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Skannatoio Maggio - Giugno 2021 - POLLY RUSSELL, TESSAGLIA: OPERAZIONE M.I.S.H.A.

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view post Posted on 18/5/2021, 19:36

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Ciao, White Pretorian, grazie.
 
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view post Posted on 23/5/2021, 14:09

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I lupi sono tornati, di Andrea Furlan

Il cielo di Bruxelles al di là della vetrina è grigio, come la nebbia, come i miei pensieri affogati nell’alcol.
Sono appoggiato sul tavolo del pub, lo sguardo fisso puntato fuori, senza vedere nulla. Voglio restare così, da solo, insensibile. Per i prossimi giorni, forse anni.
All’olo televisione è appena cominciato il telegiornale: la voce del giornalista si sente sopra ai rumori del locale.
«…ancora forti tensioni diplomatiche fra Washington e Madrid: l’Unione Euro – Araba accusa gli Stati Uniti degli ultimi attentati a Tunisi e Atene. Il Segretario di Stato Wallace annuncia operazioni militari di terra nel Mediterraneo, con la ferma opposizione…»
«Kowalski Jesus. Devi lasciare il locale. Ora!» La voce sintetica del vecchio meca buttafuori si sovrappone da vicino alla televisione. Lo ignoro, non è la prima volta che mi chiama.
Ma ora mi artiglia con la sua mano meccanica una spalla, strattona. Lo fisso, vedendolo come se fosse a una distanza enorme. Il volto semi umano è calvo, con una lunga barba brizzolata, un’espressione decisa. Guardo attorno nel pub semivuoto, dove i pochi clienti si fanno gli affari loro. Rottami disperati come me. Sotto la maglietta bucata che porta nome e logo del locale spuntano le braccia ibride: sembra un body builder del secolo scorso, muscoli meccanici gonfiano la pelle sintetica.
Le stesse braccia mi sollevano come un bambino.
«Che diavolo! Non mi puoi portare via, voglio un’altra birra…» la mia voce impastata suona debole alle mie stesse orecchie. Non mi oppongo neanche, so che non serve. Soldi finiti, troppi avvertimenti, sia del barman che del meca.
Apre la porta mentre mi tiene sollevato, poi mi lancia in strada.
Atterro nel dolore sull’asfalto freddo, bagnato, quattro metri più in là.
«Figli di puttana! Non mi rivedrete mai più in questo posto di merda!» Provo a tirarmi su, ma vado subito in difficoltà. Ricado due volte, in modo imbarazzante: la protesi biomeccanica che sostituisce la mia gamba sinistra dal ginocchio in giù non regge più il mio peso da mesi. Male alla spalla, alla tempia destra, al fianco su cui sono atterrato.
Nessuno mi sente: la porta è già chiusa, il meca non si vede più. Non sono neanche degno di protestare. Colpisco la strada con un pugno, ferendomi. Mi faccio schifo da solo.
Poi il fischio nel cervello mi assorda per diversi secondi. Mi blocco, non riesco a muovermi.
Chiudo gli occhi: Sophie non mi parla più, sul display del neurotrasmettitore si accende un warning rosso di malfunzionamento. E infine solo il buio delle mie palpebre.
Un vago senso di panico mi stringe la gola. Perdere Sophie, disconnettermi, sarebbe davvero la fine. Dopo rimarrebbe solo il suicidio. Sento un brivido freddo solo a pensarci.
Ma il vecchio apparecchio funziona ancora, per fortuna. Una piccola scritta verde appare sulla cornea sintetica: “Reboot…”
Mi alzo a fatica, tutto sporco, bagnato, ma non mi importa.
Devo solo ricordare dove si trovi la fermata della metro, come tornare in quel buco che chiamo casa.
Non sarà facile, la testa gira troppo e fatico ad orientarmi: non torno qui da anni, dopo il bombardamento. Ci sono venuto solo perché i pochi bar rimasti costano pochissimo, rispetto al resto della città. Cammino a vuoto nel Quartiere Europeo: tutti lo chiamavano così quando ci abitavo, perché ospitava le Istituzioni. Ora non ha più un nome.
La pioggia mi bagna mentre avanzo sul marciapiede della strada ampia, vuota, delimitata dagli alti palazzi diroccati. Cerco di stare vicino ai muri per proteggermi il più possibile, ma i cumuli di macerie sparsi qui e là me lo impediscono.
Dove diavolo sarà la maledetta metro? Me lo chiedo confuso, non riesco a ricordare da solo. Il neurotrasmettitore che di solito mi indica la strada si sta ancora riavviando.
Prendo una strada laterale, deserta, piena di piante morenti. Credo che sia di qua, almeno la direzione dovrebbe essere corretta. I cartelli blu che indicano i nomi delle strade sono ancora presenti agli incroci ma ormai non si leggono più, completamente inutili.
Il display diventa nero ancora una volta. Capogiro. Mi devo sedere un attimo sulle macerie.
In fondo alla strada ne intravedo una più larga, un muro verde di piante che soffoca un’antica recinzione.
Mi rialzo zoppicando, il ginocchio che cede ad ogni passo. Cammino lentamente, distratto. Scelgo diverse opzioni per riavviare il neurotrasmettitore in modo appropriato senza fare caso ai dintorni, finché non arrivo nella piccola piazza triangolare.
La Grande Moschea all’angolo del Parco.
Mi blocco, scioccato. Non torno in questo posto da troppo tempo. Il cancello nero è soffocato dalla vegetazione, foglie secche vengono portate via dal vento improvviso, la pioggia mi punge testa e spalle.
È così diverso dal giorno del nostro matrimonio: era primavera, i fiori dei rododendri profumavano l’entrata della Moschea. Nahid sorrideva al mio fianco, mentre i nostri amici lanciavano petali di rosa. Il volto dei miei genitori fra la folla era felice, anche se sposandola entravo nella comunità musulmana. Lo avevano accettato: spagnola e polacco, si erano conosciuti a Bruxelles da ragazzi, venuti a lavorare alla Commissione, erano abituati alla diversità.
Dietro alla Moschea poi c’era il parco giochi, il bac à sable, dove portavamo sempre Ana e Xavier da piccoli. Giorni felici, pieni di sole, risate con gli amici, partite di calcio sull’erba rasata.
In primavera ed estate, passavamo più tempo al Parc de Cinquantenaire che a casa: lunghi pic nic fino alle undici di sera, quando la luce cominciava a calare e tornavamo a casa in fretta, perché il giorno dopo c’era scuola, il lavoro. Il viso di Nahid che mi abbraccia mentre spingo il passeggino, occhi e capelli neri, bella da morire.
Lacrime si mescolano alla pioggia che mi cola sul viso. Stringo il pugno. Maledetti americani, bastardi infedeli: mi avete portato via tutto.
Ricordi dolorosi di una vita finita. Uno dei motivi per cui non torno qui da tanti anni, soprattutto in questo angolo del parco.
Mi volto singhiozzando, prendo la strada in discesa. Almeno ora so dove sono, la metro non è lontana.
Mentre torno fra i palazzi, il display finalmente si accende, mi tranquillizzo.
Una breve vibrazione preannuncia il messaggio in arrivo. Senza pensare lo apro, leggo distratto, aspettandomi la solita pubblicità.
Mi blocco in mezzo alla strada vuota. Una scarica di terrore mi scuote, sento un nuovo capogiro. Temo di svenire. Devo fermarmi: per fortuna c’è l’entrata di un vecchio garage al coperto. Mi siedo a terra, incurante della sporcizia.
"De Wolven zijn terug – B1246766489" Il testo del messaggio. Nessun oggetto. Mittente criptato.
In automatico, la mano destra parte a fare il segno di riconoscimento dei Lupi: tocco la tempia, poi la spalla e infine il fianco destro.
Non può essere. Confusione e ricordi mi prendono insieme. Le nostre riunioni segrete in case sempre diverse, piani studiati su schermi olografici, schede delle spie nemiche studiate a memoria, lunghe conversazioni per stabilire i dettagli tecnici delle operazioni.
Quella lingua, non la parlo da troppo tempo. Quella che usavamo per comunicare fra membri del controspionaggio Euro arabo, perché gli americani infiltrati non la conoscevano. Non è un caso che ora il messaggio sia in olandese. De Wolven zijn terug. I Lupi sono tornati.
I maledetti terroristi. Alla fine mi hanno trovato, dopo tutti questi anni.
Lone wolf.
Era scritto sul muro della nostra camera dal letto, quando sono arrivato troppo tardi, la pistola inutile in mano. Il sangue ancora colava dalla scritta fresca. Sul letto Nahid, Ana, Jaxier. Legati insieme da fascette di plastica nere, abbracciati per l’eternità. La bocca di Nahid aperta in un urlo muto, occhi sbarrati. I bambini che sembravano addormentati, gole e polsi tagliati.
Mi hanno spedito il messaggio perché finalmente è il mio turno. Il loro modo malato per terrorizzarmi, farmi sapere che mi hanno trovato, lasciarmi qualche ora di paura e poi farla finita. La degna fine di una vita in fuga, da quando hanno massacrato la mia famiglia. Così come hanno fatto a tutti i miei compagni, gli altri Lupi. Vendetta trasversale. Colpire le nostre famiglie per disperderci, inattivarci.
Combatto con l’idea di spegnere il trasmettitore, trovare un vetro rotto, una qualsiasi cosa tagliente, strapparmelo dal collo. Cancellare il vecchio tatuaggio a forma di testa di lupo che ho sulla spalla destra. Dimenticare tutto, essere isolato, finalmente. Così non potrebbero più localizzarmi. Potrei farla finita a modo mio prima che mi trovino: guardo su, mi chiedo come entrare in uno qualsiasi degli alti palazzi, un volo rapido e indolore. Mi asciugo la faccia con la manica lurida.
Un momento: c’è qualcosa che non torna. Il numero.
Quello è strano. Non ha senso. Per spaventarmi bastava il messaggio. Che diavolo c’entra il numero?
Sarà stato rivedere la moschea, o forse ricevere il messaggio. Ma in attimo mi sento diverso, sono lucido, provo una sensazione che non sentivo da troppo tempo. Sfida, curiosità.
«Sophie. Ci sei ora?»
«Certo Jesus, sempre. Come posso aiutarti?» Sollievo. Per fortuna si è riattivata, almeno non sono solo. «Rilevo insoliti livelli di adrenalina nel tuo sangue. Ti ricordo che lo stress ha effetti negativi sul corpo umano. Un buon consiglio…»
«Lascia perdere. Il numero. Analizzalo subito. Non riesco a capire cosa sia. Un numero di identità?»
La ricerca parte, Sophie passa in rassegna la sua banca dati, mostrandomi le persone conosciute da quando sono bambino, anche quelle che ho incontrato per pochissimo tempo e non potrei mai ricordare da solo.
«Negativo. Non trovo nulla, mi spiace.»
«Targhe stradali, allora. Non belghe, il sistema belga è diverso. Carica il database delle targhe straniere.»
«Impossibile, Jesus. La mia memoria non ha questa funzione e qui la rete è pessima. Consiglio di andare in un neuro cafè, collegarsi e scaricare una app di decrittazione. Ce n’è uno a un paio di chilometri da qui, e hai crediti appena sufficienti per collegarti venti minuti.» Il tono di Sophie è neutro questa volta, non giudica. Sono io che mi sento un idiota per aver speso tutti i soldi in bevute solitarie.
«Attenzione. Non avrai più nulla per la cena. Ti ricordo che l’alimentazione è importante, e il tasso di alcol nel tuo sangue è troppo…» Continua, lo stesso tono che aveva mia madre.
«Lo so. Non me ne importa. Traccia la strada per il neuro cafè.»
Mi alzo, riprendo a zoppicare tornando nella strada. Mi guardo attorno con angoscia, i sicari potrebbero apparire da un momento all’altro. Ma sento anche la schiena raddrizzarsi, questa volta guardo avanti, invece che trovare la strada fra i mucchi di macerie. Non cerco più la metro, non voglio tornare a casa.
Il numero non può essere casuale. Forse è solo la curiosità di vedere cosa c’è alla fine del mio cammino che mi spinge a verificare, usare le mie ultime risorse. Affretto il passo. Dopo anni di grigia nebbia alcoolica, sento di avere un obiettivo.

***

Il neuro cafè è al limite del quartiere arabo, dove la devastazione della zona europea lascia il posto a un intrico di case basse, negozi affollati, gente impegnata in mille affari, spesso clandestini.
Si tratta di una piccola entrata fra un venditore di Kebab e un parrucchiere, anonima. La scritta in arabo e inglese dice semplicemente “Neuro cafè welcome”. Uguale a mille altri.
Dietro al bancone c’è un uomo grasso, di carnagione scura. Sta sicuramente vivendo qualche esperienza neurale porno, ci mette un po’ a notarmi, mentre sembra che stia accarezzando una persona inesistente.
«Numero sette. Pagamento anticipato.» Indica un codice QR stampato sul bancone, in fretta, per tornare subito alla sua occupazione, un sorriso meccanico sul volto. Scorro l’impianto ottico del polso destro per pagare. Mi avvio nel piccolo cubicolo come ha indicato.
Dentro, luce soffusa, solo una sedia e un piccolo tavolo di metallo. Cerco di non farmi distrarre dai mugolii che vengono dagli altri cubicoli: in questi neuro cafè vengono solo i poveri che non si possono permettere una connessione wireless decente. E lo fanno per un unico motivo.
Sophie è già collegata. Sa che non deve perdere tempo.
«Non è una targa. Ho controllato i codici delle targhe di tutti i paesi, anche in Africa, Asia, Oceania. Niente. Se proprio vuoi scoprirlo, serve l’app. Se la compri rimarranno solo quattro crediti.»
Non è abbastanza neanche per una fottuta birra. «Vai. Paga pure.»
È inutile seguire la ricerca di Sophie, vedo scorrere milioni di cifre, combinazioni complesse in pochi secondi. Ma cerco di concentrarmi lo stesso, senza pensare all’assassino che potrebbe fare irruzione nel cafè per catturarmi o uccidermi sul posto.
«Forse ho trovato qualcosa, Jesus. Ma è molto strano. Credo che sia un errore dell’app.» Percepisco una strana riluttanza nel suo tono, che forse non ho mai sentito.
«Parla Sophie, non abbiamo più tempo.»
«Dovrebbe essere il codice di un vecchio archivio cartaceo. Istituzioni europee, credo la Commissione.» Un attimo di esitazione. «È dentro al palazzo del Berlaymont.»
Spalanco gli occhi, sento sudori freddi comparire all’improvviso dietro alla mia nuca, nonostante nel cubicolo faccia caldo.
«Non è possibile, ci deve essere senz’altro un errore. Controlla meglio.»
Sophie ripete la ricerca.
«È l’unico riscontro che trovo. Deve essere quello, Jesus. Abbiamo finito il tempo, mi dispiace.»


***

Da quando ho lasciato il neuro cafè, non penso ad altro, neanche ai maledetti americani: non può essere possibile. L’assurdità stessa dell’idea che qualcuno mi abbia lasciato qualcosa in un vecchio archivio è talmente improbabile che può essere solo vera.
Guardo nascosto dietro a un muro: un mezzo della polizia è appena passato. Sono arrivato al Berlaymont, ex sede della Commissione europea, dalla strada posteriore, quella dove c’erano gli uffici delle agenzie di stampa. È l’unico lato ancora in piedi: metà dell’edificio, i palazzi del Consiglio di fronte, tutta Rue de la Loi, sono stati distrutti dal bombardamento americano. Poi abbandonati così com’erano.
Scheletri di acciaio spuntano da muri di cemento armato semi distrutti. La fila di bandiere europee blu e gialle che mostravano nei servizi televisivi di quando ero ragazzo sono ancora lì, pendono strappate, inermi, sui loro pali di metallo arrugginiti. Il simbolo dell’Europa Unita, il palazzo dove la Commissione prendeva le decisioni che guidavano la vita dei cittadini, è un ammasso di rovine.
Tutta la zona è recintata, pattugliata dalla polizia: a Bruxelles tutti sanno che le radiazioni del bombardamento sono ancora pericolose, anche dopo anni. Tutto il quartiere europeo è stato evacuato. Per un attimo ricordo la notte in cui siamo fuggiti in strada con i bambini, in mezzo all’urlo delle sirene.
Scuoto la testa, devo restare concentrato. Non mi importa più nulla della polizia o delle radiazioni: l’unica cosa che voglio fare prima che mi trovino è verificare che la ricerca di Sophie sia corretta.
I riflessi della mia vita precedente dettano il tempo giusto per avanzare. Aspetto il passaggio della seconda pattuglia, poi mi muovo velocemente, quanto me lo permette la gamba sinistra.
Trovo un punto in cui il muro è crollato, entro.
La piazza del Berlaymont è un intrico di piante e rovine. Alcuni tavolini del pub irlandese all’angolo sono ancora sparsi in giro. Quante volte ho bevuto qualcosa in quel posto, dopo il lavoro.
Riesco a trovare un ingresso con una certa difficoltà, poi sono dentro, nel silenzio. Il grande atrio una volta era ingombro di gente a ogni ora del giorno: funzionari in giacca e cravatta, giornalisti, dipendenti che uscivano a correre in pausa pranzo. Ora è un fantasma dai muri muschiosi, corpi mummificati e scheletri sparsi qui e là: dopo la tragedia non era neanche stato possibile portare via i morti.
Passo attraverso la zona dei controlli di sicurezza: i metal detector sono ancora in piedi.
«Dove, Sophie?»
«Il numero identifica il piano, la stanza e l’archivio. Dodicesimo piano, Jesus. Puoi prendere una scala di servizio laggiù, sulla sinistra.»
Il fiatone comincia dopo la prima rampa, mentre salgo le scale. Mi devo fermare diverse volte: il dolore attorno alla vecchia protesi si fa sentire. Al dodicesimo piano mi fermo a guardare il panorama da una finestra spaccata. Intravedo la nostra casa in lontananza, soffocata dai rampicanti. Distolgo lo sguardo con una sensazione di dolore, poi controllo i numeri sulle porte.
Sono fortunato, la stanza 46 è intatta, si trova a pochi metri dal punto in cui le bombe hanno sventrato il palazzo. A questa altezza il vento mi soffia in faccia, prepotente. Entro, la porta è aperta.
Nella stanza è quasi buio, c’è puzza di chiuso, polvere, chissà cos’altro.
«Di fronte a te, armadietto 766.» Le pareti e le scansie in mezzo alla stanza sono ingombri di armadietti blu, alcuni chiusi, altri rotti. Per terra un tappeto di fogli ammuffiti. Cerco finché non lo trovo.
Dentro c’è una grossa scatola di metallo. La tiro fuori con uno sforzo, sembra nuova, moderna. Non ha niente a che vedere con quel vecchio archivio. Dopo averla appoggiata a terra, mi accorgo che è chiusa con un meccanismo a combinazione, tre cifre.
«Sophie, ridammi il numero.» Mormoro nel silenzio. La mia stessa voce suona strana.
Vedo fluttuare le cifre sul display: B1246766489.
Con dita tremanti, aziono i pulsanti. Inserisco le ultime tre cifre, trattenendo il respiro. È assurdo, ma mi sembra che Sophie lo faccia con me.
La scatola si apre con un sommesso clic.

***

Mi sveglio confuso. Allungo una mano sul letto alla mia destra. Lo faccio ogni mattina, per fare una carezza a Nahid. Le mie dita non incontrano lei, ma un muro bianco, che in camera mia non esiste.
A poco a poco i ricordi tornano, prendo qualche minuto per ritornare cosciente. Sono nella clinica dopo le operazioni, stanza bianca asettica, vuota. Poi una voce maschile nella mia mente, che non conosco.
«Inizializzazione nuovo neurotrasmettitore. Intelligenza artificiale pronta. Ora può scegliere il mio nome, signor Kowalski.»
«Sophie. Il tuo nome è Sophie. Carica backup per favore.» Una barra colorata appare sulle cornee sintetiche, aumenta fino al 100% mentre mi sveglio completamente.
«Eccomi Jesus, sono tornata. Questo trasmettitore è eccezionale. Sento già che faremo grandi cose, ora.» Di nuovo lei. Il suo tono è sorpreso, quasi felice.
«Poche chiacchiere, dobbiamo andare. Testa il nuovo arto, Sophie.» Mi alzo.
Il test della parte elettronica dura pochi minuti. Intanto mi sollevo a sedere sul letto, poi scendo con cautela.
La mia gamba sinistra è solida adesso. Il ginocchio si alza senza dolore, come quando avevo vent’anni. Un po’ di riabilitazione e sarò pronto.
Avevo lasciato i miei vecchi vestiti su una sedia quando sono arrivato alla clinica. La polvere e lo sporco mescolati all’acqua piovana si erano accumulati per terra, sporcando il pavimento.
Ora non ci sono più, sostituiti da un abito scuro, camicia bianca, cravatta nera. E la pistola, ultimo modello con puntatore laser.
Prima di vestirmi controllo il nuovo tatuaggio che ho sulla spalla destra: la vecchia testa di lupo, sbiadita e deformata dal tempo, è stata sostituita da una figura simile, definita e netta. Questa ha le zanne in evidenza, il muso arricciato in una smorfia aggressiva.
Mentre mi vesto, lasciando la cravatta per ultima, ripenso agli oggetti e al messaggio cartaceo in olandese che ho trovato nella scatola. C’era scritto l’indirizzo della clinica e due righe per me.
«Siamo pronti, Jesus. I Lupi ti aspettano. I bastardi questa volta hanno esagerato, dobbiamo fargliela pagare una volta per tutte. Impianta il nuovo neurotrasmettitore che trovi nella scatola. Usa la carta di credito per rimetterti in sesto. Unisciti a noi, un’altra volta.»
Stringo il nodo, poi impugno la pistola, la sistemo nella fondina.
“De Wolven zijn terug” mormoro. Con la mano destra mi tocco tempia, spalla e fianco. Un sorriso compare sul mio volto per la prima volta da troppo tempo, mentre esco dalla stanza.

Ciao a tutti,

ecco il mio racconto per la sfida di Polly.

Buona lettura!
 
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view post Posted on 23/5/2021, 15:14
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Grande Andrea! Benvenuto tra noi :1392239590.gif:
 
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Arrotolatrice di boa

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uh bene! Avrò da leggere stasera.
 
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Mi avete convinto, posto anch'io la mia schifezza, anche se siamo un po' d'anticipo (in caso mi riservo il diritto di modificare qualcosa nei prossimi giorni, fino allo scadere del tempo).
Ambisco all'assegnazione di tutti i bonus.
Bando alle ciance!

Non è sempre bello, ciò che piace



Gli stivali di Mark Loudon scricchiolarono sul guano che imbrattava il pavimento. Ammassi di piume di piccione ricoprivano i calcinacci a ridosso dei muri della chiesa abbandonata. Alla vista del corpo, irrigidì i muscoli e deglutì per bloccare un conato di vomito.
La donna era stata fatta a pezzi, le braccia e le gambe amputate erano adagiate al tronco, ma invertite: le braccia spuntavano dalle anche e le gambe dalle spalle. Il petto nudo della donna era ricoperto di interiora e ossa di animali. Il sangue formava una pozza che arrivava fino ai muri alle estremità dell’abside della chiesa e gli schizzi di una sostanza lattiginosa si mescolavano con le macchie rosse. Le mosche e i vermi brulicavano, già nel pieno del loro banchetto. Mark alzò lo sguardo sul muro dell’abside. Riconobbe le lettere scritte col sangue, identiche a quelle che tormentavano i suoi sogni:

N
I
N I Z I N
I
N



Gli si inumidirono gli occhi: tutto era così familiare... Ricacciò indietro le lacrime e si avvicinò al tenente Santino che, assorto, stava scribacchiando su un taccuino.
«Un’altra vittima, vero capo?»
L’uomo alzò lo sguardo e lo squadrò da capo a piedi, le sue labbra si corrugarono in una smorfia. «Mark, Cristo. Da dove sbuchi?» Si passò la mano sulla testa pelata. «Chi ti ha fatto passare?»
«Ho sentito uno dei ragazzi.» Scrollò le spalle. «Pensavo che magari vi serviva aiuto.»
Il tenente lo prese per il braccio e lo allontanò dal cadavere, il flash delle foto della scientifica proiettò la loro ombra sul pavimento lurido della chiesa.
«Puzzi di alcool.»
«No, tenente, sono pulito, e voglio tornare al lavoro.»
«Scordatelo. Sei ancora troppo coinvolto.»
Mark gonfiò il petto. «Ridammi il caso! Questa è la terza vittima, si tratta di omicidi seriali: è il mio campo.»
Il capo intrecciò le dita sui risvolti del suo cappotto. «Ma guardati, come sei ridotto!»
Mark sbuffò e fece un passo indietro. «Voglio tornare al lavoro, ne ho abbastanza di restare a casa a piangere.»
Santino alzò le sopracciglia. «Può darsi, ma questa merda non fa per te.» Indicò col pollice il cadavere sotto l’abside. Fece un passo di lato e diede un calcio a un pezzo di mattone sul pavimento. «Che cesso, e pensare che una volta qui la gente ci veniva a pregare.»
«Capo…»
Il tenente sospirò. «E va bene. C’è un hacker da strapazzare, vacci tu.»
Mark strinse un pugno. «Cosa? Per quelle stronzate mandaci le reclute!»
«Ehi.» Santino incrociò le braccia. «Se rivuoi il distintivo farai quel che dico io. Riga dritto e poi si vedrà.»

La porta si aprì e Mark fissò la faccia pallida: le occhiaie tradivano le notti in bianco passate col naso attaccato ai display. «Fred Ferguson?»
L’uomo annuì, un ciuffo di capelli unti gli scivolò sulla fronte. «Non voglio problemi. Faccia quello che deve e se ne vada.»
Mark sorrise. «Hai proprio una bella faccia tosta.»
Lo spinse da parte e fece qualche passo verso il centro dell’appartamento. C’era solo una stanza: un water rigato di giallo occupava lo spazio vicino a una vasca da bagno, riempita con un intricato groviglio di cavi elettrici che pendevano dal soffitto. Un divano macilento era cosparso di rimasugli di cibo e un banco da lavoro sorreggeva un paio di computer. Mark raccolse uno scatolone pieno di dischetti larghi quanto un pollice, li mise controluce e sbuffò. «Identificativi contraffatti per l’Interzona. Sarebbe questa la tua attività, Ferguson?»
L’hacker gli si avvicinò. «Riconosco la tua faccia, amico.» Scoprì una fila di denti marci. «Dai notiziari: tu sei quel poliziotto a cui hanno ammazzato la moglie, e che poi è stato sospeso per aver strapazzato Nizin in persona!»
Mark strinse i denti, gettò i dischetti a terra e gli mollò un pugno alla mascella.
L’hacker cadde sul pavimento, dal labbro spaccato scaturiva un fiotto di sangue. «Ci ho preso!» Emise una risatina nervosa.
Mark lo prese per un braccio, lo sollevò, poi gli sferrò un pugno sulle costole. L’hacker rantolò, ma non smise mai di ridere. «Tutto qui, quello che sai fare?»
«Pezzo di merda!»
Lo prese a calci, il corpo smagrito si trascinò a terra, la risatina non accennava ad affievolirsi. «Picchi come una donnina!»
Mark riprese fiato e corrugò la fronte, poi si voltò e sferrò una manata a uno dei computer.
La risata si spense di colpo: «Quelli no! Hai idea di quanto costano?»
Mark sorrise e riprese a scaraventare a terra l’attrezzatura.
L’hacker gli afferrò la caviglia. «Ti prego, fermati! Posso aiutarti, ho della roba per te.»
«Non hai niente che possa interessarmi.»
«Informazioni, su chi ha ucciso tua moglie!»
Mark tese ogni muscolo, allungò la mano e tirò l’hacker per i capelli. «Smettila di prendermi per il culo!»
«Lo giuro!»
Mark strinse i denti, cacciò l’aria fuori dai polmoni e inspirò. Rivide nella mente il corpo di sua moglie, con le braccia e le gambe staccate, invertite e riattaccate al tronco. Il sangue, le interiora di animali e il latte andato a male…
Scosse la testa, mollò la presa, e scoppiò a piangere.

Mark si versò in gola il gin, il fuoco che si accese nelle sue viscere gli diede coraggio. Si asciugò le lacrime e passò il liquore a Fred. «Mi ci voleva, grazie.»
L’hacker si attaccò a sua volta al collo della bottiglia, prese una generosa sorsata, schioccò le labbra e si passò la lingua sulla ferita. «Certo che picchi forte, amico!»
«Non ero una donnetta?»
Fred scrollò le spalle. «Quando piangi sì, somigli a una fighetta.»
Mark si appoggiò allo schienale del divano lurido. «Come sono sceso in basso, a piangere e bere insieme a uno come te.»
«Be’, potrebbe andare peggio: potresti ritrovarti a bere da solo.»
Mark gli lanciò un’occhiataccia, l’hacker sorrise. «Scherzavo, amico.» Sospirò. «Allora, vuoi che vuoti il sacco, o no?»
«Tanto lo so che vuoi solo rifilarmi stronzate, non sono nato ieri.»
Fred scaraventò la bottiglia in fondo alla stanza: esplosione di vetri. «Eddai, sono uno onesto, io.»
Mark grugnì. «E io sono Paperino.»
«Ascolta, amico, perché sei andato a molestare Erwin Nizin? Non è stato lui a uccidere tua moglie.»
«Sì, è stato lui, quel figlio di puttana.»
«Invece no, hai preso un bel granchio, e ti sta bene se ti hanno fatto il culo.»
Mark strinse i denti. «Mi stai facendo girare le palle: tutti sanno che Erwin Nizin ha un debole per le belle donne, e mia moglie ci lavorava, per lui, si conoscevano…»
«Secondo te, uno come Erwin Nizin, con tutti i soldi che ha, andrebbe a rubare le mogli degli altri?»
«E che ne so? I ricchi fanno quello che vogliono.»
Gli occhi di Fred scintillarono. «Vero. Ma quelli come Nizin non sono degli imbecilli, hanno puttane a vagonate, per quelle cose. Sei fuori strada, amico.»
«E quella scritta allora?»
«L’ho detto io, che non usi il cervello.» Prese un foglio di carta e scrisse due volte la parola Nizin in croce, come appariva nelle scene dei crimini. «Guarda.» Rovesciò il foglio in verticale. «Si chiama palindromo: da ogni parte tu lo leggi, rimane uguale.»
Mark afferrò il foglio, e lo rigirò tra le mani. «E allora?»
Fred sorrise, i suoi denti marci erano macchiati di sangue. «La Z si trova al centro, e fa da punto di simmetria: la parola è Niz, non Nizin.»
«Niz?» Mark corrugò la fronte. «Non conosco nessun Niz.»
Fred rise. «Era un artista di alcuni secoli fa, ormai sconosciuto. La sua arte era malata: prendeva animali, li squartava, si bagnava col loro sangue e si faceva versare addosso immondizie varie.»
«Non ne ho mai sentito parlare.»
«Erwin Nizin non c’entra, è solo una coincidenza che il cognome di quel figlio di puttana sia nella scritta. Voi poliziotti siete proprio dei ritardati, se non ci siete ancora arrivati.»
Mark strinse le labbra. «Mi hanno tolto il caso dopo l’omicidio di mia moglie. Forse, hanno fatto dei progressi e ne sono all’oscuro.»
Fred sospirò. «Non c’è da stupirsi se non ti hanno tenuto aggiornato, amico, dopo il casino che hai combinato con Nizin.»
«Sai qualcos’altro?»
«Eccome!» Scoprì i denti marci. «Però, mi devi aiutare: io do a te e tu dai a me.»
Mark grugnì. «Cosa vuoi?»
«Si dà il caso che io e qualche fratello abbiamo un piccolo affare in corso, nell’Interzona. Ci farebbe comodo una replica dei database della polizia.»
«Scordatelo, non posso.»
«Mi bastano le tue credenziali, do una sbirciatina e sparisco. Nessuno saprà mai niente.»
Mark sorrise. «Come no.»
«Eddai, a te che te ne frega? Sono solo dei figli di troia, i tuoi colleghi.»
Sospirò. «E in cambio, cos’hai per me?»
«Nell’Interzona c’è un posto, un club in cui combinano cose strane, dove i pezzi di merda che compiono quegli omicidi si radunano, e li rifanno in virtuale.»
«Non ci ho capito niente.»
Fred sbuffò. «Gli assassini si ritrovano e fanno a pezzi l'avatar di una donna, per ripetere l’arte di Niz.»
«Sul serio?»
«Ti ci porto io, dammi solo le tue credenziali per i server della polizia, e poi saprai chi ha ammazzato tua moglie.»

Mark si sedette nella vasca, le sue mani scivolarono sulle pareti viscide. Allungò un braccio e afferrò il filo elettrico. «Siamo sicuri che questa roba funzioni?»
Fred gli diede una pacca sulla spalla. «A prova di bomba, amico. Io ti seguo, vai tu per primo.»
Mark passò il dito sul metallo della presa impiantata nella nuca. «Sono otto anni che non entro nell’Interzona.»
«Davvero?» L’hacker strabuzzò gli occhi. «Vedrai quanto l’hanno migliorata: adesso non si distingue più dalla realtà.»
Mark deglutì e si infilò il jack nel cranio.

Un cielo azzurro splende sopra un immenso prato verde. Apro le mani e sfrego tra loro i polpastrelli delle dita. Incredibile: la sensazione tattile è autentica. Appoggio i palmi a terra, i fili d’erba mi accarezzano la pelle. L’aria è pulita, come quella di montagna: da quanto non respiravo aria così buona?
Un ululato: un grosso animale a quattro zampe corre verso di me. Merda! Quel figlio di puttana di hacker me l’ha fatta. Mi porto la mano alla nuca e faccio il gesto di togliere il filo. Non succede niente, cazzo! Perché non funziona? Mi metto a correre, il terreno è ondulato, mi sforzo di seguire una linea dritta. Mi volto, il lupo mi ha quasi raggiunto, la lingua penzola dalle fauci aperte.
Non ho scampo. Mi fermo e alzo i pugni. Il cuore mi batte forte, ho la gola secca, come se avessi corso per davvero.
Il lupo si ferma di fronte a me, l’odore della suo alito mi chiude lo stomaco. Il suo muso mi sorride: «Ti ho fatto paura?»
Non posso crederci. Abbasso i pugni: «Fred?»
Il lupo si mette di profilo, la folta coda si agita al vento. «Come sto?»
Stringo i denti. «A che gioco stai giocando?» Mi tocco la nuca. «E perché non posso scollegarmi?»
Il lupo inizia a ridere. «Ma che dici? Per uscire basta che pronunci la safeword
Stringo le labbra, l’Interzona è cambiata parecchio. «E quale sarebbe?»
«Semplicemente: Uscita! Pronunciala con la voglia di emergere nello spazio reale, e il sistema ti scollegherà.»
Lo guardo negli occhi. «Mi dici perché ti sei mascherato da animale? E come hai fatto a contraffare il tuo avatar?»
«Amico, io sono in incognito.» Mi fa l’occhiolino. «E scordati che ti spieghi i trucchi del mio mestiere, tanto non li capiresti.»
Apro le braccia. «Cos’è questa immensa prateria?»
Il lupo scuote la testa. «Sei proprio più vecchio dei Flinstones: questo è lo spazio col primo portale!»
Sospiro. Hanno cambiato troppe cose. «E dov’è, questo portale?»
Fred solleva una zampa, mi volto. Un arco di pietra racchiude uno spazio occupato da una superficie nera.
Fred mi cammina accanto: «Le coordinate le imposto io, tu seguimi, amico.»
Il suo pelo grigio mi sfiora il dorso della mano. Sembra una carezza vera, i brividi mi corrono lungo la schiena. Il lupo gira la testa e mi fissa. Gli occhi ferini mi fanno accapponare la pelle. «Ricorda che dove stiamo andando i protocolli di sicurezza sono disattivati.» Si lecca le fauci. «Vuol dire che non ci sono limiti per il dolore, e che se il tuo avatar muore… be’, hai capito.» Ride, le sue zanne brillano. «Appena arriviamo al club, io me la squaglio e poi tocca a te.»

Ci materializziamo in una piazza gremita. Non tutti hanno un avatar umano: un uomo-coniglio con le orecchie lunghissime porta al guinzaglio una donna-gatto vestita solo con uno slip di latex, una specie di troll con tanto di clava trascina per i piedi un avatar palestrato, legato come un salame.
«Ma che posto è?»
Fred si siede sulle zampe posteriori. «Qui siamo al limite della moralità, amico.»
Mi tasto le cosce, qualcosa pesa nella tasca dei pantaloni: una pistola. Alzo le sopracciglia, il lupo mi fa l’occhiolino. «Non credevi che ti avrei lasciato a secco, vero? Non farti scrupoli a usarla.»
Si alza e si fa strada tra la folla, lo seguo. Raggiungiamo un bar con le insegne al neon. Al bancone siedono tre loschi figuri coi visi coperti da una maschera ninja, il barista è un avatar che ricorda il robot dorato di Star Wars. Fred appoggia il muso sul bancone. Mi siedo a uno sgabello libero, accanto a lui. Il robot si avvicina, la sua voce metallica imita il rumore di qualcuno che si schiarisce la gola. «Se volete una bevanda che possa ubriacare, sono otto bytecoins. Due per il resto.»
Fred digrigna le zanne. «Non sempre piace ciò che è bello, ma è sempre bello ciò che piace.»
Il robot si piega verso di lui. «Parla sottovoce, non sbandierare la parola d’ordine ai quattro venti.» Si guarda attorno, poi si rivolge di nuovo a noi. «Venite sul retro e vi apro il portale.»
Il lupo si allontana dal bancone, lo seguo. Passiamo accanto a un polpo che gioca a biliardo con un millepiedi gigante: quella miriade di zampette mi chiude lo stomaco.
Usciamo e ci ritroviamo a ridosso di un muro di mattoni. Il robot compare alla nostra sinistra, un portale identico a quello che abbiamo appena attraversato si materializza nel muro.
Fred si siede. «Io rimango qui. Ricorda: non pensarci due volte a pronunciare la safeword.»

Mi materializzo in un viale alberato, delle luci che partono dal basso illuminano una chiesa in stile gotico. Metto la mano in tasca, la pistola è ancora lì. Mi accorgo di indossare una maschera. Mi tocco il viso con le mani e mi sfilo il tessuto dalla testa: un semplice sacco di velluto con i fori per gli occhi. Sospiro e me lo rimetto, poi cammino verso l’ingresso della chiesa, entro e prendo posto su una panca di legno.
Mi guardo attorno: altri avatar vestiti con un’ampia toga di velluto rosso siedono a debita distanza. Al centro dell’abside, l’altare di marmo cremisi regge il corpo di una donna nuda.
Entra un uomo vestito di bianco: è calvo e con una lunga barba candida. Lo seguono due tirapiedi che portano tra le mani un grosso vaso. Il vecchio si ferma accanto alla donna, il cui petto sale e scende ad ogni respiro. Uno degli scagnozzi le versa addosso un fiotto di sangue, gli schizzi imbrattano la veste immacolata del vecchio e la sua barba si impregna di rosso. Alza le braccia: «Niz!»
Grumi di interiora colano sul corpo nudo, la donna si agita ed emette un rantolo.
«Niz!»
La poveretta grida, mentre le segano le gambe.
Mi porto una mano alla bocca, i denti mi scricchiolano nelle gengive.
Helen, la mia Helen, le hanno fatto questo? Maledetti bastardi.
Il barbuto stacca le braccia dal tronco della donna e le adagia sulle anche, poi prende le gambe e le attacca alle spalle. La donna è viva, urla come un’indemoniata.
Helen. Una lacrima bagna la maschera di velluto.
«Niz!»
Versano sulla donna agonizzante una secchiata di liquido bianco. Latte rancido, come per le altre vittime. Le persone intorno a me si alzano in piedi e applaudiscono. Il rumore degli applausi sovrasta le urla della donna, che flette il collo come una frusta, in preda alla follia.
Ne ho abbastanza: estraggo la pistola. Tutti si girano a guardarmi, il vecchio, sotto l’abside, si imbambola a fissarmi. Faccio pressione sul grilletto...

...mi risveglio con le braccia aperte e i polsi legati. Agito le braccia, ma non riesco a muovermi. Anche le caviglie sono bloccate. Il cuore mi scoppia in petto. Fletto le braccia fino a quando mi fanno male, ma niente.
«Attento, vuoi spezzarti i polsi?»
L’uomo barbuto mi si avvicina, è pulito e la sua veste immacolata. I suoi occhi scuri mi fissano sotto la fronte aggrottata.
Apro la bocca e urlo: «Uscita!»
Il vecchio ride. «Credi che qui funzioni, la safeword?»
Merda. «Assassini!»
Il vecchio alza le sopracciglia e schiude le labbra. «Non siamo assassini, siamo i niziani, in onore al Maestro.»
«Perché mi avete legato?»
Il suo viso si avvicina al mio, il suo fiato caldo m’investe la faccia. «Tu piombi qui, non invitato, armato di pistola, e vieni a chiedermi perché ti abbiamo legato?»
Respiro a fatica. «Che intenzioni avete?»
«Solo vederci chiaro. Chi sei?»
Digrigno i denti. «Il marito di una donna assassinata, Helen Loudon! Lo conosci questo nome, figlio di puttana?»
Alza le sopracciglia. «Ho capito: sei quello sbirro imbecille che ha molestato Nizin.»
«Basta! Avete massacrato mia moglie, e continuate a uccidere. Bastardi!»
«Mi ci vuole un goccio.» Esce dal mio campo visivo e ricompare con un bicchiere in mano. «Ne vuoi un po’? Scotch, il migliore dell’Interzona.»
«Crepa, bastardo.»
Sbuffa. «Eddai, siamo solo artisti, ho detto.»
Sorrido. «Uccidere per voi è un arte?»
«Ma perché non capisci? La donna di prima era una volontaria: non sai quanti sono disposti a farsi torturare in cambio di soldi, qui nell’Interzona.» Prende un sorso. «Adesso la sfigata è a casa sua, in un tugurio di New Rome, tutta intera e con qualcosa in più da raccontare. Il suo avatar guarirà in poco tempo e, intanto, lei potrà godersi il suo compenso che, sia chiaro, è molto generoso.» Ammicca. «Quanto alle altre, quelle che voi sbirri avete trovato, be’,» fa spallucce, «qualcuno di noi vuole portare avanti l’arte del Maestro anche in città. E come dargli torto?»
«E avete ammazzato quelle povere donne!»
Alza gli occhi al cielo. «Usiamo cadaveri! C’è chi ce li vende, oppure c’è chi ce li dà gratis, così, per farli sparire.» Sorride. «Siamo bravi a far sparire i corpi: pratichiamo l’arte in luoghi abbandonati, che nessuno frequenta,» prende un altro sorso, «voi avete trovato solo tre donne, vero? Lo sai quante ce ne sono, in realtà?» Mi dà uno schiaffetto sulla guancia. «Diciamo che sei stato molto fortunato, che tua moglie sia stata ritrovata.»
Stringo i denti. «Cosa le avete fatto?»
Il vecchio si porta il bicchiere alle labbra e finisce il suo drink. «Se ti dico com’è morta, tu prometti di non venire più a rompere le palle?»

La porta di casa era scassinata, il tenente Santino estrasse la pistola e accese la luce. Nessuno. Un passo avanti, spalle contro il muro.
Un pugno sul naso, Santino lasciò la pistola e si portò le mani sul viso. Il dolore pulsava su tutta la faccia. Alzò lo sguardo, Mark era su di lui e gli puntava la pistola alla tempia. Le sue labbra scure erano aperte in un ghigno. «Dimmi perché.»
«Perché cosa?»
«Perché l’hai uccisa.»
«Sei scemo?»
Un calcio allo stomaco, Santino tossì l’anima. Un colpo esplose e un dolore lancinante gli attanagliò la gamba: urlò. La mano scura di Mark si strinse attorno alla sua gola.
«Parla, figlio di puttana, o ti faccio saltare anche l’altro ginocchio.»
Santino tossì, il fiotto acido che gli uscì dalla gola si sparse sulla moquette. «Non volevo ucciderla, lo giuro.»
Mark arricciò il labbro e scosse la testa. «Bastardo.» Gli poggiò la pistola alla fronte. «Hai violentato Helen, poi l’hai uccisa e, per disfarti del corpo, l'hai regalata ai niziani.» Gli sputò in faccia. «Sei fottuto, tenente.»

Mark porse il bicchiere vuoto a Fred, l’hacker riempì col liquore. All’altro lato della stanza, il tenente Santino giaceva nella vasca con il filo elettrico che gli usciva dalla nuca.
Mark prese un sorso. «Com’è andata?»
Fred fissò la vasca. «I niziani mi hanno detto di ringraziarti per l’avatar gratuito che gli hai fornito per la loro arte.» Gli fece l’occhiolino. «Non sanno che è un uomo: gli ho messo un visino grazioso e due belle tette. Ti chiedono di avvertirli, appena vorrai che si trovino un rimpiazzo.»
Mark inghiottì altro gin, il fuoco che scendeva nel suo esofago lo faceva sentire vivo. «Non c'è fretta.» Si leccò le labbra. «Nessuna fretta.»

Edited by MentisKarakorum - 28/5/2021, 19:56
 
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view post Posted on 23/5/2021, 22:42
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qualcuno deve aver spifferato che sono in turno stanotte! :D
 
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Dopo uno dei miei soliti blocchi dello scrittore ho finalmente finito di riscrivere da zero il racconto. Ora sono 12 K, e... mi piace meno di prima.

Domani leggo e vedo se riesco ad aggiustare qualche cazzata grossa nella trama e poi posto.
 
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view post Posted on 24/5/2021, 14:26
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Ma l'ambientazione Ciberpunk va messa per forza?
Me ne sono accorto adesso maremma puttana.... XD
 
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CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 15:26) 
Ma l'ambientazione Ciberpunk va messa per forza?
Me ne sono accorto adesso maremma puttana.... XD

Dì che il protagonista ha un occhio bionico e vai :D
 
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view post Posted on 24/5/2021, 17:11
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CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 15:26) 
Ma l'ambientazione Ciberpunk va messa per forza?
Me ne sono accorto adesso maremma puttana.... XD

Ma sai che non l’ho capito? Io credevo di sí, ma mi sa che Ago ha inteso le specifiche come bonus, da scegliere uno o tutti. Temo ci voglia lui per rispondere.
 
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Ma è sempre stato cosí?
Perché io mi ricordavo il tema ma il resto no...
Anche se si sa che sono rinco e quindi non conta.
 
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view post Posted on 24/5/2021, 17:18
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CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 15:26) 
Ma l'ambientazione Ciberpunk va messa per forza?
Me ne sono accorto adesso maremma puttana.... XD

Allora, Pretorian è al lavoro e non può accedere alla Tela, quindi parlo in sua vece.
Mi dice che sì, sono tutte e tre SPECIFICHE OBBLIGATORIE, ma che dato che non ci stiamo giocando la casa, se agli altri utenti non crea problemi, possiamo allungare un po’ i tempi per permetterti di rientrare nelle richieste di quella gran figa della giudice.

CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 18:15) 
Ma è sempre stato cosí?
Perché io mi ricordavo il tema ma il resto no...
Anche se si sa che sono rinco e quindi non conta.

Si, a memoria mia sempre tutte obbligatorie, è alla Sfida che scegli.
 
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view post Posted on 24/5/2021, 17:22
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CITAZIONE (Polly Russell @ 24/5/2021, 18:18) 
CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 15:26) 
Ma l'ambientazione Ciberpunk va messa per forza?
Me ne sono accorto adesso maremma puttana.... XD

Allora, Pretorian è al lavoro e non può accedere alla Tela, quindi parlo in sua vece.
Mi dice che sì, sono tutte e tre SPECIFICHE OBBLIGATORIE, ma che dato che non ci stiamo giocando la casa, se agli altri utenti non crea problemi, possiamo allungare un po’ i tempi per permetterti di rientrare nelle richieste di quella gran figa della giudice.

CITAZIONE (David G @ 24/5/2021, 18:15) 
Ma è sempre stato cosí?
Perché io mi ricordavo il tema ma il resto no...
Anche se si sa che sono rinco e quindi non conta.

Si, a memoria mia sempre tutte obbligatorie, è alla Sfida che scegli.

Ah se mi allungate i tempi sono contento: magari riesco a riscrivere l'intero racconto da 0 per la terza volta :1392391933.gif:
 
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view post Posted on 24/5/2021, 18:54
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XD io avevo capito che erano bonus. Vabbè, per culo avevo deciso comunque di inserirli tutti. Per me no problem per la proroga, nessuno ci corre dietro. :b:
 
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view post Posted on 24/5/2021, 22:09
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Eccomi quì. Giuro, un giorno ricorderò di collegare lo smarphone alla Tela!!

Comunque, di solito ci sono due temi facoltativi e uno obbligatorio. In questo caso, si è deciso di farne tre obbligatori.

Confermo quanto detto da Polly: se volete, si possono prolungare i tempi
 
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