Mi avete convinto, posto anch'io la mia schifezza, anche se siamo un po' d'anticipo (in caso mi riservo il diritto di modificare qualcosa nei prossimi giorni, fino allo scadere del tempo).
Ambisco all'assegnazione di tutti i bonus.
Bando alle ciance!
Non è sempre bello, ciò che piace
Gli stivali di Mark Loudon scricchiolarono sul guano che imbrattava il pavimento. Ammassi di piume di piccione ricoprivano i calcinacci a ridosso dei muri della chiesa abbandonata. Alla vista del corpo, irrigidì i muscoli e deglutì per bloccare un conato di vomito.
La donna era stata fatta a pezzi, le braccia e le gambe amputate erano adagiate al tronco, ma invertite: le braccia spuntavano dalle anche e le gambe dalle spalle. Il petto nudo della donna era ricoperto di interiora e ossa di animali. Il sangue formava una pozza che arrivava fino ai muri alle estremità dell’abside della chiesa e gli schizzi di una sostanza lattiginosa si mescolavano con le macchie rosse. Le mosche e i vermi brulicavano, già nel pieno del loro banchetto. Mark alzò lo sguardo sul muro dell’abside. Riconobbe le lettere scritte col sangue, identiche a quelle che tormentavano i suoi sogni:
N
I
N I Z I N
I
N
Gli si inumidirono gli occhi: tutto era così familiare... Ricacciò indietro le lacrime e si avvicinò al tenente Santino che, assorto, stava scribacchiando su un taccuino.
«Un’altra vittima, vero capo?»
L’uomo alzò lo sguardo e lo squadrò da capo a piedi, le sue labbra si corrugarono in una smorfia. «Mark, Cristo. Da dove sbuchi?» Si passò la mano sulla testa pelata. «Chi ti ha fatto passare?»
«Ho sentito uno dei ragazzi.» Scrollò le spalle. «Pensavo che magari vi serviva aiuto.»
Il tenente lo prese per il braccio e lo allontanò dal cadavere, il flash delle foto della scientifica proiettò la loro ombra sul pavimento lurido della chiesa.
«Puzzi di alcool.»
«No, tenente, sono pulito, e voglio tornare al lavoro.»
«Scordatelo. Sei ancora troppo coinvolto.»
Mark gonfiò il petto. «Ridammi il caso! Questa è la terza vittima, si tratta di omicidi seriali: è il mio campo.»
Il capo intrecciò le dita sui risvolti del suo cappotto. «Ma guardati, come sei ridotto!»
Mark sbuffò e fece un passo indietro. «Voglio tornare al lavoro, ne ho abbastanza di restare a casa a piangere.»
Santino alzò le sopracciglia. «Può darsi, ma questa merda non fa per te.» Indicò col pollice il cadavere sotto l’abside. Fece un passo di lato e diede un calcio a un pezzo di mattone sul pavimento. «Che cesso, e pensare che una volta qui la gente ci veniva a pregare.»
«Capo…»
Il tenente sospirò. «E va bene. C’è un hacker da strapazzare, vacci tu.»
Mark strinse un pugno. «Cosa? Per quelle stronzate mandaci le reclute!»
«Ehi.» Santino incrociò le braccia. «Se rivuoi il distintivo farai quel che dico io. Riga dritto e poi si vedrà.»
La porta si aprì e Mark fissò la faccia pallida: le occhiaie tradivano le notti in bianco passate col naso attaccato ai display. «Fred Ferguson?»
L’uomo annuì, un ciuffo di capelli unti gli scivolò sulla fronte. «Non voglio problemi. Faccia quello che deve e se ne vada.»
Mark sorrise. «Hai proprio una bella faccia tosta.»
Lo spinse da parte e fece qualche passo verso il centro dell’appartamento. C’era solo una stanza: un water rigato di giallo occupava lo spazio vicino a una vasca da bagno, riempita con un intricato groviglio di cavi elettrici che pendevano dal soffitto. Un divano macilento era cosparso di rimasugli di cibo e un banco da lavoro sorreggeva un paio di computer. Mark raccolse uno scatolone pieno di dischetti larghi quanto un pollice, li mise controluce e sbuffò. «Identificativi contraffatti per l’Interzona. Sarebbe questa la tua attività, Ferguson?»
L’hacker gli si avvicinò. «Riconosco la tua faccia, amico.» Scoprì una fila di denti marci. «Dai notiziari: tu sei quel poliziotto a cui hanno ammazzato la moglie, e che poi è stato sospeso per aver strapazzato Nizin in persona!»
Mark strinse i denti, gettò i dischetti a terra e gli mollò un pugno alla mascella.
L’hacker cadde sul pavimento, dal labbro spaccato scaturiva un fiotto di sangue. «Ci ho preso!» Emise una risatina nervosa.
Mark lo prese per un braccio, lo sollevò, poi gli sferrò un pugno sulle costole. L’hacker rantolò, ma non smise mai di ridere. «Tutto qui, quello che sai fare?»
«Pezzo di merda!»
Lo prese a calci, il corpo smagrito si trascinò a terra, la risatina non accennava ad affievolirsi. «Picchi come una donnina!»
Mark riprese fiato e corrugò la fronte, poi si voltò e sferrò una manata a uno dei computer.
La risata si spense di colpo: «Quelli no! Hai idea di quanto costano?»
Mark sorrise e riprese a scaraventare a terra l’attrezzatura.
L’hacker gli afferrò la caviglia. «Ti prego, fermati! Posso aiutarti, ho della roba per te.»
«Non hai niente che possa interessarmi.»
«Informazioni, su chi ha ucciso tua moglie!»
Mark tese ogni muscolo, allungò la mano e tirò l’hacker per i capelli. «Smettila di prendermi per il culo!»
«Lo giuro!»
Mark strinse i denti, cacciò l’aria fuori dai polmoni e inspirò. Rivide nella mente il corpo di sua moglie, con le braccia e le gambe staccate, invertite e riattaccate al tronco. Il sangue, le interiora di animali e il latte andato a male…
Scosse la testa, mollò la presa, e scoppiò a piangere.
Mark si versò in gola il gin, il fuoco che si accese nelle sue viscere gli diede coraggio. Si asciugò le lacrime e passò il liquore a Fred. «Mi ci voleva, grazie.»
L’hacker si attaccò a sua volta al collo della bottiglia, prese una generosa sorsata, schioccò le labbra e si passò la lingua sulla ferita. «Certo che picchi forte, amico!»
«Non ero una donnetta?»
Fred scrollò le spalle. «Quando piangi sì, somigli a una fighetta.»
Mark si appoggiò allo schienale del divano lurido. «Come sono sceso in basso, a piangere e bere insieme a uno come te.»
«Be’, potrebbe andare peggio: potresti ritrovarti a bere da solo.»
Mark gli lanciò un’occhiataccia, l’hacker sorrise. «Scherzavo, amico.» Sospirò. «Allora, vuoi che vuoti il sacco, o no?»
«Tanto lo so che vuoi solo rifilarmi stronzate, non sono nato ieri.»
Fred scaraventò la bottiglia in fondo alla stanza: esplosione di vetri. «Eddai, sono uno onesto, io.»
Mark grugnì. «E io sono Paperino.»
«Ascolta, amico, perché sei andato a molestare Erwin Nizin? Non è stato lui a uccidere tua moglie.»
«Sì, è stato lui, quel figlio di puttana.»
«Invece no, hai preso un bel granchio, e ti sta bene se ti hanno fatto il culo.»
Mark strinse i denti. «Mi stai facendo girare le palle: tutti sanno che Erwin Nizin ha un debole per le belle donne, e mia moglie ci lavorava, per lui, si conoscevano…»
«Secondo te, uno come Erwin Nizin, con tutti i soldi che ha, andrebbe a rubare le mogli degli altri?»
«E che ne so? I ricchi fanno quello che vogliono.»
Gli occhi di Fred scintillarono. «Vero. Ma quelli come Nizin non sono degli imbecilli, hanno puttane a vagonate, per quelle cose. Sei fuori strada, amico.»
«E quella scritta allora?»
«L’ho detto io, che non usi il cervello.» Prese un foglio di carta e scrisse due volte la parola Nizin in croce, come appariva nelle scene dei crimini. «Guarda.» Rovesciò il foglio in verticale. «Si chiama palindromo: da ogni parte tu lo leggi, rimane uguale.»
Mark afferrò il foglio, e lo rigirò tra le mani. «E allora?»
Fred sorrise, i suoi denti marci erano macchiati di sangue. «La Z si trova al centro, e fa da punto di simmetria: la parola è Niz, non Nizin.»
«Niz?» Mark corrugò la fronte. «Non conosco nessun Niz.»
Fred rise. «Era un artista di alcuni secoli fa, ormai sconosciuto. La sua arte era malata: prendeva animali, li squartava, si bagnava col loro sangue e si faceva versare addosso immondizie varie.»
«Non ne ho mai sentito parlare.»
«Erwin Nizin non c’entra, è solo una coincidenza che il cognome di quel figlio di puttana sia nella scritta. Voi poliziotti siete proprio dei ritardati, se non ci siete ancora arrivati.»
Mark strinse le labbra. «Mi hanno tolto il caso dopo l’omicidio di mia moglie. Forse, hanno fatto dei progressi e ne sono all’oscuro.»
Fred sospirò. «Non c’è da stupirsi se non ti hanno tenuto aggiornato, amico, dopo il casino che hai combinato con Nizin.»
«Sai qualcos’altro?»
«Eccome!» Scoprì i denti marci. «Però, mi devi aiutare: io do a te e tu dai a me.»
Mark grugnì. «Cosa vuoi?»
«Si dà il caso che io e qualche fratello abbiamo un piccolo affare in corso, nell’Interzona. Ci farebbe comodo una replica dei database della polizia.»
«Scordatelo, non posso.»
«Mi bastano le tue credenziali, do una sbirciatina e sparisco. Nessuno saprà mai niente.»
Mark sorrise. «Come no.»
«Eddai, a te che te ne frega? Sono solo dei figli di troia, i tuoi colleghi.»
Sospirò. «E in cambio, cos’hai per me?»
«Nell’Interzona c’è un posto, un club in cui combinano cose strane, dove i pezzi di merda che compiono quegli omicidi si radunano, e li rifanno in virtuale.»
«Non ci ho capito niente.»
Fred sbuffò. «Gli assassini si ritrovano e fanno a pezzi l'avatar di una donna, per ripetere l’arte di Niz.»
«Sul serio?»
«Ti ci porto io, dammi solo le tue credenziali per i server della polizia, e poi saprai chi ha ammazzato tua moglie.»
Mark si sedette nella vasca, le sue mani scivolarono sulle pareti viscide. Allungò un braccio e afferrò il filo elettrico. «Siamo sicuri che questa roba funzioni?»
Fred gli diede una pacca sulla spalla. «A prova di bomba, amico. Io ti seguo, vai tu per primo.»
Mark passò il dito sul metallo della presa impiantata nella nuca. «Sono otto anni che non entro nell’Interzona.»
«Davvero?» L’hacker strabuzzò gli occhi. «Vedrai quanto l’hanno migliorata: adesso non si distingue più dalla realtà.»
Mark deglutì e si infilò il jack nel cranio.
Un cielo azzurro splende sopra un immenso prato verde. Apro le mani e sfrego tra loro i polpastrelli delle dita. Incredibile: la sensazione tattile è autentica. Appoggio i palmi a terra, i fili d’erba mi accarezzano la pelle. L’aria è pulita, come quella di montagna: da quanto non respiravo aria così buona?
Un ululato: un grosso animale a quattro zampe corre verso di me. Merda! Quel figlio di puttana di hacker me l’ha fatta. Mi porto la mano alla nuca e faccio il gesto di togliere il filo. Non succede niente, cazzo! Perché non funziona? Mi metto a correre, il terreno è ondulato, mi sforzo di seguire una linea dritta. Mi volto, il lupo mi ha quasi raggiunto, la lingua penzola dalle fauci aperte.
Non ho scampo. Mi fermo e alzo i pugni. Il cuore mi batte forte, ho la gola secca, come se avessi corso per davvero.
Il lupo si ferma di fronte a me, l’odore della suo alito mi chiude lo stomaco. Il suo muso mi sorride: «Ti ho fatto paura?»
Non posso crederci. Abbasso i pugni: «Fred?»
Il lupo si mette di profilo, la folta coda si agita al vento. «Come sto?»
Stringo i denti. «A che gioco stai giocando?» Mi tocco la nuca. «E perché non posso scollegarmi?»
Il lupo inizia a ridere. «Ma che dici? Per uscire basta che pronunci la
safeword!»
Stringo le labbra, l’Interzona è cambiata parecchio. «E quale sarebbe?»
«Semplicemente:
Uscita! Pronunciala con la voglia di emergere nello spazio reale, e il sistema ti scollegherà.»
Lo guardo negli occhi. «Mi dici perché ti sei mascherato da animale? E come hai fatto a contraffare il tuo avatar?»
«Amico, io sono in incognito.» Mi fa l’occhiolino. «E scordati che ti spieghi i trucchi del mio mestiere, tanto non li capiresti.»
Apro le braccia. «Cos’è questa immensa prateria?»
Il lupo scuote la testa. «Sei proprio più vecchio dei Flinstones: questo è lo spazio col primo portale!»
Sospiro. Hanno cambiato troppe cose. «E dov’è, questo portale?»
Fred solleva una zampa, mi volto. Un arco di pietra racchiude uno spazio occupato da una superficie nera.
Fred mi cammina accanto: «Le coordinate le imposto io, tu seguimi, amico.»
Il suo pelo grigio mi sfiora il dorso della mano. Sembra una carezza vera, i brividi mi corrono lungo la schiena. Il lupo gira la testa e mi fissa. Gli occhi ferini mi fanno accapponare la pelle. «Ricorda che dove stiamo andando i protocolli di sicurezza sono disattivati.» Si lecca le fauci. «Vuol dire che non ci sono limiti per il dolore, e che se il tuo avatar muore… be’, hai capito.» Ride, le sue zanne brillano. «Appena arriviamo al club, io me la squaglio e poi tocca a te.»
Ci materializziamo in una piazza gremita. Non tutti hanno un avatar umano: un uomo-coniglio con le orecchie lunghissime porta al guinzaglio una donna-gatto vestita solo con uno slip di latex, una specie di troll con tanto di clava trascina per i piedi un avatar palestrato, legato come un salame.
«Ma che posto è?»
Fred si siede sulle zampe posteriori. «Qui siamo al limite della moralità, amico.»
Mi tasto le cosce, qualcosa pesa nella tasca dei pantaloni: una pistola. Alzo le sopracciglia, il lupo mi fa l’occhiolino. «Non credevi che ti avrei lasciato a secco, vero? Non farti scrupoli a usarla.»
Si alza e si fa strada tra la folla, lo seguo. Raggiungiamo un bar con le insegne al neon. Al bancone siedono tre loschi figuri coi visi coperti da una maschera ninja, il barista è un avatar che ricorda il robot dorato di Star Wars. Fred appoggia il muso sul bancone. Mi siedo a uno sgabello libero, accanto a lui. Il robot si avvicina, la sua voce metallica imita il rumore di qualcuno che si schiarisce la gola. «Se volete una bevanda che possa ubriacare, sono otto bytecoins. Due per il resto.»
Fred digrigna le zanne. «Non sempre piace ciò che è bello, ma è sempre bello ciò che piace.»
Il robot si piega verso di lui. «Parla sottovoce, non sbandierare la parola d’ordine ai quattro venti.» Si guarda attorno, poi si rivolge di nuovo a noi. «Venite sul retro e vi apro il portale.»
Il lupo si allontana dal bancone, lo seguo. Passiamo accanto a un polpo che gioca a biliardo con un millepiedi gigante: quella miriade di zampette mi chiude lo stomaco.
Usciamo e ci ritroviamo a ridosso di un muro di mattoni. Il robot compare alla nostra sinistra, un portale identico a quello che abbiamo appena attraversato si materializza nel muro.
Fred si siede. «Io rimango qui. Ricorda: non pensarci due volte a pronunciare la safeword.»
Mi materializzo in un viale alberato, delle luci che partono dal basso illuminano una chiesa in stile gotico. Metto la mano in tasca, la pistola è ancora lì. Mi accorgo di indossare una maschera. Mi tocco il viso con le mani e mi sfilo il tessuto dalla testa: un semplice sacco di velluto con i fori per gli occhi. Sospiro e me lo rimetto, poi cammino verso l’ingresso della chiesa, entro e prendo posto su una panca di legno.
Mi guardo attorno: altri avatar vestiti con un’ampia toga di velluto rosso siedono a debita distanza. Al centro dell’abside, l’altare di marmo cremisi regge il corpo di una donna nuda.
Entra un uomo vestito di bianco: è calvo e con una lunga barba candida. Lo seguono due tirapiedi che portano tra le mani un grosso vaso. Il vecchio si ferma accanto alla donna, il cui petto sale e scende ad ogni respiro. Uno degli scagnozzi le versa addosso un fiotto di sangue, gli schizzi imbrattano la veste immacolata del vecchio e la sua barba si impregna di rosso. Alza le braccia: «Niz!»
Grumi di interiora colano sul corpo nudo, la donna si agita ed emette un rantolo.
«Niz!»
La poveretta grida, mentre le segano le gambe.
Mi porto una mano alla bocca, i denti mi scricchiolano nelle gengive.
Helen, la mia Helen, le hanno fatto questo? Maledetti bastardi.
Il barbuto stacca le braccia dal tronco della donna e le adagia sulle anche, poi prende le gambe e le attacca alle spalle. La donna è viva, urla come un’indemoniata.
Helen. Una lacrima bagna la maschera di velluto.
«Niz!»
Versano sulla donna agonizzante una secchiata di liquido bianco. Latte rancido, come per le altre vittime. Le persone intorno a me si alzano in piedi e applaudiscono. Il rumore degli applausi sovrasta le urla della donna, che flette il collo come una frusta, in preda alla follia.
Ne ho abbastanza: estraggo la pistola. Tutti si girano a guardarmi, il vecchio, sotto l’abside, si imbambola a fissarmi. Faccio pressione sul grilletto...
...mi risveglio con le braccia aperte e i polsi legati. Agito le braccia, ma non riesco a muovermi. Anche le caviglie sono bloccate. Il cuore mi scoppia in petto. Fletto le braccia fino a quando mi fanno male, ma niente.
«Attento, vuoi spezzarti i polsi?»
L’uomo barbuto mi si avvicina, è pulito e la sua veste immacolata. I suoi occhi scuri mi fissano sotto la fronte aggrottata.
Apro la bocca e urlo: «Uscita!»
Il vecchio ride. «Credi che qui funzioni, la safeword?»
Merda. «Assassini!»
Il vecchio alza le sopracciglia e schiude le labbra. «Non siamo assassini, siamo i
niziani, in onore al Maestro.»
«Perché mi avete legato?»
Il suo viso si avvicina al mio, il suo fiato caldo m’investe la faccia. «Tu piombi qui, non invitato, armato di pistola, e vieni a chiedermi perché ti abbiamo legato?»
Respiro a fatica. «Che intenzioni avete?»
«Solo vederci chiaro. Chi sei?»
Digrigno i denti. «Il marito di una donna assassinata, Helen Loudon! Lo conosci questo nome, figlio di puttana?»
Alza le sopracciglia. «Ho capito: sei quello sbirro imbecille che ha molestato Nizin.»
«Basta! Avete massacrato mia moglie, e continuate a uccidere. Bastardi!»
«Mi ci vuole un goccio.» Esce dal mio campo visivo e ricompare con un bicchiere in mano. «Ne vuoi un po’? Scotch, il migliore dell’Interzona.»
«Crepa, bastardo.»
Sbuffa. «Eddai, siamo solo artisti, ho detto.»
Sorrido. «Uccidere per voi è un arte?»
«Ma perché non capisci? La donna di prima era una volontaria: non sai quanti sono disposti a farsi torturare in cambio di soldi, qui nell’Interzona.» Prende un sorso. «Adesso la sfigata è a casa sua, in un tugurio di New Rome, tutta intera e con qualcosa in più da raccontare. Il suo avatar guarirà in poco tempo e, intanto, lei potrà godersi il suo compenso che, sia chiaro, è molto generoso.» Ammicca. «Quanto alle altre, quelle che voi sbirri avete trovato, be’,» fa spallucce, «qualcuno di noi vuole portare avanti l’arte del Maestro anche in città. E come dargli torto?»
«E avete ammazzato quelle povere donne!»
Alza gli occhi al cielo. «Usiamo cadaveri! C’è chi ce li vende, oppure c’è chi ce li dà gratis, così, per farli sparire.» Sorride. «Siamo bravi a far sparire i corpi: pratichiamo l’arte in luoghi abbandonati, che nessuno frequenta,» prende un altro sorso, «voi avete trovato solo tre donne, vero? Lo sai quante ce ne sono, in realtà?» Mi dà uno schiaffetto sulla guancia. «Diciamo che sei stato molto fortunato, che tua moglie sia stata ritrovata.»
Stringo i denti. «Cosa le avete fatto?»
Il vecchio si porta il bicchiere alle labbra e finisce il suo drink. «Se ti dico com’è morta, tu prometti di non venire più a rompere le palle?»
La porta di casa era scassinata, il tenente Santino estrasse la pistola e accese la luce. Nessuno. Un passo avanti, spalle contro il muro.
Un pugno sul naso, Santino lasciò la pistola e si portò le mani sul viso. Il dolore pulsava su tutta la faccia. Alzò lo sguardo, Mark era su di lui e gli puntava la pistola alla tempia. Le sue labbra scure erano aperte in un ghigno. «Dimmi perché.»
«Perché cosa?»
«Perché l’hai uccisa.»
«Sei scemo?»
Un calcio allo stomaco, Santino tossì l’anima. Un colpo esplose e un dolore lancinante gli attanagliò la gamba: urlò. La mano scura di Mark si strinse attorno alla sua gola.
«Parla, figlio di puttana, o ti faccio saltare anche l’altro ginocchio.»
Santino tossì, il fiotto acido che gli uscì dalla gola si sparse sulla moquette. «Non volevo ucciderla, lo giuro.»
Mark arricciò il labbro e scosse la testa. «Bastardo.» Gli poggiò la pistola alla fronte. «Hai violentato Helen, poi l’hai uccisa e, per disfarti del corpo, l'hai regalata ai niziani.» Gli sputò in faccia. «Sei fottuto, tenente.»
Mark porse il bicchiere vuoto a Fred, l’hacker riempì col liquore. All’altro lato della stanza, il tenente Santino giaceva nella vasca con il filo elettrico che gli usciva dalla nuca.
Mark prese un sorso. «Com’è andata?»
Fred fissò la vasca. «I niziani mi hanno detto di ringraziarti per l’avatar gratuito che gli hai fornito per la loro arte.» Gli fece l’occhiolino. «Non sanno che è un uomo: gli ho messo un visino grazioso e due belle tette. Ti chiedono di avvertirli, appena vorrai che si trovino un rimpiazzo.»
Mark inghiottì altro gin, il fuoco che scendeva nel suo esofago lo faceva sentire vivo. «Non c'è fretta.» Si leccò le labbra. «Nessuna fretta.»
Edited by MentisKarakorum - 28/5/2021, 19:56