senza spigoli che aveva sentito fantasie di ogni tipo, nelle quali Donnie e Billy entravano nell’Enclave Elfica come eroi provenienti da un altro mondo. Era il muro perimetrale del vecchio abside della Chiesa degli Uomini, oltre il quale una striscia di terra incolta si allungava fino a diventare uno sperone roccioso che sovrastava i boschi dell’Enclave.
In lontananza, dalla parte opposta, i festeggiamenti per l’ufficialità del fidanzamento di zia Beth, sorella del padre di Donnie, giunta a Gareth dalla lontana Portomagno, arrivavano ai due ragazzi come un’accozzaglia scoordinata di suoni, grida e risate.
Billy drizzò la schiena e assunse un’aria solenne. «Sono grande anch’io, adesso, che cosa credi?»
Donnie sapeva che in un certo senso era vero; quell’anno Billy aveva compiuto dieci anni e ricevuto il suo primo cavallo, come tutti i figli maschi del Territorio raggiunta quell’età, e come lo stesso Donnie due anni prima di lui. Guardò Billy con studiata supponenza, la sigaretta stretta tra due dita. Roteò il polso con un gesto teatrale e la offrì all’amico. «Vediamolo, quanto sei grande. È tutta tua.»
Billy non se l’era aspettato. Deglutì rumorosamente, si guardò intorno e allungò la mano, esitante.
Donnie ritirò subito la sua e scoppiò a ridere. «Ma finiscila!» Strappò un mucchietto di foglie e lo lanciò in aria, incapace di trattenere le risate.
Billy si ritrasse deluso. Poi, in un lampo d’orgoglio, si tastò il fianco e ricambiò l’occhiata di scherno di Donnie. «Tanto questa ce l’ho io» disse, serrando la mano sull’elastico che gli pendeva lungo la coscia.
Donnie gli aveva sempre invidiato quella fionda. Tirò un’altra boccata e gettò via la sigaretta, disgustato. «Di’ un po’» disse in un tono cospiratorio, mentre Billy gli si sedeva accanto. «Lo sai che cosa potremmo farci, con quella?»
Billy abbassò lo sguardo sulla fionda e sfidò l’amico. «Potrei farci».
Donnie alzò gli occhi al cielo. «D’accordo... che cosa potresti farci.»
Billy era tutt’orecchi.
«L’hai sentita la storia che va raccontando il vecchio Jebediah?»
«Quello che se ne sta sempre a bere?»
«Sì, ma stavolta è tutto vero, pare. Dice che un mostro alto quanto tre uomini si è mangiato le teste delle sue pecore. Tutte! Dalla prima all’ultima.»
Billy emise un sonoro bleah! e Donnie gli tappò la bocca. «Zitto!» gli disse, guardandosi attorno. «Nessuno deve scoprirci quando andremo a cercarlo.»
«Andremo a cercare chi?»
«Mio nonno... Quel mostro! E chi, se no?»
Billy spalancò la bocca e Donnie tornò a farsi serio. «Comunque, secondo me, Jeb Vuotatazze era talmente ubriaco che ha visto un orso e l’ha scambiato per chissà cos’altro. Ma la storia delle pecore decapitate è vera, lo sanno tutti.»
«Decapitate...» ripetè Billy, perso nella sua immaginazione. Si portò una mano al collo. Donnie osservò la scena divertito, ma quel particolare si era inchiodato in testa anche a lui, quando l’aveva saputo.
All’improvviso, un grido lancinante disperse i loro pensieri. Proveniva dalla festa di zia Beth. Donnie e Billy si guardarono, e senza dirsi una parola si lanciarono in quella direzione. «Aspettami!» gridò Billy, tastandosi il fianco e rinsaldando la presa sulla sua fedele fionda.
Sul banchetto della festa sembrava essersi abbattuto un ciclone. La gente era come impazzita; correva in ogni direzione, rovesciava tavoli e si spintonava a vicenda. «Attenti!» gridava qualcuno. «Scappate!»
Un potente ruggito si levò nell’aria, ergendosi al di sopra delle grida di panico, e Donnie vide il motivo di tanto trambusto. Un enorme orso nero come la notte stava ritto sulle zampe posteriori, le fauci grondanti di sangue, sulle quali pendeva ancora un brandello di tessuto di colore bianco. Donnie abbassò lo sguardo ai piedi dell’animale e vide il corpo. Non poteva scorgerne il volto, ma riconobbe per primo il vestito. Zia Beth.
Non provò nulla. Non la vedeva da anni, per lui era poco più che una sconosciuta, ma sapeva che sarebbe stata l’ennesima mazzata per suo padre, e provò una pena infinita per lui. Chissà dov’è, adesso. Chissà se mi sta cercando.
«Donnie, aiutami!» La voce di Billy. Donnie si voltò e lo scorse tra i corpi delle persone che si avvinghiavano e si affannavano per mettersi al sicuro. Era a terra, carponi. Donnie si precipitò nella sua direzione, e un istante dopo l’orso si mosse all’inseguimento.
«Andiamo a prendere i cavalli!» gridò Donnie, aiutando Billy a rialzarsi.
«Attento!»
Donnie seguì lo sguardo atterrito di Billy e vide l’orso che avanzava a una decina di metri da loro.
Un colpo di moschetto rimbombò nell’aria. L’orso scartò di lato all’ultimo secondo, li superò e andò a ripararsi nella bassa boscaglia che divideva il Territorio dall’Enclave Elfica. Donnie mise a fuoco il volto del padre dietro il moschetto fumante. Vide che aveva ancora gli occhi arrossati dal pianto.
«Prendi il ragazzo con te e tornatevene a casa.»
«Papà...» disse Donnie con voce tremante, indicando ciò che restava di zia Beth.
«Lo so» rispose suo padre, senza voltarsi. Poi se ne andò.
I ragazzi recuperarono i cavalli nel silenzio più totale. Donnie montò Jack e tese la mano all’amico, ma Billy insistette per montare il suo Apollo. ‘Puoi nascere cowboy in una famiglia di cowboy’, pensò Donnie, rievocando una vecchia frase di suo padre, di cui solo ora si rese conto di aver compreso il significato. ‘Possedere un cavallo tuo non è solo cavalcare fuori dal nido: dice agli altri chi diventerai’.
«Era quello il mostro di cui parlava quel vecchio ubriacone di Jebediah, vero?» domandò Billy.
Donnie annuì. Non lo sapeva, in realtà, ma quello che sentiva montargli dentro colmava ogni spazio lasciato, fino a un attimo prima, all’incertezza. «Andiamo a prenderlo?»
Billy fissò un punto indefinito in mezzo a loro. Prese a tastarsi il fianco, e quando ebbe trovato il suo tocco rassicurante, estrasse la fionda dai pantaloni e la sollevò davanti a sé come una reliquia del passato. «Io ho solo questa.»
Senza dire nulla, Donnie sollevò un lembo della bisaccia che teneva appesa alla sella di Jack, e ne estrasse per metà una Colt con il calcio d’osso. Cercò lo sguardo di Billy e sorrise. La sua mascella caduta era più eloquente di qualunque commento. Donnie richiuse la bisaccia e le diede un colpetto con la mano, come a volerne saggiare la tenuta. «Mio padre non ne sa niente.»
Si mossero lungo il sentiero che dal fianco della chiesa scendeva in direzione della boscaglia che cingeva l’Enclave. Era una sorta di territorio franco, anche se gli uomini, sul finire della stagione calda, ne invadevano ogni anfratto per procurarsi legna da ardere. Ma Donnie era sicuro che quel giorno non avrebbero incontrato nessuno. Conduceva Jack con espressione concentrata, le orecchie tese e lo stomaco in subbuglio per l’eccitazione. Billy lo seguiva pochi passi indietro; di tanto in tanto Donnie lo sentiva tirare su con il naso, e in più di un’occasione si ritrovò a domandarsi se stesse piangendo e non volesse darlo a vedere. Tuttavia non si sarebbe voltato per chiederglielo, perché sapeva che se l’avesse fatto avrebbe rischiato di spezzare l’incantesimo. L’imbarazzo di doversi giustificare avrebbe dissolto il coraggio che, per avere dieci anni, Billy gli stava dimostrando.
«Quella laggù è l’Enclave» disse Billy comparendogli sul lato destro, e Donnie sussultò per la sorpresa. Il ragazzino gli stava indicando una fila di alberi dal fogliame più scuro, un centinaio di metri più avanti. Una leggera foschia ne permeava i rami più bassi, e anche l’aria sembrava farsi più calda man mano che si avvicinavano.
Il sentiero iniziò a restringersi, e le fronde degli alberi a farsi sempre più basse e fitte. Donnie fece un cenno all’amico, e Billy diede ad Apollo il comando di rallentare e riportarsi al passo di Jack.
«Donnie, attento!» gridò Billy all’improvviso. Donnie ebbe appena il tempo di accorgersi del ramo che si era abbassato un metro più avanti, bloccando loro il passaggio. Digrignò i denti e tirò le redini a sé. Jack nitrì di disappunto, si sollevò appena sulle zampe posteriori e, in un unico movimento scomposto, finì con l’urtare il fianco contro il tronco di un piccolo albero accanto al quale erano appena transitati. Donnie strinse le gambe per non perdere la presa e si chinò ad accarezzare il collo dell’animale per riportarlo alla calma. Poi trasse un respiro profondo e fissò l’amico negli occhi. «Non l’ho visto... Quel cazzo di ramo prima non c’era!»
Billy inarcò le sopracciglia e si passò una mano tra i capelli. «Porca vacca!»
Donnie smontò da cavallo e accarezzò il muso di Jack. Passò intorno all’animale, si accostò a Billy e gli toccò una gamba. «Dobbiamo legare i cavalli.»
Billy saltò a terra e, imitando l’amico, allungò una mano ad accarezzare il collo di Apollo. Sembrava che gli occhi dell’animale gli stessero restituendo un’implorazione silenziosa e disperata. «No... Io Apollo non lo lascio!»
«Sanno che siamo qui» disse Donnie in tono grave, indicando il ramo che tagliava in obliquo il sentiero davanti a loro. «Mio padre mi ha raccontato delle cose, su questi boschi». Pronunciate quelle parole, Donnie compì un lento giro su se stesso. Un intreccio di foglie e rami gli scorse davanti agli occhi in un’unica chiazza del colore degli smeraldi. Più avanti, il tono di verde diventava più scuro e si confondeva nelle ombre degli alberi più alti; al di sopra di tutto, la luce del sole aveva assunto la colorazione dorata del pomeriggio inoltrato, facendo apparire nere e imperscrutabili le cime imponenti che vi si stagliavano contro.
«Allora andiamo via» disse Billy. «Io voglio tornare a casa.»
Donnie si sentì avvampare le guance. «Ma non possiamo tornare indietro adesso!»
«Lo hai detto tu che ci stanno aspettando» ribatté Billy con un filo di voce. «Non ci voglio più andare, laggiù. Non lo sappiamo nemmeno se è da lì che veniva, quel mostro. Non voglio fare la fine delle pecore di Jeb Vuotatazze, non voglio fare la fine di tua...»
Donnie rimase a guardarlo, sforzandosi di rimanere inespressivo. «Dillo.»
Billy incurvò le spalle e abbassò la testa. Stava per chiedere scusa all’amico, ma poi la rialzò di scatto. «Non voglio più stare qui e basta!». La bocca tremante e il tono stridulo annunciavano che era sul punto di piangere.
«E allora vattene!» tuonò Donnie, producendo un suono rauco che li sorprese entrambi. «Vattene! Prendi quel tuo stupido cavallo e tornatene a casa!» Avrebbe aggiunto volentieri qualcos’altro, ma poi avvertì un prurito nella gola e capì che anche la sua voce era sul punto di incrinarsi. Bello spettacolo che gli stiamo dando, pensò lanciando occhiate furtive in direzione del bosco.
Billy afferrò le redini di Apollo e lo condusse al passo per riprendere la strada di casa.
«Sei uno stronzo» sentenziò Donnie. Billy sembrò sul punto di ripensarci, ma fu solo per un attimo. Invece, affrettò il passo e scomparve nell’intrico dei cespugli.
Donnie aveva le mani doloranti, quasi esangui. Continuava a stringere i pugni, e quando rilasciò le dita, si scoprì a tremare da capo a piedi. Legò Jack a un ramo basso, non senza difficoltà, e superò lo sbarramento che lo divideva da un territorio inesplorato.

Camminava da almeno un’ora. Gli ultimi sprazzi di cielo che aveva intravisto, prima di perdersi sotto una coltre di foglie di un colore innaturale, componevano la tavolozza di tinte pastello dell’imbrunire. In poco tempo, l’aria era diventata ferma e quasi irrespirabile. Eppure, dal labirinto vegetale sopra la sua testa, Donnie sentiva provenire i fruscii tipici del vento che passa di foglia in foglia. Erano sussurri che portavano con sé i segreti di un popolo che poche volte si era manifestato al suo mondo. Il tempo di una schermaglia, di un tacito accordo, e il silenzio aveva ripreso a scrivere le pagine di una storia che gli uomini alimentavano con la falsità dei
loro miti. Ma se era vero che l’antico popolo Elfico era rimasto per secoli nascosto tra le radici dei suoi totem nella foresta, senza mai invadere il Territorio, né dare motivo di credere all’imminenza di una guerra tra le due razze, ora era l’uomo la prima creatura a varcare quella fatidica soglia. Donnie avvertì sulle spalle tutta l’insostenibilità di quel ruolo impietoso. Voleva solo vendicare la sorella di suo padre, e quello era tutto fuorché un proposito di pace.
Il fruscio divenne più forte, e Donnie ebbe la sensazione che un’unica voce scorresse tra quei canali linfatici e pronunciasse il suo nome. Respirava a fatica. Si massaggiò le gambe con vigore per scacciare il formicolio di quel torpore improvviso, ma quando rialzò la testa, si ritrovò faccia a faccia con l’orso che aveva inseguito per tutto il pomeriggio. Sentì il cuore schizzargli dalle orecchie, la pressione gli fece schioccare i timpani. Si portò la mano alla cintura, si tastò il fianco e girò su se stesso. Aveva dimenticato la pistola attaccata alla sella di Jack, in qualche angolo di un mondo a cui aveva appartenuto in passato.
L’orso caricò, sbuffando e ruggendo e mangiandosi a ogni passo ben più della semplice distanza che li divideva. Donnie si sentiva venir meno man mano che le zampe della bestia percuotevano il terreno e gli facevano tremare le gambe. Finché gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito a scappare in tempo. Lasciò che tutta l’aria defluisse dai suoi polmoni e chiuse gli occhi.
Qualcosa gli saettò al lato della testa, e un attimo dopo l’orso emise un ruggito acuto e sincopato. Donnie spalancò gli occhi e lo trovò riverso a terra, il muso fumante intriso del sangue che sgorgava da una cavità oculare. Donnie si voltò e vide Billy, la fionda ancora stretta nel braccio teso. Aveva il viso deformato per l’adrenalina.
«Scappa!» gridò Billy, e Donnie sentì la sua voce riverberarsi tra le foglie in una eco senza fine. Vide l’amico che caricava un altro proiettile e tendeva l’elastico fino allo spasimo. Vide il secondo colpo andare a vuoto, e perdersi tra le foglie come un sasso in uno stagno. Vide l’orso piombare addosso al suo amico, scaraventarlo a terra e calpestarlo e colpirlo con una ferocia inaudita. E mentre l’urlo lacerante di Billy si spezzava di netto insieme al suo collo, Donnie pensò a suo padre. Lo vide tra le foglie e nell’erba alta, il volto inzuppato del sangue del suo migliore amico, e solo allora realizzò che non aveva ancora ripreso fiato. Un gemito eruppe dalla sua bocca seguito da un fiotto di bile rovente.
Corse a perdifiato finché la notte non disperse i ruggiti dell’orso in mezzo alla voce delle foglie. Corse senza focalizzare una meta. Corse, inseguito dallo schiocco del collo di Billy che si riverberava tra gli alberi, corse mormorando i nomi degli invitati alla festa di zia Beth. Corse, mentre il filo dei suoi pensieri si perdeva nella direzione opposta e rimbalzava come il vento tra le foglie. Corse, invocando il nome di suo padre.
Non ti lascerò solo.
Non ti lascerò solo.
Io non ti lascerò solo...

***

«Dove sei?» Gridò Donnie davanti alla tomba di Billy. «Perché non ti fai vedere?»
Jack emise uno sbuffo di disapprovazione.
Le anime del campo apparivano nei loro contorni controluce, e un attimo dopo si dissolvevano in un alito di vento. La pioggia aveva incollato le foglie alla pietra e al marmo, rendendoli lucenti e viscidi.
Donnie guardò le date impresse sulla lapide e ripercorse nella mente quel giorno di quattro anni prima. Rivisse la maledizione che albergava tra quei boschi, che si era presa gioco di lui e lo aveva portato, da allora, a incrociare lo sguardo con vassalli di altre epoche, schiacciati sotto il giogo di un’eternità senza pace. Quella stessa maledizione aveva portato Billy nella sua testa, e l'aveva resa l’unica anima presente e invisibile allo stesso tempo. Donnie compiva il suo consueto giro di inumazioni e lo concludeva lì, a parlare alla lapide di un bambino, nella speranza di vederlo anche solo per un istante e chiedergli perdono. Nella speranza di trovare la sua, di pace.
Ma quella era la condanna di Donnie, il suo purgatorio personale. Billy gli parlava con la stessa voce di allora. E lo consigliava, quasi sempre per il meglio. Più di questo non poteva chiedere. Donnie gli dava ascolto a malincuore, sapendo di aver mancato al dovere di farlo nell’unico momento in cui contava davvero. Billy voleva solo tornare alla sua vita, e lui l’aveva insultato.
«Piccolo Billy» disse Donnie. Si inginocchiò e scostò le foglie secche dalla piccola lapide.
Billy non rispose.
Donnie si rialzò, si avvicinò a Jack e gli posò una mano sul muso. «Torniamo a casa, bello.»

Edited by Marco S. Di Fonzo - 30/3/2021, 21:35
 
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view post Posted on 1/4/2021, 06:42
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Custode di Ryelh
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Bene, bene. Fa piacere vedere così tanti partecipanti, soprattutto perché nuovi. Cominciate pure con i commenti e che vinca il migliore!!

P.S.: per i nuovi arrivati, andate a presentarvi nel post apposito, così potremo conoscere qualcosa su di voi. ^_^
 
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view post Posted on 1/4/2021, 17:13
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Commento di: 1492.

Prime Impressioni Ciao, piacere di leggerti. Premetto subito che questo commento è altamente personale, e dettato dalla mia (scarsa) esperienza, leggilo quindi come tale e sentiti libero di rispondere per le rime.
Ho letto il tuo racconto con piacere, intrattenuto dall'ambientazione storica. Ho un paio di suggerimenti da darti per migliorare il tuo racconto. Tutto spiegato di seguito.

Aderenza al tema. Per me è ok, la scelta che la protagonista deve affrontare alla fine ricalca bene il tema della gara. L'ambientazione ucronica c'è (la congiura dei Pazzi non ha portato all'uccisione del Magnifico), anche se un po' deboluccia (alla fine, i Medici sistemano tutto.. e la linea temporale torna a essere quella nostra.. peccato.). Il terror panico anche c'è.

Punti di Miglioramento. Il pdv in prima persona al passato (argh!) suona un pochino strano. In genere, ritengo la prima persona al passato un po' difficile, se vuoi usare il mostrato (come mi sembra di aver capito leggendo il tuo pezzo). Prova con la terza, altrimenti sa tutto di raccontone di un personaggio vecchio che ricorda la sua vita.
Hai scelto un pdv molto difficile, secondo me: una ragazza molto devota alla Chiesa, che deve convivere con una famiglia di traditori. Non ho sentito bene questo conflitto, lei mi sembra un po' troppo distante nel narrare la sua condizione così contraddittoria. Avrei preferito, visto che si tratta di una prima persona, che alla vista del padre o dei fratelli avesse avuto più sentimenti contrastanti dettati dalla devozione alla propria famiglia e allo stesso tempo alla Chiesa: questo avrebbe reso anche più naturale il finale. Insomma, il tuo pdv è un pochino da rivedere, magari prova con una terza persona, così non sei costretto ad affrontare troppo questo problema.
Il finale, comunque, mi sembra un po' scontato: lei deve scegliere se scappare o sposarsi, e semplicemente sceglie una delle due cose. So che è difficile, ma avrei preferito una terza possibilità, come ad esempio lei che si fa strada nella notte ed entra nella stanza da letto del signorotto che le impone di sposarsi, e gli gocciola del veleno nell'orecchio.
Lato narrazione, ti consiglio di rivedere il primo pezzo, quello del pranzo: tutti i dialoghi sono "as you know Bob", e di conseguenza poco verosimili e diretti più al lettore, che funzionali alla trama.

Punti di Forza L'ambientazione storica che hai scelto è certamente suggestiva. Anche le scene finali, in cui (finalmente) c'è un po' d'azione, sono rese bene. Andrei un po' a limare la prima parte del racconto in funzione di questa (anche la lettura della poesia fa contorno, ma non è funzionale alla trama), magari dedicando più spazio al conflitto interiore della protagonista alla fine: deve o non deve accettare la proposta di matrimonio? Perché non mostrarci di più la sua sofferenza e la sua indecisione, invece di dire solo che ha dormito male?

Conclusioni Non male, ma a mio avviso c'è margine di miglioramento: cerca di calarti di più nel tuo pdv e rendi i suoi pensieri e azioni più coerenti col suo background. Spero di esserti stato utile, non farti problemi a ribattere.
 
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view post Posted on 1/4/2021, 22:23

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Ciao a tutti. Mi sono reso conto di un imperdonabile errore nella stesura dalla prima alla seconda bozza, che mi ha portato, rileggendomi, a una scarsa aderenza al tema.
Chiedo pertanto di non essere considerato ai fini del punteggio finale, per rispetto degli altri partecipanti e delle regole.
Se vorrete leggermi comunque mi farà piacere, farò altrettanto con le vostre opere.
Grazie e scusate.
 
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view post Posted on 2/4/2021, 14:33

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CITAZIONE (MentisKarakorum @ 1/4/2021, 18:13) 
Commento di: 1492.

Prime Impressioni Ciao, piacere di leggerti. Premetto subito che questo commento è altamente personale, e dettato dalla mia (scarsa) esperienza, leggilo quindi come tale e sentiti libero di rispondere per le rime.
Ho letto il tuo racconto con piacere, intrattenuto dall'ambientazione storica. Ho un paio di suggerimenti da darti per migliorare il tuo racconto. Tutto spiegato di seguito.

Aderenza al tema. Per me è ok, la scelta che la protagonista deve affrontare alla fine ricalca bene il tema della gara. L'ambientazione ucronica c'è (la congiura dei Pazzi non ha portato all'uccisione del Magnifico), anche se un po' deboluccia (alla fine, i Medici sistemano tutto.. e la linea temporale torna a essere quella nostra.. peccato.). Il terror panico anche c'è.

Punti di Miglioramento. Il pdv in prima persona al passato (argh!) suona un pochino strano. In genere, ritengo la prima persona al passato un po' difficile, se vuoi usare il mostrato (come mi sembra di aver capito leggendo il tuo pezzo). Prova con la terza, altrimenti sa tutto di raccontone di un personaggio vecchio che ricorda la sua vita.
Hai scelto un pdv molto difficile, secondo me: una ragazza molto devota alla Chiesa, che deve convivere con una famiglia di traditori. Non ho sentito bene questo conflitto, lei mi sembra un po' troppo distante nel narrare la sua condizione così contraddittoria. Avrei preferito, visto che si tratta di una prima persona, che alla vista del padre o dei fratelli avesse avuto più sentimenti contrastanti dettati dalla devozione alla propria famiglia e allo stesso tempo alla Chiesa: questo avrebbe reso anche più naturale il finale. Insomma, il tuo pdv è un pochino da rivedere, magari prova con una terza persona, così non sei costretto ad affrontare troppo questo problema.
Il finale, comunque, mi sembra un po' scontato: lei deve scegliere se scappare o sposarsi, e semplicemente sceglie una delle due cose. So che è difficile, ma avrei preferito una terza possibilità, come ad esempio lei che si fa strada nella notte ed entra nella stanza da letto del signorotto che le impone di sposarsi, e gli gocciola del veleno nell'orecchio.
Lato narrazione, ti consiglio di rivedere il primo pezzo, quello del pranzo: tutti i dialoghi sono "as you know Bob", e di conseguenza poco verosimili e diretti più al lettore, che funzionali alla trama.

Punti di Forza L'ambientazione storica che hai scelto è certamente suggestiva. Anche le scene finali, in cui (finalmente) c'è un po' d'azione, sono rese bene. Andrei un po' a limare la prima parte del racconto in funzione di questa (anche la lettura della poesia fa contorno, ma non è funzionale alla trama), magari dedicando più spazio al conflitto interiore della protagonista alla fine: deve o non deve accettare la proposta di matrimonio? Perché non mostrarci di più la sua sofferenza e la sua indecisione, invece di dire solo che ha dormito male?

Conclusioni Non male, ma a mio avviso c'è margine di miglioramento: cerca di calarti di più nel tuo pdv e rendi i suoi pensieri e azioni più coerenti col suo background. Spero di esserti stato utile, non farti problemi a ribattere.

Ciao, intanto grazie per il tuo commento! Era la prima volta che partecipavo ad un contest del genere quindi mi aspettavo di fare più di qualche qualche errore. La prima persona al passato l'avevo scelta perchè pensavo aiutasse a sentire di più l'interiorità del personaggio, non l'avevo mai provata prima e quindi concordo con te sul fatto che non sia stata una scelta molto azzeccata! Per quanto riguarda il conflitto interiore, nella mia testa la protagonista era troppo buona e sottomessa al volere dei genitori per dar loro torto, quindi non viveva molto il contrasto tra la sua famiglia e la religione, però mi rendo conto di non averlo reso al meglio. >_< Comunque grazie ancora, il tuo commento mi è stato molto utile.
 
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89 replies since 28/2/2021, 21:42   2427 views
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